Notizie su Israele 96 - 9 maggio 2002


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Così parla il SIGNORE: «Io torno a Sion e abiterò in mezzo a Gerusalemme; Gerusalemme si chiamerà la Città della fedeltà, il monte del SIGNORE degli eserciti, Monte santo...
Molti popoli e nazioni potenti verranno a cercare il SIGNORE degli eserciti a Gerusalemme e a implorare il favore del SIGNORE».

(Zaccaria 8:3,22)


IL LATO DEBOLE DI ARAFAT


Considerazioni di Gabriel Ra'am, esperto e docente di comunicazione extraverbale, sul linguaggio del corpo usato da Arafat durante la conferenza stampa sulla Chiesa della Natività

    Mentre parlava della Chiesa della Natività, Arafat sembrava una persona affetta da disturbi mentali. Il viso, il tono con cui parlava, facevano intendere che oscillava continuamente tra l'ira e il pianto.
    
    
La sua voce tremava, muoveva le braccia in modo incontrollato, tra una frase e l'altra s'interponevano ogni tanto lunghe pause che testimoniavano di una momentanea interruzione dell'attività del cervello causata da una forte spinta di emozioni. Ci si chiede, naturalmente, se questi accessi siano autentici o se si tratta di voluta drammatizzazione. Può darsi che Arafat abbia esagerato la sua reazione, ma a giudicare dai suoi precedenti scoppi d'ira e dal suo attuale linguaggio del corpo, si direbbe piuttosto che si trovi realmente in uno stato di eccitazione difficilmente controllabile.
    Anche nell'intervista con la CNN Arafat era rabbioso e inquieto, faceva continuamente movimenti non necessari, agitava l'indice davanti alla faccia del corrispondente, si piegava in avanti come per dare un accento particolare alle parole, emetteva la voce in falsetto, ruotava gli occhi, li spalancava. Mentre diceva di sentirsi ancora obbligato alla pace, il linguaggio guerresco e aggressivo del suo corpo era in contraddizione con il contenuto pacificante delle sue parole. Alla domanda se ritiene ancora possibile una ripresa del processo di pace, ha risposto "sì", ma con la testa per due volte ha fatto cenno di no. La sincerità non sembra essere il suo lato forte.

(NahostFocus.de 07.05.02)



L'IMPUNIBILITA' DEI PALESTINESI


Inspiegabile silenzio

da un editoriale del Jerusalem Post

    Il 2 aprile scorso una cinquantina di miliziani palestinesi armati hanno fatto irruzione nella Chiesa della Nativita' a Betlemme e vi si sono asserragliati intrappolando circa duecento persone, compresi diversi religiosi. Facendosi scudo della chiesa e delle persone intrappolate, i terroristi hanno ripetutamente aperto il fuoco contro i soldati all'esterno, ben sapendo che le caratteristiche del luogo impedivano alle Forze di Difesa israeliane di dare l'assalto all'edificio per arrestarli.
    Tra i terroristi asserragliati nella chiesa figurano alcuni dei piu' pericolosi capi della zona di Betlemme come: Abdullah a-Kader, comandante dei Servizi Generali di Intelligence palestinesi a Betlemme, responsabile di numerose sparatorie contro civili israeliani del quartiere Gilo di Gerusalemme e sulla strada fra Gerusalemme e Gush Etzion; Ibrahim Abayat, capo di una cellula Tanzim (Fatah), implicato nell'assassinio di almeno tre israeliani e nel lancio di colpi di mortaio su Gilo; Muhammad Salem, importante capo Tanzim, coinvolto nella progettazione e realizzazione di due attentati suicidi a Gerusalemme all'inizio dell'anno. In tutto, dopo che alcuni si sono consegnati ai soldati israeliani, restano nella chiesa tredici terroristi particolarmente pericolosi, piu' una dozzina di altri ricercati meno noti.
    Di recente, quando tre monaci armeni sono riusciti a fuggire dalla Chiesa, uno di loro ha raccontato cosa stava accadendo all'interno: "Rubano di tutto - ha detto Narkiss Korasian ai giornalisti - Aprono le porte una a una e si portano via tutto. Hanno rubato i nostri libri di preghiera e le croci. Non lasciano niente". I tre monaci hanno parlato di pestaggi di alcuni religiosi da parte dei terroristi. Ai soldati israeliani che li hanno aiutati a fuggire hanno detto: "Grazie, non lo dimenticheremo mai".
    Che gli uomini di Arafat non abbiano avuto alcuno scrupolo a profanare un luogo considerato sacro da un'altra religione non stupisce nessuno. Dopo tutto, solo un anno e mezzo fa centinaia di palestinesi si lanciavano sulla Tomba di Giuseppe, a Nablus, e la mettevano a fuoco facendo scempio di Bibbie e libri di preghiera ebraici. Allo stesso modo, miliziani palestinesi hanno aperto il fuoco innumerevoli volte contro la Tomba di Rachele, alle porte di Betlemme, cosi' come hanno tentato di distruggere col fuoco la sinagoga Shalom Al Yisrael a Gerico. Per non dire, poi, dei devastanti lavori intrapresi illegalmente dall'autorita' islamica del Wakf sul Monte del Tempio a Gerusalemme, con la distruzione di inestimabili reperti storici e archeologici, nel chiaro tentativo di cancellare qualunque segno di una presenza ebraica in quel sito.
    Ma questa gente non si limita certo alle pietre tombali: l'assoluta mancanza di rispetto si estende anche ai vivi. I cristiani di Betlemme hanno subito continue vessazioni e intimidazioni negli anni scorsi, da quando la citta' e' passata dal controllo israeliano a quello dell'Autorita' Palestinese verso la fine del 1995. La' dove la comunita' cristiana costituiva l'80% della popolazione, con la coercizione e le minacce sono riusciti a farne emigrare tanti fino a ridurla a meno del 20%. E adesso il loro spadroneggiare dentro la Chiesa della Nativita' non fara' certo crescere la fiducia nel futuro dei cristiani che restano.
    Cio' che e' davvero incomprensibile e' come sia potuta andare avanti una situazione di questo genere per cinque settimane senza una vera protesta da parte della comunita' internazionale. Anzi, invece di prendersela con quei palestinesi che, violando ogni norma e convenzione internazionale, si sono fatti scudo dei religiosi in un luogo di culto, molti osservatori hanno cercato addirittura di dare la colpa a Israele perche' "assedia" un luogo santo cristiano.
    Dunque e' chiaro che Arafat e i suoi non si fermeranno davanti a nulla, neanche davanti alla porta di una chiesa, pur di continuare la loro politica del terrore. E il mondo, restandosene zitto, li mette in condizione di andare avanti ancora meglio.

(Jerusalem Post, 8.05.02)



SE NON E' ANTISEMITISMO, CHE COS'E'?


Secondo un resoconto di Smadar Peri, cronista del quotidiano israeliano Yedioth Aharonoth, il numero delle dichiarazioni antiebraiche e antiisraeliane nei due paesi arabi che hanno firmato un accordo di pace con Israele è fortemente aumentato. In un ristorante di Amman in questi giorni si può leggere un cartello con la scritta: "Ingresso vietato a Ebrei e Israeliani!" E davanti a una farmacia del Cairo è stato visto il seguente cartello: "E' vietato l'ingresso a cani, insetti ed ebrei".

(Israelische Botschaft in Berlin, 08.05.02)



ARAFAT NON PUO' PORRE FINE AL CONFLITTO


Quando Arafat disse di no alla pace. E perché

Da un'intervista a Dennis Ross

    Dennis Ross e' stato l'inviato speciale americano per il Medio Oriente fino agli ultimi giorni dell'amministrazione Clinton e in questa veste segui' tutti i negoziati, sia quelli pubblici a Camp David nel luglio 2000, sia quelli riservati che si tennero nei mesi successivi fino al gennaio 2001. In una recente intervista a Fox News Sunday, Dennis Ross ha ripercorso i negoziati che ruotarono attorno alla proposta Clinton del dicembre 2000, offrendo una testimonianza di prima mano su come si comportarono le parti e in particolar modo Arafat . Ne riportiamo ampi stralci.
    Dennis Ross: "Ricapitoliamo la sequenza degli avvenimenti per mettere le cose nel giusto contenzioso. A Camp David nel luglio 2000 noi americani non presentammo un piano complessivo. Mettemmo sul tavolo delle idee relative ai confini e alla questione di Gerusalemme. Arafat non fu in grado di accettare nessuna di queste idee. Per la verita', nel corso di quei quindici giorni di negoziati Arafat non presento' una sola idea alternativa. Ne presentarono alcune i suoi negoziatori, ma lui no. L'unica cosa che Arafat seppe dire a Camp David fu che non e' mai esistito il Tempio ebraico a Gerusalemme. In pratica negava il cuore stesso della fede ebraica.
    Dopo il vertice, Arafat ci chiamo' subito per dirci: "Dobbiamo fare un altro vertice". Al che noi rispondemmo: "Abbiamo appena giocato le nostre carte e ci hai risposto con un no. Bisogna che ti prepari a fare un accordo prima di ripetere qualcosa del genere".
    Allora Arafat accetto' che venisse aperto un canale riservato fra i suoi e gli israeliani. Ci furono delle riunioni, a cui partecipai anch'io dalla fine di agosto 2000. Le discussioni furono serie e noi eravamo pronti a presentare le nostre proposte per la fine di settembre. Proprio in quel momento scoppio' l'intifada. Arafat sapeva che eravamo pronti a presentare le nostre proposte, e i suoi gli dicevano che le nostre proposte sembravano buone. Noi gli chiedemmo di intervenire per garantire che non scoppiassero violenze il giorno dopo la visita di Sharon [alla spianata del Tempio]. Arafat disse che l'avrebbe fatto, ma poi non mosse un dito.
    Ai primi di dicembre [2000], attraverso i canali riservati entrambe le parti ci chiesero di nuovo di presentare le nostre proposte, di presentare un vero e proprio piano. Il 23 dicembre il presidente Clinton presento' il nostro piano, che in sostanza diceva questo.
    Sui confini: annessione a Israele di un 5% della Cisgiordania e passaggio di un 2% di territorio israeliano ai palestinesi, per cui in totale i palestinesi avrebbero ricevuto il 97% del territorio. Gli israeliani sarebbero usciti completamente da Gaza. E' falso affermare che in Cisgiordania lo stato palestinese sarebbe risultato diviso in parti: vi sarebbe stata continuita' territoriale. E vi sarebbe stato anche un collegamento diretto fra Gaza e Cisgiordania con un'autostrada e una ferrovia sopraelevate, tali da garantire non solo un passaggio "sicuro" [come previsto dagli accordi di Oslo], ma un vero e proprio passaggio libero.
    Su Gerusalemme: i quartieri arabi della parte est sarebbero diventati capitale dello stato palestinese.
    Sui profughi: vi sarebbe stato diritto al rientro dei profughi nello stato palestinese, non all'interno di Israele. Inoltre sarebbe stato creato un fondo di 30 miliardi di dollari raccolti a livello internazionale per compensazioni e interventi di rimpatrio, reinserimento e riabilitazione dei profughi.
    Sulla sicurezza: vi sarebbe stata una presenza internazionale nella Valle del Giordano al posto delle forze israeliane.
    Il piano non era scritto, ma noi lo enunciammo alle parti come se lo dettassimo, accertandoci che ne prendessero nota accuratamente. Non lo mettemmo per scritto perche', come spiegammo a palestinesi e israeliani, questo era il massimo del nostro sforzo possibile: se non lo avessero accettato, lo avremmo ritirato punto e basta. Volevamo che fosse ben chiaro che non si trattava di una base per ulteriori trattative: si trattava di un piano definitivo. Un piano di proposte complessivo, senza precedenti ed estremamente avanzato. Il massimo che le due parti potevano sforzarsi di accettare, in base al giudizio che ci eravamo fatti dopo migliaia di ore di colloqui e discussioni con ciascuna delle due parti.
    [Il governo israeliano accetto' la proposta Clinton il 27 dicembre 2000 "a condizione che la accettino anche i palestinesi"].
    I palestinesi ancora oggi sostengono che Arafat accetto' la proposta. In realta' Arafat venne alla Casa Bianca il 2 gennaio 2001 e si incontro' con il presidente Clinton nello Studio Ovale. Ero presente all'incontro. Arafat disse: "si', ma…" e aggiunse una serie di obiezioni che in pratica significavano il rifiuto di ogni singola cosa che avrebbe dovuto accettare. Doveva accettare che a Gerusalemme vi fosse una sovranita' israeliana sul Muro Occidentale che coprisse i luoghi di importanza religiosa per gli ebrei e la rifiuto'. Rifiuto' la proposta sui profughi. Disse che occorreva una formula completamente diversa, come se la nostra proposta non esistesse nemmeno. Rifiuto' le idee fondamentali sulla sicurezza. Praticamente respinse tutte le cose che gli avevamo chiesto di accettare.
    Ancora oggi i palestinesi non hanno detto alla loro gente in cosa consisteva davvero quel piano. Sono certo che i negoziatori di Arafat avevano capito che il nostro piano era il massimo che potessero mai ottenere. E volevano che Arafat accettasse. Ma Arafat non era disposto ad accettare.
    Perche'? Io credo che fondamentalmente Arafat non possa porre fine al conflitto. C'era una clausola decisiva, nell'accordo da noi proposto. E la clausola era che l'accordo avrebbe posto fine al conflitto. Arafat ha passato tutta la vita a lottare per la causa. Quello che ha fatto come leader dei palestinesi e' stato lasciarsi sempre aperte delle opzioni, non mettere mai la parola fine. Qui gli veniva chiesto di porre la parola fine. Per Arafat, porre fine al conflitto con Israele significa porre fine a se stesso.
    Nel frattempo era scoppiata l'intifada. Puo' darsi che abbia pensato di poter ottenere di piu' con la violenza. Senza dubbio

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pensava che le violenze avrebbero messo sotto pressione gli israeliani e noi, e forse il resto del mondo.
    E poi c'e' un altro fattore. Non bisogna dimenticare che Ehud Barak era riuscito a riposizionare Israele a livello internazionale: Israele era visto come la parte che aveva dimostrato oltre ogni dubbio di volere la pace, e se la pace non era raggiungibile era a causa del rifiuto di Arafat. Arafat aveva bisogno di ristabilire l'immagine dei palestinesi come vittime. Purtroppo vittime lo sono davvero, e ora si vede quanto.".

(Fox News Sunday, 21.04.02 - israele.net, 07.05.02)



EBREI TERRORISTI


La polizia israeliana ha arrestato il quarto esponente israeliano di una supposta cellula ebrea di terrorismo. Sembra che a causa della continua ondata di attentati contro gli israeliani, abbiano attaccato dei palestinesi. La cellula terroristica ha dato nell'occhio per la prima volta quando nel cortile della scuola di un villaggio arabo, Sur Bahir, situato fuori Gerusalemme, è esplosa una bomba, che a direil vero non ha fatto danni, ma ha messo in allarme la polizia di Israele. Agli Israeliani viene negato il diritto ad un avvocato difensore.

(Stimme aus Jerusalem, 09.05.02)


ALIA' DALL'UCRAINA


Alyosha era destinato

di Eli Berdenstein

    Alexei Naikov era immigrato in Israele dall'Ucraina, da solo, all'età di 17 anni; amava il paese, si era arruolato e fu ucciso mentre fermava un'auto-bomba, che stava per esplodere vicino ad un autobus di scolari a Gush Katif. Sua madre, Klara, dice: "E' stato terribilmente doloroso. La sua morte ha cancellato metà della nostra vita. Abbiamo pagato un prezzo molto alto per vivere in questo paese. Durante il periodo di lutto stretto, abbiamo capito che in Israele vi sono molte famiglie come la nostra. Siamo diventati molto rapidamente parte della grande famiglia israeliana. Forse siamo addirittura diventati israeliani".
    Radomir, il fratello di Alexey, sostiene: "Non c'é scelta. questo è un paese piccolo. Oggi tu salvi qualcuno, domani è lui che ti salva. Per quaesto dobbiamo proteggerci a vicenda. Alexey si era arruolato ed era ciò che doveva fare. La vita non è mai perfetta. Si sta meglio quando si fa quello che si vuole – arruolarsi in un'unità combattente – piuttosto che rimpiangere di non averlo fatto. Perciò è impossibile fare le cose in maniera diversa. E' il fato. Alexey ha fatto la cosa giusta arruolandosi in un'unità combattente ed agendo come ha agito. Si vive solo una volta e sono convinto che abbia fatto la cosa migliore della propria vita.".
    Il sergente Asher Naikov, di 19 anni, era riuscito a prestare solo otto mesi di servizio nel corpo del Genio combattente, quando fu ucciso, il 29 ottobre 1998, nel corso della sua prima operazione militare. La jeep su cui si trovava stava scortando un autobus ed un minibus, che trasportavano i bambini di Kfar Darom alla scuola di Nevé Dekalim, nella zona di Gush Katif. La jeep bloccò un'auto-bomba, impedendo così all'attentatore suicida di far scoppiare l'autobus. Alexey fu ucciso immediatemente dall'esplosione, i due soldati che erano con lui rimasero feriti.
    Alexey era immigrato da solo, dall'Ucraina, nel settembre 1996, all'età di 17 anni. I genitori ed il fratello lo avevano raggiunto otto mesi dopo. Aveva studiato all'ulpan ed era stato accettato al corso pre-accademico di preparazione del Technion – "il solo del suo gruppo che ce l'avesse fatta", afferma con fierezza Klara, la madre – e lo aveva terminato con onore. Alexey avrebbe potuto continuare gli studi universitari, ma decise di arruolarsi.
    In un primo momento, Alexey aveva programmato di venire in Israele solo per studiare, ma si innamorò del paese. Sua madre racconta: "Scriveva a casa per dire quanto gli era difficile, poi chiamava dicendo: 'Non fate caso a quello che ho scritto; le cose sono cambiate e non intendo lasciare Israele.' E' per questo che anche noi abbiamo deciso di fare l'alià".
    Radomir, di 21 anni, ed i suoi genitori, Simion e Klara, condividono la convinzione che ciascuno debba realizzare il proprio potenziale ed il proprio destino. "Di fatto, anche oggi non credo che avremmo dovuto fermarlo, impedirgli di immigrare in Israele e di arruolarsi", dice la madre. La famiglia si trova nel proprio appartamento, nel quartiere Hadar ha-Carmel di Haifa, alla vigilia della quarta Giornata dei Caduti dopo la morte del figlio. Klara: "Sì, è terribilemente doloroso che nostro figlio non ci sia più, ma ci sono persone che vivono fino a 120 anni senza trovare se stessi e ci sono quelli, come mio figlio, che vivono solo vent'anni e fanno le cose in cui credono. Perciò saranno ricordati. [Mio figlio] era felice nell'esercito e questa è la cosa più importante - sentirsi felici e contenti".
    Il padre di Alexey, Simion, ex-sergente maggiore nell'Armata Rossa, racconta di un incidente stradale in cui fu coinvolto, per dimostrare la sua opinione sul fato: "Ero dislocato nel Kazakhstan. Il veicolo su cui viaggiavo insieme ad altri quattro soldati precipitò in un burrone. Fui l'unico superstite. Trent'anni dopo, il mio primogenito è morto e due dei suoi commilitoni si sono salvati. Quindi sembra che ci sia qulacosa che si chiama fato. Come mi ha detto una donna: 'Su sei milioni di israeliani Alyosha (il vezzeggiativo di Alexey) è stato il prescelto.' Era nato per fare qualcosa di grande".
    Klara prosegue: "Perciò è impossibile pensare che noi o Alexey abbiamo fatto un errore. Non ho in mente parole del genere. Che cosa? All'improvviso considerare un errore tutto quello che abbiamo passato? Mi ricordo dell'ultima volta che Alexey è uscito di casa. Era il 19 ottobre. Disse che sarebbe tornato a casa presto". Simion aggiunge ironicamente: "Sì, sono passati tre anni e mezzo da allora". Klara: "Da quel momento lo sto aspettando, ogni giorno. Lo cerco in ogni soldato che vedo per strada".

Sentite un legame per questo posto chiamato Israele?

    Klara: "Siamo arrivati cinque anni fa, ma a causa della morte di Alexey, ci sembra di essere qui da molto più tempo. Non eravamo sionisti. Ora, dopo quello che è successo e dopo aver conosciuto Israele e la sua gente, non abbiamo un altro paese. Evidentemente, abbiamo messo radici qui. Abbiamo pagato un prezzo molto alto per vivere in questo paese. Durante il periodo di lutto stretto, ci siamo resi conto che in Israele ci sono molte famiglie come la nostra. Molto rapidamente, siamo diventati parte della grande famiglia israeliana. Forse siamo addirittura diventati israeliani. Abbiamo avuto dei problemi, la cosa è finita sui giornali ed ho avuto un posto di disegnatore tecnico alla Dor Chimicali. I commilitoni di Alexey ci hanno aiutati a rinnovare l'appartamento. Sentiamo che c'è un grande calore umano, questo è un paese differente. Qui, nonostante quello che si dice, i rapporti inter-personali sono molto più stretti che in Ucraina. Sentiamo che non siamo soli".
    Simion mette in evidenza un'altra diversità: "Qui, si porta rispetto ai soldati che hanno dato la vita per lo Stato di Israele e ci si ricorda dei loro genitori. Nell'Unione Sovietica, né l'esercito né lo Stato ricordano i caduti, nemmeno per un mese. Sebbene nostro figlio sia andato incontro al suo destino, egli continuerà a vivere nel cuore dei bambini di Kfar Darom. Ora il nostro compito è di parlare alla gente di Alexey e proseguire nel cammino che aveva iniziato". E Klara aggiunge: "Una persona vive finché la gente continua a parlare di lui".
    E in effetti, un legame speciale si è creato fra i bambini di Kfar Darom ed i genitori di Alexey. Il bambini fanno visita ai genitori due o tre volte all'anno ed hanno preparato per loro uno speciale album commemorativo. Vi sono rapporti anche con i ragazzi della scuola di Rishon Le-Zion, il liceo-yeshivà Shalavim, nella cui sezione ucraina Alexey aveva studiato e con l'ufficiale incaricato dell'assistenza ai soldati feriti. Klara: "Siamo orgogliosi di nostro figlio, perché ha salvato dei bambini. Lo vediamo e lo sentiamo in ciascuno di questi ragazzi".

All'entata della loro casa, si erge un albero. Simion ne indica i cinque rami e dice: "Qua siamo mia moglie ed io, di là Radomir e sua moglie e questo è Alexey. Nel nostro villaggio si piantava un ciliegio tutte le volte che nasceva qualcuno". La casa è piena di luce. Nel soggiorno, un gigantesco ritratto di Alexey è appeso accanto ad altri dipinti; in una piccola nicchia laterale brilla un lumino perpetuo. Il senso di lutto non si nota in ogni singolo attimo: un ospite in casa loro non è costretto a confrontarsi con i loro sentimenti di perdita.
    "Vi sono famiglie che hanno subito la perdita di un figlio e coprono le pareti con immagini di questo figlio, ma non si può vivere in una casa a questo modo, perché la gente smette semplicemente di venire a far visita – spiega Klara – Ciò costringe la gente a sentirsi in lutto e rende loro le cose molto difficili. Non voglio imporre il mio dolore agli altri. Noi viviamo con il dolore. A chiunque venga a casa nostra e voglia vedere fotografie o ascoltare delle storie, faccio vedere gli album e racconto qualcosa di Alexey. Ma non obbligo nessuno. Per questo anche non piango tutto il tempo, perché fa scappare la gente".
    Tre amici di Radomir, che studia per ottenere un diploma tecnico in amministrazione industriale, compaiono senza preavviso. Ridono, si abbracciano e si baciano. Non una parola di Alexey.

Come sopporta Radomir la perdita del fratello?

    Klara: "Non possiamo parlare sempre di Alyosha e dire a Radik (Radomir) che Alyosha, se fosse vivo, farebbe così e colà; dobbiamo dedicare tempo ed attenzione a Radik".

Ora siete più protettivi nei confronti di Radomir?

    Klara e Simion: "Certo che no". Radomir, che presta servizio militare nelle forze di polizia di Haifa, tuttavia sostiene: "All'inizio, hanno veramente tentato di proteggermi. Ma non faceva bene [a nessuno]. Ora tutto è a posto".
    Klara annuisce, consenziente: "Dopo che Alexey è stato ucciso, abbiamo subito comperato un cellulare per rimanere in contatto con Radik, giusto per sentirne la voce, chiedergli dove fosse, se andasse tutto bene. Mi dava un senso di sollievo. Lui può fare quello che gli pare. Ha la sua vita e la sua famiglia; non li puoi tenere sotto controllo".

Radomir, sei più prudente durante i tuoi turni di servizio nella polizia?

    "Ci siamo trovati in alcune situazioni e posti pericolosi. Sono diventato più attento dopo la morte di Alexey, ma – detto questo – uno fa semplicemente il proprio lavoro e non pensa troppo. In ogni modo, quel che sarà, sarà e non c'è nulla da fare".
    Simion, un ingegnere meccanico di 51 anni, non è ebreo. E' stato disoccupato per un anno, da quando la falegnameria per cui lavorava ha chiuso i battenti: "Nel mio stato attuale, dopo la morte di mio figlio, ho bisogno di fare qualcosa che sia necessario alla gente – una cucina o un armadio; ho bisogno di fare qualcosa di utile. Devo anche provare a me stesso di essere necessario. Chiunque può lavare un pavimento".

Lei ha legato il suo destino agli ebrei, ha sposato un'ebrea; suo figlio si è arruolato ed è stato ucciso qui. Ci ha mai pensato?

    "Non ci ho ancora pensato. La vita è molto dura. A 15 anni, già lavoravo nelle miniere. Più tardi, sono stato nell'esercito e sono rimasto ferito. Non ho mai pensato alla nazionalità di mia moglie, perché per la cosa più importante era che in nostri cuori fossero legati. Due giorni dopo avere incontrato Klara, le chiesi di sposarmi e lei accettò. Allora mi disse di essere ebrea, ma intorno a me vi era gente appartenente a così tante nazionalità, che per me non fu un problema. Fui il primo del mio villaggio a sposare un'ebrea, ma non me ne importava. Per quanto riguarda il mio ragazzo, dal momento che ha dato la vita per questo paese ed è sepolto qui, non posso dire nulla di male di Israele".
    Simion è magro, come suo figlio Alexey, "prima che diventasse un uomo, negli otto mesi in cui ha potuto servire nell'esercito". Non parla molto: ascolta, avviluppato nel proprio dolore.
    "Abbiamo perduto molto e guadagnato molto – dice Klara, tentando di fare la somma dei loro cinque anni in Israele – Sono soddisfatta di quello che ho dato ai miei figli. Ora, però, ho perduto una parte di me stessa – mio figlio. Alexey voleva venire in Israele per studiare al Technion. Non è venuto qui per essere un eroe. La sua morte ha spazzato via metà della nostra vita. Ora Simion ed io siamo rimasti a piangere, fra le nostre quattro mura".

(Ma'ariv, 15 aprile 2002 - Keren Hayesod No. 182)



NUOVI IMMIGRATI DAL PERU'


Ieri sono arrivati in Israele 48 nuovi immigrati dal Perù. Provengono da un villaggio vicino alla capitale Lima. Nel dicembre 2001, alla presenza di un Tribunale Rabbinico ortodosso, sono passati all'ebraismo. Da più d'una decina d'anni vivevano già secondo la legge ebraica e adesso hanno potuto realizzare il sogno che avevano da anni: emigrare in Israele. Abiteranno negli insediamenti Alon Schwut e Karmei Zur, nel blocco Gusch-Etzion.

(Stimme aus Jerusalem, 09.05.02)


INDIRIZZI INTERNET


The Involvement of Arafat in Terrorism