Notizie su Israele 104 - 15 giugno 2002


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Così parla il SIGNORE degli eserciti: «Ecco, io salvo il mio popolo dalla terra d'oriente e dalla terra d'occidente; li ricondurrò ed essi abiteranno in mezzo a Gerusalemme; essi saranno mio popolo e io sarò loro Dio con fedeltà e con giustizia».

(Zaccaria 7:7-8)


L'UNIONE EUROPEA SOSPENDE I FINANZIAMENTI ALL'AUTORITA' PALESTINESE


Il Comitato del Bilancio del Parlamento Europeo ha sospeso provvisoriamente il suo sostegno finanziario all'amministrazione dell'Autorità Palestinese (AP). Causa della sospensione è l'accusa di una vittima israeliana del terrorismo contro l'Unione Europea (UE). Nel quadro dell'accusa (richiesta di risarcimento di 100 milioni di sheqel) si denuncia che l'AP ha distribuito gli "aiuti umanitari" dell'UE  a gruppi terroristici palestinesi, responsabili dell'ondata di attentati suicidi e attacchi contro Israele. In conseguenza di questa affermazione, l'UE ha adesso dichiarato che non verserà altri contributi all'AP fino a che non avrà ricevuto i risultati di un'indagine su come il capo dell'AP Yasser Arafat ha usato i suoi fondi.
    Steven Blumberg, l'accusatore nella contesa giudiziaria, è stato gravemente ferito il 5 agosto 2001 in un attacco terroristico. Ufficiali di polizia palestinesi della città di Kalkilja aprirono il fuoco con armi automatiche sull'auto dei Blumberg. Techija, la moglie di Blumberg, incinta di cinque mesi, è rimasta uccisa nell'attacco e la sua figlia quattordicenne è rimasta gravemente ferita. Lo stesso Blumberg adesso è paralizzato. Blumberg sostiene che gli aiuti finanziari dell'UE sono stati usati per pagare gli stipendi della polizia dell'AP, che dall'inizio dell'attuale intifada dell'ottobre 2000 si è trasformata in un gruppo terroristico altamente armato.
    Inoltre si sostiene che l'UE è stata ripetutamente avvertita dai diversi governi israeliani sul fatto che Arafat usa gli aiuti economici europeei per finanziare le sue organizzazioni terroristiche e compiere attacchi terroristici contro civili israeliani.
    Dal 1974 fino a questa settimana l'UE ha versato ogni mese 10 milioni di US-dollari all'AP. Il denaro era destinato agli stipendi degli impiegati comunali dell'AP, inclusi insegnanti, impiegati del servizio di sanità e poliziotti.
    Documenti sequestrati da Israele nelle ultime incursioni nel quartier generale di Arafat dimostrano invece, secondo dati diffusi dal governo israeliano, che gli aiuti finanziari sono stati distribuiti ai gruppi terroristici "Fatah-Tanzim". Secondo l'avvocatessa di Blumberg, Nitsana Daraschan-Leitner, la decisione dell'UE di sospendere gli aiuti finanziari è importante, perché potrebbe impedire qualche futuro attacco terroristico contro civili israeliani.

(ICEJ Nachrichten Dienst, 11.06.02)



TUTTI D'ACCORDO: ARAFAT NON È ATTENDIBILE


Senatori e deputati americani appoggiano incondizionatamente il diritto di Israele a difendersi dal terrorismo
 
Lettera da New York

di Amos Vitale

    La stampa europea, gran parte di quella statunitense e persino la Casa Bianca hanno preferito far finta di guardare da un'altra parte. Ma il pronunciamento senza mezze misure che il Congresso di Washington ha deciso di emettere a tutela di Israele e a discapito di un'Autorità palestinese pesantemente connivente con le azioni dei terroristi sembra destinato a lasciare il segno sugli equilibri mediorientali molto più di quanto si sia voluto far credere. Mentre Onu e Unione europea si accingevano a sprofondare nel ridicolo invocando una commissione d'inchiesta sui combattimenti di Jenin e denunciando un massacro che non ha mai avuto luogo, e il presidente Bush si preparava a ricevere alla Casa Bianca il principe saudita Abdullah, il ministro degli Esteri Usa Colin Powell convocava al Dipartimento di Stato i leader di Camera e Senato pregandoli di fermare l'approvazione di una mozione di deciso sostegno ad Israele, che a suo avviso avrebbe rischiato di compromettere la credibilità di una posizione imparziale della Casa Bianca nella ricerca di una soluzione al conflitto.
    Anche se tenuta a freno dalla volontà della Casa Bianca di non mettere a disagio i propri interlocutori arabi, l'esasperazione della stragrande maggior parte dei parlamentari aveva ormai raggiunto il livello di guardia e una decisa azione a tutela di Israele non sembrava più rimandabile. Il risultato ottenuto da Powell poteva sembrare un mezzo successo per chi alla casa Bianca si era prefisso di moderare la posizione americana, ma solo poche ore dopo si sarebbe rivelato una vera e propria smentita della politica di Bush e di conseguenza un grande imbarazzo per l'amministrazione Usa.
    L'ondata di terrorismo che ha investito Israele nelle scorse settimane, al di là di una considerazione generale su come sarebbe meglio risolvere il contenzioso territoriale con i palestinesi sta infatti toccando i nervi scoperti dei rappresentanti americani, che dopo i fatti dell'11 settembre non sembrano più tanto disposti all'indulgenza nei confronti di chi dimostra di avere in spregio i cardini delle democrazie.
    Quello che rende a Bush le cose ancora più difficili è la straordinaria compattezza con cui senatori e deputati hanno deciso di levare la propria voce. Il voto che ha fatto seguito agli incontri riservati al Dipartimento di Stato ha infatti mostrato un Senato che ha risposto praticamente all'unisono alla chiamata del democratico Joseph Lieberman. L'autorevole rappresentante dei progressisti statunitensi ha corso per la vicepresidenza con Al Gore in contrapposizione al tandem Bush-Cheney e si dice abbia ottime chances di essere il primo candidato ebreo a puntare direttamente alla Casa Bianca in occasione della prossima tornata elettorale. Se al Senato la mozione di appoggio a Israele ("Impegnato in una lotta al terrorismo che gli Usa condividono, e fatto oggetto di attacchi suicidi la cui essenza è identica agli attacchi avvenuti l'11 settembre") è passata con 94 voti a favore e appena due contrari, le cose hanno preso una piega ancora più interessante alla Camera. Con 352 voti a favore 21 contrari e 29 astenuti, infatti, è passata una mozione che accusa direttamente e senza mezze misure Arafat di appoggiare le azioni dei terroristi. Cosa ancora più imbarazzante per Bush, la mozione portava in testa la firma del repubblicano Tom DeLay, che rappresenta proprio quella destra cristiana non certo sospetta di essere particolarmente vicina alla sensibilità dei gruppi ebraici statunitensi e certamente alla base del successo elettorale dello stesso Presidente in carica.
    Certo, si potrebbe eccepire, la conduzione della politica estera a Washington è di competenza esclusiva del potere esecutivo, ma la presa di posizione a tutela del diritto di Israele di difendersi non sembra proprio limitarsi ad una platonica dichiarazione d'intenti. L'approvazione contemporanea delle due mozioni ha costituito un segnale molto incoraggiante per la politica del premier israeliano Ariel Sharon, che paradossalmente sembra fare molta più fatica a tenere a bada la destra domestica che l'interlocutore americano. Ma soprattutto, per quanto rappresenti un segnale forte, l'azione del Congresso costituisce solo la prima rata di quanto i parlamentari si ripromettono di fare. In omaggio alle pressanti richieste avanzate dalla Casa Bianca, per ora è stata accantonata l'ipotesi di passare a qualche misura più concreta, come chiudere le sedi di rappresentanza dell'Autorità palestinese sul territorio americano e congelare i beni e i fondi controllati da Arafat negli Usa. Un'azione che molti componenti del Congresso hanno accettato di mettere da parte per un periodo di tempo limitato ma che, stando alle voci circolanti a Washington, potrebbe trovare puntuale applicazione entro l'estate se qualcosa di significativo non interverrà a modificare gli equilibri e le pratiche che governano l'organizzazione palestinese.
    Le mozioni fin qui approvate, infatti, hanno lasciato parecchi scontenti sul terreno anche nel campo di coloro che avrebbero voluto una presa di posizione ancora più decisa a favore di Israele. Alcuni compagni di strada di Bush, come il leader repubblicano della Camera Dick Armey, ha per esempio candidamente dichiarato in un'intervista televisiva che Israele ha il pieno diritto di avanzare una pretesa territoriale sull'intera West Bank e che i terroristi dovrebbero essere semplicemente espulsi dai territori. Una posizione estrema, da cui la tanto vituperata destra israeliana si è sempre guardata, se si escludono le opinioni di alcuni personaggi folcloristici che non hanno alcuna chance di coagulare consenso fra la popolazione di Israele.
    Una sintesi fra le proposte attualmente in discussione nei due rami del Congresso potrebbe portare inoltre a una dichiarazione di responsabilità personale a carico di Arafat, con il conseguente sequestro dei suoi beni privati. Già 99 dei 100 senatori hanno intanto firmato una lettera a Bush in cui si invita la casa Bianca a rappresentare ai livelli più alti la preoccupazione degli Stati Uniti riguardo all'ondata di antisemitismo che colpisce il mondo arabo e alcune realtà dell'Europa occidentale.
    E la firma che manca non appartiene a un dissenziente, ma all'ultraottantenne senatore Jesse Helm, che si trova attualmente ricoverato in ospedale.

(Shalom, giugno 2002)



ONU, INTEGRALISTI AL TIMONE


di Angelo Pezzana
   
    Alla Siria la presidenza del Consiglio di sicurezza: ma un Paese antisemita e amico del terrorismo lo meritava?
    Che qualcosa non funzionasse all'ONU non eravamo i soli ad avvertirlo. Dalle conferenze contro il razzismo nelle quali però il razzismo viene esaltato (vedi Durban lo scorso agosto,imputati USA e Israele,giudici tutti gli stati più razzisti e terroristi del mondo), alle cosiddette risoluzioni nelle quali vengono regolarmente condannati gli stati democratici, il giudizio su quel consesso internazionale è sempre più negativo.
    Mai però ci saremmo aspettati che venisse eletta alla presidenza del consiglio di sicurezza la Siria,come è avvenuto la scorsa settimana. Un paese che esercita il terrorismo come normale attività politica, nel quale non esiste nemmeno la più pallida finzione di diritti umani,e che occupa da ventisette anni il Libano,ridotto a stato vassallo.
    Un'elezione che non ha prodotto né scandalo né riprovazione in Occidente. Nel silenzio quasi totale dei mezzi d'informazione, la prima voce che si è levata è stata quella dell'ambasciatore d'Israele a Roma Ehud Gol. E a ragione, se consideriamo l'inquietante vicinanza dello stato ebraico con quel vero e proprio vivaio del terrore che è la Siria.
    Altre voci non ci risulta che si siano levate.
    Per quei lettori che ancora distinguono tra turismo e terrore,che non rimangono affascinati solo dai reperti archeologici ma sanno guardarsi attorno con attenzione, proviamo a descrivere lo stato che da ora presiede l'ONU e dal quale siamo quindi anche noi rappresentati.

    Terrorismo:
    La Siria ospita e finanzia direttamente la Jihad islamica palestinese, che ha il suo quartier generale a Damasco. Tra l'altro, ha rivendicato l'attacco terroristico del 5 giugno quando ha fatto esplodere un autobus di linea israeliano uccidendo 17 giovani e ferendo decine di persone. La Jihad islamica palestinese ha ucciso finora 97 israeliani.
    La Siria, direttamente tramite il presidente Bashar Assad, ha un rapporto diretto con gli Hizbollah ed il loro leader Shikh Nasrallah, responsabile di tutti gli attentati nel sud del Libano al confine con Israele. Ed è tramite la Siria che l'Iran finanzia il terrorismo libanese, responsabile di moltissime stragi.
    La Siria sostiene Hamas, il fronte di liberazione della Palestina di Ahmad Jibril e sul suo territorio operano elementi legati ad Al Qaida di Osama bin Laden.

    Diritti Umani:
    La Siria è governata da un regime totalitario che viola costantemente ogni diritto civile. Libertà di stampa, uguaglianza giuridica e politica per le donne e le minoranze, pluripartitismo, libertà di religione,associazione e assemblea, persino di movimento, sono negate in Siria.
    Nel 1982 Assad fece radere al suolo la città di Hama massacrando 25.000 civili. La minoranza curda (10%) è sottoposta ad ogni sopruso.

    Libano:
    E'occupato dalla Siria da 27 anni. Cinquantamila soldati siriani stazionano permanentemente in Libano, malgrado una risoluzione dell'ONU (sic!) del 1982 le imponesse di ritirarsi. Secondo il dipartimento di stato americano il governo siriano è pesantemente coinvolto nel commercio della droga nella valle della Bekaa, territoio libanese sotto diretto controllo siriano.

    Antisemitismo:
    In occasione della visita del Papa, il 5 maggio 2001, il presidente Bashar Assad ha dichiarato: "Gli ebrei cercano di uccidere i principi di tutte le religioni con la stessa mentalità con cui hanno tradito Gesù Cristo e nello stesso modo in cui hanno cercato di tradire e uccidere il profeta Maometto". Altra dichiarazione di Mustafah Tlas, consigliere personale di Assad: "Gli ebrei sono pochi milioni: se ogni arabo uccidesse un ebreo, non ce ne sarebbero più". Il quotidiano governativo Al Akbar ha scritto il 20.4.2001: " Hitler va ringraziato perchè ha vendicato in anticipo i palestinesi, anche se dobbiamo lamentare il fatto che la sua vendetta non è andata abbastanza avanti".
    Va anche ricordato che la Siria,fra i molti stati arabi che dettero rifugio alle SS in fuga dopo la seconda guerra mondiale, si dimostrò fra tutti il più ospitale.
    Ebbene,questo paese ha assunto la presidenza del consiglio di sicurezza dell'ONU. Non credo ci sia da sentirsi sicuri. Ci rimangono alcune curiosità. Come avrà votato il nostro rappresentante e come il nostro governo valuterà questa presidenza?

(da "Informazione corretta")



"EDUCAZIONE ALLA PACE" SULLA TV PALESTINESE


Sharon nazista, Arafat condottiero

    La televisione ufficiale dell'Autorita' Palestinese ha iniziato lunedi' scorso a mandare in onda un nuovo video-clip della durata di 5 minuti che celebra Yasser Arafat dipingendolo come colui che ha sconfitto Israele. Il video raffigura il primo ministro israeliano

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Ariel Sharon come un nazista armato di scure che aggredisce i bambini palestinesi. Il video riporta anche con compiacimento immagini molto crude di soldati israeliani sanguinanti feriti in battaglia.
    La notizia del nuovo video di indottrinamento all'odio dell'Autorita' Palestinese e' stata data mercoledi' da Itamar Marcus, direttore del Palestinian Media Watch. Secondo Marcus, il recente aumento di video-clip di propaganda inneggianti ad Arafat sulla televisione ufficiale ha lo scopo di contrastare un indebolimento dell'immagine e del carisma del presidente palestinese presso la sua stessa opinione pubblica.

(Jerusalem Post, 12.06.02 - da israele.net)



È NATA UNA GIOVENCA ROSSA IN ISRAELE

    
La prima foto della giovenca rossa

All'inizio di aprile, in una fattoria israeliana, è nato un vitello rosso. Il proprietario ha informato l'Istituto del Tempio a Gerusalemme, e poco dopo il Rabbino Menachem Makover e il Rabbino Chaim Richman sono andati alla fattoria per fare una perizia del vitello. I Rabbini hanno dichiarato che la pelle rossa del vitello non ha macchie, ma che è interamente rossa. Hanno anche constatato che il vitello è perfettamente sano. Di conseguenza è adatto per la produzione dell'acqua di purificazione - come scritto nel capitolo 19 del libro dei Numeri - e per il servizio nel terzo Tempio.
    Già nel 1997 era nata una giovenca rossa che dai Rabbini era stata dichiarata "koscher". Un anno dopo però perse questo stato perché sulla coda apparvero dei peli bianchi.
    Secondo la tradizione ebraica, la nascita di una giovenca rossa viene considerata un segno anticipatorio della prossima venuta del Messia.

(nai - israel heute, maggio 2002)



LA TENTAZIONE DEL RITIRO UNILATERALE


Un ritiro israeliano senza accordi ne' garanzie sarebbe una risposta adeguata?

    Chissa' quanti israeliani lo hanno pensato, e quanti anche fuori da Israele, rinunciando in cuor loro al sogno della coesistenza pacifica: "l'unica e' uscire dai territori, senza aspettare un accordo che non arriva mai, e tirare su una barriera senza tanti complimenti, un muro, insomma un confine che sia netto e insuperabile".
    E' quello che hanno detto, in sostanza, alcuni noti intellettuali italiani, insieme all'israeliano A. B. Yehoshua, con un appello pubblicato sul Corriere della Sera (30.05.02) sotto il titolo "Primo passo, creare un confine": un confine che permetta di separare israeliani e palestinesi, di "ridurre la violenza esplosa negli ultimi tempi" e "favorire un clima che faccia riprendere le trattative di pace". Nella consapevolezza, tuttavia, che ci vorranno "una o due generazioni" prima che si plachino gli odii "come si sono placati in Europa tra francesi e tedeschi".
    Non si tratta di una novita'. Anzi, e' una posizione che, con varie sfumature, si va affermando in una parte consistente dell'opinione pubblica israeliana. Soprattutto quella parte che aveva sostenuto con entusiasmo il processo di Oslo e che oggi, di fronte ai fallimenti di Camp David e Taba e all'incessante ondata di violenza palestinese, si trova disorientata e a corto di proposte negoziali convincenti.
    Ai primi di febbraio 2002 il movimento israeliano Shalom Achshav ("pace adesso") era arrivato a conclusioni simili. Dopo aver sostenuto per vent'anni la ricerca di una composizione del conflitto con i palestinesi al tavolo dei negoziati sulla base del principio "pace in cambio di territori", i pacifisti israeliani ammettevano che quella strategia si era rivelata come minimo inadeguata. Da allora il movimento sostiene invece la necessita' di un ritiro unilaterale di Israele dai territori, per aprire solo successivamente dei negoziati sulla base delle proposte Barak-Clinton. Insomma, piu' che "pace adesso", pace chissa' quando.
    "Se non e' possibile porre fine al conflitto - scriveva gia' piu' di un anno fa Shlomo Avineri, docente di scienze politiche all'Universita' di Gerusalemme (Ha'aretz, 21.03.01) - Israele dovra' prendere misure unilaterali, dovra' portare avanti la logica di Oslo da solo, anche senza l'accordo dei palestinesi. Bisognera' sgomberare altri territori in Cisgiordania e striscia di Gaza, abbandonare i piu' piccoli insediamenti isolati che non possono essere difesi senza un alto tributo di sangue, mentre la maggior parte degli altri insediamenti verranno compresi in blocchi contigui, collegati direttamente con Israele. Alla fine dovra' essere creata una chiara separazione fra israeliani e palestinesi".
    Di questa posizione si e' fatto recentemente portavoce Haim Ramon all'interno del partito laburista israeliano. Nella riunione del comitato centrale di meta' maggio, in contrapposizione al leader del partito e ministro della difesa Binyamin Ben-Eliezer che propone (e sta attuando) una separazione provvisoria puramente tecnico-difensiva lungo le odierne linee di demarcazione, Ramon ha presentato un piano di separazione volto a modificare l'assetto politico-diplomatico: Israele si ritiri dall'85% dei territori e si annetta il rimanente 15%, dove sono concentrati tre quarti degli israeliani residenti negli insediamenti. "In mancanza di un valido interlocutore palestinese - ha spiegato Ramon - Israele deve agire unilateralmente. Barak ha cercato di arrivare a confini definitivi con il negoziato ed era pronto a fare grandi concessioni, ma non e' riuscito. E non per colpa nostra, ma per colpa di Arafat. Ci serve un confine unilaterale finche' non ci sara' qualcuno con cui negoziare". Secondo Ramon, non e' accettabile che le Forze di Difesa israeliane continuino a consumarsi nella difesa degli insediamenti piu' isolati in attesa del negoziato e dell'accordo finale: "Siamo l'unico paese al mondo senza un confine netto fra noi e i nostri nemici. E' come vivere in una casa senza porta ne' serratura. Il punto non e' discutere cosa accadra' se mai avremo un interlocutore palestinese - ha concluso Ramon - Il punto e' cosa fare adesso che un interlocutore palestinese non l'abbiamo. Come ci difendiamo? Come stabiliamo un confine? Intendiamo restare a Netzarim [piccolo insediamento nella striscia di Gaza] finche' Arafat o i suoi successori non si decidono a negoziare sul serio con noi?".
    Domande sicuramente pertinenti, che ogni israeliano si pone. Ma il ritiro sarebbe la risposta piu' appropriata?
    Oggi in Israele quasi piu' nessuno pensa che ritiro significhi pace. "Il processo di Oslo - spiegava Avineri nel suo articolo su Ha'aretz - si fondava sul presupposto che la chiave per porre fine al conflitto fosse la fine del controllo israeliano sui territori occupati con la guerra del '67 e il riconoscimento del principio di autodeterminazione per il popolo palestinese accanto a Israele. Questa ipotesi di fondo e' andata in pezzi. Oggi appare evidente che, dal punto di vista palestinese, la fine dell'occupazione dei territori non porra' fine al conflitto: il legame tra fine dell'occupazione del 1967 e fine del conflitto era solo un'illusione che non faceva i conti con la radicalita' del rifiuto palestinese dell'esistenza stessa di Israele".
    Dunque un ritiro di Israele senza accordi ne' garanzie potrebbe servire solo a due cose. Primo, a rendere tecnicamente piu' difendibili le linee di demarcazione (a costo tuttavia di "premiare" l'uso di violenza e terrorismo fatto dai palestinesi: un precedente di per se' rischioso). Secondo, a rendere piu' "legittima" l'autodifesa di Israele di fronte a eventuali future aggressioni. Per dirla con Avineri, "cedere la maggior parte dei territori e il controllo sulla popolazione palestinese significa porre termine alla responsabilita' israeliana. Per certi versi, torneremmo a una situazione simile a quella pre-'67, con la differenza che questa volta dall'altra parte vi sara' uno stato palestinese. Per Israele, un Arafat presidente della Palestina e' preferibile a un Arafat che e' un po' capo di stato, un po' guerrigliero e un po' terrorista. Oggi puo' fare quello che vuole e incolpare di tutto l'occupazione israeliana".
    E' la grande speranza degli israeliani che auspicano il ritiro: vedere finalmente Israele libero di difendere le proprie frontiere in piena legittimita', magari persino con il sostegno dalla comunita' internazionale. La stessa speranza di Barak quando decise di ritirarsi dal Libano (24.05.00). Ma due anni dopo che Israele si e' attestato sul confine internazionale riconosciuto dall'Onu, Libano e Siria permettono ancora che i terroristi Hezbollah tengano sotto sequestro cittadini israeliani, compiano incursioni omicide in Galilea, foraggino il terrorismo palestinese, schierino diecimila lanciarazzi Katyusha con gittata anche fino a Haifa. Il tutto nell'indifferenza della comunita' internazionale, pronta invece a condannare l'"intollerabile escalation" quando Israele reagisce colpendo una postazione radar siriana nella valle della Beka'a.
    Per quale motivo un ritiro israeliano dai territori palestinesi dovrebbe sortire un risultato migliore? Shlomo Ben-Ami, gia' ministro degli esteri nel governo Barak, disilluso ma tenace assertore del processo negoziale, ha sostenuto che la comunita' internazionale non riconoscerebbe mai, neanche provvisoriamente, un confine stabilito in modo unilaterale da Israele. La cosa anzi offrirebbe un'infinita serie di pretesti a palestinesi e non palestinesi per continuare a minacciare e attaccare Israele. "Uno stato palestinese che nascesse oggi, dopo un ritiro unilaterale israeliano -gli ha fatto eco Ben-Eliezer - sarebbe uno stato nemico. Non facciamoci illusioni: nessuno protestera' se verremo attaccati lungo una linea di confine non legittimata da alcun accordo e non riconosciuta dal resto del mondo". E' un punto debole che traspare anche dall'appello degli intellettuali firmato da Yehoshua, la' dove si limita a invocare "confini chiari e difendibili": cioe' molto meno dei confini "sicuri e riconosciuti" previsti dalla risoluzione Onu 242.
    In verita', non occorre molta fantasia per capire in quale guaio si troverebbe Israele il giorno in cui dovesse fronteggiare la minaccia di un'armata, poniamo siriana o irachena, dilagata nello staterello palestinese fino a poche centinaia di metri dai centri nevralgici dello stato ebraico. E il giorno in cui, come in un drammatico deja vu, si ponesse il dilemma se attendere l'offensiva su posizioni indifendibili o sferrare un attacco preventivo in zone palestinesi densamente abitate. Facciamo un po' fatica a immaginare, quel giorno, i governi e la stampa di tutto il mondo che fanno blocco compatto a fianco di Israele, e i firmatari dell'appello che accorrono, insieme a stuoli di pacifisti italiani, a fare "interposizione di pace" in difesa dello stato ebraico.

(israele.net,  NES n.6, giugno 2002)



DONATORI CRISTIANI SOSTENGONO L'IMMIGRAZIONE DI 400 EBREI AMERICANI


Donatori cristiani sostengono, in collaborazione con una organizzazione ebraica, una delle più grandi ondate di immigrazione di ebrei nordamericani in Israele.  Il 9 luglio 400 ebrei del Nordamerica saliranno in un aereo charter per tornare nel paese dei loro padri. Il viaggio è sponsorizzato dall'organizzazione ebraica Nefesh b'Nefesh (da uomo a uomo), che sostiene l'immigrazione attraverso donatori privati. I doni per questo gruppo di immigranti hanno raggiunto la somma di 2 milioni di dollari e provengono in massima parte dalla "International Fellowship of Christians and Jews".
    Il Presidente dell'associazione, Rabbi Jechiel Eckstein, ha detto che è la prima volta che cristiani americani sostengono l'immigrazione di ebrei nordamericani in Israele. La partecipazione a questo progetto è stata ottenuta grazie alle offerte dei 250.000 membri cristiani dell'associazione che versano annualmente milioni di dollari per collaborare ai progetti di aiuto per Israele.
    "Negli anni scorsi abbiamo permesso a centinaia di migliaia di ebrei dell'ex Unione Sovietica, dell'Etiopia e infine dell'Argentina di realizzare il loro sogno di tornare in Israele. Adesso abbiamo il privilegio di realizzare questa nuova ondata di immigrazione dal Nordamerica."
    Secondo dati della "Jewish Agency", responsabile da parte israeliana dell'immigrazione ebraica, è la prima volta da 25 anni che un così gran numero di ebrei nordamericani immigrano in una sola volta. Secondo la "Jewish Agency", l'anno scorso sono immigrati in Israele 1378 ebrei. Attualmente nel Nordamerica vivono più di 6 milioni dei 14,4 milioni di ebrei sparsi nel mondo. Fino ad ora gli ebrei nordamericani non hanno costituito una parte molto grande degli immigranti in Israele.

(ICEJ Nachrichten Dienst, 11.06.02)



ISRAELE CHIAMA I VOLONTARI


L'Agenzia Ebraica ha elaborato un progetto speciale per darti l'opportunità di esprimere concretamente la tua solidarietà con Israele:

VOLONTARIATO PER ISRAELE ORA

Opportunità di 2 – 4 settimane per

- Fisici
- Infermieri per ambulanze
- Volontariato in kibbutz
- Assistenza a bambini in difficoltà
- Guardia Civile

Requisiti richiesti:
- età dai 18 ai 65 anni
- entusiasmo e amore per Israele

Per iscrizioni chiamare Rina Shinar – Agenzia Ebraica Italia
tel 06 68805290, 6875953, fax 06 6789511, e-mail



INDIRIZZI INTERNET


International Christian Embassy Jerusalem

Internationale Christliche Botschaft Jerusalem