Notizie su Israele 97 - 12 maggio 2002


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Voi nazioni, ascoltate la parola del SIGNORE, e proclamatela alle isole lontane; dite: "Colui che ha disperso Israele lo raccoglie, lo custodisce come fa il pastore con il suo gregge". Infatti il SIGNORE ha riscattato Giacobbe, l'ha salvato dalla mano d'uno più forte di lui. Quelli verranno e canteranno di gioia sulle alture di Sion, affluiranno verso i beni del SIGNORE: al frumento, al vino, all'olio, al frutto delle greggi e degli armenti; essi saranno come un giardino annaffiato, non continueranno più a languire. Allora la vergine si rallegrerà nella danza, i giovani gioiranno insieme ai vecchi; io muterò il loro lutto in gioia, li consolerò, li rallegrerò liberandoli del loro dolore.

(Geremia 31:10-13)


"NIENTE PACE SENZA IL RITORNO DEI PALESTINESI"

  
   Il principe ereditario saudita Abdullah, in un'intervista pubblicata sabato dal giornale arabo Asharq al-Awsat edito a Londra, ha chiarito i termini della sua famosa "proposta di pace" avanzata al vertice della Lega Araba a Beirut alla fine dello scorso marzo.
   Secondo Abdullah, gli arabi non faranno la pace con Israele se Israele non si ritirera' fin dietro le linee del 1967, ridivisione di Gerusalemme compresa, e se non accettera' il cosiddetto "diritto al ritorno" dei palestinesi. "Un ritiro israeliano non basta - ha detto Abdullah - Israele deve ritirarsi completamente sulle linee precedenti la guerra dei sei giorni del 1967. Anche il ritorno dei profughi palestinesi e' indispensabile".
   Il cosiddetto diritto al ritorno dei profughi palestinesi e di tutti i loro discendenti all'interno dello stesso Stato di Israele anche dopo che fosse nato il futuro stato palestinese e' stata una delle pretese su cui si e' completamente arenato il negoziato di pace israelo-palestinese dal luglio 2000 in poi. Anche il ritiro di Israele sulle linee esatte del 1967 era escluso dai negoziati, che avevano preso in considerazione piuttosto la possibilita' di uno "scambio" di territori fra Israele e palestinesi.

(Ha'aretz, 11.05.02)



LA PRODIGIOSA CRESCITA DEMOGRAFICA DEI PROFUGHI PALESTINESI


Profughi

di Barbara Mella

Piccola riflessione. Nel 1948 circa mezzo milione di palestinesi hanno lasciato le loro case - e non approfondiremo, in questo contesto, per colpa di chi le abbiano lasciate. Da allora sono passati poco più di cinquant'anni, ossia due generazioni, e oggi ci viene raccontato che questi profughi, per i quali si pretende il diritto al ritorno non nel costituendo stato di Palestina, bensì nello stato di Israele, sono diventati quattro milioni. E una domanda sorge spontanea: esistono popolazioni in grado di aumentare del 400% ad ogni generazione? Giusto per fare un esempio, in Iran (aborto vietato, contraccezione vietata - pena prevista: la morte -condizioni di vita modeste ma non miserabili) negli ultimi vent'anni la popolazione è aumentata del 50%. Molti dei profughi palestinesi vivono invece nei famigerati campi profughi, in condizioni che non è esagerato definire disumane, in condizioni igieniche spesso catastrofiche, con poche o nulle strutture sanitarie, con - possiamo supporre - un'alta mortalità infantile, disoccupazione altissima, alimentazione, ci viene raccontato, spesso insufficiente. E allora da dove nasce questa cifra che fa pensare ai fantastilioni di Paperon de' Paperoni? E come mai nessuno dei "grandi della terra" che si occupano della questione, ha mai avuto l'idea di volerci vedere chiaro? Noi, invece, lo vorremmo.

(da "Informazione corretta")



TORNARE AI CONFINI DEL `67 È IMPOSSIBILE


di Henry Kissinger

    «Tornare ai confini del `67 è comunque impossibile per ragioni di  sicurezza. L´Europa sostenendo questa ipotesi incoraggia gli arabi a  coltivare aspettative irrealistiche e posizioni radicali»   
   I confini israeliani del 1967 non sono mai stati frontiere  internazionalmente riconosciute: sono soltanto la linea d´armistizio  della guerra del 1948. Nessuno Stato arabo le aveva mai accettate fino al summit della Lega  araba a Beirut nel 2002. E fra i paesi partecipanti a quel summit, solo Egitto e Giordania  riconoscono Israele.
    Benché al principe saudita Abdullah vada riconosciuto merito per la  disponibilità ad accettare Israele a certe condizioni, il suo piano è  unilaterale: a Israele si chiede di restituire territori, cioè un atto  tangibile e irrevocabile; gli arabi offrono riconoscimento, cioè  qualcosa di psicologico e revocabile. Il contenuto della «normalizzazione» non è mai stato ben definito.
Israele è stato riconosciuto dall´Onu nel 1948.
    Nessun altro membro delle Nazioni Unite, a parte gli arabi, ha chiesto un premio per riconoscere Israele; invece, rifiutare il riconoscimento  comporta affermare l´estinzione di un´entità statale legalmente  costituita.
    Nemmeno i leader palestinesi sono in condizione di accettare un accordo  complessivo. Nessuno di loro potrebbe accettare niente di meno che il diritto al  ritorno dei profughi - eventualità che soverchierebbe Israele dal punto  di vista demografico.
    Un argomento suggestivo è evocare i negoziati di Camp David in cui  Israele offrì di restituire il 94 per cento della Cisgiordania, e i  successivi colloqui di Taba in cui la percentuale salì al 96 per cento,  come prova che il piano saudita del 100 per cento non è poi così lontano  dalla realtà.
    Ma l´«accordo» di Taba è una ben strana cosa. Negoziato nelle ultime settimane della presidenza Clinton e da un primo  ministro israeliano Ehud Barak dimissionario e avviato a una disfatta  elettorale, non ha prodotto documenti scritti né una mappa sulla quale  si veda a che cosa corrispondesse quel 96 per cento.
    La proposta israeliana - che, ricordiamo, fu rigettata da Yasser Arafat  - era basata sul presupposto che grandi concessioni territoriali  avrebbero cambiato il quadro psicologico e portato a una genuina  coesistenza; non possono certo essere rievocati dopo mesi di attacchi  suicidi; poterebbero esserlo, nella migliore delle ipotesi, solo dopo un  lungo periodo di coesistenza.
    Gli Stati Uniti o la comunità internazionale nel suo complesso  dovrebbero forse imporre una soluzione complessiva a Israele per salvare  Israele stesso dal moltiplicarsi dei suoi nemici e l´America  dall´erosione della loro posizione nel mondo islamico? Imporre il piano saudita a Israele non riconcilierebbe il mondo  islamico, comunque. E il credito che gli Usa trarrebbero dalla promozione del piano saudita  dipenderebbe dalle circostanze.
    Se ci fosse un´imposizione americana a Israele percepita dagli arabi  come cedimento alle pressioni dei fondamentalisti, questo incoraggerebbe  i fanatici della Jihad in giro per il mondo, non aiuterebbe i leader  arabi moderati e renderebbe più difficile la lotta americana al  terrorismo.
    L´influenza americana - e se gli europei comprendono bene i loro  interessi, anche quella dell´Ue - è rafforzata dalla percezione che le  nostre iniziative di pace siano dovute a libera scelta anziché al  terrorismo o ad altre pressioni, come la minaccia di boicottaggio  petrolifero da parte araba. La strategia americana dovrebbe contribuire a cambiare i calcoli dei  protagonisti mediorientali per superare l´attuale impasse anziché  puntare a soluzioni cartacee secondo le linee della presunta saggezza  convenzionale.
    A questo punto della crisi mediorientale la sfida fondamentale è  stabilire un quadro di coesistenza fra le due parti. Solo in seguito sarà possibile affrontare realisticamente le soluzioni  complessive.
    La conferenza proposta da Colin Powell può rivelarsi utile se sviluppa  questa divisione del lavoro:
     A) Gli Stati Uniti recitano il ruolo di principali mediatori di un  accordo ad interim, cui andrebbe aggiunta una dichiarazione generale di  intenti che faccia da collegamento fra l´accordo provvisorio e la  sistemazione complessiva finale. Gli alleati europei potrebbero  contribuire interrompendo il flusso di iniziative di pace intese a  migliorare la loro posizione nel mondo arabo ma destinate di fatto a  radicalizzare le aspettative e le posizioni degli arabi.
    B) Dato che la sfiducia fra le parti è così grande, Israele non  accetterà più la parola dell´Autorità nazionale palestinese così com´è.
    Ma essendo inappropriato, da parte di Israele, pretendere di designare  le controparti con cui è disposto a trattare, gli Stati arabi  partecipanti alla conferenza dovranno facilitare le trattative  garantendo gli impegni dell´Anp.
    C) L´Europa e le Nazioni Unite, spalleggiate dagli Stati Uniti, possono  contribuire a promuovere la creazione di una entità palestinese in grado  di sostenersi, una volta raggiunti l´accordo ad interim e quello finale.
    Questo impegno dovrebbe prevedere finanziamenti da erogare soltanto  nell´ambito di nuove istituzioni palestinesi, nella creazione delle  quali la conferenza internazionale potrebbe recitare un ruolo  importante. I criteri a cui condizionare l´aiuto all´Autorità nazionale  palestinese dovrebbero essere rappresentati da quelle cose che ora  all´Anp mancano: un corpo legislativo di fronte al quale l´esecutivo sia  responsabile, strutture amministrative meno vulnerabili alla corruzione  e un vero sistema di leggi.
    In questo modo la conferenza potrebbe aiutare a realizzare una nuova  Autonomia palestinese, più affidabile e capace di intrattenere vere  relazioni cooperative. Così si contribuirebbe a quell´intervallo di  tregua che aprirebbe la strada a un accordo complessivo non più sotto  l´attuale ombra di odio e di sangue, negoziato da nuovi leader (di  entrambe le parti) non condizionati dalle battaglie del passato.
   
(«Los Angeles Times Syndicate», fonte italiana: Gruppo Rimon, 09.05.02)
    


LA PAURA OCCIDENTALE DEI MOTI DI PIAZZA ARABI


Il mondo teme una ribellione della piazza araba. Che non arriva mai

di Emanuele Ottolenghi (storia del conflitto mediorientale, Universita' di Oxford)

    Periodicamente chi si occupa di Medioriente, nelle stanze del potere come sui giornali, ci mette in guardia sui pericoli di destabilizzazione e caduta di regimi in Medio Oriente sotto pressione della rabbia popolare della piazza.
    Chi ha la memoria lunga ricordera' quanto si temesse 'la strada araba' durante le preparazioni per la Seconda Guerra del Golfo. Per non parlare di piu' recenti avvertimenti, prima della campagna in Afghanistan: l'intervento occidentale avrebbe provocato terribili conseguenze; la mancata interruzione delle operazioni in Afghanistan durante Ramadan avrebbe fatto peggio; il governo Pakistano era in pericolo. I focolai di protesta e rivolta avrebbero presto incendiato la regione, portato al crollo dei regimi amici (quelli cioe' che forniscono petrolio in cambio di armi e silenziosa connivenza coi loro regimi dispotici e repressivi), sollevato la regione contro l'Occidente.
    E allora? Cosa e' successo? Il Pakistan c'e' ancora, e i regimi della regione, improvvisamente preoccupati di cosa pensa la loro opinione pubblica in una regione dove 'elezioni libere' e 'liberta' di stampa' sono piu' rari dei temporali estivi, faranno ricorso come al solito al manganello, metodo principe nella formazione del consenso in medioriente da quando se ne andarono gli inglesi. Nonostante che il tanto temuto incendio non si sia mai verificato, la preoccupazione e gli avvertimenti persistono, e tanto per fare un esempio recente, fanno accorrere il Segretario di Stato americano Colin Powell a salvataggio dei re e principi del mondo arabo dalla pressione delle masse arabe oltraggiate dal conflitto

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israelo-palestinese che non si arresta, per buona pace dei 'cattivi' americani.
    Le fosche previsioni di moti popolari ritornano, gli europei continuano a crederci, gli americani si precipitano a mediare in nome della stabilita' regionale, ma la storia ci insegna una lezione finora ignorata e che politici e commentatori in Europa (e in America) farebbero bene a tener da conto.
    Ogni regione del mondo ha avuto le sue rivoluzioni popolari, alcune buone altre cattive. L'Occidente le ha vissute a partire dalla rivoluzione americana, seguita a ruota da quella francese, dai moti risorgimentali e le rivoluzioni liberali del 1848 in Europa, dalla rivoluzione russa, la resistenza all'occupazione nazi-fascista e da ultimo la rivoluzione di velluto cecoslovacca e la caduta del muro di Berlino. In Asia ci hanno pensato Mao e i Viet-Minh, e tanti altri coevi seguaci del comunismo asiatico. In Africa la rivoluzione l'hanno fatta l'ANC e i movimenti di liberazione nazionale di Kenyatta a N'Krume. Per non parlare dell'America latina, con Che Guevara, Cuba e i sandinisti in Nicaragua. La rivoluzione, la sollevazione popolare, il fermento delle idee, la sfida all'ordine costituito, la piazza che si solleva, il popolo che si infuria e rovescia chi governa, chi comanda ci sono state in ogni regione del mondo.
    Ogni regione, salvo il mondo arabo. Che presenta un'interessante eccezione, visto che tutti i cambi di regime, tutti piu' o meno violenti e sanguinosi, sono stati compiuti attraverso colpi di stato militari e congiure di palazzo.
    E l'Iran allora? L'Iran non e' un paese arabo, e la rivoluzione iraniana, nonostante le previsioni, lungi dal diffondersi come il contagio, e' stata largamente limitata all'Iran, nonostante i tentativi di esportarla laddove esistono movimenti fondamentalisti simili a quello khomeinista. Quod erat demonstrandum.
    I moti di piazza nel mondo arabo non spaventino nessuno dunque. Essi sono - come lo sono sempre stati in tutte le dittature - largamente pilotati da quelle stesse autorita' che piangono al telefono della Casa Bianca e della Commissione Europea sentendosi minacciati. I sauditi per esempio vietano le manifestazioni pro-palestinesi e chiedono con urgenza l'intervento statunitense a fermare Sharon. Ma poi i principi regnanti partecipano alla maratona telefonica (organizzata e sponsorizzata dalla casa regnante) di solidarieta' coi 'martiri' palestinesi. E l'ambasciatore saudita a Londra pubblica un poema inneggiante al martirio suicida contro gli israeliani. I siriani organizzano una manifestazione di violente proteste davanti all'ambasciata egiziana a Damasco, causa continuati rapporti diplomatici Egitto-Israele. Al Cairo, gli studenti protestano davanti all'ambasciata siriana perche' i siriani non permettono a Hezbollah di aprire un secondo fronte contro Israele. In tutt'e due le capitali, i governi approvano e sobillano.
    Politici e commentatori occidentali ne tengano conto nei loro rapporti con il mondo arabo. La minaccia della rivoluzione di piazza non esiste a Ryadh e al Cairo. Il ricatto dei dittatori - che chiedono agli occidentali di intervenire nel conflitto israelo-palestinese, di non bombardare Kabul di Ramadan, di non rimuovere Saddam Hussein, di non infastidirli con richieste di condanna del terrorismo perche' la piazza potrebbe spodestarli se tutto cio' accadesse - e' un bluff.
    Che finora ha funzionato, altra eccezione del mondo arabo. L'Occidente non si e' lasciato intimidire in precedenti scontri con dittatori e cattivi di turno in altre regioni del mondo: Hitler, Mussolini, Milosevic, Mullah Omar, tutti rimossi, tutti sostituiti. Ma i dittatori arabi, Saddam, Arafat, la casa di Saud non si toccano e non si rimuovono, perche' si teme una piazza che non c'e' mai stata, se non nelle fantasie delle Cassandre. E allora prendano nota i pianificatori della politica estera europea ed americana: al momento della verita', quando bisogna fare la rivoluzione a Ryadh e Rabat, al Cairo e a Ramallah, la piazza, anche stavolta, se ne stara' a casa.

(www.ilnuovo.it, 25.04.02)



L'OSTILITA' CHE CIRCONDA L'ESERCITO ISRAELIANO


di Angelica Calo' Livne'   
 
    Nimrod Noi ha 33 anni e' laureato in agraria e negli ultimi 18 mesi e' stato richiamato alle riserve dell'esercito israeliano tre volte: A Rammalah, a Han Yunies nella striscia di Gaza e ieri e' tornato dopo 26 giorni di servizio a Hebron. E' cresciuto nel kibbutz e le sue idee, come quelle della sua famiglia, riflettono molto profondamente quelle della sinistra israeliana. Ieri una mia ospite italiana mi aveva detto delle cose gravissime sul nostro esercito . Ho deciso di domandare a Nimrod. Poi, per essere piu' sicura ho anche parlato con Olivier Rafowitch, un portavoce dell'esercito israeliano.
    Uno degli obbiettori di coscienza che si rifiutano di servire nella west bank asserisce di aver ricevuto ordine di sparare ai bambini palestinesi che si inchinano per prendere una pietra. E' possibile?
    "E' assurdo, e' perfino impensabile, e' contro il codice etico dell'esercito israeliano. Ogni esercito al mondo ha un suo codice. Da noi ci sono "gli ordini non legali in assoluto". Un soldato ha il dovere di disubbidire a un suo ufficiale se gli viene impartito un ordine del genere. Nessun soldato israeliano spara su civili a meno che e' in pericolo di morte con un fucile puntato. Chi racconta una cosa del genere mente. Molti di questi ufficiali si rifiutano di entrare nella west bank per paura e io li capisco. Ci troviamo faccia a faccia con un tipo di combattimento difficile, il nostro esercito e' addestrato per combattere in guerra e i terroristi vivono o si nascondono nei villaggi, nelle case, tra la gente. So che la nostra immagine di esercito con i tank in mezzo alla povera gente e' disastrosa agli occhi del mondo, ma il tank e' l'unico modo per difenderci quando entriamo in un villaggio dove ci hanno segnalato la presenza di terroristi armati in procinto di attuare un attentato in Israele, mentre ci sparano addosso dai tetti, dalle finestre, da ogni angolo. Per un ufficiale fare servizio nella west bank significa essere in continua lotta con te stesso, con la tua coscienza, significa dover prendere decisioni immediate cercando di salvaguardare i tuoi soldati e la gente che ti gira intorno per andare ad attingere l'acqua o a comprare il cibo. Significa dover fermare delle vecchie donne cariche di sporte perch'e i servizi segreti hanno segnalato un possibile attentato o fermare un'ambulanza e decidere se alzare il vestito alla donna incinta che giace sulla lettiga perche' ti hanno avvertito che quella non e' una pancia ma una cintura esplosiva. E' terribile! Non so se puoi capirmi.. come ci si sente a dover fare cose simili.. eppure a volte non c'e alternativa perche' ogni giorno i terroristi tentano di entrare e colpire sfruttando la nostra coscienza il nostro rispetto per l'uomo in quanto uomo. E nonostante tutto gli ordini dell'esercito sono chiari: comportarsi con rispetto verso la cittadinanza palestinese, non aggrdire, non umiliare, non maltrattare. Ma qual'e' la linea sottile tra questo comportamento e il comportamento che devi avere quando ti segnalano che devi controllare? Sarebbe giusto che le nostre soldatesse potessero fare questi controlli alle donne per esempio… ma essere al chek point oggi e' pericoloso come girare in un villaggio. Credimi, non abbiamo scelta! Anch'io preferirei non essere lì, ma so chi sono, ed e' meglio che ci sia, proprio perché conosco i miei principi e i miei valori e il mio rispetto per questa povera gente. So che posso influire sui miei soldati affinche' non perdano le staffe, affinche' mantengano il loro spirito e la loro umanita' perche' la guerra e' una bruttissima cosa, la paura, l'ansia, la tensione giocano brutti scherzi e noi come ufficiali vigiliamo anche su questo. Gli ufficiali in Israele non escono dall'Accademia Militare, ma sono i migliori tra i soldati, dal punto di vista umano, sociale e organizzativo.
    I nostri soldati sentono l'ostilita' che li circonda e la frustrazione e' profonda: e' terribile quando ti sforzi di essere migliore possibile, di non colpire innocenti a costo della tua vita o della vita dei tuoi compagni e poi ti imbatti in un giornalista o in un pacifista che ti fanno apparire come un assassino.
    Lo so, e' difficile da credere, quale esercito al mondo si preoccupa dei suoi nemici? Ma noi combattiamo per la sopravvivenza, per continuare ad esistere e sappiamo distinguere tra chi come noi vorrebbe vivere in pace e chi si serve del terrorismo per raggiungere i propri propositi. Quella mamma con i due bambini che e' stata uccisa, e' stato un errore fatale, il tank e' saltato su un ordigno, lei ha tentato di fuggire coi propri figli e i nostri soldati hanno sparato… pensavano che fossero i terroristi che stavano dandosi alla fuga dopo aver attivato l'ordigno … puoi immaginare come si sentano ora quei soldati? Puoi capire quanto sia difficile combattere in mezzo alla gente innocente? Ecco questa e' la nostra realta' oggi!  
    Olivier e' d'accordo con tutto cio che mi ha detto Nimrod, lui e' a Betlemme, da 45 giorni, davanti alla Chiesa della Nativita' dalle sue parole mi sembra come se stesse lì per conservarla intatta, per fare in modo che non le accada nulla. "Sai perche' aspettiamo cosi pazientemente? Perche' non toccheremo questa Chiesa? Perche' sappiamo quanto e' sacra per il mondo! Non entreremo armati per far uscire i terroristi. Non lo faremo anche se le nostre teste di cuoio potrebbero, ma non qui, non in una Chiesa. Non useremo la violenza. Aspettiamo con pazienza, e' questione di giorni. La Chiesa tornera' ad essere il simbolo di pace che e'sempre stata".
    Qualcuno mi ha detto che siamo noi, gli israeliani, che essendo piu' forti dobbiamo fare il primo passo, dare l'esempio.
    Mi sembra che continuiamo a darlo. Sempre. E alla grande.
   
( Kibbutz Sassa - Galilea del Nord, 09.05.02)



IL COMPORTAMENTO DEGLI ATTIVISTI PRO-PALESTINESI


 Un prete della Chiesa della Natività in Betlemme ha dichiarato davanti ai reporter che il gruppo degli attivisti occidentali pro-palestinesi "si è comportato molto male" nella chiesa. Questo è stato riferito concordemente dai giornali Haaretz, New York Times e Corriera de la Sierra. I 10 attivisti hanno fumato e bevuto nella chiesa, nonostante i ripetuti inviti dei religiosi a smettere.
    I dieci attivisti di sinistra pro-palestinesi provengono in maggioranza dagli USA e dall'Europa. Avevano superato la cintura d'assedio dell'esercito israeliano in parte con la forza e "per solidarietà" si erano trincerati nella chiesa insieme ai palestinesi armati. Soldati israeliani, mediatori palestinesi e religiosi della chiesa occupata hanno riferito unanimemente che la soluzione del conflitto è stata chiaramente ritardata dagli attivisti, che si erano rifiutati di lasciare la chiesa. Chiedevano da Israele la garanzia che dopo l'abbandono dei locali non fossero arrestati e fossero lasciati andare.


(Nahostfocus.de, 11.05.02)



"GIURO DI DIFENDERE GERUSALEMME"


Ieri (9 maggio), nel 35° "Giorno di Gerusalemme" a cui hanno preso parte migliaia di ebrei, soprattutto giovani religiosi, la città vecchia e nuova è stata ornata di bandiere di Israele. 35 anni fa Israele, al termine della guerra dei sei giorni del 1967, liberò la parte est di Gerusalemme, e così la città fu di nuovo riunita dopo 19 anni di divisione. Si sono avuti momenti di riflessione, soprattutto in memoria dei caduti per Gerusalemme, a cui hanno preso parte anche il Primo Ministro di Israele Ariel Scharon e il Sindaco Ehud Olmert. Scharon ha detto: "Difenderò Gerusalemme, lo giuro!" Tra i manifestanti per Gerusalemme hanno marciato anche i veterani, immigrati russi della seconda guerra mondiale che hanno ricordato la vittoria sul regime nazista di 57 anni fa.

(Stimme aus Jerusalem, 10.05.02)



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