Notizie su Israele 134 - 31 ottobre 2002


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Sulle tue mura, Gerusalemme, io ho posto delle sentinelle; non taceranno mai, né giorno né notte. Voi che destate il ricordo del SIGNORE, non abbiate riposo, non date riposo a lui, finché egli non abbia ristabilito Gerusalemme, finché non abbia fatto di lei la lode di tutta la terra.

(Isaia 62.6-7)


UN ESEMPIO DI RIUSCITA INTEGRAZIONE IN ISRAELE


I "veterani" dello Yemen della cittadina di Bnei Aysh e i "nuovi venuti" dall'ex-Unione Sovietica riescono ad amalgamarsi. La vita degli abitanti di Bnei Ayish è cambiata 12 anni fa. Contro ogni previsione, sono riusciti a mantenere l'armonia fra i vecchi abitanti ed i nuovi immigrati. Un po' di russo ed un po' di yemenita: una storia d'amore.

di Daniel Ben Simon

    Nella comunità urbana di Bnei Ayish, la vita in comune fra i vecchi abitanti ed i nuovi venuti è la storia di un successo. Non esiste nessun'altra collettività urbana in Israele, la cui popolazione originale abbia sostenuto un cambiamento così drastico. Non esiste nessun'altra comunità in Israele, in cui i nuovi immigrati abbiano impresso un segno così marcato in appena 10 anni. Non esiste nemmeno un'altra città, i cui abitanti siano aumentati di cinque volte tanto in un così breve periodo: da 1.400 a circa 7.200 abitanti.
    In maniera del tutto stupefacente, le due parti hanno superato il loro impulsi, tenendo a distanza dissensi e divisioni. Non che ne mancassero i motivi o le occasioni. A parte la separazione geografica esistente fra il quartiere dei "veterani" e quello dei nuovi immigrati, la vita, in questa piccola comunità situata fra Gedera e Gan Yavneh (nel centro di Israele), procede normalmente. Molti dei vecchi abitanti sono convinti che Bnei Ayish abbia ripreso a vivere il giorno in cui sono arrivati gli immigranti. Sharon Flood, che dirige il locale ufficio postale, è uno di loro. Ha 28 anni; la sua famiglia immigrò dall'Iran, insediandosi nella bidonville eretta sul posto, sulle rovine di due basi militari inglesi. Bnei Ayish, i cui nome deriva dalle iniziali di Akiva Yosef Schlesinger, un rabbino che lavorò alla bonifica dei terreni, ospitava in quel periodo un pugno di famiglie immigrate dal Marocco, Iran ed Irak. A costoro fu asseganto un piccolo lotto di terreno e gli uomini furono mandati a lavorare nelle collettività agricole circostanti. Alcuni anni dopo, ad essi si aggiunsero centinaia di famiglie provenienti dallo Yemen, che portarono in contributo alla comunità le loro tradizioni culturali e la loro fede religiosa.
    Flood ricorda che le cose erano giunte ad un punto morto, prima dall'arrivo dell'ultima ondata di immigranti nella cittadina. Non c'erano quasi posti di lavoro. La gente passava un mucchio di tempo alla sinagoga, mentre i giovani ciondolavano senza aver nulla da fare. Nel 1990, la vita è cambiata per gli abitanti di Bnei Ayish. "Sono arrivati i russi ed hanno portato la rivoluzione", aggiunge entusiasticamente Flood, uscendo dall'ufficio postale ed allargando le braccia in varie direzioni, per indicare il cambiamenti. "La città si è molto sviluppata – dice – Prima che arrivassero i russi, non c'era un centro commerciale. Ora abbiamo un supermarket, una pasticceria, dei chioschi, dei bei negozi, dei negozi di abbigliamento ed un'agenzia di assicurazioni. Che cosa c'era prima? Niente. Ci trovavi yemeniti, persiani e due drogherie. Così era. Eravamo un villaggio ed oggi siamo una città. Di tutto questo siamo debitori agli immigranti. Prima che arrivassero, dovevo andare a Rehovot o a Gedera per comperare le medicine ai miei genitori. Oggi, abbiamo una farmacia".
    Nel corso degli anni, Flood ha imparato a conoscere il modo di vivere degli immigrati russi. Ha capito che il piccolo ufficio postale doveva essere ampliato, per venire incontro alla quantità di persone che facevano uso dei suoi servizi. Ha assunto due impiegati che parlano il russo, assegnandoli al servizio dei nuovi venuti. "Si tratta di gente istruita – soggiunge con piglio autorevole – ho fatto caso che molti di loro sanno l'inglese. Tutti usano i servizi postali internazionali, per mandare soldi e pacchi ai parenti rimasti laggiù. Gli yemeniti non hanno bisogno di mandare pacchi; non mandano nemmeno lettere. La cosa più buffa è la fila. Gli yemeniti non hanno pazienza e cominciano subito a strillare agli impiegati. I russi se ne stanno tranquilli in coda e non fiatano. Non bisogna dimenticare che si sono abituati dalla Russia; possono aspettare per delle ore che l'ufficio postale apra, per potere pagare il conto della luce".
    Flood è convinto che questo abbia un'influenza sulla mentalità della maggior parte dei vecchi abitanti: "Tutta la nostra vita è cambiata, in meglio – spiega – Quando un posto si espande, ci sono più posti di lavoro. Persino le due drogherie hanno dovuto assumere nuovo personale".


La cartina al tornasole
Era evidente a tutti, sia in città che fuori, che la prova più difficile che questo miscuglio di popolazioni avrebbe dovuto affrontare, sarebbe stata quella politica. Si temeva che i nuovi venuti si sarebbero impadroniti della città, in virtù della loro superiorità numerica. In questo caso, i veterani si sarebbero sentiti derubati dei loro legittimi diritti.
    La campagna per l'elezione del sindaco, tenutasi quattro anni fa, si aprì su toni dissonanti. Politicanti sfrenati infiammarono le passioni e vi fu l'intervento di volontari del partito Israel be'Alià [ il partito guidato da Sharansky]. Il principale candidato russo, Gregory Lifshitz, si rivolgeva ai suoi sostenitori nella loro lingua madre, incoraggiandoli "ad eleggere uno di noi".Contemporaneamente, altre cittadine del circondario seguivano da vicino gli avvenimenti a Bnei Ayish. Anche esse avevano accolto immigrati dall'ex-Unione Sovietica, che, in certi casi, costituivano il 40% della popolazione. Anch'esse temevano che gli immigrati avrebbero causato un ribaltone politico e conquistato il potere. "Ho accolto gli immigranti dalla Russia ed ho fatto di tutto affinché si sentissere a casa – soleva dire Gaby Laloush, il sindaco di Dimona – ma ho la sensazione che alla prima occasione mi sbatteranno fuori e metteranno un russo nell'ufficio del sindaco. E se non sarà adesso, sarà per la prossima volta".
    Quattro candidati si presentarono alle elezioni del sindaco di Bnei Ayish: due nuovi immigrati contro due veterani. Il partito Israel be'Alià già festeggiava la vittoria di Gregory Lifshitz. "La campagna elettorale fu estremamente tesa – dice Meir Dahan, segretario del Consiglio Locale – si trattava di una lotta all'ultimo sangue per il potere, fra Shass [ultra-ortodossi sefarditi] e Israel be'Alià. I media avevano invaso il posto, perché tutti sapevano che Bnei Ayish era la prima città del paese in cui stava per essere eletto sindaco un nuovo immigrato".
    I candidati promisero di salvaguardare gl interessi del loro elettorato. Shass corteggiava la comunità sefardita, Israel be'Alià faceva lo stesso con i russi. Proprio a quel punto, un altro immigrato, Mark Bassin, si fece largo e vinse le elezioni – contro tutte le previsioni. La sua elezione aveva salvato Bnei Ayish dallo sconquasso di un confronto diretto. Il quarantatreenne ingegnere, impiegato delle Industrie Militari, si era candidato solo poche settimane prima delle elezioni. Cinque anni prima aveva lasciato l'insediamento di Ofarim, nella Samaria, e si era traferito a Bnei Ayish con la moglie ed i figli. Gli abitanti capirono che avrebbe potuto fungere da ponte fra i veterani ed i nuovi venuti. Era immigrato da Tbilisi (Georgia Sovietica) nei primi anni settanta ed era completamente integrato nella società israeliana. Persino il suo ebraico era accettabile. Fu eletto al primo girone.
    "Se non mi fossi candidato – racconta questa settimana nel suo piccolo ufficio – avrebbe vinto Gregory Lifshitz. Tutta la sua campagna pubblicitaria si era svolta in russo; parlava solo in russo e solo ai russi. Credo che gli elettori preferissero un messaggio di unità. Io parlavo in nome di tutti gli abitanti. Gli altri parlavano in nome dei loro gruppi ed hanno perso".


Azioni per creare la fiducia
Non fu facile mitigare i sospetti di due gruppi di abitanti, che vivono così vicino, mentre solo la strada principale li separa. Appena spentosi l'eco delle elezioni, i russi e gli yemeniti cominciarono seriamente a lavorare al ravvicinamento. Furono scambiate idee su diverse attività destinate a promuovere l'amicizia: i genitori dei bambini nati lo stesso anno furono invitati ad una festa ed a una foto di gruppo. Alla festa fu suonata musica israeliana, russa e yemenita. Si formò un coro comunale, a cui fu dato il nome di "Un po' di russo, un po' di yemenita", che aveva in repertorio anche danze popolari russe e yemenite. "Durante la prima prova, mi sono accorto che gli yemeniti e i russi rimanevano separati – dice Bassin – a poco a poco, si è rotto il ghiaccio. Quando si balla, bisogna darsi la mano, così il gruppo cominciò a ballare e a cantare – e oggi sono tutti come un'unica grande famiglia".
    Nella città ci sono due scuole: una è una scuola statale religiosa, frequentata dai figli delle "vecchie" famiglie. I ragazzi immigrati frequentano la scuola statale laica. Per avvicinare i due gruppi, i direttori delle due scuole hanno deciso di tenere dei raduni durante le Giornate dello Sport e quelle dell'Ecologia. In questo modo, gli allievi con la kippà possono incontrare i loro coetanei laici che vivono dall'altro lato della strada.
    Allo stesso scopo, pochi mesi fa è stato conferito il titolo di "Yakir [benemerito di] Bnei Ayish" a tre abitanti veterani ed a due nuovi immmigrati. Alla cerimonia di gala, alla quale sono state invitate centinaia di persone, i premiati sono stati invitati a salire sul palco. Il primo è stato Yeshayah Vade'i, originario di Sa'ana, nello Yemen; poi sono stati chiamati David Shuker e David Zechariah, nativi dell'Arabia Saudita. Tutti e tre sono fra i fondatori della città. Sono stati seguiti da Yevgeny Barod (Mosca) e Valyovov Gorski (Ucraina). I cinque sono rimasti a lungo sul palco, oggetto di una poderosa ovazione da parte del pubblico.
    Quando pensa a se stesso ed ai suoi compagni di immigrazione, Bassin è convinto che il loro inserimento sia stato un successo. Ricorda gli anni dell'immigrazione di massa dall'ex-Unione Sovietica, quando in centinaia di migliaia hanno bussato alle porte di Israele, per essere poi mandati a vivere in comunità di frontiera.
    Molti degli immigrati che si sono stabiliti a Bnei Ayish sono venuti perché avevano sentito parlare di una cittadina piccola ed intima, situata nel centro di Israele e che offriva alloggi ad un prezzo ragionevole. I primi arrivati hanno poi sparso la voce, provocando l'arrivo sul posto di altre migliaia.
    Bassin rammenta che la prima volta che si recò nel quartiere degli immigrati, vi trovò una confusione totale. "Le costruzioni procedevano ad un ritmo pazzesco – dice – Vi era un terribile sovraffollamento, perché diverse famiglie vivevano nello stesso appartamento. L'obiettivo pricipale era di dare un tetto agli immigrati e la progettazione del quartiere non era particolarmente ben riuscita. Non vi era una mano che guidasse la cosa, e gli imprenditori avevano venduto ai russi il sogno israeliano di una casetta con un pezzetto di terra. Gli immigrati non sapevano nulla di Bnei Ayish, avevano comperato la casa sulla carta, come avevo fatto io".
    Si tratta delle tipica mancanza di pianificazione degli israeliani, con cui è stata affrontata l'immigrazione di massa dall'ex-Unione Sovietica. Nel caso di Bnei Ayish, tutto si è risolto per il meglio. Un incontro fra veterani e nuovi arrivati, che fosse capitato nel mezzo di questa confusione di pianificazione, avrebbe potuto essere problematico. In questi primi anni, c'erano pochissimi contatti fra i due gruppi di abitanti, e ciascuno rimaneva chiuso all'interno delle propria comunità. "Ero uno dei pochi che parlasse le due lingue – racconta Basin – Nessuno sapeva come si vivesse in questo paese e la gente veniva da me, chiedendomi aiuto. Mi sono trovato a scrivere lettere per loro conto, a tradurre lettere per loro ed a rivolgermi a nome loro alle autorità competenti. Avevo la casa piena di gente ogni sera".
    La conoscenza dell'ebraico lo ha aiutato a vincere le elezioni. Bassin è stato considerato dai nuovi immigrati un semi-israeliano, radicato nella cultura russa. "C'era molta insoddisfazione riguardo la leadership presentata dai veterani – racconta – Percepivano che il governo era in effetti un'oligarchia, che serviva soprattutto gli interessi degli yemeniti. I nuovi immigrati si sono presentati alle elezioni, per essere in grado di far sentire la propria influenza. Se la politica si mantiene pulita, l'integrazione avrà successo - non solo qui, ma anche nelle altre città. Non si deve permettere agli organismi politici di interferire nel processo di avvicinamento fra nuovi arrivati e veterani. Gli immigranti non vogliono rimanere un corpo estraneo all'interno dello Stato d'Israele. Essi vogliono che l'etichetta di "nuovo immigrato" scompaia quanto prima possibile".


Unificazione russo-yemenita
Tsippora Shuker sa di che cosa sta parlando. Anche oltre i confini di Bnei Aiysh si sa benissimo che una giovane immigrata dalla Russia ed il figlio di un veterano si sono incontrati, si sono innamorati ed alla fine si sono sposati. Tutto ciò è successo sei anni fa. Gli altri immigrati non le hanno creduto, quando Oxana Berishev ha raccontato di avere un ragazzo yemenita. Nemmeno gli amici di Eitan Venerni credevano alle loro orecchie.
    Niente del genere era mai accaduto a Bnei Ayish. Si sono sposati al suono di ritmi yemeniti e marce russe. Hanno tre bambini. Oxana è impiegata all'ufficio postale e Eitan è proprietario di un'officina di riparazioni per jeep e motorette. Il cibo è diventato il grosso problema. La famiglia di Eitan non era molto disposta a toccare i cibi russi. "All'inizio è stato difficile – ammette Oxana, 28 anni, immigrata con i genitori dalla Russia nel 1990 – la mentalità è differente. Noi non siamo religiosi, viaggiamo di Shabbat e mangiamo persino in modo totalmente diverso". Eitan si dice d'accordo: "Oxana può mangiare alla yemenita, ma io, in nessun modo, riesco a mangiare alla russa".
    Con il tempo, Oxana ha imparato a preparare lo jachnun e la minestra alla yemenita. Ha persino imparato a cucinare i pasti prima dell'inizio di Shabbat. Sono sposati da sei anni e sono considerati uno dei grandi successi di Bnei Ayish. "Noi siamo stati i primi  –  dice Oxana –  ma dopo il nostro matrimonio, ci sono state un sacco di ragazze russe che sono uscite con dei ragazzi yemeniti".
    "I russi hanno aggiunto varietà alla nostra vita – afferma Eitan – hanno aggiunto un colore più allegro alla nostra vita. Vado d'accordo con i suoi genitori, anche se hanno delle strane usanze. Vogliono che telefoniamo prima di andarli a trovare. Noi yemeniti ci comportiamo diversamente. La casa è aperta 24 ore su 24 e puoi venire quando ti pare. Si trova sempre da mangiare".
    Poco tempo fa, Eitan si è accorto che ai suoi figli piacciono i piatti preparati dalla nonna russa. Ha capito allora – dice - che i tempi sono cambiati.

(Keren Hayesod, 24.10.02 - da un articolo di Ha-aretz)



UN'ALTRA CONDANNA A MORTE PER COLLABORAZIONISMO


Lunedì [28 ottobre] un'altra persona si e' aggiunta al braccio della morte dell'Autorita' Palestinese, quando una corte di Gaza ha condannato Haidar Ghanem, un attivista per i diritti umani e giornalista, a morte tramite fucilazione, dopo averlo trovato colpevole di "collaborazione con Israele".
    Dopo soltanto due udienze la corte di sicurezza palestinese ha condannato a morte Ghanem, un ricercatore sul campo per B'tselem [organizzazione pacifista israeliana], residente a Rafah. Secondo la corte avrebbe aiutato Israele ad uccidere quattro attivisti di Fatah a Rafah.
    Ghanem si e' dichiarato colpevole di collaborazionismo, ma ha negato il coinvolgimento negli omicidi. È il quarto palestinese ad essere condannato a morte nelle ultime settimane. La sentenza non può essere eseguita, finche' non sara' autorizzata dal presidente dell'Autorita' Palestinese Yasser Arafat.
    Il procuratore Wael Zakut ha detto alla corte che Ghanem era stato reclutato come informatore nel 1996. Ha detto che gli era stato affidato il compito di seguire il movimento dei membri di Fatah Jamal Abdel Razek, Awni Dahir, Sami Abu Laban, e Nael Liddawi in cambio di una somma di denaro non meglio specificata.
    Il procuratore ha sostenuto che l'IDF li ha uccisi 15 minuti dopo che Ghanem aveva informato lo Shin Bet su dove si trovava la loro macchina. Un'unità in borghese dell'IDF avrebbe poi intercettato la macchina e ucciso tutti e quattro, ha aggiunto.
    Ghanem e' stato arrestato nel luglio scorso dai Servizi di Sicurezza Preventiva con l'accusa di collaborazionismo con Israele.
    Trentanovenne, padre di due figli, aveva lavorato come ricercatore per B'tselem fin dal settembre del 2001.
    Un agente dei Servizi di Sicurezza Preventiva coinvolto negli interrogatori di Ghanem ha detto ai tre giudici che l'accusato aveva aperto un ufficio stampa a Rafah che forniva informazioni allo Shin Bet. Aveva anche intervistato per lo Shin Bet il leader e fondatore di

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Hamas, lo sceicco Ahmed Yassin e l'ex capo dei Servizi di Sicurezza Preventiva Dahlan, secondo l'accusa del testimone. Ghanem era pagato mensilmente per i suoi "servizi stampa".
    L'agente dei Servizi di Sicurezza Preventiva ha anche sostenuto che Ghanem avrebbe fornito ad Israele dettagliati rapporti sui movimento del personale di sicurezza dell'Autorita' Palestinese e i nomi dei palestinesi coinvolti in attacchi terroristici. Fra le altre cose, Ghanem avrebbe preparato rapporti sulle opinioni prevalenti a Gaza, sull'importanza dell'Autorita' Palestinese e avrebbe fornito dettagli sui salari dei suoi impiegati.
    L'agente ha detto alla corte che lo Shin Bet avrebbe dato a Ghanem il permesso di lavorare come ricercatore per B'tselem per facilitare la sua missione e fornirgli la copertura per le sue attività spionistiche.
    Ghanem ha detto alla corte che egli aveva confessato volontariamente perche' finora aveva sperato di poter fare il doppio gioco. Ha ammesso di aver fatto da informatore, ma ha detto di non aver spiato il movimento dei ricercati di Fatah con lo scopo di ucciderli.
    C'e' stato un applauso fragoroso nel tribunale quando il presidente della corte ha letto la sentenza.
    Un rappresentante di B'tselem che lo aveva incontrato poco prima del suo arresto ha riferito che Ghanem gli aveva detto che sarebbe stato arrestato per via del suo lavoro per B'tselem. Aveva raccolto testimonianze di palestinesi della zona di Rafah.
    Fonti di B'tselem hanno detto al "Jerusalem Post" lunedì sera che l'Autorita' Palestinese non era contenta del lavoro di Ghanem perche' "aveva cominciato a fare troppe domande che imbarazzavano gli agenti dell'Autorita' Palestinese".
    In una dichiarazione emanata dall'organizzazione pochi giorni dopo l'arresto si poteva leggere: "B'tselem e' molto preoccupata che Ghanem sia stato arrestato per via del suo lavoro con l'organizzazione. B'tselem teme anche che lo scopo del suo arresto sia impedire agli attivisti per i diritti umani di svolgere il loro lavoro onestamente e con l'intenzione di scoprire la verità. B'tselem teme che sia stata usata la tortura negli interrogatori di Ghanem".
    B'tselem aveva rifiutato decisamente qualsiasi accusa di collaborazionismo contro Ghanem e pretendeva che l'Autorita' Palestinese provasse le sue accuse con prove che fossero all'altezza degli standard legali internazionalmente accettati.
    L'organizzazione ha sottolineato che i palestinesi accusati di collaborazionismo vengono spesso condannati a morte da corti di sicurezza in processi farsa che violano i principi fondamentali di procedura penale.

(Amici di Israele, 30.10.02 - dalla stampa israeliana)



BOICOTTAGGIO UNIVERSITARIO CONTRO ISRAELE


Un editore britannico rifiuta di vendere libri all'Università Bar Ilan di Tel Aviv

di Katy Bisraor

La casa editrice britannica St Jerome Publishing ha annunciato all'università israeliana Bar Ilan che smetterà di vendere libri a tutte le biblioteche e dipartimenti dell'università a causa della politica del governo israeliano nei Territori palestinesi.
    Con sede a Manchester, la casa editrice St Jerome Publishing, che pubblica libri universitari in tutti i campi delle scienze umane e delle scienze esatte, gode di una reputazione mondiale e nel passato ha venduto numerose opere alle università israeliane.
     
L'Università israeliana Bar-Hilan
Bar Ilan, situata nelle vicinanze di Tel Aviv, è una delle grandi università d'Israele dove in maggioranza studiano e insegnano studenti e insegnanti religiosi. La direzione sta cercando di capire se il carattere particolare dell'università ha un collegamento con la decisione della casa editrice. Gli ambienti  universitari esprimono il timore che il fenomeno possa estendersi ad altri settori e ad altre università israeliane.
    La prima iniziativa di boicottaggio risale alla primavera scorsa. Dopo le operazioni di Tsahal in Cisgiordania e a Jenin, due universitari britannici avevano fatto firmare una petizione in cui si chiedeva di boicottare le relazioni scientifiche e accademiche con Israele. Firmata da 250 ricercatori europei e dieci israeliani (arabi ed ebrei), la petizione aveva provocato l'indignazione degli ambienti della ricerca in Israele, che avevano convinto i loro colleghi europei a condannare il fenomeno prima che prendesse proporzioni incontrollabili.
    Alcune istituzioni hanno applicato queste minacce di boicottaggio, come per esempio un giornale di ricerca nelle scienze della traduzione che ha espulso dalla sua redazione due ricercatori israeliani.
    L'energica reazione dei responsabili europei ha fatto sì che le iniziative di questo genere siano rimaste limitate, ma, secondo il ministro degli Affari Esteri israeliano Shimon Peres, la situazione «richiede una vigilanza permanente».
    Sempre meno ricercatori e studenti stranieri s'iscrivono negli istituti israeliani, il che danneggia la vitalità della ricerca. Nel quadro di questi programmi, alcuni ricercatori israeliani testimoniano perfino di un'atmosfera difficile nelle loro relazioni con i loro colleghi stranieri: una situazione che prima o poi può causare danno alla ricerca universitaria israeliana.

(Proche-Orient.info, 25.10.02)



ECCLESIASTICI CRISTIANI RIFIUTANO I CONTROLLI DI SICUREZZA


Mercoledì 23 ottobre un gruppo di ecclesiastici cristiani di alto rango si è rifiutato, all'aeroporto israeliano Ben Gurion, di sottoporsi agli obbligatori controlli di sicurezza. Riferendosi ai loro alti uffici spirituali, hanno dichiarato di godere di immunità e hanno chiesto di essere trattati come VIP (Very Important Person). Gli arrabbiati ecclesiastici sono tornati immediatamente a Gerusalemme, dove hanno tenuto una conferenza stampa. Di fronte ai reporter hanno condannato il comportamento di Israele e hanno dichiarato di essere stati discriminati e trattati male a causa della loro fede cristiana. Hanno detto di aver contattato il Primo Ministro Tony Blair pregandolo di convincere il governo israeliano a cambiare il suo modo di comportarsi.
    La delegazione, guidata dal vescovo della chiesa anglicana a Gerusalemme, Rijah Abu al Assal, dopo la mediazione dei ministri dell'estero israeliano e britannico, si è in seguito assoggettata ai controlli di routine. I reverendi lasciavano Israele diretti in Gran Bretagna, per partecipare a una Conferenza di Pace a Canterbury. Tra i rappresentanti ecclesiastici di alto rango figuravano anche Butros Mualem, della chiesa greco-cattolica in Galilea, Munib Junan, vescovo luterano di Gerusalemme e Elias Shakour, un prete greco-cattolico di Gerusalemme.
    Shmuel Evjatar, consigliere del sindaco di Gerusalemme Ehud Olmer per i rapporti con i cristiani, si è rammaricato dell'incidente. «Non capisco perché delle persone che vivono in una situazione che in qualche misura ci riguarda tutti, e in modo particolare dopo l'11 settembre, si rifiutino di sottoporsi ai controlli di sicurezza adducendo il motivo che sono ecclesiasti e VIP... La dichiarazione di essere stati trattati male a causa della loro fede cristiana è del tutto priva di senso", ha detto Evjatar. E ha aggiunto che negli anni 70 l'ex arcivescovo della chiesa greco-cattolica di Gerusalemme, Hilarion Capucci, era stato arrestato alla frontiera giordana per contrabbando di armi e oro.

("Icej-Nachrichten" - Direkt aus Jerusalem, 24.10.027)



L'INTERPRETAZIONE RELIGIOSA ISLAMICA PERMETTE L'UCCISIONE DI PRIGIONIERI


Sul sito web islamico www.qoqaz.com, ostile verso i russi e probabilmente gestito da ceceni, ci sono molti articoli non firmati che si occupano della posizione dell'islam verso i prigionieri. Basandosi su fonti religiose islamiche – ad esempio, il Corano e le sue interpretazioni, e anche su altre tradizioni relative alla condotta del Profeta - gli articoli difendono una posizione che permette l'uccisione di prigionieri se essa giova ai musulmani. Ecco i principali elementi di questi articoli:


Una guida per chi è perplesso sulla liceità di uccidere prigionieri
In un articolo intitolato 'Una guida per chi è perplesso sulla liceità di uccidere prigionieri', apparso nella rubrica 'Notizie della Jihad dal Caucaso' (1), l'autore evidenzia che gli studiosi religiosi islamici presentano cinque diverse alternative, delineate dalle diverse interpretazioni del Corano:

   1) Un prigioniero politeista deve essere ucciso. Nessuna grazia gli può essere concessa, né può essere oggetto di riscatto.
   2) Tutti gli infedeli politeisti e il Popolo del Libro (cioè, ebrei e cristiani) devono essere uccisi. Non può essere loro concessa la grazia, né possono essere riscattati.
   3)  La grazia e il riscatto sono gli unici due modi per occuparsi dei prigionieri.
   4) La grazia e il riscatto sono possibili solo dopo l'uccisione di un grande numero di prigionieri.
   5)  L'Imam, o qualcuno che lo rappresenta, può scegliere fra l'uccisione, la grazia, il riscatto o la schiavitù del prigioniero.


Uccidere un prigioniero per le colpe di altri è consentito
L'ultima posizione è quella preferita dall'autore, il quale ha spiegato che il profeta Maometto si era occupato dei prigionieri in vari modi per massimizzare i vantaggi per i musulmani.
Egli fornisce esempi dei metodi che il profeta Maometto aveva scelto per uccidere, concedere la grazia, o riscattare prigionieri.
    L'autore trova necessario presentare l'argomento in reazione a una critica islamica 'che aveva strappato il suo cuore' sull'esecuzione di nove prigionieri [russi], dopo che il governo russo aveva rifiutato di consegnare 'uno dei maggiori criminali e truffatori della Russia'.
    Secondo l'autore, [i ceceni] hanno ucciso i prigionieri non per loro intimo desiderio, ma perché in questo atto hanno visto un vantaggio per i musulmani.
    In reazione agli argomenti sollevati da alcuni critici - che nessuno, cioè, dovrebbe essere punito per le colpe di altri - l'autore sostiene che Allah permette l'uccisione di un prigioniero perché egli è un prigioniero, e ancor più se la sua uccisione per colpe di altri costituisce un importante interesse islamico, e anche un deterrente (per il nemico). Egli porta esempi da azioni del Profeta. Uno stato di guerra giustifica azioni che possano garantire la sicurezza dei soldati dell'Islam. Inoltre, solo con tali azioni è possibile proteggere l'onore dei musulmani.
    In un articolo intitolato 'Gli ostaggi sono prigionieri' l'autore spiega il concetto di 'ostaggi' nella sua moderna applicazione a individui e stranieri rapiti, che sono usati come mezzi di pressione per ottenere obiettivi specifici. A suo giudizio, colui che è stato rapito in conformità con la legge islamica dovrebbe essere considerato un ostaggio, e quindi un prigioniero, e dovrebbe essere trattato in modo che porti vantaggi ai musulmani .

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Note:
(1) In un articolo intitolato 'Prigionieri nell'Islam' l'autore indica che l'Islam propone cinque metodi per occuparsi di prigionieri: rilascio senza riscatto, riscatto, uccisione, schiavitù o assoggettamento all'autorità dello stato islamico. Il metodo cambia secondo le circostanze, ma deve portare i maggiori vantaggi  ai musulmani. Ad esempio, se tra i prigionieri c'è qualcuno forte ed è probabile che provochi i musulmani e mantenerlo in vita può provocare loro danni, la sua uccisione sarà il metodo preferito. Se c'è qualcuno debole ma ricco, riscattarlo è il metodo migliore. Se c'è qualcuno che ha una visione favorevole dei musulmani e potrebbe aiutare loro e i loro prigionieri, graziarlo è il metodo migliore. Se ci sono quelli che potrebbero rendere un servizio, come donne e bambini, la schiavitù è il metodo migliore.

(The Middle East Media Research Institute, 29.10.02)



SEMPRE E COMUNQUE DALLA PARTE DEL RIBELLE


Quando picchiare duro è l'unica scelta

di Franco Cagnini

Circola l'idea bizzarra che sia facile staccare la spina al terrorismo, come se fosse un elettrodomestico. E che, di conseguenza, la responsabilità delle sue imprese sanguinarie ricada non tanto su chi lo pratica quanto su chi lo subisce. Su Israele, che si attira le bombe umane perché non s'inchina al diritto dei palestinesi a farsi Stato. Sulla Russia di Putin, che invece di riconoscere l'indipendenza della Cecenia costringe quel piccolo popolo caucasico a portare il terrorismo fin dentro un teatro moscovita. Nonché sugli Stati Uniti che certo si sarebbero risparmiati l'orrore delle Torri gemelle, e lo scomodo della crociata contro gli "Stati canaglia", se solo avessero uniformato la loro politica estera alle vedute di Osama Bin Laden.
    Questo modo di ragionare sarebbe solo strampalato se non fosse l'espressione di una posizione politica pregiudizialmente schierata "dalla parte del ribelle". Sempre e comunque. Chi la pensa così, mette le atrocità dei fondamentalisti islamici in Algeria sul conto dei militari algerini, che impedirono la creazione di un regime alla talebana. Così come, a suo tempo, metteva i massacri del terrorismo nazionalista algerino sul conto della Francia, che si ostinava a credersi in casa propria sull'altra sponda del Mediterraneo. Poi De Gaulle riconobbe l'indipendenza dell'Algeria, ma non per questo i terroristi hanno disarmato. Si sono messi a fare a pezzi il prossimo per zelo religioso, anziché per patriottismo.
    Proprio il caso algerino richiama l'attenzione su alcuni dati di fatto:
    1) perché l'aspirazione di un popolo all'indipendenza sia riconosciuta occorre che ne ricorrano le condizioni politiche. La sinistra francese, al governo prima di De Gaulle, non sgombrò l'Algeria perché sarebbe stato un suicidio politico. Come per Putin lo sgombero della Cecenia, col conseguente impazzimento del mosaico caucasico, perdita di ricchi giacimento petroliferi, eccetera;
    2) non tutte le ribellioni meritano un premio. La ben nota inclinazione alla criminalità delle tribù cecene, lascia prevedere che per loro l'indipendenza sarebbe la mafia al potere;
    3) gli eccessi del terrorismo denotano non il grado di disperazione dei seguaci di una buona causa, ma un'estrema depravazione. Cosa non sarebbe capace di fare, quando avesse tutto un popolo in suo potere, chi fa politica con il sequestro di una platea teatrale, o con l'esplosione di uomini-bomba fra la folla? Le anime belle in tumulto per le cause del fanatismo, comunque mascherato, non sanno quel che debbono a chi, come Putin, si sforza di tenerle a bada.

(Il Resto del Carlino, 29.10.02)


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