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Notizie su Israele 255 - 1 settembre 2004

1. A Behersheva manca il muro di sicurezza
2. La nuova economia del terrorismo
3. Un'analisi della situazione irachena
4. Un altro esempio della regola del «due pesi e due misure»
5. La cultura della violenza nei paesi arabi
6. Un'altra ebrea «torna a casa»
7. La forma nuova di un odio antico
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Ezechiele 18:29-30. Ma la casa d’Israele dice: “La via del Signore non è retta”. Sono proprio le mie vie quelle che non sono rette, casa d’Israele? Non sono piuttosto le vie vostre quelle che non sono rette? Perciò, io vi giudicherò ciascuno secondo le sue vie, casa d’Israele, dice DIO, il Signore. Tornate, convertitevi da tutte le vostre trasgressioni e non avrete più occasione di caduta nell’iniquità!.
1. A BEERSHEVA MANCA IL MURO DI SICUREZZA




GERUSALEMME - Già prima dell'attentato di oggi a Beersheva, i leader israeliani locali e gli esperti della sicurezza avevano denunciato la mancata costruzione della parte meridionale del muro che avrebbe impedito un attacco, come quello odierno, che da lungo tempo era ormai atteso. Lo ricorda il quotidiano israeliano 'Jerusalem Post' in un articolo dal titolo 'Dov'è il muro di sicurezza?'. Ad appena 15 chilometri da Beersheva, le Colline a sud di Hebron declinano in aperte pianure coltivate da poche migliaia di palestinesi semi-nomadi. Pochi chilometri separano poi l'area di Hebron da città come Beersheva ed Arad, e in questa zona poche sezioni della barriera sono state progettate.


A metà luglio Pini Badash, il capo del Consiglio Regionale di Omer, un sobborgo di Beersheva, aveva dichiarato al quotidiano israeliano: "La mia comunità sta solo aspettando il prossimo attentato e sappiamo tutti da dove arriverà, le Colline di Hebron". Lo stesso Badash aveva accompagnato un gruppo di ex generali, tra cui Uzi Dayan (ex consigliere dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale e ora capo della lobby a favore del muro), e deputati della Knesset in una visita per esaminare il possibile tracciato meridionale della barriera. Allora era stato rilevato che l'area intorno al blocco di insediamenti di Gush Etzion era ridisegnata di continuo per evitare costose liti legali tra i coloni israeliani e i palestinesi, mentre i 200 chilomteri a sud di Gerusalemme neppure erano stati considerati dalle commissioni del Ministero della Difesa incaricate di disegnare il percorso.

(Sar/Ak, 31 agosto 2004)





2. LA NUOVA ECONOMIA DEL TERRORISMO




Intervista all’economista Loretta Napoleoni, autrice di un allarmante saggio che fa luce sui metodi di finanziamento del terrorismo islamico, che dispone di un capitale impressionante.
    

Tutti i soldi alle fonti del terrore

di Renzo Oberti


Come si finanzia il terrorismo internazionale ? A questa domanda risponde l'economista Loretta Napoleoni, nata a Roma ma residente a Londra da vent'anni, nel saggio "La nuova economia del terrorismo" (Marco Tropea, 382 pagine, 19,00 euro). E quello che rivela è sconvolgente. Un vero fiume di soldi sostenta i signori della guerra islamici: un flusso di 1.500 miliardi di dollari, pari al 5 per cento della produzione mondiale, ricavati da traffico di droga, di petrolio, armi, pietre preziose ed esseri umani, ma anche da donazioni che rispettabili banche e istituti finanziari sono convinte di erogare a favore di fondazioni benefiche. Un fiume che alimenta non solo al-Qaeda, ma a cui si sono abbeverati numerosi movimenti terroristici, dai Contras all'IRA, dalle BR all'ETA e ad al-Fatah. Questo flusso monetario, in continua crescita, viaggia sulle rotaie del mercato globale, da Wall Street alla City di Londra, da Hong Kong alle piazze dell'Asia Centrale, rifluendo "all'interno delle economie tradizionali, soprattutto verso gli Stati Uniti, dove viene riciclato, con effetti devastanti sull'etica commerciale dell'Occidente".
    Secondo la Napoleoni, "il terrorismo islamico, come qualsiasi altra forza rivoluzionaria, è un motore economico, alimentato da una fonte d'energia molto particolare, la jihad moderna": le sue vere motivazioni, insomma, non sono ideologiche e religiose, ma puramente economiche, dovute alla crescente tensione fra il capitalismo occidentale e una popolosa nazione musulmana che si sente bloccata nel suo sviluppo. Domando alla studiosa se l'idea di questa indagine le sia venuta prima o dopo l'11 settembre.
    "L'idea - mi dice - risale a dieci anni fa. Ma allora nessuno era interessato a capire come si finanziassero i gruppi terroristici, perché il terrorismo sembrava una cosa del passato. Nel 2000 a New York mi capitò di esprimere i miei timori sull'avanzata del fondamentalismo islamico e sui rischi che correva l'Occidente, e in particolare l'America, ma mi fu risposto che il terrorismo non era un fenomeno preoccupante negli Stati Uniti."

- Ma come hanno fatto i terroristi a mettere insieme 1.500 miliardi di dollari?
"Un terzo di questo capitale è generato dalla criminalità mondiale, un terzo dai movimenti di denaro illegale nel quale affluisce buona parte delle tangenti, e l'ultimo terzo essenzialmente dalle organizzazioni armate, in parte ricavato da attività legittime e il rimanente da attività criminali, principalmente dal traffico di droga e dal contrabbando di articoli elettronici."

- Chi muove i fili dell'organizzazione finanziaria?
"Non ci troviamo di fronte a un'organizzazione piramidale di tipo mafioso, ma ad un sistema, una rete, dove il denaro viene prodotto in tutti i modi possibili e immaginabili. Si va dai pescherecci gestiti da alcune cellule di terroristi islamici di stanza in Africa alla speculazione a Wall Street subito prima dell'11 settembre americano e dell'11 marzo spagnolo. Una sorta di globalizzazione economica del terrorismo."

- Si ha l'impressione che purtroppo la globalizzazione favorisca i movimenti terroristici.
"Certo, essa ha dato un notevole incremento all'economia occulta. La globalizzazione consente al ricavato dalle attività illegali e criminali di inserirsi nell'alveo dell'economia legale. Il grande salto si è avuto negli anni Novanta, quando sono crollate le barriere tra i Paesi, e così anche l'economia del terrore si è potuta espandere. L'esempio più interessante è proprio l'evoluzione di al-Qaeda, che negli anni Novanta è diventata un'organizzazione armata transnazionale, il cui finanziamento avviene in tutto il mondo tramite un portafoglio finanziario molto complesso."

- Nel suo libro lei dice che Osama Bin Laden si è ispirato ad Arafat.
"Sì, sono arrivata alla conclusione che Bin Laden ha seguito l'esempio di Arafat, il quale per sostenere il popolo palestinese ha usato tutti gli strumenti della finanza e dell'economia occidentale. A gestire questo impero economico sono individui che conoscono benissimo il sistema del capitalismo occidentale e quindi lo sanno sfruttare, e altrettanto bene conoscono il sistema economico islamico: uomini che hanno studiato a Harvard e perciò sono preparatissimi."

- Gente che può entrare dappertutto con valigie piene di denaro senza che nessuno la fermi?
"Sì, e che sa far circolare questo denaro attraverso il sistema bancario internazionale o la rete di banche islamiche. E quest'ultimo è un punto a loro favore rispetto a noi occidentali che non abbiamo alcuna giurisdizione sul sistema bancario dei Paesi musulmani. Un sistema che cominciò a formarsi negli anni Settanta, anche se fin dagli anni Cinquanta c'erano state molte discussioni fra economisti e religiosi arabi sull'opportunità di servirsi delle banche occidentali. Fu la prima crisi petrolifera a condurre alla creazione della rete bancaria islamica, che nacque dall'alleanza tra un gruppo di banchieri visionari e un gruppo di radicali sauditi.
    "La struttura della banca islamica riflette i principi di quella religione. Un aspetto interessante è l'elemosina musulmana che ogni individuo deve elargire orni anno, pari al 2,5 per cento della ricchezza accumulata annualmente. Questa quota viene prelevata direttamente dalle banche su ogni transazione che generi un profitto. Molti di questi soldi finiscono poi a finanziare i gruppi fondamentalisti. La vera forza del terrorismo islamico è il denaro: senza denaro non ci sarebbe la lotta armata."

- Di questo denaro, secondo lei, ne circola molto anche in Italia?
"Direi proprio di sì. La rete delle moschee, che offre un sostegno fondamentale sia dal punto di vista finanziario sia dal punto di vista operativo, è molto attiva anche in Italia. Dall'11 settembre esiste anche nella penisola una diffusa rete di terroristi economicamente autosufficiente."

- Nel libro lei scrive che la jihad dichiarata dai terroristi in realtà non è affatto una guerra di religione, ma un attacco all'economia occidentale.
    "La religione è solo l'ombrello ideologico che serve a reclutare i soldati che conducono materialmente la battaglia, ma lo scontro è economico. Al-Qaeda mette in rete dei corsi virtuali di formazione alla lotta armata, e in uno di questi è stato presentato un documento che indicava gli obiettivi a lungo termine della lotta, e quello principale era la distruzione del sistema economico occidentale, perché mantiene al potere le oligarchie musulmane contrarie ai terroristi. E' risaputo che la jihad moderna vuole distruggere lo Stato d'Israele, ma anche la casata saudita in Arabia e Gheddafi in Libia che impediscono la formazione di Stati islamici fondamentalisti e di un nuovo Califfato che si rimpadronisca delle risorse petrolifere. Al di là dello schermo della religione, vengono alla luce i veri nemici: le potenze sia occidentali sia arabe che sfruttano economicamente le masse musulmane."

(L'Arena, 29 agosto 2004)





3. UN'ANALISI DELLA SITUAZIONE IRACHENA




Una stampa malata di odio per Bush non racconta davvero Najaf - Persepolis

di Carlo Panella
    

Se il Vaticano avesse taciuto durante l’assedio israeliano dei terroristi palestinesi asserragliati nella basilica della Natività a Betlemme, se nessuna gerarchia cattolica avesse preso posizione, sarebbe stato chiaro, perfino ai giornalisti, che quel silenzio aveva un enorme peso politico. Sarebbe stato evidente che quel tacere significava acconsentire all’operato delle truppe israeliane ed esprimere una condanna per il gesto blasfemo dei terroristi assassini che usavano lo scudo di un luogo sacro per garantirsi l’immunità. Com’è noto, così non fu. Il Vaticano e la gerarchia cattolica si fecero sentire e non contro gli assassini e blasfemi che stavano insozzando di escrementi la Basilica, ma contro la decisione del governo Sharon di assediarli.
    Per settimane invece, dal 5 agosto, ha taciuto, compatta, la gerarchia sciita di Najaf, a fronte del cruento assedio dei miliziani sciiti di Moqtada al Sadr che usano il Mausoleo di Ali come i loro colleghi terroristi palestinesi usarono la Basilica della Natività. Ma nessuno, men che meno i giornalisti, ha fatto mostra di comprendere che cosa quel silenzio abbia significato. I marine americani hanno sparato per settimane in tutta Najaf, sono arrivati a 200 metri dal Mausoleo, presidiando il cimitero, l’aviazione ha distrutto case. Ma non una parola di condanna è venuta dal grande ayatollah al Sistani, dagli altri ayatollah della Marjia, dagli ayatollah iracheni delle altre città.
    Hanno protestato, invece, gli ayatollah iraniani, gli Hezbollah e gli ulema sunniti dei Fratelli musulmani. Ma la loro protesta non ha trovato un seguace, uno solo, tra gli sciiti iracheni. Il quadro è inequivocabile: la gerarchia sciita è stata solidale con l’azione delle truppe americane e del governo iracheno, non vedendo l’ora di riavere il controllo di Najaf e dei luoghi santi e accettando di trattare con Moqtada soltanto dopo che le sue milizie sono state pesantemente indebolite dalle azioni militari americane e irachene. Per questo, prima ha taciuto, poi ha organizzato una marcia su Najaf contro il mullah ribelle e i suoi quaranta ladroni e non, come la stampa afflitta dalla sindrome Michael Moore ha lasciato intendere, contro gli americani.
    Si tratta, peraltro, di una gerarchia sciita che dall’aprile 2003 non ha mai mancato di criticare il governatore americano Paul Bremer, di prendere le distanze dalla Costituzione provvisoria, di emettere duri giudizi su singole scelte del governo iracheno. Il silenzio e poi la manifestazione derivano da una scelta di campo. Il silenzio ha urlato, chiarito, spiegato. Ma nessuno ne ha parlato, nessun giornale ne ha preso atto; nessun analista ci ragiona sopra.
    Lo stesso è accaduto per la vicenda delle chiavi del Mausoleo d’Ali. Repubblica ha pubblicato un’informatissima cronaca; ha spiegato con date, nomi, particolari, buona scrittura, che Moqtada mandò suoi scherani a sequestrarle con minacce di morte al custode già ad aprile (come ha confermato il portavoce di Sistani). Fornisce tutti i dati da cui si comprende che sin dall’inizio l’insurrezione di al Sadr puntava anche al malloppo. Delinea le caratteristiche di una banda di insorti che invece di farsi dare tutte le chiavi del Mausoleo tranne quelle del Tesoro, come avrebbe fatto un movimento politico serio, vuole solo quelle del Tesoro.
    Ma poi Repubblica, come il Corriere, come gli altri grandi quotidiani, non ragiona sopra questo fatto chiaro, drammatico, che consegna Moqtada alla folta galleria dei banditi di popolo che insozzano ovunque nel mondo le storie delle rivolte popolari ambigue, intrecciate con malavitosi e sacrileghi, tanto forti e feroci quanto sterili politicamente.
    Ogni giorno che passa i quotidiani di mezzo mondo spiegano che gli uomini di Moqtada torturano i poveracci, cavano occhi ai poliziotti iracheni catturati, mozzano le teste, rapiscono bimbi e mogli di esponenti politici sciiti per obbligarli a schierarsi con loro, sequestrano con minaccia di decapitazione dei santi uomini, degli ayatollah, tra i più vecchi e autorevoli. Ma queste notizie nascono di cronaca e restano di cronaca. Impera la sindrome Michael Moore. Perché ragionare spassionatamente, liberamente, su tutti questi elementi avrebbe solo un risultato: rovesciare tutti i luoghi comuni imperanti sull’Iraq. Scoprire che le truppe americane agiscono politicamente – più che militarmente – bene, che la stessa gerarchia sciita le appoggia con il suo diplomatico silenzio. Vedere, sotto il sasso alzato dall’occupazione militare dell’Iraq, muoversi i vermi di una società che sotto il regime di Saddam ormai era solo un agglomerato di bande illegali che taglieggiavano il territorio, tenute assieme dalla paura di un apparato familiare di terrore. Che sono oggi quelle bande scatenate – assieme ai più feroci terroristi islamici d’importazione, che ieri hanno fatto strage a Kufa, e alle trame dei pasdaran iraniani – ad alzare la bandiera della “resistenza”; che Moqtada Sadr non è “l’alternativa sciita”, ma un “omo de panza” dei quartieri più malfamati di Baghdad, che si è posto a capo di una rivolta – eccitata da Teheran – in cui il fanatismo religioso jihadista ben si sposa con il furto sacrilego. Ma tutto questo non si può dire, non si può pensare, perché lo impedisce la sindrome Moore, che fa dell’invettiva anti Bush il dogma inviolabile, che fa della “resistenza” irachena un monumento intoccabile, che fa della difesa della propria pigrizia culturale un a priori assoluto.

(Il Foglio, 27.08.2004 - da Informazione Corretta)





4. UN ALTRO ESEMPIO DELLA REGOLA «DUE PESI E DUE MISURE»




L'Unione Europea si oppone al "diritto al ritorno"

di Steven Plaut


Il "diritto al ritorno" ha interessato una gran parte della stampa mondiale nelle ultime settimane, ma questa volta - tanto per cambiare - NON si tratta del preteso "diritto" dei palestinesi a ritornare sul territorio d'israele. Il dibattito, del tutto nuovo, riguarda il diritto al ritorno dei tedeschi etnici, di cui almeno 15 milioni sono stati espulsi dalla loro patria alla fine della seconda guerra mondiale. Improvvisamente sono diventati oggetto d'interesse per il semplice motivo che molti paesi che li hanno espulsi dopo la seconda guerra mondiale sono diventati membri a pieno titolo dell'Unione Europea, o sono in procinto di diventarlo.
    Si è sollevata un'ondata di tentativi, da parte dei tedeschi etnici espulsi da quei paesi, di recuperare i loro beni e in qualche caso perfino, se possibile, di rientrare nelle loro vecchie case. Ma le loro chances di riuscirci sono minime. Questo perché l'Unione Europea, guidata in questo dalla stessa Germania, si è irrevocabilmente opposta ad ogni "diritto al ritorno" per i profughi d'origine tedesca. Sì, la stessa Unione Europea che insiste nel dire che i "profughi palestinesi" hanno un diritto inalienabile a ritornare nei territori d'Israele, non riconosce lo stesso diritto ai profughi d'origine tedesca.
    Prima della seconda guerra mondiale, c'è stata una grande diaspora di tedeschi etnici in tutta l'Europa centrale e orientale. Molti provenivano da famiglie che erano emigrate al tempo del Medio Evo e anche prima. Abitavano in Polonia, Russia, Cecoslovacchia, Paesi Baltici, Ungheria e Balcani. In certe zone si erano insediati quando quei paesi erano stati assorbiti nell'Impero Asburgico o liberati dalla dominazione ottomana. Erano arrivati come mercanti, funzionari civili istruiti, bottegai, mercenari, missionari o altro. In maggior parte vivevano nelle città ed erano quasi i soli artigiani non agricoli nelle città dei paesi sottosviluppati. Spesso dominavano le corporazioni. Per una di quelle deliziose ironie della storia, i cristiani tedeschi spesso emigravano verso città e villaggi dell'Europa orientale e centrale fianco a fianco con ebrei germanizzati, e svolgevano spesso le stesse attività commerciali.
    Il periodo tra le due guerre mondiali ha visto la radicalizzazione e la nazistificazione di molti di questi tedeschi. La storia più conosciuta è quella dei tedeschi dei Sudeti, che hanno giocato un ruolo importante nell'annientamento della Cecoslovacchia. Quando ricevettero da Hitler il segnale, i tedeschi dei Sudeti scatenarono pogrom, atrocità terroristiche e sollevamenti armati contro la Cecoslovacchia, tutto questo nel nome dell'"autodeterminazione", ma, in realtà, per fornire un alibi all'aggressione nazista. Pretendendo di essere "oppressi" e "occupati" (suona familiare ai partigiani del Medio Oriente?) dalla democratica Cecoslovacchia, la loro "penosa situazione" era la foglia di fico che copriva l'aggressione fascista perpetrata dalla Germania.
    La storia si ripeterà ampiamente più tardi, quando saranno i "palestinesi" a giocare il ruolo dei Sudeti, e la loro "penosa situazione" servirà di copertura all'aggressione fatta dagli Stati arabi fascisti contro Israele.
    Meno ben conosciute sono le storie di insurrezioni simili e di sedizioni fomentate dalle minoranze tedesche nel resto dell'Europa prima della seconda guerra mondiale. Anche se non tutti i tedeschi etnici hanno apertamente sostenuto e aiutato Hitler, furono comunque parecchi. Dopo la guerra, la maggior parte dei tedeschi etnici furono espulsi, a forza di baionette, dai paesi nei quali avevano vissuto per generazioni, e i profughi furono "rimpatriati" nella Repubblica Federale Tedesca (e, in misura minore, in Austria). Stalin deportò un gran numero di tedeschi etnici della Russia in Siberia e in altre regioni orientali.
    A conti fatti, si stima che 15 milioni di tedeschi etnici sono stati espulsi dagli Stati non tedeschi dell'Europa orientale e centrale, tre quarti dei quali provenienti dalla Cecoslovacchia e dalla Polonia (nello stesso periodo, giapponesi etnici sono stati espulsi dalla Manciuria e dalla Corea, essenzialmente per le medesime ragioni).
    I profughi tedeschi sono stati assorbiti e reinsediati sul loro suolo dalla Germania (soprattutto dalla Repubblica Federale Tedesca), e senza un centesimo di aiuto dall'UNRWA, l'agenzia dell'Onu per l'aiuto ai profughi che per decenni ha versato somme enormi di denaro contante ai palestinesi. Come i palestinesi, quei tedeschi etnici erano diventati profughi in conseguenza di una guerra d'aggressione scatenata dai loro compatrioti tedeschi, una guerra in cui si sono trovati dalla parte degli sconfitti. Ma, a differenza della maggior parte dei "profughi" palestinesi che divennero profughi perché scapparono dalle zone di combattimento su ordine dei capi della milizia araba al tempo della guerra israeliana d'indipendenza, quei tedeschi sono diventati profughi perché sono stati cacciati di forza dai paesi che li ospitavano DOPO la fine della seconda guerra mondiale. I tedeschi hanno lasciato dietro di loro grandi quantità di beni, mentre quasi tutti i "profughi" palestinesi erano contadini poveri che lavoravano per conto di aristocratici arabi feudali, e che hanno lasciato dietro di loro ben pochi beni o assolutamente nulla.
    Ancora più importante è il fatto che la Germania e l'Austria hanno rifiutato a tutti i profughi di nazionalità tedesca il diritto a ritornare nelle loro precedenti nazioni e perfino a ricevere da quei paesi qualsiasi risarcimento, sotto qualsiasi forma. Al contrario, la Germania (ma non l'Austria) ha pagato delle riparazioni ai paesi stessi che hanno espulso i profughi. Eppure, a dire il vero, molti profughi d'origine tedesca erano stati soltanto spettatori innocenti che non erano mai stati nazisti e non avevano maltrattato nessuno.
    Ma oggi il governo tedesco e gli eurocrati dicono: niente da fare. Questi profughi tedeschi non sono che pochi milioni di vittime in più oltre ai molti milioni di vittime anonime dei crimini della Germania, e devono semplicemente continuare a vivere senza elemosine. Il loro "risarcimento" consiste nel loro reinsediamento in una Germania libera, democratica, capitalista e prospera.
    La Germania stessa ha promulgato la sua propria Legge del Ritorno che consente a tutti i tedeschi etnici di ottenere la cittadinanza di questo paese. Gli stessi eurocrati e i sapientoni dei media che accusano Israele di "razzismo" a causa della sua Legge del Ritorno che accorda automaticamente la cittadinanza agli ebrei che lo richiedono, non hanno mai avuto problemi con una legge "razzista'" tedesca dello stesso tipo. Nel frattempo, perfino la commemorazione della situazione dei profughi tedeschi etnici ha incontrato una forte resistenza in Europa.
    C'è una lezione da trarre da tutto questo nel 2004. In fin dei conti, per quei tedeschi etnici i motivi legittimi per un risarcimento e per il riottenimento delle loro proprietà sono molto più forti di ogni pretesa "palestinese" a dichiararsi "profugo". I palestinesi hanno giocato esattamente lo stesso ruolo dei tedeschi dei Sudeti, e le pretese di un "diritto all'autodeterminazione" dei palestinesi fanno eco a simili pretese dei tedeschi dei Sudeti negli anni '30. In entrambi i casi, le richieste non sono altro che una foglia di fico che nasconde l'aggressione fascista a una democrazia.
    Come i Tories lealisti che fuggirono dai giovani Stati Uniti, non si è mai pensato che i profughi tedeschi etnici dovessero ottenere qualsiasi forma di risarcimento dai paesi da cui sono fuggiti o che li hanno espulsi. Non solo non hanno ricevuto alcun risarcimento da quei paesi, ma la Germania stessa ha pagato dei risarcimenti ai

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paesi che avevano espulso quei tedeschi etnici, e che erano state vittime dell'aggressione nazista.
    Gli stessi dirigenti mondiali e commentatori dei media che esigono che Israele risarcisca i "palestinesi" e consenta loro di "ritornare", dopo quasi sessant'anni, sui territori israeliani, i territori su cui Israele è stato vittima dell'aggressione araba e fascista, non riescono a capire il motivo per cui il problema di questi "profughi palestinesi" dovrebbe cadere esattamente come quello dei profughi etnici tedeschi della fine degli anni '40.
    Qual è dunque il vero motivo che spinge gli euro-clowns a disinteressarsi del "diritto al ritorno" dei tedeschi etnici, ma a richiederlo per i "palestinesi"?
    La risposta è semplice.
    La garanzia di un tale diritto ai tedeschi etnici non avrebbe come conseguenza la morte d'Israele. Per questo gli europei non sono interessati.

(FrontPageMagazine.com, 26.08.2004)






5. LA CULTURA DELLA VIOLENZA NEI PAESI ARABI





Il giornalista ed ex ministro delle Comunicazioni del Kuwait, dottor Sa’ad bin Tefla, è stato intervistato dalla televisione giordana sulla cultura della violenza nei paesi arabi. Il dott. bin Tefla ha respinto l’idea che possa essere collegata a Israele o agli Stati Uniti e ha invece criticato radici culturali, frustrazione, estremismo religioso e violenza inter-araba. Seguono brani dell’intervista.(1)


“La diffusione della corrente religiosa estremista intensifica la frustrazione dei giovani”

“ (…) Stragi, distruzioni, anarchia e spargimento di sangue in nessun modo rispecchiano il Jihad, secondo la Shari’a e la resistenza. Essi sono anarchia, terrorismo e segno di frustrazione e di una cultura di suicidio collettivo, che ricorda le balene.

Una cultura che si fonda su motivazioni oggettive e personali. Ma io sostengo che vi è anche un’altra ragione (…) ossia la diffusione della corrente religiosa estremista, che intensifica la frustrazione dei giovani perché gli dice “dovete ottenere [una di queste] due cose, il martirio o la vittoria”. E questo abbellisce la cultura della violenza, rappresentandola come resistenza o Jihad. Ma l’idea del Jihad nell’Islam non è colpevole di queste azioni. Io sostengo che dobbiamo riesaminare questo tipo di cultura (…).

Io sostengo che purtroppo molti alla televisione, alla radio e nella stampa si comportano come (...) chi uccide e poi partecipa al funerale della vittima. Sono loro che hanno spinto questi giovani alla frustrazione e li hanno convinti a morire, per niente, uccidendo altri con loro e a dividre il mondo in bianco e nero. Dico che siamo tutti responsabili di questa cultura e che il sionismo e l’imperialismo non vi hanno nulla a che fare (…)”.


“E’ sbagliato dire che la violenza è il risultato dell’occupazione”

“E’ sbagliato dire che la violenza è il risultato dell’occupazione. L’occupazione francese terminò in Algeria dopo un milione di caduti e, meno di 10 anni dopo, 10.000 algerini sono stati macellati da altri algerini nel nome dell’Islam, più di quanti Israele abbia potuto uccidere nel periodo dell’Intifada.

Le parole “assassinio” e “violenza politica” sono parole arabe, date in prestito a tutte le altre lingue del mondo. Dico ciò come un accademico linguista. La radice delle parole “assassinio” è “hashashiyoun”, dal nome del gruppo di Hassan Al-Sabah, originario di Isfahan nel tredicesimo secolo.

Questa violenza ha radici culturali e non ha legami con l’occupazione, anche se ci sono coloro che la giustificano. Non voglio in alcun modo che si deduca dalle mie parole che sto difendendo o giustificando l’occupazione. Ma dico che questa logica, che rigetto, è [utilizzata per] giustificazione [la violenza] in Iraq ed in altri luoghi”.


“Il numero delle vittime in Algeria e sotto altri regimi arabi è maggiore del numero dei palestinesi uccisi da Israele”

“L’Iraq è stato occupato [dagli Stati Uniti] un anno fa. Ma già prima c’era nel paese una violenza che ha provocato più di un milione di morti iracheni, iraniani, curdi, kuwaitiani e altri. Non è stata opera dei sionisti, dell’occupazione o dell’America. E’ stato fatto da arabi e musulmani di Baghdad.

Il numero delle vittime in Algeria e sotto altri regimi arabi è maggiore del numero dei palestinesi uccisi da Israele. Quelli di cui si è fatto strage in Arabia Saudita alcuni giorni fa erano pacifici musulmani che camminavano per la strada (…) Non vi è alcuna occupazione in Arabia Saudita, nessuna base americana, nessuna presenza americana o esercito americano (…).

Io sostengo che, sfortunatamente, vi è una cultura della violenza che esisteva prima che gli americani venissero in Iraq e nel Golfo, finanche prima dell’occupazione israeliana della Palestina e prima dell’occupazione americana dell’Afghanistan e dell’Iraq.

A mia opinione, è questa logica che sta danneggiando i giovani, portandoli a pensare che c’era [una volta] un buon impero [islamico] che andava dalla Cina ad Est all’Andalusia a Ovest, compresa la Cecenia (…).


Nota:
(1) Jordanian TV, 8 giugno 2004.

(The Middle East Media Research Institute, 24 agosto 2004)





6. UN'ALTRA EBREA «TORNA A CASA»




Italo-egiziana, ex sessantottina, direttrice di Insieme e donna in carriera, passa la vita in fuga dalle sue radici, ma viene folgorata dall’incontro con un grande educatore israeliano. Oggi vive a Gerusalemme e scrive libri per genitori e bambini. Ecco la storia e la testimonianza di Nessia Leniado.


Educazione, o del genio ebraico

di Angelica Calò Livné


Nel 1956, quando Nasser salì al potere, scacciò tutti gli stranieri dall’Egitto. Nessia Laniado aveva 3 anni e suo fratello 10. Ai loro genitori fu permesso di prendere con sé una somma che equivaleva a 20 euro di oggi. Il padre, un dirigente della General Motors, prelevò tutto il denaro che possedeva in banca e comprò ai figli abiti e accessori di tutte le misure. Nessia, che in ebraico significa “miracolo di D-o”, non comprò più un vestito fino a 18 anni.
    
    
Da Avanguardia Operaia a Jonathan
    

    Fuggirono su una nave per dirigersi verso il Brasile, l’unico paese che aveva offerto loro un visto permanente. Quando la nave giunse a Livorno il padre si ricordò che alla fine del 1800 un suo antenato era stato iscritto alla Comunità ebraica. Scesero e controllarono nei libri: Abramo Laniado aveva visto giusto. Non si era mai cancellato da quella Comunità, conosceva il destino degli ebrei e sapeva che prima o poi qualcuno si sarebbe svegliato una mattina e avrebbe deciso di cacciarli via tutti dal proprio paese. Cosi iniziò l’odissea della famiglia Laniado. Una delle migliaia di storie accadute agli ebrei dagli albori dei secoli. Ma questa è una storia diversa. Una storia di cambiamento totale. Di evoluzione. Di legami profondi con personaggi radicati nella morale ebraica che nella sua autenticità diviene un esempio universale per tutti.
    Nessia e la sua famiglia cominciano a girare per l’Italia. Vicenza, Catania, Verona, Milano. Parlano sei lingue, riescono a riacquistare la posizione di prestigio che avevano in Egitto ma nessuna casa è la loro casa. Nata nel ’53 incontra il ’68 nel periodo dell’adolescenza e viene soggiogata dal fascino di quegli anni: entra nel movimento studentesco, si impegna nelle lotte operaie. Il vagare continuo dovuto alle sue origini crea in lei un rigetto per tutto ciò che è ebraismo e Israele. Vuole essere cittadina del mondo, frequenta i compagni di sinistra e sionismo è sinonimo di negatività e potere. E' attiva in Avanguardia Operaia. è sempre stata diversa, ora vuole essere uguale agli altri. Comincia a lavorare al Quotidiano dei lavoratori ed è convinta che gli ebrei debbano assimilarsi ai popoli tra i quali vivono. Non crede nel sionismo, non prova nessun sentimento per l’ebraismo né verso gli ebrei e la sua famiglia, profondamente laica, non giudica le sue scelte.
    Quando nasce Jonathan, il primo figlio, il padre chiede inaspettatamente se gli verrà fatta la circoncisione. Nessia, sorpresa di questa richiesta risponde negativamente. E' Filippo, suo marito, cattolico, che capisce il sentimento del padre che alla reazione della figlia risponde mestamente «allora non avrò nessun nipote ebreo?», che la convince a circoncidere il bimbo per rispetto del padre.
    
    
Scoprirsi ebrei
    

    Non conoscono nessun ebreo. Non hanno neanche 10 amici per fare Minian, il numero minimo per poter pregare insieme. è un primo segno. Il primo flebile richiamo delle sue origini. Nasce anche Micol e Nessia si rende conto che i suoi figli sono il tesoro più grande della sua vita. E' all’inizio di una brillante carriera giornalistica, scrive su riviste di gastronomia, di viaggi, riceve cariche importanti ma è diversa dalle colleghe. Quando parlano dei propri figli si esprimono dicendo: «Da quando c’e questo qui», come se il figlio fosse un peso, un intruso, e Nessia non riesce a condividere con nessuno la sua esigenza viscerale di madre e donna che lavora e che continua faticosamente ad adempiere a tutti i suoi doveri di madre, di moglie, di dirigente. L’educazione diventa il suo interesse principale. Legge Selma Freiberg, Bruno Bettelheim, Erich Fromm, B.T. Brazelton. Non vuole ammettere tale scoperta, ma tutti questi autori hanno qualcosa in comune: sono di origine ebraica. Quando per caso per le vacanze estive arriva a Crans Montana in Svizzera, c’e un gruppo di famiglie della Comunità ebraica di Milano e qualcosa succede. C’e qualcosa nel modo in cui quelle madri si rivolgono ai propri figli. Qualcosa di famigliare. è una sensazione strana. Mai provata da anni. La sensazione di “essere a casa”. Per la prima volta sente quella sensazione di “appartenenza” che aveva respinto, aborrito. Avrom Hazan, un ebreo Lubawitch del gruppo, le fornisce libri e letture sull’educazione, la tradizione e i valori ebraici. Nessia si appassiona a queste letture e riscopre qualcosa di atavico che era in lei. Comincia a studiare il Talmud, la Bibbia, vuole sapere di più sul concetto dell’educazione come parte integrante della tradizione ebraica. Del bambino come fulcro delle attenzioni e della trasmissione dei valori. Nella cultura occidentale il concetto dell’infanzia è nato nel 1800 con Rousseau, il Talmud da sempre insegna che a un bambino bisogna parlare con un linguaggio di bambini per poter far sì che capiscano un concetto per adulti. Nel 1989 dirige il giornale Donna e mamma, nel ’93 dirige Insieme. Sente il bisogno di dare ascolto ai suoi figli. Di dar loro un posto sicuro.
    
    
L’incontro con Feuerstein
    

    E' in quell’anno che conosce il professor Reuven Feuerstein dell’International Center for Enhacement of Learning Potential di Gerusalemme. Un ebreo romeno scampato alle camere a gas che da anni dedica la sua vita all’educazione in Israele e nel mondo. Arriva a Milano e spiega il suo lavoro educativo con ragazzi handicappati, la sua teoria sull’intenzionalità dell’educazione, sul ruolo dei genitori come mediatori, sulla possibilità di cambiare ed educare persone anche in età adulta, di sviluppare le proprie facoltà di pensiero, di morale e di comportamento attraverso lo studio delle proprie radici, dei simboli e della cerimonia per consolidare la propria identità.
    Dopo qualche mese, per la prima volta e solo per lavoro, non certo per le proprie origini, Nessia arriva in Israele per approfondire i suoi studi sulle teorie di Feuerstein. L’Israele che appare ai suoi occhi è una creatura completamente diversa dal mostro sionista tentacolare che le aveva disegnato nella mente il suo passato di militante di estrema sinistra. Mi dice Nessia: «Era un paese in fermento, in funzione di vecchi e bambini. Una panchina ogni cento metri per far riposare gli anziani, autisti di autobus che si fermavano per far bere una bambina. E il lavoro straordinario di Feuerstein: ragazzi down che si occupavano di malati di Alzheimer, perché l’ideale è utilizzare le risorse umane. I ragazzi down ricevono un diploma dopo aver seguito un corso di preparazione nei centri creati da Feuerstein e divengono i migliori assistenti di malati di Alzheimer poiché lavorano più lentamente ed hanno più pazienza, caratteristica fondamentale per poter curare amorevolmente questo tipo di malati. Tutto questo avvalorato dalla teoria dell’intenzionalità: tu impari qualcosa e lo fai con amore perché sai che in seguito ai tuoi sforzi potrai essere utile a qualcun’altro. «In Israele mi sentivo a casa. Era una sensazione inimmaginabile per me. Quando tornai l’impatto fu grande: “Non sarai mica diventata sionista?” mi domandavano i miei amici scandalizzati da questo improvviso entusiasmo per Israele. Ed io non potevo dimenticare ciò che avevo visto. Cose come il volontariato obbligatorio nei licei, ragazzi che lavoravano con disabili, con obiettivi ben precisi con cui dovevano misurarsi, e risultati che venivano valutati all’esame di maturità come la matematica, la storia o la filosofia. O bambini delle elementari che alle 7 del mattino e alle 13, cioè all’entrata e all’uscita di scuola, con una divisa gialla bloccavano le macchine davanti all’entrata e aiutavano i loro compagni ad attraversare la strada dopo aver seguito a scuola un corso per vigili. I ragazzi imparavano a gestirsi e a gestire. A prendere responsabilità, ad essere parte integrante della propria comunità.
    Ero completamente innamorata. Io quelle cose le sognavo, le scrivevo sui miei giornali di educazione e lì, in Israele, venivano messe in pratica quotidianamente».
    
    
Ritorno a Israele
    

    Gli studi sull’educazione e l’ebraismo si intensificano. Nessia approfondisce la sua conoscenza delle teorie di Feuerstein. La sua intuizione, «l’uomo è modificabile» è un segno di speranza per tutti: per i disabili, per i genitori senza risposte, per i popoli in guerra.
    Nel 1996 con suo marito e i suoi due figli, Nessia si trasferisce in Israele. Si impegna a divulgare il pensiero educativo di Feuerstein, spiega la sua opera in una serie di libri avvincenti, scritti con grande semplicità e amore che spiegano Come insegnare l’intelligenza ai vostri bambini, Come stimolare, giorno per giorno, l’intelligenza dei vostri bambini. Piccoli manuali ispirati alle teorie e al lavoro sisifico di Feuerstein e del suo staff per cercare di dare a ognuno una dignità, per sviluppare il senso della responsabilità, della collettività, della tolleranza, della fiducia nelle proprie facoltà. Attraverso l’esercizio si possono cambiare le connessioni neuronali, si può cambiare strutturalmente un cervello. Si puo dare a tutti un’opportunità. Si può migliorare la vita di un disabile e utilizzare al massimo le facoltà di chiunque sottoponendolo a stimoli che parlano al suo spirito, che lo rendono parte di un qualcosa, che lo fanno sentire utile e indispensabile a chi lo circonda. A tre anni Feuerstein sapeva leggere la Torà, quando ne aveva dieci, era ancora in Romania, un tassista ebreo lo pregò di insegnare a suo figlio, che non poteva leggere e scrivere per un ritardo mentale, a recitare il Kaddish, altrimenti nessuno avrebbe potuto recitarlo quando sarebbe morto. Il giovane Reuven ci riuscì. Fu quello l’inizio. «Se vuoi che l’insegnamento sia radicato, devi dargli un obiettivo morale. Siamo fatti a Sua immagine e siamo qui per continuare la Sua opera. Siamo qui per trasmettere ed insegnare a trasmettere, come sta scritto, “E lo ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai con loro, quando andrai per la strada, quando ti coricherai di sera e ti alzerai al mattino”.
    Educare è un dovere».
    
(Club Livuso, 23.08.2004)





7. LA FORMA NUOVA DI UN ODIO ANTICO




Dall'ultimo, eccellente libro di Fiamma Nirenstein, "Gli antisemiti progressisti - La forma nuova di un odio antico" (Rizzoli, giugno 2004), riportiamo il seguente brano:

«E' prevalente l'idea della lobby ebraica che spinge Bush a proteggere Israele dalla giusta rabbia dei palestinesi perseguitati. In una sconvolgente conversazione che ho avuto recentemente, il mio interlocutore, un professore universitario, mi ha detto: "Bene, la guerra contro il terrore va senza dubbio combattuta; ma se ci chiediamo dove affondano le sue origini, tutto punta su Israele. L'attentato alle Torri Gemelle ne è perciò una conseguenza". Io ho replicato: "Supponiamo che lei abbia ragione; che cosa farebbe oggi?" La sua risposta è stata di una chiarezza cristallina: "Se il motivo di tutto questo conflitto internazionale è Israele, allora anche gli Stati Uniti dovranno abbandonarlo al proprio destino e lasciare che scompaia. L'America, come al solito, sta imponendo al mondo soluzioni che vanno contro ogni giustizia. Gli arabi hanno ragione: Israele è un corpo estraneo uno strumento di colonizzazione americana che deve scomparire".

Le parole del professore universitario non potrebbero illustrare meglio la "forma nuova di un odio antico" contro gli ebrei. In questo caso però, più che di forma nuova forse si dovrebbe parlare di aggiornamento semantico di un frasario vecchio. La formula standard è più o meno questa:

Diagnosi: un male grave presente nel mondo viene descritto;
Causa: la presenza degli ebrei;
Rimedio: farli sparire.

Nelle auree parole del professore universitario la formula funziona così:

Diagnosi: il male di oggi è il terrorismo;
Causa: la presenza dello Stato d'Israele;
Rimedio: farlo sparire.

E' importante, trattandosi di una persona colta e "per bene", notare la scelta delle parole: oggettive e prive di elementi emotivi . Israele è un "corpo estraneo". E che si fa quando in un organismo sano entra un corpo estraneo? Naturalmente si cerca di espellerlo.
Vengono in mente le parole di un alto funzionario del Ministero degli Esteri nazista, che in occasione di una sua visita in Slovacchia ebbe a dire:

"La questione ebraica non è una questione di umanità, non è una questione di religione; è unicamente una questione di igiene politica".

Gli ebrei in Germania erano un corpo estraneo che ostacolava la romantica aspirazione di molti tedeschi a costituire un "Volk" idealmente unito, radicato sulla propria terra e guidato da un unico Führer che ne impersonasse la spirituale unità. Le valutazioni sulle qualità degli ebrei e sui metodi da usare per sbarazzarsene potevano essere di vario tipo, e probabilmente molti che "non avevano nulla contro gli ebrei" avrebbero proposto metodi più "umani" di quelli che poi sono stati usati. Ma il fatto fondamentale è che gli ebrei dovevano semplicemente sparire dall'orizzonte.
Invece degli ebrei nel contesto mitteleuropeo, oggi abbiamo lo Stato d'Israele nel contesto della comunità internazionale. Ma la diagnosi del male e la relativa terapia restano le stesse: in un modo o nell'altro, gli ebrei devono sparire, spostarsi, andare da qualche altra parte. E se non lo faranno di propria volontà, si provvederà con la forza. E' una questione di "igiene politica" internazionale.

Con il suo libro Fiamma Nirenstein vuole togliere la scappatoia della distinzione fra ebrei e Stato d'Israele, con la quale molti vorrebbero poter dire che non sono contro gli ebrei, ma soltanto contro lo Stato governato da Ariel Sharon. Queste capriole intellettuali non devono più essere consentite. Senza mezzi termini si deve avere la decisione di affermare che:

• Chi sostiene che lo Stato d'Israele deve sparire, è un antisemita.
• Chi sostiene che Israele è uno Stato aggressore, è un antisemita.
• Chi manifesta una qualsivoglia "comprensione" per gli attentati suicidi, è un antisemita.

E come tale deve essere considerato e trattato.

Marcello Cicchese





8. MUSICA E IMMAGINI




Lea - Dori Ben Zev




9. INDIRIZZI INTERNET




Israel My Beloved

Exobus Project




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