Notizie su Israele 110 - 9 luglio 2002
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Ecco la parola che fu rivolta a Geremia da parte del Signore: «Così parla il Signore, Dio d'Israele: "Scrivi in un libro tutte le parole che ti ho dette: poiché ecco, i giorni vengono", dice il Signore, "in cui io riporterò dall'esilio il mio popolo d'Israele e di Giuda", dice il Signore, "e li ricondurrò nel paese che diedi ai loro padri, ed essi lo possederanno"». (Geremia 30:1-3) LE RADICI DEL SIONISMO Sionismo cristiano Lettera di un cristiano non-ebreo, ufficiale dell'esercito britannico, a un amico ebreo:
Orde Wingate La teologia del sionismo cristiano, che ha le sue radici nel protestantesimo pietista del sedicesimo secolo e nel movimento puritano inglese del diciassettesimo secolo, è potentemente cresciuta negli ultimi decenni. Oggi molte migliaia di cristiani, provenienti da diverse aree ecclesiastiche e denominazioni, sono pronti a dichiarare e mostrare il loro amore e il loro sostegno al popolo ebreo. La "International Christian Embassy Jerusalem" ha tenuto quattro "Congressi internazionali sionisti cristiani": nel 1985 a Basilea, nel 1988, 1996 e 2001 a Gerusalemme. Al terzo congresso del 1996 presero parte circa 1500 delegati e altri partecipanti da più di 40 paesi. Cristiani e sionismo L'avventura del ritorno degli Ebrei dall'esilio nella loro vecchia patria Eretz Israel è una delle più avvincenti storie del secolo scorso. La lotta e la vittoria del movimento sionista fondato cento anni fa da Theodor Herzl, non ha uguali nella storia dell'umanità: circa duemila anni di peregrinazioni e sofferenze degli Ebrei hanno condotto alla rinascita di Israele. Una delle chiavi principali che permettono l'accesso al pensiero di Herzl e ne spiegano il successo è l'influenza dei suoi amici cristiani. Nel periodo in cui Herzl discuteva su dove si potesse trovare un luogo di rifugio per gli Ebrei che fuggivano dai pogrom che avvenivano in Russia e nell'Europa dell'Est, il pastore William E. Blackstone gli mandò un'edizione dell'Antico Testamento in cui erano segnati tutti i passi profetici che riguardano il ritorno degli Ebrei nella terra d'Israele. E William Hechler, cappellano e precettore della casa regnante tedesca, favorì l'incontro di Herzl con il Kaiser Guglielmo II, facendo sì che la questione del sionismo diventasse uno dei principali temi della discussione geopolitica europea. L'influenza di queste figure cristiane è la riprova di un fatto innegabile: le origini del movimento sionista sono molto più antiche di Herzl: sono radicate nella Bibbia e nella milleniale speranza del ritorno degli Ebrei nella terra d'Israele, così come hanno promesso i profeti biblici. E in effetti molto spesso sono stati proprio dei cristiani che, credendo fermamente nelle promesse profetiche, si sono rivelati come i più forti sostenitori del ritorno degli Ebrei in Sion. A seguito della Riforma e della sua accentuazione dell'autorità della Scrittura, diversi movimenti protestanti che fuggivano davanti alle persecuzioni religiose, si identificarono con le sofferenze del popolo ebreo ed edificarono le loro comunità sul modello del patto di Dio con gli Ebrei. Furono soprattutto i Puritani che, quando lessero le promesse dei profeti biblici sulla riunificazione del disperso Israele, mostrarono grande interesse al pensiero di riportare gli Ebrei nella loro terra. I movimenti di risveglio hanno annunciato la ricostituzione di Israele Durante i potenti risvegli che percorsero l'Inghilterra e l'America nel diciottesimo e nel diciannovesimo secolo, i predicatori cristiani annunciavano che la riunione degli Ebrei in Israele sarebbe stato un segno anticipatore degli ultimi giorni e dell'imminente ritorno del Messia. Eminenti personalità ecclesiastiche e politiche come Lord Palmerston e Lord Shaftesbury dichiararono che soprattutto l'Inghilterra era stata prescelta da Dio per favorire l'insediamento degli Ebrei in Medio Oriente. Nel 1891, sei anni prima del primo Congresso Sionista, Blackstone presentò una petizione al Presidente americano Benjamin Harrison in cui si chiedeva di riportare gli Ebrei in Israele. Tra i firmatari c'erano il cardinal Gibbons, John Rockefeller, J.P. Morgan e più di 400 preminenti americani. La Dichiarazione di Balfour del 1917 Questi sforzi portarono i frutti al momento opportuno. I "fautori del ritorno" influenzarono la politica e le decisioni della Gran Bretagna quando il governo di David Lloyd George emise la Dichiarazione di Balfour, in cui si auspicava la fondazione di un "focolare nazionale per il popolo ebreo in Palestina". Dopo che per decenni dei cristiani avevano caldeggiato il ritorno degli Ebrei in Terra Santa, il pensiero prevalente tra i partecipanti occidentali alla Conferenza di pace di Versailles, era quello di favorire senz'altro i diritti nazionali degli Ebrei e il loro collegamento con la terra dei loro padri, affidando alla Gran Bretagna il Mandato sulla Palestina. Cristiani in lotta a fianco degli Ebrei Anche nella stessa terra di Israele ci furono cristiani decisi a sostenere la questione del sionismo. Il colonnello Henry Patterson comandò dapprima il corpo dei "muli di Sion" e poi la legione ebraica che nel 1917 combatté con l'esercito britannico per cacciare i Turchi dalla Palestina. Così facendo contribuì al raggiungimento di un obbiettivo caro a molti sionisti (tra cui il giovane Ze'ev Jabotinsky, che militò sotto Patterson): la formazione di una forza militare ebraica e la rinascita dell'antico spirito combattivo. Il generale di divisione Orde Wingate, un ufficiale britannico del servizio segreto operante nel territorio mandatario della Palestina, rischiò la sua carriera militare addestrando in segreto degli speciali "squadroni della notte" (il Palmach) per compiere incursioni contro gli squadroni d'assalto arabi e impedire così di fare attacchi contro lo Yishuv (comunità ebraica). Ispirandosi a figure bibliche come Davide e Gedeone, Wingate contribuì a formare il nucleo delle dottrine militari israeliane: intimidazione e autonoma iniziativa. La storia del ritorno degli ebrei nella terra d'Israele è piena di esempi di cristiani che, avvertendo il significato profetico del ritorno degli esuli ebrei e della rinascita d'Israele, giocarono un ruolo significativo nella crescita del sogno sionistico. Persuadendo persone politiche che occupavano posizioni chiave, esercitarono influsso su avvenimenti politici di importanza storica, salvarono Ebrei dallo sterminio e favorirono la sicurezza e la prosperità del moderno Stato d'Israele. (da "International Christian Embassy Jerusalem") I "MARTIRI" PALESTINESI SONO PROPRIO COSI' DISPERATI? Al Walid e la TV che trasmette l'odio di Angelo Pezzana Il principe saudita Al Walid non è nuovo alle cronache. Oltre ad essere uno degli uomini più ricchi del mondo, e fin qui niente di male, si sa che il petrolio rende bene, il nostro è anche azionista di un numero imprecisato di televisioni. Maggiore azionista lo è di ART, che sta per Arab Radio and Television Network, una stazione a livello globale di canali satellitari. Uno di questi, Iqraa Television, è decisamente istruttivo per quanto riguarda le varie attitudini del pensiero arabo nei confronti degli ebrei e di Israele in particolare. Non ci stiamo riferendo a qualche foglio compilato da qualche invasato fondamentalista, come vorrebbero farci credere i critici nostrani di Oriana Fallaci. No, questa è una delle catene televisive più diffuse del mondo arabo. Ed ecco quanto di istruttivo diffonde. Basmallah è il nome di una bambina di tre anni, ospite del programma condotto da Doaa'Amer, una famosa anchorwoman. "Conosci degli ebrei ?" le chiede l'intervistatrice. "Sì, risponde la bambina, ma non mi piacciono, perché sono scimmie e maiali". "Chi lo dice ?", insiste l'intervistatrice, "Il nostro dio Allah nel Corano" risponde pronta la bambina. Niente male per l'età. Ma gli ospiti non si limitano a dotti infanti. C'è anche il prof.Adel Sadeq, capo del dipartimento di psichiatria all'Università del Cairo, che definisce così i cosiddetti martiri." Con il martirio raggiungono il massimo della felicità, dell'estasi. Specificando che sta parlando nella sua veste di scienziato, di psichiatra, afferma che nel momento in cui comincia il conto alla rovescia, dieci, nove, otto, sette, sei, cinque, quattro, tre, due...... quando viene il momento di dire uno e farsi esplodere, quello è il momento più bello, mentre esplodi ti sembra di volare". Il fatto che lo descriva escluderebbe che l'abbia provato. Ma la sua passione nel raccontarlo chissà quante menti avrà impressionato e convinte a provare quanto è bello... volare. In un altro programma un padre discute della lezione che sta preparando insieme a suo figlio. "Lo sto istruendo per il prossimo martirio, il suo o il mio, non importa". Il figlio chiede al padre se Allah, nel caso in cui dovesse farsi esplodere, gli regalerà una macchina, un fucile e dei giocattoli. "Avrai tutto quello che vorrai", risponde il padre. Se sono questi i modelli famigliari che vengono proposti ai telespettatori delle televisioni arabe viene da chiedersi perché mai lo stupore europeo di fronte alla determinazione dei "martiri" invece di dileguarsi si diffonda sempre di più. Come mai ci stupiamo ancora, inventandoci presunte frustrazioni o motivazioni politiche, quando alla base di tanto odio e fanatismo c'è solo una precisa volontà, feroce e disumana: distruggere Israele, poco importa se i padri diventano gli assassini dei propri figli. Il principe Al Walid, patron della rete che diffonde simile spazzatura, è passato alle cronache anche per un altro gesto. Dopo l'11 settembre, durante una serata di beneficenza organizzata dal sindaco di New York Rudolph Giuliani a favore delle famiglie delle vittime, Al Walid offrì a Giuliani un assegno di dieci milioni di dollari di fronte ad una platea già pronta all'applauso. Ma aggiunse, il buon principe, che l'America doveva cambiare la sua politica troppo favorevole a Israele e schierarsi dalla parte del mondo arabo. Al Walid lo avrebbe voluto dire al microfono, condizione posta per fare la munifica donazione. Giuliani si alzò, al microfono ci andò lui invece del principe e, strappando l'assegno in molti pezzettini, disse: se questa è la condizione si tenga pure i suoi soldi, io non li accetto. Caro Giuliani, è anche per uomini come te che l'America è un grande paese. (Informazione corretta, 05.07.02) IL SUCCESSORE DI ARAFAT VIVE IN AMERICA Omar Karsou, è originario di Ramallah e risiede a New York. La Casa Bianca lo considera come una possibile alternativa all'attuale leader palestinese. E' stato invitato a cena dal vice-presidente Usa Richard Cheney NEW YORK - Ha la barba, pochi capelli, un aspetto medio-orientale. E' originario di Ramallah e vive a New York. Si chiama Omar Karsou. Aspramente critico con la leadership palestinese e con gli israeliani, colpevoli di aver dato troppa libertà a un'accolita di corrotti, Karsou, un uomo di mezz'età, comincia ad essere considerato da Washington come una possibile alternativa al leader palestinese Yasser Arafat. Dieci giorni fa Karsou è stato invitato a cena dal vice-presidente Usa Richard Cheney. L'uomo, fino allora sconosciuto, ha così iniziato a far parlare di sè. Un anno fa Karsou ha lasciato Ramallah per trasferirsi a New York. In America ha dato vita al movimento civile Democracy in Palestine, un'organizzazione libera e non influenzata dall'Autorità palestinese (Anp). «L'Incontro con il vice-presidente Cheney è stato il punto di arrivo di un duro anno di preparazioni - spiega Karsou al quotidiano israeliano Haaretz - dopo tanti incontri e presentazioni, alla fine abbiamo |
ottenuto il riconoscimento americano. Questo incontro di alto profilo ci incoraggia molto». Karsou rappresenta una fetta del popolo palestinese rimasta finora in silenzio. La borghesia delle professioni e degli affari che comincia ad averne abbastanza di Arafat. Gli argomenti di Karsou sono utilizzati da buona parte della destra israeliana. «Gli accordi di Oslo sono stati un errore - spiega - Israele ha consapevolmente incoraggiato un regime corrotto e assassino, capeggiato da un dittatore. Israele sta ora pagando il prezzo di questa scelta. Lo Stato ebraico non può continuare a fare affidamento su una leadership il cui unico interesse è quello di conservare il proprio potere». «Israele - prosegue Karsou - ha armato Arafat e gli ha dato la possibilità di incassare soldi destinati al popolo palestinese. Con quei soldi, Arafat si è aperto un conto presso la banca israeliana Leumi. Il Rais ha creato una serie di deboli ministeri, in modo da conservare tutto il potere per sè. La creazione dell'Autorità palestinese (Anp) è stato un altro errore compiuto dagli israeliani. Arafat e i suoi hanno cosi ottenuto dei lasciapassare da Vip per entrare ed uscire liberamente da Israele». (Gazzetta del Mezzogiorno, 05.07.02) I FRUTTI DELLA PROPAGANDA ANTI-ISRAELIANA Caccia all'ebreo di Fiamma Nirenstein Non sappiamo ancora tutto, è vero, sull'assassino del banco El Al di Los Angeles, Hesham Mohammed Hadayet. Ma sappiamo abbastanza, se non per dare un giudizio tecnico sul suo status di terrorista organizzato, almeno per formarci un giudizio morale che dovrebbe aver già fatto sobbalzare chiunque. Israele è stata attaccata centinaia, migliaia di volte da terroristi, suicidi o meno, negli ultimi mesi; l' Europa e il mondo hanno visto migliaia di attacchi specifici su obiettivi ebraici; l'attacco all'Occidente, e segnatamente agli Usa, è stato molto spesso collegato da Al Qaeda, Hezbollah, Hamas e da decine di altre organizzazioni terroriste alla guerra contro gli ebrei e Israele; la compagnia di bandiera israeliana, inoltre, ha subito decine di attacchi sin dal 1968, quando un volo El Al da Roma fu dirottato su Algeri; poi ci fu Atene, poi il massacro di Lod, poi quello di Fiumicino... Contemporaneamente, durante varie imprese terroriste come quella di Entebbe, sempre i passeggeri ebrei, come in un campo di concentramento, sono stati separati dai non ebrei. Ultimamente la caccia agli ebrei «dovunque si trovino» (come ripetono il venerdì nel sermone parecchi predicatori dalle moschee) ha assunto connotati massicci, in Israele, in Europa, nel mondo. Si prova quasi tutto: attacchi a scuole, sinagoghe, aereoporti, cimiteri, comunità. Ora, chiunque sia, Hadayet sarà certamente stato raggiunto da quella propaganda, molto diffusa negli Usa, per cui gli ebrei sono «figli di cani e scimmie», per cui uccidendoli si viene ricompensati con premi celestiali specie se questo comporti la perdita della propria vita facendo di te uno shahid. Anche se Hadayet era un «lunatic» come si sospetta, era un lunatic trasformatosi in un terrorista, così come si trasformano in terroristi bambini, ragazze, studenti che comprano in Medio Oriente dischi intitolati Odio Israele e ascoltano i discorsi di Nasrallah e dei vari ayatollah che promettono di distruggere Israele e gli ebrei tutti. Ormai nel mondo arabo non esiste nessuno o quasi che creda che l'Olocausto sia una verità storica e non un trucco; che con Israele si possa far pace; che gli ebrei abbiano dei diritti nazionali e civili. È logico dunque, dopo Los Angeles, chiedersi: chiunque fosse Hadayet, può il mondo consentire questa caccia all'ebreo nel suo paese e in ogni altro, ovvero «ovunque si trovi», istituzionalizzata da parte di Al Qaeda o dai Martiri di Al Aqsa, o spontanea, quando riguarda qualche mente influenzabile? (La Stampa 6.7.02) I PARTITI RELIGIOSI CONTRO LA SOCIETA' AEREA ISRAELIANA I partiti religiosi di Israele sono indignati per il fatto che l'aereo della società israeliana EL AL, partito da Los Angeles con a bordo i passeggeri che avevano subito l'attacco al check-in dell'aeroporto, sia arrivato in Israele la mattina del sabato. Questi partiti sostengono che non era necessario tornare a casa di sabato, dal momento che non c'era nessun pericolo di vita. La società EL AL e il Ministro dei Trasporti israeliano hanno spiegato che dopo quell'attacco che aveva traumatizzato diverse persone, la cosa migliore era di riportarle il più presto possibile dalle loro famiglie. Non tutti i passeggeri sono tornati con quel volo. Un gruppo di passeggeri religiosi ha preferito passare il sabato in un albergo dell'aeroporto. (Stimme aus Jerusalem, 08.07.02) I PAESI ARABI SONO I MENO LIBERI DEL MONDO Il rapporto Onu sullo sviluppo umano critica la gestione politica: «Petrolio sprecato senza democrazia» di Alessandra Coppola Ricchi sì, ma poco liberi, dunque poco sviluppati: scarsa partecipazione democratica, ruolo marginale delle donne, accesso difficile a conoscenze e tecnologie. Il Rapporto Onu sullo sviluppo umano dei Paesi arabi - presentato ieri al Cairo - è un atto d'accusa ai governi della regione, che non hanno saputo trasformare l'abbondanza di risorse (il petrolio, in particolare) in «ricchezza umana». Condannando la popolazione a una sostanziale «povertà di capacità e di scelte». IL RAPPORTO - La prima novità è negli autori e nel metodo. L'Ufficio regionale per gli Stati arabi dell'Undp (il programma dell'Onu per lo sviluppo) e il Fondo arabo per lo sviluppo economico e sociale hanno affidato la ricerca a una trentina di studiosi arabi. Il risultato è stato uno «sguardo dall'interno», il ritratto complessivo dei 22 Paesi della Lega araba tracciato da esperti provenienti dalle stesse società analizzate. Quanto al metodo, l'attenzione degli studiosi si è concentrata soprattutto sulle condizioni di vita dei 280 milioni di abitanti della regione, in base all'idea che la crescita del Prodotto interno lordo non sia sufficiente a descrivere lo sviluppo di un Paese. In questo rapporto, in particolare, si è calcolato un Indice di sviluppo umano (Isu) «alternativo»: una sorta di misura della libertà umana, valutata sulle possibilità di scelta offerte alla popolazione e sull'accesso alle conoscenze necessarie per vagliare le scelte. DEFICIT DI LIBERTA' - Il «misuratore di libertà» ha dato risultati scoraggianti: il livello è il più basso del pianeta. «La partecipazione politica nel mondo arabo resta limitata», si legge nel rapporto, nonostante il miglioramento di alcuni standard (aumento dell'aspettativa di vita, riduzione della mortalità infantile): «Gli attori della società civile continuano a dover affrontare restrizioni che limitano la loro capacità di svolgere un ruolo efficace». I mezzi di comunicazione sono imbrigliati; gli intellettuali ostacolati, se non repressi, nelle loro attività; gli investimenti per la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico sono pari a un settimo della media mondiale; 65 milioni di adulti sono analfabeti; il numero delle connessioni a Internet è inferiore persino a quello dell'Africa subsahariana. Una mancanza di stimoli e possibilità che si riflette anche sulla cultura: ogni anno nel mondo arabo vengono tradotti 300 libri, un quinto rispetto alla sola Grecia. Per non parlare di Paesi come la Spagna, dove in un anno si traducono circa 100 mila libri: quanti ne sono stati tradotti in tutti i Paesi arabi negli ultimi mille anni. ESCLUSIONE DELLE DONNE - Il quadro peggiora se l'attenzione si sposta sulle donne. Una su due non sa leggere né scrivere. In tante non sopravvivono al parto: il tasso di mortalità tra le madri è il doppio rispetto a quello dell'America latina e il quadruplo di quello dell'Asia orientale. A poche è concesso di esercitare un'attività: il livello di partecipazione femminile alla forza lavoro è superiore solo ai Paesi dell'Africa subsahariana. Scarsa, in alcuni casi inesistente, la rappresentanza politica: le donne occupano solo il 3,5 per cento di tutti i seggi disponibili nei parlamenti della regione. «Purtroppo - si legge nel documento - il mondo arabo si sta privando della creatività e della produttività di metà dei suoi cittadini». SVILUPPO ECONOMICO - Il livello di «poverissimi» (chi vive con meno di un dollaro al giorno) è il più basso tra le regioni in via di sviluppo. E il reddito pro capite è tra i più elevati. Ma questi dati non devono trarre in inganno, avvertono gli studiosi. Esiste in effetti una base economica solida, fondata principalmente sul petrolio (che rappresenta il 70 per cento delle esportazioni della regione). Ma la ricchezza nazionale (il totale per i 22 Paesi è di 531,2 miliardi di dollari, la metà dell'Italia) è tutt'altro che ben distribuita: se si guarda all'incremento del reddito pro capite negli ultimi vent'anni, ancora una volta dietro al mondo arabo c'è solo l'Africa subsahariana. Una persona su cinque continua a sopravvivere con due dollari al giorno, la disoccupazione è intorno al 15 per cento, e metà dei giovani - più numerosi nel mondo arabo che in qualsiasi altra regione del pianeta - non vede nel proprio futuro altra possibilità che l'emigrazione. RESPONSABILITÀ POLITICHE - Per tutte queste cifre di povertà la responsabilità, sostengono gli studiosi, è in gran parte da attribuire alla gestione politica. Manca quello che il rapporto definisce un buon governo, che «promuova, favorisca e preservi il benessere umano, basato sull'espansione delle capacità, delle scelte e delle libertà». A ostacolare la crescita politica, dice il rapporto, contribuisce anche il conflitto israelo-palestinese che rappresenta «una causa e un pretesto per rinviare le trasformazioni democratiche». CONCLUSIONE - Gli studiosi chiudono il rapporto sostenendo che il mondo arabo ha bisogno di creare «un circolo virtuoso nel quale la crescita economica favorisca lo sviluppo umano e viceversa». Per farlo, dicono, è necessario che i leader politici ed economici comincino a interrogarsi sulle «povertà» che li circondano. (Gruppo Rimon, 06.07.02) NOTIZIE IN BREVE 8 luglio 2002
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