Notizie su Israele 119 - 21 agosto 2002


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In quel giorno, io avrò cura di distruggere tutte le nazioni che verranno contro Gerusalemme. Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo spirito di grazia e di supplicazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito.

(Zaccaria 12:9-10)



SE TUTTI I DISPERATI SI FACESSERO SALTARE IN ARIA


Quando (non) capire diventa giustificare

da un articolo di Shlomo Avineri,
professore di scienze politiche all'Universita' di Gerusalemme

Perche' soltanto tra i palestinesi la disperazione produce terrorismo?
    Cherie Blair, moglie del primo ministro britannico, non e' che una delle tante voci, piene di buone intenzioni ma moralmente ottuse, che esprimono di fatto molta "comprensione" per gli assassini suicidi palestinesi, sostenendo che a quei giovani senza speranze non resta altro da fare che farsi esplodere per compiere una carneficina di vite innocenti. Si tratta di persone (compresa praticamente l'intera élite politica del mondo arabo) che regolarmente esprimono condanna per le stragi, ma…
    Questo atteggiamento costituisce una bancarotta morale che deve essere condannata come tale. Certo, molti giovani palestinesi si sentono a un punto morto e molti di loro provano disperazione. Ma, e qui sta il punto, sono forse gli unici al mondo a sentirsi disperati? Non ci sono forse milioni, anzi centinaia di milioni di giovani in tutto il mondo che non vedono speranze economiche e sociali, per non parlare di un "orizzonte politico"? I campi profughi di Jenin e di Nablus sono forse gli unici posti al mondo dove poverta' e miseria regnano sovrane? E se giovani e meno giovani da tutte queste schiere di "dannati" iniziassero a farsi esplodere per disperazione nelle strade di Londra, Parigi, Roma o Berlino, forse che i ben intenzionati intellettuali occidentali esprimerebbero la stessa distorta comprensione, o addirittura indiretta apologia, della loro rabbia assassina?
    La memoria storica recente ricorda altri giovani che devono essersi sentiti molto disperati: chi puo' essersi sentito piu' disperato dei giovani ebrei subito dopo la Shoa' nazista? Eppure nessun giovane ebreo e' andato a massacrare bambini innocenti sugli autobus d'Europa nel secondo dopo-guerra perche' "si sentiva disperato". Ne' erano incoraggiati a farlo dai loro leader. Al contrario, quando vi furono dei casi isolati di singoli ebrei che cercarono di vendicarsi contro criminali di guerra tedeschi (attenzione: criminali di guerra, non civili innocenti), l'opinione pubblica ebraica gli diede addosso.
    Ne' risultano patrioti indiani o nazionalisti egiziani che andassero in giro a farsi esplodere nelle strade di Londra. E quando l'Irgun [movimento clandestino sionista sotto Mandato britannico] impicco' due sergenti britannici per vendicare l'impiccagione di due suoi membri ebrei, la maggioranza della comunita' ebraica nella Palestina Mandataria condanno' il gesto come uno spregevole omicidio. E il fatto non ebbe piu' a ripetersi.
    Certo, i giovani palestinesi possono sentirsi disperati. Ma forse che non hanno altra alternativa per trasformare la loro disperazione in una forza costruttiva anziche' in un culto fascistoide della morte? I giovani palestinesi, come fecero i giovani indiani o i giovani ebrei sotto dominio britannico, potrebbero adoperarsi per assistere la propria gente alleviandone le sofferenze, costruendo case per i profughi, offrendo aiuto volontario nelle scuole e negli ospedali. Questo e' quello che hanno fatto i greci di Cipro dopo l'invasione dell'isola da parte dei turchi, questo e' quello che ha fatto la gente di Bosnia e del Kosovo.
    Ci si potrebbe anche chiedere come mai nessuno di questi giovani palestinesi disperati ha pensato di mettere seriamente in discussione la catastrofica leadership di Yasser Arafat, quello che nel 2000 a Camp David manco' l'occasione storica di tornare dai negoziati con uno stato palestinese indipendente.
    Invece, per qualche strana ragione che politologi, storici e teologi non sanno spiegare, solo tra i giovani palestinesi (e tra gli egiziani e i sauditi relativamente benestanti che hanno compiuto i massacri dell'11 settembre) i sentimenti di frustrazione, rabbia e alienazione si trasformano nella volonta' di realizzare stragi di innocenti. Come mai? Qui si impone qualche seria analisi, anziche' rifugiarsi nelle chiacchiere, moralmente ottuse, sulla "disperazione che conduce al terrorismo". Chiunque lo faccia, che ne sia o meno consapevole, si rende complice degli assassini: "comprendere", in questo modo, significa giustificare.

(israele.net, 16.08.02 - dalla stampa israeliana)



IL PROBLEMA DEI PROFUGHI IN MEDIO ORIENTE


La base giuridica del ritorno dei palestinesi
   
di Johannes Gerloff
   
GERUSALEMME – La questione del futuro dei profughi palestinesi è uno dei grossi ostacoli sulla strada di una soluzione politica del conflitto arabo-israeliano. Gli arabi chiedono un diritto di ritorno nel territorio israeliano per tutti i profughi che hanno lasciato la loro patria dalla fondazione dello stato d'Israele. Dal punto di vista israeliano sarebbe un suicidio demografico, se milioni di arabi pieni di odio potessero ottenere uguali diritti nella democrazia ebraica. Nel settembre 2001 l'81,3 per cento o 5,24 milioni di abitanti in Israele erano ebrei. Nella guerra di liberazione israeliana nei mesi dopo il maggio 1948 divennero apolidi 580 mila arabi, secondo stime israeliane e dell'ONU. L'Olp parla di 914 mila persone strappate a quella terra. Molti di questi arabi persero la loro patria per l'appello dei loro leader, altri per paura delle forze di combattimento ebraiche, paura che fu alimentata consapevolmente dalla propaganda d'orrore araba. I beni persi dagli arabi solo in quella guerra, vengono calcolati dall'Anp in circa 25 miliardi di dollari. I profughi e i loro discendenti sarebbero 2,6 milioni secondo l'Anp, di cui ancora 866 mila nei  campi profughi dei territori, in Giordania, Siria e Libano.
    L'11 dicembre 1948 l'assemblea generale dell'Onu ha emesso la risoluzione 194. 35 stati votarono a favore, 15 contro e 8 si astennero. Tutti gli attuali componenti l'Unione europea e allora membri dell'Onu – Belgio, Danimarca, Francia, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Svezia e Regno Unito – si espressero a favore. La risoluzione chiede di far avvenire il più presto e praticamente possibile il ritorno nei profughi nella loro patria, profughi che vogliono vivere in pace coi loro vicini. Coloro che hanno perso le proprietà o non vogliono tornare, hanno diritto a un risarcimento dalle autorità responsabili.
    I trattati di Oslo hanno escluso la questione profughi. Nell'aprile 99 la commissione per i diritti umani Onu e i rappresentanti dell'Ue hanno chiesto di applicare la risoluzione che comporta anche l'internazionalizzazione di gran parte di Gerusalemme. Israele contesta la base giuridica della risoluzione 194, perché fu emessa dall'assemblea dell'Onu e non dal consiglio di sicurezza. Inoltre nel 1948 la Lega araba ha votato contro quella risoluzione, perché parlava di pace e riconciliazione. Una gran parte degli stati arabi contesta ancora oggi il diritto all'esistenza di Israele come stato ebraico in un oriente dominato dall'Islam. Secondo Israele, gli arabi vogliono vedere applicata solo una parte della risoluzione. Né – sottolinea Israele – nella risoluzione si vede un diritto al ritorno come lo intendono i palestinesi. I rappresentanti dei palestinesi affermano che Israele aveva ammesso le proprie responsabilità per la questione profughi durante i colloqui sul mar Rosso, a porte chiuse, in territorio egiziano nell'estate 2000. Il mediatore e architetto di Oslo, Jossi Beilin, contesta ciò. Il politico di sinistra e attivista di pace definisce il diritto al ritorno la "linea rossa" nel campo sionista. «Il problema dei profughi  - precisa – fu causato dagli enormi errori dei palestinesi che non accettarono il piano di divisione dell'Onu ma cercarono con più guerre di cancellare lo stato ebraico dalla cartina del Medio Oriente».
   
(Hamburger Abendblatt, 14.08.02, trad. Marilena Lualdi)

*     *     *

TESTO ORIGINALE DELLA RISOLUZIONE 194 (11 dicembre 1948)
   
In considerazione della sua associazione con tre religioni mondiali, l'area di Gerusalemme, inclusa la presente municipalità di Gerusalemme più i villaggi e le città attorno, a est fino a Abu Dis, a sud Betlemme, a ovest Ein Karim (inclusa l'area edificata di Motsa) e a nord Shu'fat, dovrebbe ricevere speciale e separato trattamento dal resto della Palestina ed essere tenuta sotto effettivo controllo dell'Onu.
    I rifugiati che vogliono tornare alle loro case e vivere in pace con i loro vicini dovrebbero poterlo fare nella data più vicina e praticabile, e ricevere compensazione per le proprietà perse o danneggiate coloro che non vogliono tornare. Tale risarcimento, sotto i principi di legge internazionale o in equità, dovrebbe essere effettuato dai governi o dalle autorità responsabili.
    La risoluzione indirizza la commissione conciliazione a facilitare il ritorno in patria, la sistemazione e l'assistenza sociale ed economica dei rifugiati, il pagamento di compensazione e a mantenere strette relazioni con il direttore dell'aiuto Onu ai rifugiati palestinesi e attraverso lui con gli organi e le agenzie appropriati dell'Onu.
   


ATROCITA' IN NOME DELL'ISLAM: SOLTANTO DEVIAZIONI?


Una battaglia contro la cultura dell'odio

da un articolo di Bat Yor

    All'alba del nuovo millennio il mondo si trova a fronteggiare una cultura dell'odio assoluto caratterizzata da accessi parossistici di terrorismo internazionale e da intolleranza religiosa.
    E' una cultura dell'odio che ha molte teste: dall'Algeria all'Afghanistan, dall'Indonesia a Gaza e Cisgiordania, da Damasco al Cairo, a Karthoum, a Teheran e Karachi. Semina terrorismo da una parte all'altra del pianeta: un odio che sopprime la liberta' di pensiero e condanna ogni differenza, si autodefinisce "jihad islamica" e attinge a testi religiosi che molti altri musulmani interpretano in modo completamente diverso. Ma proprio perche' non accettano questa interpretazione della jihad, i musulmani moderati che desiderano vivere in pace con i popoli e le nazioni non musulmane mettono a rischio la propria vita.
    Continua ininterrotto il bagno di sangue in Algeria. La jihad violenta semina morte e terrore in Israele. Nel Sudan meridionale ha gia' provocato la morte di quasi due milioni di persone, producendo un numero ancora piu' alto di profughi, riducendone altre decine di migliaia in schiavitu' e causando spaventose carestie. In Indonesia, la jihad violenta ha causato circa 200mila morti a Timor Est. I cristiani sono stati perseguitati e massacrati e le chiese bruciate dai militanti della jihad nelle Molucche e in altre isole indonesiane. Si contano piu' di 10mila morti in queste aggressioni, mentre altri 8.000 cristiani sono stati convertiti a forza all'islam. Altre atrocita' vengono commesse dai militanti della jihad nelle Filippine e in alcuni stati della Nigeria settentrionale. Centinaia di innocenti sono stati massacrati negli attentati della jihad al centro comunitario ebraico di Buenos Aires, in Argentina, e alle ambasciate americane in Kenya e Tanzania. In Egitto i militanti della jihad hanno massacrato cristiani copti nei loro villaggi e nelle loro chiese, e hanno assassinato gruppi di turisti. I cristiani in Pakistan e in Iran vivono nel terrore di essere accusati di "offesa all'islam", un "reato" che in quei paesi e' punito dalla legge con la pena di morte. Infine, il catastrofico attentato della jihad l'11 settembre 2001 a New York e a Washington ha fatto strage di quasi 3.000 civili innocenti di tante fedi e nazionalita' diverse.
    Di tutte le vittime fin qui elencate, neanche una era colpevole di alcun crimine. Sono tutte persone che sono state uccise o mutilate per puro odio.
    E' questo odio cio' contro cui Israele si trova a combattere. La battaglia che Israele combatte non e' contro il mondo islamico. E' una battaglia contro la furibonda cultura della jihad e dell'odio, per preservare la propria liberta'.

(israele.net, 19.08.02 - dalla stampa israeliana)



SONDAGGIO NEI TERRITORI DELL'AUTORITA' PALESTINESE


Pubblico sondaggio realizzato dall'Università di Birzeit, nell'Autorità Palestinese

Il 42% dei palestinesi vuole uno stato islamico

    I risultati di un sondaggio realizzato oggi nei teritori dell'Autorità Palestinese indicano l'importanza dell'Islam come punto di forza della società palestinese.E' significativo che i giovani siano più propensi a una visione islamica (e meno democratica) della società e sempre più giovani siano contro la partecipazione delle donne alle elezioni.
    Questo rivolgersi all'Islam e contro la democrazia da parte delle nuove generazioni si può spiegare col fatto che solo i più anziani fra i Palestinesi hanno avuto contatto per anni con Israele e con la sua democrazia, prima che gli accordi di Oslo sancissero l'esistenza all'Autorità Palestinese.
    E' interessante il contrasto fra le aspettative USA sulle riforme politiche e il punto di vista palestinese su queste ultime.

Sul totale degli intervistati:
L'81% non conosce il nome di neanche uno dei ministri per un nuovo governo.
Il 65% crede che accettare le riforme sia piegarsi alle pressioni americane e israeliane.
Il 60% intende votare per Arafat.
Il 42% dei palestinesi preferirebbe un regime democratico, in cui tutte le forze politiche siano rappresentate.
Il 42% preferisce un regime islamico con un solo partito

Fra le persone istruite:
60% preferisce un regime democratico.
31% preferisce un regime islamico.

Sui giovani:
I giovani sono quelli che maggiormente si oppongono alla partecipazione delle donne alle elezioni, e le loro preferenze tendono più verso tendenze religiose.

Sulla qualità della leadership:
Il carattere più importante per un nuovo leader palestinese è l'abilità di fronteggiare Israele, e il secondo è l'adesione all'Islam.

Sul boicottaggio degli aiuti americani e dei prodotti amaricani e israeliani:
Il 61% appoggia il boicottaggio delle agenzie finanziarie americane.
Il 62% boicotta i prodotti israeliani.
Il 63% boicotta i prodotti americani.

Sulla riforma in seno all'Autorità Palestinese:
Il 91% crede che gli USA vogliono le riforme dell'Autorità Palestinese per propri scopi politici.
Il 65% vede le riforme come una resa al volere degli

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Americani-Israeliani.
Il 26% ritiene che le riforme siano per il bene del popolo palestinese.
L'81% non conosce il nome di neanche uno dei ministri per un nuovo governo.

Sulle preferenze per le prossime elezioni:
Il 60% intende votare per Arafat.
Il 26% non voterà per Arafat.
Il 14% non ha ancora deciso.

(Al-Hayat Al-Jadida, 13.08.02 - da Federazione Associazioni Italia Israele)



UN ARABO ISRAELIANO LEALE VERSO IL SUO STATO


Da oltre 30 anni l'arabo israeliano Sachria Samara lavora nel Servizio civile di sorveglianza, un servizio volontario svolto da molti israeliani nelle grandi città e in piccole località in collaborazione con la polizia israeliana. In gruppi di due, i volontari pattugliano armati
    
Il Presidente Katzav consegna il premio a Samara
di notte le strade e si preoccupano della sicurezza della popolazione. Portano l'uniforme della polizia israeliana e svolgono il loro servizio una o due volte la settimana.
    A luglio il Presidente della Repubblica Moshe Katzav ha ringraziato pubblicamente 12 israeliani che servono volontariamente lo Stato d'Israele, e tra questi anche l'arabo israeliano Samara, del paese di Tira, nel nord di Israele. Cinque anni fa Samara è stato preso a fucilate da un terrorista palestinese durante il suo turno di guardia, riportando ferite che l'hanno fatto restare in pericolo di vita. Il terrorista aveva cercato di rubare l'arma di Samara.
    Dopo un lungo soggiorno in ospedale e dopo essersi completamente rimesso, Samara ha costituito un Servizio civile di sorveglianza nel suo villaggio arabo di Tira. "Samara è un buon esempio di collaborazione tra ebrei e arabi", ha detto il Presidente della Repubblica israeliano, elogiando la fedeltà, l'impegno e il coraggio di Samara.
    Sachria Samara è uno dei molti arabi che sono fedeli cittadini di Israele e sostengono lo Stato per quel che riguarda la sicurezza contro gli attacchi terroristici palestinesi.

(da "NAI - Israel heute", agosto 2002)



UN CASO DI AUTOCRITICA ARABA


L'ex Primo Ministro libico Abd Al-Hamid Al-Bakkoush ha pubblicato un articolo sul quotidiano arabo-londinese Al-Hayat dal titolo:


"Non è venuto il tempo di finirla con il nascondere i difetti?"

Ecco alcuni estratti dell'articolo :   

 
Gli arabi ignorano i loro difetti e ne fanno virtù

    "Si dice che il cammello non può vedere la sua gobba. Forse ciò può descrivere la nostra condotta. Ma, mentre il cammello non può vedere, noi ... non vogliamo vedere...".
    "Chiunque segua le vicende in cui siamo impegnati e di cui scriviamo o parliamo in questa epoca, scoprirà facilmente che nascondiamo i nostri difetti culturali, politici ed economici. Qualunque osservatore discernerà i nostri grandi sforzi di ignorare i nostri difetti e di presentarli come virtù".
    "Noi non approviamo di tener nascosto qualsiasi difetto, né per il passato né per il presente. Per quanto riguarda il nostro futuro, beh, è una campagna di traguardi e trionfi che non possono essere descritti o enumerati".
    "Se per caso noi ammettiamo qualche difetto, è l'eccezione che conferma la regola:  [la regola] secondo la quale noi non abbiamo difetti. Ad ogni critica ci afferra il panico. Siamo furiosi nei confronti di chiunque ci ricordi i nostri limiti... e ci comportiamo come se fossimo uno splendido indumento, brillante nel suo candore, reso brutto solo per il fango scagliatoci dai nostri avversari, che odiano la nostra identità nazionale e raccontano menzogne sulle nostre religioni".


Gli arabi addossano tutti i problemi alle cospirazioni degli Stati Uniti

    "Guardiamo come l'Occidente e il suo leader, l'America, cospira contro di noi e con l'obiettivo di rovinare le meravigliose relazioni tra i vari paesi arabi. Guardiamo quante volte che un arabo afferra un altro per la gola noi lo attribuiamo a schemi stranieri. L'invasione del Kuwait da parte dell'Irak non è stato forse un complotto eseguito dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Bagdad...?".
    "Noi ignoriamo – come se solo noi non conoscessimo la verità - che abbiamo una tale quantità di dannosi capricci e ambizioni che nessuno potrebbe averli seminati nei nostri animi. Continuiamo a fare errori e poi ci comportiamo come uno che nasconde le intenzioni [che vi sono dietro] , e cancella ciò che è chiaro per tutti".
    "Da tempo siamo alle prese con la questione palestinese. Sebbene le nostre sconfitte ad opera degli ebrei siano venute in serie, una dopo l'altra, nessun osservatore potrebbe sentirci una singola ammissione di sconfitta, come se avessimo noi rastrellato vittorie sui sionisti dal 1948".
    "Sì, abbiamo fatto crollare troni arabi che non ci piacevano e istituito diversi generi di repubbliche, persino il genere che viene ereditato [cioè il regime di Assad in Siria].  Abbiamo anche nazionalizzato la proprietà e il capitale e fondato partiti rivoluzionari e socialisti. Abbiamo eliminato agenti e stranieri e non abbiamo mai cessato di fare discorsi, cantare canzoni e organizzare dimostrazioni. Non sono, questi, tutti successi e vittorie?".

  
Gli arabi non prendono seriamente né la guerra né la pace

    "Finora, non abbiamo riconosciuto di non aver affrontato seriamente l'eterno problema palestinese; perciò, possiamo essere visti battere i tamburi di guerra e gridare a squarciagola per minacciare [il nemico] mentre [in realtà] non pensiamo alla guerra e non ci prepariamo a intraprenderla. Inoltre, anche dopo che avevamo dichiarato che la pace è la nostra opzione finale, i segni della nostra mancanza di serietà sono ancora evidenti in noi; perciò, non facciamo niente per ottenere la pace. Sogniamo di ottenere quello che ottengono i vincitori quando  si siedono al tavolo dei negoziati; ignoriamo ancora con evidente ingenuità che, nell'analisi finale, chi sia incapace di guerra durevole ottiene la parte del perdente nelle trattative".
    "Questa mancanza di serietà domina anche la nostra visione sul rapporto futuro tra noi e lo stato degli ebrei. Vediamo quelli che appoggiano  [la teoria del] conflitto di civiltà - quelli che parlano [del conflitto] come una questione di sopravvivenza, non di confini - afferrarsi l'un l'altro per la gola e parlare con eccitazione. Alcuni parlano dell'istituzione di uno stato arabo unito, trascurando [ il fatto che] la disgregazione è una condizione mentale, non una condizione dipendente da confini. Ignoriamo anche [il fatto che] l'istituzione di un grande stato arabo, nella nostra attuale situazione, non sarà nient'altro che l'istituzione di un impero, di fronte alla cui violenza la crudeltà degli ebrei impallidirà".
   

L'arretratezza dei musulmani

    "Altri tra noi ignorano anche i fatti della nostra epoca. Essi non vanno avanti, ma indietro, e sognano lo stato musulmano che fu. Secondo loro, è sufficiente essere timorosi di Dio – verso il quale non siamo sufficientemente seri - per far sì che Allah organizzi la vittoria per noi in tutte le nostre battaglie con i nostri nemici…".
    "Oh, come avremmo desiderato che i nostri difetti iniziassero e finissero con la mancanza di serietà e mettere le conseguenze dei nostri fallimenti sulle spalle degli altri. Ma le cose non vanno come potremmo desiderare. L'assenza della virtù della modestia e la perdita del tratto di  apertura mentale sono due esempi dei molti difetti, che sono troppo numerosi per enumerarli in questo articolo".
   

Gli arabi sono fuori della cerchia del progresso

    " Noi ignoriamo [il fatto che ] siamo fuori della cerchia dei progressisti in questa epoca. Stiamo facendo sforzi per nascondere questo limite, vantandoci della nostra abilità di consumare i successi [dell'Occidente], o attribuendo questi successi alla nostra civiltà 'spirituale', [mentre, in realtà] l'eredità [della nostra civiltà] non è più grande delle memorie su cui competiamo tra noi stessi nel parlarne. Noi ci immaginiamo superiori alla cultura dell'Occidente; in momenti di modestia, dichiariamo [solo] di rifiutare di apprendere dalla cultura occidentale ".
    "Benché acconsentiamo a consumare i suoi successi, continuiamo a chiamarlo con i nomi che più detestiamo e siamo felici che questo ci permetta di nascondere l'arretratezza di cui soffriamo. Chi consuma successi non è come chi li ottiene …!? Non ci manca l'audacia di affermare che siamo stati noi a insegnare a loro [all'Occidente]; non esitiamo ad esibire i nostri sforzi per la salvezza della loro cultura 'materiale' dalla perdizione…".
    "Non somigliamo forse a portatori di un messaggio di progresso che l'hanno perso [lungo il cammino], ma lo negano?".

(MEMRI, n. 409, 08.08.02)  



CONSIDERAZIONI DI UN ISRAELIANO


Anche noi siamo persone, sapete!

di Moshe Sheskin

Qualche anno fa, durante il mio periodo di richiamo come riservista nell'esercito d'Israele,  fui inviato a uno dei ponti sul  Giordano. La mia unità aveva il compito di controllare i viaggiatori provenienti dal Giordano prima che entrassero nei territori contesi per impedire che entrasse merce di contrabbando, soprattutto detonatori. Il nostro capitano ci disse: "Ricordatevi che se per la vostra negligenza passa una bomba, questo può anche significare la  perdita di vostra moglie e dei vostri figli". Le sue dichiarazioni ebbero un effetto istantaneo su di noi e sebbene in agosto la temperatura nella valle del Giordano si aggira intorno ai 50 gradi e nuvoli di mosche aggravavano il nostro disagio, controllavamo meticolosamente tutti i viaggiatori, il loro bagagli, i loro documenti, i loro effetti personali e anche il loro corpo, se necessario.
    Una volta, mentre stavamo svolgendo il nostro servizio, una giovane signora mi gridò: "Anche noi siamo persone, sa!" La sua rabbia e il suo sconforto erano ostentati, ma le sue parole mi colpirono, tanto che per diversi anni, durante il mio periodo più liberale, non riuscii a liberarmi di quel grido. La frustrazione e l'angoscia di quella donna continuavano ad echeggiare nella mia sensibilità. La pace era necessaria, ed ero convinto che era nel campo delle possibilità, almeno nei prossimi anni...
    Ero fermamente convinto che nelle relazioni con i nostri cugini arabi avremmo raggiunto un punto in cui noi non avremmo più controllato il loro destino, ma avremmo potuto vivere fianco a fianco, come due popoli separati che condividono lo stesso paese e la stessa storia. Sentivo che gli accordi raggiunti con l'Autorità Palestinese attraverso Arafat avrebbero alla fine portato frutto, perché avevamo un vero partner per la pace.
    Il grido di quella giovane donna svanì nel nulla nell'ottobre del 2000, quando due dei nostri soldati che avevano sbagliato strada furono brutalmente linciati. L'esultanza della folla e di quelli che avevano perpetrato quel sadico atto si sono incisi in modo indelebile nella mia mente.
    L'intifada era dunque cominciata e con essa è cambiato il mio atteggiamento. Non ho più sentito la giovane donna che gridava: "Anche noi siamo persone!". Lentamente, ma in modo definitivo, dopo molti mesi di crescenti conflitti e con l'aumento di perdite umane nella popolazione civile, il mio modo di pensare liberale e socialista è stato sostituito da un atteggiamento decisamente più duro. Non credo più alla capacità di Arafat di fare la pace. Non credo più nell'impegno di Arafat per la pace, come il suo rifiuto di onorare gli impegni firmati ha chiaramente dimostrato. La retorica di Arafat dimostra soltanto, una volta di più, che il suo obiettivo non è soltanto quello di uno Stato Palestinese, ma la totale distruzione di Israele.
    Ho perso la fiducia negli arabi israeliani, la maggior parte dei quali non solo ha approvato l'intifada, ma l'ha anche sostenuta in diversi modi. Questo risulta da numerosi articoli e sondaggi fatti negli ultimi anni. Come cittadini di Israele, mi aspettavo da loro un certo grado di lealtà, pur comprendendo i loro sentimenti e la loro frustrazione per i problemi che adesso abbiamo con i loro simili. L'azione dei membri arabi della Knesset mi ha fatto capire che tra di noi abbiamo una "quinta colonna".
    Sì, adesso è il mio turno di dire: "Anche noi siamo persone, sapete!"
  • Noi non educhiamo i nostri figli all'odio.
  • Noi non esultiamo per la morte di civili innocenti.
  • Noi non spariamo in aria per festeggiare la morte di un arabo.
  • Noi non marciamo per le strade per celebrare i massacri.
  • Noi non abbiamo il sostegno delle Nazioni Unite con una maggioranza araba.
  • Noi non abbiamo il sostegno degli europei e dei loro atteggiamenti antisemiti.
  • Noi non usiamo persone con delle bombe addosso per andare a suicidarsi e a uccidere persone innocenti.
    Quello che abbiamo è la volontà di sopravvivere e di vivere in pace.
    Quello che vogliamo è prendere il nostro posto in Medio Oriente come partner riconosciuti e per il bene di tutti.
    Quello che vogliamo è una regione dove le condizioni sociali ed economiche garantiscano giustizia per ogni individuo.
    Quando accadrà tutto questo? Quando gli arabi cominceranno a vivere in pace con gli altri e a riconoscere i diritti della persona. Fino a quel momento non abbiamo altra scelta che difenderci e restare forti, non solo contro i nostri immediati vicini, ma, se necessario, contro tutto il mondo.

ANCHE NOI SIAMO PERSONE, SAPETE!

(Bridges for Peace, 16.08.02)


INDIRIZZI INTERNET


Missile Proliferation in the Middle East