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Notizie su Israele 229 - 18 marzo 2004 |
1. Bambini immolati 2. Strenui assertori arabi della tesi reattiva del terrorismo 3. Riepilogo dei più gravi attentati suicidi in Israele 4. La minaccia degli attentati diventa sempre più grave 5. Terroristi musulmani cresciuti in Occidente 6. A proposito del film di Mel Gibson 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. BAMBINI IMMOLATI
Da un editoriale del "Jerusalem Post" Israele era sotto shock, lunedi' scorso. Questa volta non a causa dell'ennesima strage effettivamente realizzata da un terrorista, ma per una strage che fortunatamente e' stata evitata. Su tutte le prime
Abdullah non era un semplice corriere di morte. Era, senza saperlo, un missile teleguidato. Un telefono cellulare, collegato all'ordigno da 10 kg di esplosivo che si portava appresso, era programmato per farlo detonare a distanza nel caso il mandante lo ritenesse opportuno. Alla donna poliziotto che si era insospettita, il ragazzino ha spiegato che qualcuno gli aveva promesso "un sacco di soldi" se avesse trasportato il pesante zainetto al di la' del posto di controllo delle Forze di Difesa israeliane alle porte di Nablus. Se il piccolo contrabbandiere fosse riuscito nell'intento, il materiale contrabbandato sarebbe stato fatto esplodere su un autobus o in qualche altro luogo affollato di civili israeliani. Ad ogni buon conto, comunque, il piano prevedeva di far esplodere la carica sulle spalle del ragazzino se questi fosse stato fermato. E in effetti, come gli artificieri israeliani hanno iniziato a occuparsi del contenuto della cartella, qualcuno ha fatto squillare il cellulare-detonatore. Solo un difetto tecnico dell'ordigno ha risparmiato la vita del bambino palestinese e di tante altre persone attorno a lui. Qui non siamo di fronte a un "semplice" caso di abuso di minore. Siamo di fronte a un vero e proprio sacrificio umano di bambini. Sembra quasi che i terroristi palestinesi siano determinati a raggiungere vette finora inviolate del crimine di guerra, paragonabili soltanto all'uso - che hanno gia' fatto - di ambulanze e di donne incinte per realizzare attentati terroristici. I palestinesi hanno effettivamente trasportato bombe nelle loro ambulanze, in alcune occasioni nascoste sotto una barella su cui giacevano bambini palestinesi in preda a dolori o donne apparentemente in travaglio pre-parto. Poco tempo fa una donna di Gaza in lacrime si e' avvicinata alle guardie in servizio al metal detector del passaggio di Erez fra Israele e striscia di Gaza dicendo di avere una protesi nella gamba e si e' fatta esplodere massacrando i soldati che la stavano aiutando a passare. La cosa piu' difficile da capire e' come la disavventura del piccolo Abdullah sia passata quasi inosservata su gran parte dei mass-media del mondo, una circostanza che da sola conferma il dominante pregiudizio negativo verso Israele. Si poteva pensare che la vicenda di questo bambino avrebbe suscitato un briciolo di umana emozione in un mondo che sostiene di essere sempre molto preoccupato per la sorte dei bambini palestinesi. Possibile che non interessi quasi a nessuno il fatto che i bambini palestinesi siano sistematicamente indottrinati dai mass-media ufficiali palestinesi, intossicati nel culto del suicidio e dell'assassinio, e per il fatto che quando nemmeno il lavaggio del cervello e' sufficiente, allora vengono usati per pochi denari come inconsapevole carne da cannone? Eppure tanta indifferenza sembra molto selettiva. Quando il piccolo Muhammad al-Dura venne ucciso durante uno scontro a fuoco nell'ottobre 2000, venne immediatamente trasformato in una icona internazionale della disumanita' israeliana. E le approfondite ricerche fatte successivamente, che dimostravano che il piccolo al-Dura non poteva essere stato ucciso dal fuoco israeliano, vennero invece largamente ignorate. Ma la manipolazione palestinese dei bambini e' pervasiva e sotto gli occhi di tutti, come lo era la Hitler-Jugend durante la seconda guerra mondiale. E' una flagrante e palese violazione dell'Articolo 38 della Convenzione del 1989 sui Diritti del Bambino, che condanna "il reclutamento e il coinvolgimento di bambini sotto i 15 anni in ostilita' e conflitti armati". Che e' invece una pratica araba ben consolidata in questo paese. Gia' nel diciannovesimo secolo donne e bambini venivano spesso mandati in prima linea durante tumulti e rivolte. Facevano da scudi umani e servivano egregiamente per creare particolare instabilita'. L'antica tradizione e' stata ferocemente aggiornata con l'avvento degli attentati suicidi. Negli ultimi tre anni, 29 attentati suicidi sono stati perpetrati da giovani sotto i 18 anni. Altri 22 minorenni sono stati uccisi e 40 sono stati arrestati mentre tentavano di fare la stessa cosa. Attribuire questi dati alla "disperazione generata dall'occupazione" e' stupido e demagogico. I ragazzini palestinesi sono sottoposti a un continuo lavaggio del cervello dalle scuole e dai mass-media. Viene loro inculcato l'odio. Persino ai bambini dell'asilo viene insegnato ad aspirare al martirio. Crescono in una cultura che, anziche' celebrare la vita, esalta il "sacrificio" per morte violenta. Il mufti di Gerusalemme nominato dall'Autorita' Palestinese Ikram Sabri ebbe a dire, in un'intervista a un quotidiano, che "piu' giovane e' il martire, piu' viene ammirato, ed e' per questo che le madri gridano di gioia alla notizia della sua morte. Il martire e' invidiato perche' gli angeli in cielo lo accompagnano alle sue nozze". Gia' tre anni fa Huda al-Hussein, giornalista del quotidiano arabo edito a Londra Sharq al-Awsat, si chiedeva: "Che razza di indipendenza e' quella che viene costruita sul sangue dei bambini, mentre i capi, e i loro figli e nipoti, se ne stanno al sicuro?". E' una buona domanda e merita una risposta. (Jerusalem Post, 17.03.2004 - israele.net) 2. STRENUI ASSERTORI ARABI DELLA TESI REATTIVA DEL TERRORISMO I kamikaze eroi dei media arabi di Magdi Allam Cosa penso dei kamikaze? Io stesso potrei farmi esplodere da un momento all'altro». Insieme a Gian Arturo Ferrari, amministratore delegato della Einaudi, ascoltiamo allibiti. Mahdi Abdul Hadi, direttore della Palestinian Academic Society for the Study of International Affairs di Gerusalemme, parla con la schiettezza e il vigore di chi vuol apparire il più possibile convincente: «Recentemente un giovane laureato, padre di due figli, si è fatto esplodere in Israele per vendicare l'uccisione del suo più caro amico. Ha fatto tutto da solo. Non apparteneva a nessun gruppo religioso o politico». Siamo nel refettorio del Sacro convento di San Francesco ad Assisi nella pausa pranzo del convegno "L'Italia di fronte al conflitto arabo-israeliano", organizzato lo scorso primo marzo dalla Fondazione Italianieuropei. Abdul Hadi, che si considera un laicissimo esponente della società civile palestinese, è uno strenuo assertore della tesi reattiva del terrorismo. A suo avviso il giorno in cui Israele dovesse ritirarsi dai territori occupati consentendo la nascita di uno Stato palestinese, il terrorismo cesserà. Nel suo intervento pubblico la parola «terrorismo» non è comparsa. Perché non sarebbe quello il problema. Eppure proprio lui, studioso con la vocazione all'obiettività, dovrebbe sapere che gli attentati suicidi di Hamas e della Jihad iniziarono nell'ottobre del 1993, all'indomani della storica stretta di mano alla Casa Bianca tra Rabin e Arafat. Con l'obiettivo dichiarato di far fallire il processo di pace basato sulla coesistenza tra Israele e lo stato palestinese. Mettendo in atto una strategia dichiaratamente aggressiva ispirata dal rifiuto pregiudiziale del diritto di Israele all'esistenza. Più sincero di Abdul Hadi si è rivelato il poeta palestinese Ahmad Dahbour. Invitato il 14 settembre 2003 a Venezia alla cerimonia del Premio Campiello, si scusò con il conduttore Corrado Augias: «In pubblico non potrò dire nulla sulle violenze nei territori occupati. Se lo facessi, appena torno a Gaza mi tagliano la gola». Per essere più incisivo si passò la mano alla gola. Mi sono ricordato di questi due episodi leggendo e ascoltando i titoli della stampa e dei telegiornali arabi sulle recenti stragi terroristiche di sciiti avvenute simultaneamente a Karbala e Bagdad in Iraq, e a Quetta in Pakistan lo scorso 2 marzo. Ebbene le parole «terrorismo» o «terroristi» non compaiono mai. Quasi fossero un tabù. Diamo uno sguardo ai due più prestigiosi quotidiani arabi, di proprietà saudita. "Asharq Al-Awsat" parla genericamente di «attacchi» o «esplosione» che «hanno provocato centinaia di morti». "Al Hayat" va un po' più in là scrivendo «attacchi suicidi». Gli autori degli attentati vengono indicati come «partigiani iracheni», «combattenti stranieri» o «attaccanti». E' un arrampicarsi sugli specchi per aggirare il problema. Una ardita ricerca di vocaboli neutri per non chiamare le cose con il proprio nome. Che conferma come in Medio Oriente condannare il terrorismo potrebbe tradursi nella propria condanna a morte. Questa autocensura ideologica da parte dei mass media trova riscontro anche nella definizione delle vittime della violenza. Se si tratta di palestinesi uccisi dagli israeliani sono «martiri». Se al contrario si tratta di civili israeliani uccisi dai kamikaze palestinesi, sono solo dei «morti» a seguito di una «operazione di martirio». Questa terminologia viene talvolta trasferita allo scenario iracheno. Gli americani uccisi sono «morti» in quanto «occupanti», così come i poliziotti iracheni vengono eliminati dalle «forze della resistenza» perché «collaborazionisti». Basta vedere un telegiornale o un programma di approfondimento di "Al Jazira" o "Al Arabiya" per rendersi conto della competizione in atto tra le due maggiori tv arabe di news per fungere da cassa di risonanza del terrorismo islamico. Pur di aggiudicarsi lo scoop del nuovo discorso di Bin Laden o di al Zawahri. Trattandosi di due emittenti commerciali è probabile che questa filosofia dell'informazione corrisponda alle aspettative del grande pubblico arabo. C'è tuttavia un'eccezione. Quando i morti sono propri cittadini, o comunque dei musulmani, c'è chi tra i politici si azzarda a impiegare la parola «terrorismo». Recentemente l'hanno fatto Mohammad Bahr al Ulum, presidente di turno del governo provvisorio iracheno, uno sciita moderato, e il suo ministro degli Esteri Hochiar Zibari, un curdo laico. Così come in passato i dirigenti sauditi e marocchini non hanno esitato a denunciare gli attentati terroristici di Riad e Casablanca. Di fatto le vittime del terrorismo vengono valutate diversamente a secondo se sono musulmane o non. Questo doppio parametro etico l'ha formalizzato lo scorso 3 marzo il mufti d'Egitto Ali Gomaa, massimo giureconsulto islamico. Con una fatwa, un responso legale, ha precisato che «è proibito a un musulmano uccidere un altro musulmano anche se questi collabora con l'occupante straniero in Iraq e Palestina». Poi ha aggiunto: «L'islam proibisce anche di uccidere il nemico qualora dovesse farsi scudo dei musulmani. Ciò al fine di evitare lo spargimento di sangue islamico». Va da sé che si considera islamicamente lecito uccidere soltanto i «nemici», ossia gli americani e gli israeliani. E' del tutto evidente che manca una cultura della vita nell'ambito delle comunità e dei mass media arabi. Nel febbraio 2002 l'intellettuale palestinese Sari Nusseibeh promosse una coraggiosa petizione, sottoscritta da migliaia di esponenti della società civile in Cisgiordania e Gaza, a favore della fine degli attentati suicidi. Ebbene anche quel documento è lacunoso perché la parola «terrorismo» non vi compare mai. Inoltre la richiesta è motivata dall'opportunità politica, per le conseguenze negative sulla popolazione. Ma non c'è mai una condanna degli attentati terroristici suicidi nel nome della difesa della sacralità della vita. Propria e altrui. Dei musulmani e non. A tutt'oggi questo è il vero limite religioso, culturale e ideologico dell'islam ufficiale e militante. (Corriere della Sera, 10 marzo 2004) 3. RIEPILOGO DEI PIÙ GRAVI ATTENATI SUICIDI IN ISRAELE Riportiamo un riassunto, pubblicato dall'ANSA, dei più gravi attentati suicidi avvenuti in Israele negli ultimi anni. 2001
2002
2003
2004
4. LA MINACCIA DEGLI ATTENTATI DIVENTA SEMPRE PIU' GRAVE «I terroristi hanno valicato due linee rosse, Israele risponde» GERUSALEMME. Ieri il gabinetto della sicurezza del governo israeliano di Ariel Sharon si è riunito per decidere su come rispondere allattacco terroristico, rivendicato da Hamas e Martiri di al Aqsa, di domenica ad Ashdod, in cui sono morte 12 persone. La strage del porto poteva però essere ancora più grave: lobiettivo dellattacco erano i depositi |
di sostanze chimiche contenute in una nave cisterna. Lintenzione dei mandanti era quella di creare un avvelenamento generale nella città di Ashdod. Lallerta è ora così grave che si valuta la possibilità di rafforzare le difese immunitarie dei cittadini contro la malattia della Bolla Nera (vaiolo nero). I servizi di sicurezza hanno proposto reazioni forti, dure, come non si vedevano da tempo nei territori palestinesi. I servizi sostengono infatti che più si parla dellintenzione del premier Sharon di lasciare Gaza più crescono i tentativi dei terroristi palestinesi di colpire Israele. Lobiettivo è anche dimmagine: vogliono far sembrare che, più che una scelta dIsraele, il ritiro da Gaza sia una fuga. Una prima reazione dellesercito di Gerusalemme che dopo la riunione del gabinetto della sicurezza ha deciso di riprendere le operazioni tese a colpire i membri di Hamas cè già stata ieri, con i tre missili lanciati contro unabitazione e due veicoli di Gaza, con tre morti e almeno otto feriti. Oltre al quasi mega attentato, come lo definiscono i servizi di sicurezza, di Ashdod, i terroristi palestinesi, lunedì scorso, hanno valicato unaltra linea rossa, inviando in missione assassina un inconsapevole bambino di 12 anni con un zainetto pieno di esplosivo. Gli attivisti del Tanzim hanno anche avuto lintenzione di attivare il dispositivo, una volta che il ragazzo è stato scoperto dagli israeliani durante un controllo. Abdallah Kurian ha 12 anni e abita nel piccolo villaggio Hawara, non lontano da Nablus. Il bambino, negli ultimi mesi, ha lavorato al posto di blocco vicino al suo paese, aiutando gli anziani a caricare la merce. Lunedì mattina, militanti del Tanzim lo hanno convinto a trasportare una cintura di esplosivo da una parte allaltra del posto di blocco promettendogli una ricompensa. La cintura doveva servire per un attentato in Israele. I mandanti di Abdallah sapevano che cera la possibilità che fosse scoperto, così per non perdere il prezioso esplosivo hanno fatto in modo di poterlo seguire e di poter attivare il suo zaino bomba col telefono cellulare. La loro missione è fallita grazie allattenzione di una giovane soldatessa, Moran Buknet, e al fatto che, nonostante i tentativi, il cellulare non ha attivato lordigno. Come ogni giorno, nel pomeriggio di lunedì, centinaia di bambini si sono avvicinati al posto di blocco dove servono unità di paracadutisti dellesercito a fianco delle soldatesse della polizia militare. Toccava a Moran controllare Abdallah. Le due borse che aveva erano piene di vestiti, allora gli ho indicato di aprire lo zainetto e subito mi sono accorta che qualcosa non andava ha raccontato Moran ho notato una scatola con tre fili bianchi e un piatto dove erano attaccati proiettili di una pistola. Gli ho chiesto di fermarsi e di allontanarsi dallo zaino e ho avvertito il comandante del posto di blocco. Poi sono giunti militari che hanno allontanato dallarea i soldati e i palestinesi. Lo zainetto è stato fatto brillare con un esplosione che ha causato un buco enorme nel terreno. Secondo le stime si trattava di 10 chili di esplosivo. Abdallah è stato fermato per un breve interrogatorio in cui ha raccontato che mentre tornava da scuola ha ricevuto la borsa da uno sconosciuto che gli ha promesso soldi. E un bambino simpatico e molto dolce, ha detto il comandante dellunità militare che ha gestito loperazione. Il nostro problema non è il bambino ma chi lo ha mandato per ingannarci: potrebbe essere la stessa cellula che un mese e mezzo fa tentò di contrabbandare esplosivo nascosto tra gli abiti di una donna, madre di sette figli. La notizia ha ovviamente creato molto interesse e preoccupazione: ieri decine di giornalisti si sono recati a casa della famiglia di Abdallah. Sua madre Dalal ha espresso dubbi: non crede che i Tanzim abbiano tentato di attivare lo zainetto mentre Abdallah era ancora vicino; ha difficoltà a credere a questa storia. (Il Foglio, 17 marzo 2004) 5. TERRORISTI MUSULMANI CRESCIUTI IN OCCIDENTE La principale famiglia canadese del terrorismo di Daniel Pipes "Siamo una famiglia di Al Qaeda." A parlare è un membro dei Khadr, una famiglia canadese musulmana la cui assoluta devozione ad Osama bin Laden racchiude delle importanti lezioni per l'Occidente. La loro saga ebbe inizio nel 1975, quando Ahmad Said al-Khadr lasciò l'Egitto, suo Paese natale, per il Canada e lì sposò una donna di origine palestinese. Studiò ingegneria informatica all'Università di Ottawa e si dedicò alla ricerca per conto di una grossa ditta di telecomunicazioni. Dopo l'invasione sovietica dell'Afghanistan, Khadr andò a lavorare per l'Human Concern International (HCI), un'organizzazione benefica con sede ad Ottawa, creata nel 1980 col presunto scopo di "alleviare la sofferenza umana", ma fornendo favori all'Islam militante. Nel 1985, mentre si trovava in Afghanistan per lavoro, incontrò bin Laden e divenne un suo stretto collaboratore. Talvolta, Khadr è stato descritto come il più importante dei settantacinque agenti canadesi di Al Qaeda. Il governo federale canadese, ingenuo com'era, dette all'HCI un contributo di 325.000 dollari canadesi. In particolare, dal 1988 al 1997, l'HCI ha ricevuto fondi dai contribuenti canadesi e al contempo ha lavorato con Al Qaeda. Gli ingenui burocrati di Ottawa, continuarono a ritenere Khadr una persona a posto, anche dopo il suo arresto, avvenuto nel 1995, da parte delle autorità pakistane per essersi appropriato dei fondi dell'HCI allo scopo di finanziare un'operazione terroristica di Al Qaeda che avvenne quell'anno (un attacco all'ambasciata egiziana in Pakistan, in cui morirono 18 persone). E invece, il primo ministro canadese, Jean Chrétien approfittò di una visita di Stato in Pakistan per intercedere presso la sua controparte pakistana in favore di Khadr. Questo passo del tutto singolare ebbe successo: Khadr venne presto rilasciato e tornò in Canada. Nel 1996, lui e sua moglie fondarono un'organizzazione islamica a scopo benefico, che chiamarono Health and Education Project International. Quando alcuni mesi dopo i Talebani assunsero il controllo dell'Afghanistan, i due coniugi e i loro sei figli se la svignarono lì. Dal momento che era uno stretto collaboratore di bin Laden, Khadr divenne famoso per la sua critica corrosiva da militante islamico, che indusse un francese presente in Afghanistan a fare la seguente osservazione nei suoi riguardi: "Non ho mai incontrato così tanta ostilità, né qualcuno così avverso all'Occidente". Come altri leader di Al Qaeda, Khadr scomparve subito dopo l'11 settembre. Trascorse due anni di latitanza, per riapparire solo nell'ottobre del 2003, quando l'esercito pakistano scoprì inaspettatamente che il DNA di uno degli irriconoscibili corpi, vittime di un sanguinoso conflitto a fuoco, era quello di Khadr. Le attività terroristiche di altri membri della famiglia Khadr la moglie, una delle due figlie, tre dei quattro figli completano il loro curriculum familiare.
Per il momento questo schema è raro, ma potrebbe ben diventare molto diffuso, quando la seconda generazione di bambini islamici che vivono in Occidente diventeranno maggiorenni. Nel caso Khadr, come probabilmente anche in altri, la chiave è l'isolamento all'interno di un ambiente islamico militante: scuole, stampa, vita sociale. La prevenzione di una simile auto-segregazione deve essere un impellente obiettivo politico in Occidente. (New York Sun, 16 marzo 2004 - trad. Angelita La Spada) 6. A PROPOSITO DEL FILM DI MEL GIBSON L'infinita ed eterna perfidia degli ebrei di Jean-Claude Baboulin Come tutti, non ho visto il film di Mel Gibson ma seguo i dibattiti precedenti la sua distribuzione. Può darsi che sia un "buon" film, e può darsi di no. L'importante è trarre la lezione da questo fenomeno nuovo e significativo: l'antisemitismo è ormai talmente banalizzato che è diventato un argomento di marketing. Se volete riempire il registratore di cassa con un libro o un film, o fare audience alla televisione, cominciate anzitutto a lanciare un «dibattito» provocando uno scandalo sul tema della perfidia degli ebrei. Una ricetta sicura. Ho tre osservazioni da fare a questo proposito. 1) L'offensiva giudeofoba si precisa e si allarga. Ai temi antisemiti provenienti dai «Protocolli dei Savi di Sion» (il complotto internazionale, riattivato sotto la forma dell'«asse americano-sionista» caro a Dieudonné) e al nuovo antisemitismo antisionista analizzato da Alain Finkielkraut, bisogna ormai aggiungere la riedizione del vecchio antisemitismo cristiano, con la ripresa del tema del popolo deicida. Nulla ci sarà risparmiato, ma si sarebbe dovuto prevedere il colpo. Il particolarismo ebraico contro l'universalismo cristiano: ma certamente! Già duemila anni fa gli ebrei non hanno accettato la conversione alla religione dell'universalismo imperiale (la fusione del cristianesimo e di Roma). E dopo duemila anni resistono sempre all'assimilazione del pensiero dominante (il cristianesimo sostituito dall'ideologia umanista). La riattivazione dell'antigiudaismo cristiano da parte di Mel Gibson arriva al momento giusto per mettere in luce le fonti religiose e storiche del cancro ebraico. Per dire: Vedete, non è da oggi che quelli là ci danno seccature e fanno i "singolari". 2) Non sono uno specialista delle molteplici correnti ideologiche che attraversano il protestantesimo, ma mi pongo tuttavia la domanda della coerenza del discorso antiamericano che da una parte accusa i fondamentalisti cristiani di fare il gioco del sionismo, e dall'altra prende le difese di quegli stessi fondamentalisti quando attaccano gli ebrei deicidi. Il fondamentalismo di Bush sarebbe condannabile e quello di Mel Gibson simpatico, o almeno rispettabile? Quando il Nouvel Observateur, nella sua campagna elettorale per JF Kerry, titola sotto una foto di Bush: "Gli evangelici, la setta che vuole conquistare il mondo" (far capire le cose senza dirle: il complotto americano-sionista...), si deve intendere che il film di Gibson è un pezzo di questa vasta impresa? Se questo è il caso, vorrei che il Nouvel Observateur lo dicesse, invece di fare il furbo parlando di "libertà d'espressione degli artisti". Ma tutto questo è certamente un po' complicato per l'antiamericanismo grezzo. 3) Come sempre, le anime belle hanno il ruolo bello: quello di difensori della libertà d'espressione. Vecchio dibattito sulla responsabilità degli artisti e degli intellettuali; vecchio dibattito sulle parole e le immagini che uccidono. Che direbbero le nostre anime belle se un distributore accorto ritirasse fuori "L'ebreo Süss" [un film fortemente antiebraico diffuso sotto il regime nazista, n.d.t.] per diffonderlo nelle sale cinematografiche? Si appellerebbero alla "libertà d'espressione"? Forse no, per il motivo che il nazismo è il Male assoluto e che, come ha detto Romano Prodi nella sua grande ingenuità: "L'Europa di oggi non è quella degli anni '30". Le anime belle amano molto l'antifascismo; per quel che riguarda l'antisemitismo invece, hanno le idee più confuse. E poi, Mel Gibson è un grande cineasta "di qualità", non è vero? Non è un volgare propagandista anti-israeliano. E gli ebrei sono nemici della libertà d'espressione. (Guysen Israël News, 16 marzo 2004) -------------------------------- NOTA DI COMMENTO. L'autore ammette (forse con un po' di compiacimento) di non essere "uno specialista delle molteplici correnti ideologiche che attraversano il protestantesimo", manifestando così il suo disinteresse per le varie forme di "cristianesimo" che gli si presentano. Forse però, proprio a motivo della gravità che il "cristianesimo" ha assunto ieri e può assumere ancora oggi nella questione dell'antisemitismo, sarebbe opportuno cercare di capire meglio l'estesa e variegata realtà che viene genericamente accomunata sotto il nome di "cristiani". Le semplificazioni e le distorsioni, oltre a provocare ingiustizie, impediscono di capire come stanno veramente le cose. Gli ebrei, che l'hanno imparato sulla loro pelle, dovrebbero essere i primi a saperlo. L'articolo che segue può servire in parte come illustrazione. Mel Gibson non appartiene all'ambiente dei cosiddetti «fondamentalisti evangelici», ma a quello del tradizionale antisemitismo cattolico. M.C. *
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