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Notizie su Israele 258 - 21 settembre 2004

1. «Oggi si può firmare qualsiasi cosa in Medio Oriente»
2. La tradizione islamica insegnata ai palestinesi
3. Il terrorismo palestinese ha fatto scuola
4. Espulso dalla Germania l'organizzatore del congresso islamista
5. Un periodo di riflessione di dieci giorni
6. Affinché la sofferenza un giorno sia dimenticata
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 62:6-7. Sulle tue mura, Gerusalemme, io ho posto delle sentinelle; non taceranno mai, né giorno né notte. Voi che destate il ricordo del SIGNORE, non abbiate riposo, non date riposo a lui, finché egli non abbia ristabilito Gerusalemme, finché non abbia fatto di lei la lode di tutta la terra.
1. «OGGI SI PUO' FIRMARE QUALSIASI COSA IN MEDIO ORIENTE!»




«Il ritiro d'Israele da Gaza è un grande errore»

di Elias Levy

In un'intevista concessa al "Canadian Jewish News", l'islamista Raphael Israeli, professore all'Università Ebraica di Gerusalemme, parla degli errori commessi dal governo israeliano nel tentativo di ottenere la pace.


Raphael Israeli
«Il piano di evacuazione da Gaza e da qualche insediamento ebraico in Cisgiordania sbandierato da Ariel Sharon è un grandissimo errore. Sharon non ha preso questa iniziativa per convinzione personale, ma in seguito a insistenti pressioni esercitate su di lui dagli americani. Dopo aver evacuato Gaza, Israele sarà obbligato a ritirarsi progressivamente dalla Cisgiordania. Israele non riceve nulla come contropartita. I palestinesi non si impegnano in niente, e a poco a poco si dà loro quello che vogliono. Diranno che devono semplicemente aspettare e continuare l'intifada. Noi stiamo ricompensando persone che non meritano alcuna ricompensa».

Il politologo e islamologo israeliano Raphael Israeli ritiene che un ritiro unilaterale a tappe dalla striscia di Gaza e dalla Cisgiordania è «una perniciosa incongruenza», perché rafforza nei palestinesi la convinzione che non è più necessario sedersi attorno a un tavolo di negoziati per cercare di risolvere questo conflitto.

«Dopo questo ritiro unilaterale, Israele sarà costretto ancora una volta a ritornare al punto di partenza. Non si può negoziare senza avere davanti a sé un interlocutore serio. Sharon propone oggi agli israeliani una soluzione che non potrà che essere temporanea, perché una volta che sarà attuata bisognerà cercare altre soluzioni per continuare a soddisfare gli americani e la comunità internazionale», ha spiegato Raphael Israeli nel corso di un'intervista che ci ha concesso in occasione di un suo recente passaggio a Montréal, dove ha partecipato alla "Quinzaine Sépharade"».

Per questo fine conoscitore del mondo islamico, professore all'Università Ebraica di Gerusalemme, l'unica soluzione capace di sbrogliare il conflitto israelo-arabo è l'opzione giordana. Un'opzione caldeggiata da Ariel Sharon e dalla destra israeliana all'inizio degli anni '80.

«Non si può continuare a girare in tondo! Oslo è stato un enorme fallimento. E' ora di affrontare il problema palestinese come un tutto unico e non scinderlo in quattro tronconi diversi», dice. «Quasi la metà del popolo palestinese vive in Giordania. Circa il 30% dei palestinesi vive a Gaza e in Cisgiordania. Un milione di arabi, che si dicono palestinesi, vivono in Israele. E c'è un altro milione di palestinesi che vive nei campi profughi del Libano, della Siria e... nella diaspora: Stati Uniti, Canadà, Europa... Oggi tutta l'attenzione internazionale è concentrata sul terzo dei palestinesi che vive nei territori. Così, non si potrà risolvere che un terzo del problema. Gli altri due terzi resteranno irrisolti».

Secondo Raphael Israeli, nessuna plausibile prospettiva di pace potrà emergere dal nebuloso orizzonte mediorientale fino a che non si affronterà il problema con un approccio globale.

«Il territorio palestinese è diviso in tre parti: la Giordania, dove il 70% della popolazione è palestinese, la Cisgiordania e la striscia di Gaza, e il territorio su cui è stato fondato lo Stato d'Israele. Non si avrà mai una soluzione fino a che non si tratterà il problema prendendo in considerazione tutto il popolo palestinese e tutta la terra d'Israele e della Palestina. Si tratta di uno stesso territorio che porta due nomi diversi. Gli ebrei israeliani e gli arabi palestinesi sono i proprietari di tutta la terra d'Israele-Palestina», insiste Raphael Israeli.

Secondo lui, l'instaurazione di uno Stato palestinese nel regno giordano diminuirebbe l'importanza del problema sicurezza, cruciale per Israele.

«La casa hashemita in Giordania non è né un paese né un popolo. E' un regime come quello dell'imperatore Nicola all'epoca della Russia zarista. Se i palestinesi stabiliscono il loro Stato in Giordania, potranno allora fare delle concessioni territoriali in Cisgiordania. Disponendo di un grande territorio, accetteranno più facilmente di smilitarizzare la Cisgiordania. Così come l'Egitto ha accettato, dopo la firma di un trattato di pace con Israele, di smilitarizzare il Sinai e di concentrare il suo esercito sui bordi del Nilo e del canale di Suez. Cominceranno allora a delinearsi i contorni di una soluzione nuova e praticabile».

Una soluzione che, secondo Raphael Israeli, non obbligherà gli israeliani a sgomberare delle parti dei territori della Cisgiordania e di Gaza.

«Nessuno dovrà muoversi. Degli israeliani potranno vivere nel territorio palestinese e dei palestinesi continueranno a vivere in Israele».

Per Raphael Israeli, lo Stato d'Israele ha commesso un enorme sproposito a firmare, nel 1994, un trattato di pace con la Giordania.

«E' uno dei più grandi errori commessi da Israele in questi ultimi anni. Sottoscrivendo un trattato di pace con la Giordania, Israele ha legittimato la dinastia reale hashemita. Dopo la firma di questo accordo, i giordani hanno detto a Israele: "Adesso non resta che sistemare il problema palestinese. E' un problema vostro, non nostro!" Israele non avrebbe mai dovuto firmare un trattato di pace separata con la Giordania. Gli israeliani pagano oggi caramente il prezzo di questa pseudo-pace. Israele avrebbe dovuto firmare un accordo con i palestinesi, che sono i soli e veri proprietari della Giordania, e non con la dinastia reale hashemita. Se i palestinesi desiderano che la Giordania sia governata da una monarchia costituzionale, come l'Olanda o la Svezia, è un problema loro, non di Israele. E' a loro che compete di scegliere i loro dirigenti».

Raphael Israeli critica molto severamente il piano di pace di Ginevra che, secondo lui, non è che un «sotterfugio fallace» per prendere in giro l'opinione pubblica israeliana.

«I palestinesi che hanno elaborato e firmato gli Accordi di Ginevra sono degli intellettuali più o meno moderati che auspicano un accordo con Israele. Ma il tipo di accordo che propongono è così estremo che i governi israeliano e palestinese si sono subito preoccupati di rigettarlo».

Gli architetti israeliani degli Accordi di Ginevra sono gli stessi che hanno negoziato a Oslo con i palestinesi, ricorda.

«Hanno già fallito a Oslo e continuano caparbiamente a offrire ancora una volta ai palestinesi le stesse cose che gli hanno offerto nel 1993 e anche più. A Ginevra, per tentare di risolvere direttamente tutti i problemi, hanno accettato di fare delle concessioni inaccettabili nel capitolo della sicurezza d'Israele. Ho letto attentamente tutti i documenti di quell'accordo. Propongono di mettere la sicurezza d'Israele sotto la protezione di una trentina di nuove istituzioni israelo-palestinesi. E' insensato!»

Gli accordi di Ginevra, aggiunge, sono «catastrofici e non hanno alcuna legittimità».

«Io potrei firmare con lei un contratto per venderle la torre Eiffel. Ma diventerebbe per questo sua domani? Si può firmare qualsiasi cosa oggi, soprattutto in Medio Oriente!»

(Canadian Jewish News, 15.09.2004)

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Altra intervista al prof. Raphael Israeli: cliccare qui





2. LA TRADIZIONE ISLAMICA INSEGNATA AI PALESTINESI




Lezioni di genocidio alla TV palestinese

Per due volte in tre giorni due esponenti religiosi legati all’Autorità Palestinese hanno invocato il genocidio degli ebrei. Trasmessi dalla televisione ufficiale dell’Autorità Palestinese, entrambi hanno invitato all’assassinio di ebrei fino all’annientamento del popolo ebraico. Entrambi hanno presentato l’uccisione di ebrei non solo come una volontà di Dio, ma anche come una fase storica necessaria che deve essere attuata ora. A sostegno dell’obbligatorietà di tali uccisioni entrambi hanno citato lo stesso “hadith” (tradizione islamica attribuita al profeta Maometto) secondo il quale è volontà di Dio che i musulmani uccidano gli ebrei prima dell’ora della resurrezione (“L’ora della resurrezione non avrà luogo finché i musulmani non combatteranno e uccideranno gli ebrei, e gli ebrei si nasconderanno dietro la roccia e dietro l’albero, e la roccia e l’albero diranno: oh musulmano, oh servo di Dio, ecco un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo”).
    Molte volte, negli ultimi anni, accademici e personalità religiose e palestinesi hanno insegnato pubblicamente che questo specifico “hadith” è valido ancora oggi, indicando l’uccisione di ebrei come un dovere religioso legato al divino, indipendentemente da qualunque conflitto territoriale o di confine.
    Nel sermone di uno dei due religiosi si fa anche riferimento alla definizione degli ebrei come “fratelli di scimmie e maiali”. Diversi esponenti religiosi legati all’Autorità Palestinese, basandosi su un episodio del Corano, insegnano che gli ebrei vennero maledetti da Dio e trasformati in scimmie e maiali.


Brani trasmessi dalla televisione dell’Autorità Palestinese

Dal sermone del venerdì [10 settembre] dello sceicco Ibrahim Madiras:

“Ha detto il Profeta: La resurrezione non avrà luogo finché i musulmani non combatteranno gli ebrei e finché i musulmani non li uccideranno. I musulmani uccideranno gli ebrei, se ne rallegreranno, si rallegreranno per la vittoria di Dio. Ha detto il Profeta: gli ebrei si nasconderanno dietro la roccia e dietro l’albero, e la roccia e l’albero diranno: oh servo di dio, oh musulmano, ecco un ebreo dietro di me, vieni e uccidilo. Perché tanto accanimento? Perché non c’è nessuno sulla faccia della terra che ami gli ebrei: non un uomo, non una roccia, e non un albero, tutti li odiano. Essi distruggono ogni cosa, distruggono gli alberi e distruggono le case. Tutti vogliono vendicarsi degli ebrei, questi maiali sulla faccia della terra, e il giorno della nostra vittoria, a Dio piacendo, arriverà”.
(trasmesso dalla tv dell’Autorità Palestinese il 10.09.04)

Dalla trasmissione televisiva settimanale del dott. Muhammad Ibrahim Maadi:

“Muoviamo questa crudele guerra contro i fratelli delle scimmie e dei maiali, gli ebrei e i figli di Sion. Gli ebrei vi combatteranno e voi li soggiogherete. Fino a quando gli ebrei staranno dietro l’albero e la roccia. E l’albero e la roccia diranno: oh musulmano, oh servo di Dio, c’è un ebreo dietro di me, vieni a ucciderlo”.
(trasmesso dalla tv dell’Autorità Palestinese il 12.09.04)

(Palestinian Media Watch Bulletin, 14.09.2004 - israele.net)





3. IL TERRORISMO PALESTINESE HA FATTO SCUOLA




Le “vere radici” del terrorismo

da un articolo di Evelyn Gordon

    Gli apologeti del terrorismo amano andare alla ricerca delle sue “vere radici”. Non hanno tutti i torti. Il terrorismo che oggi insanguina Russia e Iraq non viene fuori dal niente. Dove sbagliano è nel credere che le “vere radici” del terrorismo stiano nelle campagne militari in Iraq e in Cecenia, laddove migliaia di altre simili campagne militari non hanno scatenato simili risposte terroristiche. Se le campagne attuali lo fanno è, prima di tutto, perché il mondo – Russia e Stati Uniti in testa – hanno insegnato ai terroristi che l’assassinio di donne e bambini è un modo assai efficace per promuovere i propri obiettivi politici.
    La maggior parte delle tattiche oggi usate da terroristi iracheni e ceceni sono state ideate da quelli palestinesi. Fu l’Olp che inventò il terrorismo aereo, con un’ondata di dirottamenti negli anni settanta. Fu Hamas che trasformò gli attentati esplosivi in una pratica di routine. Persino l’agghiacciante sequestro di un’intera scuola a Beslan, all’inizio di questo mese, non è che la riedizione del sequestro di una scuola nella cittadina israeliana di Ma'alot ad opera di terroristi palestinesi nel 1974.
    Solo che tutti quegli atti, ben lungi dallo screditare i loro autori o la loro causa, hanno anzi installato stabilmente la causa dell’indipendenza palestinese in vetta all’agenda internazionale. Quando l’Olp venne fondata nel 1964 (con l’obiettivo, detto per inciso, di creare uno stato palestinese al posto di Israele, che allora non aveva ancora territori occupati) nessuno parlava di stato palestinese. Anche dopo che Israele, vincendo la guerra del ‘67, aveva conquistato alla Giordania e all’Egitto la Cisgiordania e la striscia di Gaza, nessuno sosteneva l’idea di creare uno stato palestinese in quei territori. Quello che il mondo si attendeva era che Israele si tenesse una parte di quelle terre e restituisse il resto a Egitto e Giordania, in cambio della pace (infatti, anche la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza non parla di stato palestinese né di ritorno ai confini pre-67).
    Quarant’anni dopo, l’idea di uno stato palestinese su ogni centimetro quadrato di Cisgiordania e striscia di Gaza raccoglie consensi in tutto il mondo. Questo notevole risultato non è stato raggiunto “nonostante” il terrorismo palestinese, bensì “grazie” al terrorismo palestinese. Molti popoli con aspirazioni nazionali altrettanto e anche più valide, come i tibetani o i curdi iracheni, hanno perseguito l’indipendenza senza fare ricorso al terrorismo, ma le loro aspirazioni raccolgono al massimo un po’ di appoggi a parole da parte del mondo, e spesso addirittura aperta opposizione. Il successo dei palestinesi scaturisce dall’aver convinto la comunità internazionale che la pace dipende dall’acconsentire alle loro richieste.

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Il mondo non solo ha adottato la causa dei terroristi, ma ha anche adottato i terroristi stessi. L’Olp ha un osservatore ufficiale all’Onu e rappresentanze diplomatiche in tutto il mondo. Hamas, che non fa nemmeno finta di aspirare a una coesistenza pacifica con Israele, è bandita solo da un piccolo gruppo di stati.
    Le responsabilità della Russia nel successo dei terroristi palestinesi sono evidenti. Nella sua precedente versione, come Unione Sovietica, è stata il maggiore sponsor e finanziatore dei terroristi. Ha fornito soldi e armi a stati come la Siria e l’Egitto, nella piena consapevolezza che parte di quei soldi e di quelle armi sarebbero stati girati all’Olp. Ha anche utilizzato il suo status di superpotenza per promuovere le richieste dei terroristi palestinesi in vari consessi come le Nazioni Unite, garantendo loro in questo modo un successo che non avrebbero mai potuto ottenere da soli. Oggi l’aiuto materiale è cessato, ma l’atteggiamento diplomatico continua in modo automatico.
    Gli Stati Uniti, al contrario, non hanno mai favorito il terrorismo. Tuttavia, nella loro qualità di superpotenza, oggi unica, essi sono stati determinanti per il successo del terrorismo palestinese in un modo che altri ben più cedevoli e compiacenti, come l’Europa, non avrebbero mai potuto fare. E scelsero di farlo.
    Nel 1988 gli Stati Uniti hanno formalmente riconosciuto l’Olp come “il rappresentante ufficiale del popolo palestinese”, permettendole di aprire una delegazione diplomatica a Washington. E’ vero che l’Olp aveva detto che “rinunciava al terrorismo”, ma era guidata esattamente dagli stessi uomini responsabili della strage nella scuola di Ma'alot, della strage alle Olimpiadi di Monaco, di innumerevoli sequestri di aerei e autobus e di altre atrocità. E non è che i palestinesi avessero democraticamente scelto l’Olp come loro rappresentante. Fu Washington a scegliere di premiare gli autori di 24 anni di attentati e di caos con il riconoscimento diplomatico e il sostegno ad uno stato, anziché metterli al bando.
    Cinque anni più tardi, dopo che gli accordi di Oslo avevano dato vita all’Autorità Palestinese – guidata dalla stessa dirigenza dell’Olp – il terrorismo palestinese contro Israele toccò punte mai viste. Per lo più, è vero, ad opera di Hamas. Ma era l’Autorità Palestinese che si rifiutava di arrestare i colpevoli e di bloccare i loro fondi. E non smetteva nemmeno di celebrare come “martiri” gli attentatori suicidi. Ma gli Stati Uniti, anziché ritrattare il proprio riconoscimento diplomatico e fermare gli aiuti economici, faceva pressione su Israele perché offrisse concessioni sempre maggiori e più rapide.
    Una politica che non è cambiata nemmeno nel 2000, quando i palestinesi risposero all’offerta israeliana di uno stato indipendente su più del 90% dei territori lanciando una vera e propria guerra terroristica. Bill Clinton premiò il terrorismo facendo pressione su Israele perché alzasse ancora l’offerta (fino al 97%, compreso il Monte del Tempio di Gerusalemme). E il suo successore, George W. Bush, lo premiò ulteriormente facendo dello stato palestinese, per la prima volta, un obiettivo esplicito della politica Usa.
    Ancora oggi l’amministrazione Bush, pur boicottando Yasser Arafat, mantiene rapporti con funzionari dell’Autorità Palestinese che rispondono direttamente a lui. L’Autorità Palestinese e l’Olp hanno ancora rappresentanze diplomatiche a Washington, sebbene uno dei peggiori gruppi terroristici, le Brigate Martiri di Al Aqsa, sia apertamente affiliato al Fatah, il movimento che governa sia l’una che l’altra. E Washington continua a sostenere le richieste territoriali dell’Autorità Palestinese attraverso la Road Map, condannando gli sforzi per contrastare il terrorismo che fa Israele e che dovrebbe invece fare l’Autorità Palestinese.
    I terroristi iracheni e ceceni hanno chiari obiettivi politici. I terroristi ceceni vogliono cacciare la Russia per costituire in Cecenia una dittatura islamista. I terroristi iracheni vogliono cacciare gli anglo-americani per costituire in Iraq una dittatura o ba’athista o islamista (vi sono gruppi rivali). In un’epoca di comunicazioni globali, né i terroristi iracheni né quelli ceceni possono far a meno di notare che, ad ogni nuovo round, il terrorismo palestinese ha prodotto sempre maggiore pressione internazionale su Israele perché cedesse alle loro richieste palestinesi. La conclusione è ovvia: per avere successo, devono adottare le stesse tattiche dei palestinesi.
    Solo dimostrando coi fatti che il terrorismo non paga, Russia e Stati Uniti potrebbero ribaltare questa conclusione strettamente logica. E possono farlo solo penalizzando finalmente il terrorismo, anche quello palestinese, anziché premiandolo. Altrimenti dovremo aspettarci di vedere sempre più terrorismo nel mondo, per il semplice fatto che si è dimostrato una tattica efficace.
    
(Jerusalem Post, 13.09.2004 - israele.net)





4. ESPULSO DALLA GERMANIA L'ORGANIZZATORE DEL CONGRESSO ISLAMISTA




BERLINO - Il responsabile del congresso islamista che dovrebbe aver luogo a Berlino all'inizio di ottobre è stato espulso dalle autorità tedesche. Il libanese Fadi Madi ha accusato gli Usa di essere responsabili della sua espulsione.
    Madi aveva progettato a Berlino una conferenza dal titolo "Liberazione dei territori occupati nella lotta contro il dominio americano-sionista". Si aspettava l'arrivo di circa 800 partecipanti tra l'1 e il 3 ottobre, hanno detto gli organizzatori. Né il luogo di riunione, né i nomi degli oratori sono stati resi noti fino a questo momento.
    Madi si trovava a Beirut per occuparsi del sostegno alla conferenza. Quando, sabato scorso, è arrivato a Berlino, le autorità l'hanno subito messo al corrente della sua espulsione, e la sera stessa è dovuto ritornare a Beirut, riferisce il "Berliner Morgenpost"'.
    "Chi, come cittadino di un altro Stato, non riconosce le leggi del nostro Stato e dal territorio della Repubblica Federale fa opera di istigazione contro altri Stati e approva attacchi terroristici, ha perso il suo diritto di soggiorno in Germania", ha dichiarato il senatore di Berlino Erhart Körting commentando la decisione.
    La Procura Federale ha approvato l'espulsione e ha dichiarato decaduto il permesso di soggiorno di Madi. Contro di lui è stato aperto un procedimento per sospetto di aver avviato un'azione di sostegno ad una associazione terroristica, ha riferito l'agenzia di notizie DDP.
    Secondo la rivista "Der Spiegel", la moglie di Fadi Madi aveva comunicato già in maggio alla direzione della polizia distrettuale di Stoccarda le intenzioni di suo marito. In quella occasione si era parlato dei contenuti radicali della manifestazione. I procuratori del Baden-Württemberg avevano comunicato il procedimento a Berlino. Il Ministro degli Interni, Otto Schily, era però venuto a conoscenza della conferenza soltanto attraverso una lettera del "Simon Wiesental Center". La moglie di Madi aveva anche accennato ai contatti di suo marito con il radical-islamico Hezbollah e con il partito nazionalsocialista siriano.
    A Beirut Madi ha reagito all'espulsione accusando Washington: secondo lui gli USA hanno fatto pressioni sulla Repubblica Federale per impedire il Congresso islamista e la sua espulsione è avvenuta "senza alcuna dimostrazione delle accuse".
    Se il controverso congresso avrà luogo, è una questione che le autorità di Berlino decideranno all'inizio di questa settimana.

(Israelnetz Nachrichten, 20.09.2004)





5. UN PERIODO DI RIFLESSIONE DI DIECI GIORNI




Capodanno ebraico: inizia il 5765
  
di Anna Della Moretta
 
Attraverso un complesso rituale il «Popolo del Libro» fortifica il rapporto con Dio e la propria storia

Sono giorni di riflessione. Giorni in cui la vita del popolo si innesta in una vera e propria «architettura del tempo», perché le feste ebraiche non sono un semplice ricordo di eventi che si sono succeduti nella storia di Israele, ma rappresentano per ogni ebreo l’occasione di rivivere tali eventi, ogni anno e di sperimentarli nella propria vita. Le feste di Israele sono, dunque, «celebrazioni-evento» che, attraverso rituali e tradizioni, rafforzano il rapporto dell’ebreo con Dio, con il suo popolo, con la sua terra e con la sua storia.
    Il periodo di riflessione è iniziato, quest’anno, a metà della scorsa settimana in occasione del Capodanno ebraico e terminerà sabato prossimo, quando si celebrerà lo Yom Kippur, il giorno dell’espiazione. Rosh ha - Shanah, il Capodanno, cade nei primi due giorni del mese di Tishrì il settimo mese del calendario ebraico (tra settembre ed ottobre) e rievoca la creazione del mondo, da cui inizia il computo degli anni. In base al calendario ebraico, siamo nel 5765. Capodanno nei primi due giorni del settimo mese? C’è una ragione, parte di quell’architettura del tempo sulla quale si basa la storia del popolo del Libro. La Torah (corrisponde al Pentateuco, la prima delle tre parti della Bibbia ebraica) fissa il mese di Nisan come primo mese dell’anno, sottolineando in questo modo l’importanza storica della liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, che si celebra con la Pesach (Pasqua ebraica) e che segnò la nascita di Israele come popolo. Durante lo Rosh ha - Shanah in Israele e in tutte le comunità ebraiche sparse per il mondo, si respira un’atmosfera assai diversa da quella a cui siamo abituati per il nostro tradizionale Capodanno civile. Non si beve spumante e non si sparano i classici botti: per gli ebrei, infatti, il Capodanno è giorno di riflessione, di introspezione, di auto-esame e di rinnovamento spirituale. È il giorno in cui, secondo la tradizione, il Signore esamina tutti gli uomini e tiene conto delle azioni buone o malvagie che hanno compiuto nel corso dell’anno precedente. Nel Talmud (la raccolta di testi rabbinici a commento della Torah) è scritto: «A Rosh ha - Shanah tutte le creature sono esaminate davanti al Signore». Il giudizio divino verrà sigillato nel giorno di Kippur, o dell’espiazione. Tra queste due date corrono sette giorni che, sommati ai due di Rosh ha - Shanah e a quello di Kippur, divengono «i dieci giorni penitenziali».
    Ma il Capodanno ebraico ha anche un altro significato: è chiamato anche, infatti, «giorno del ricordo» perché, secondo la tradizione, proprio in questa festa Dio ha finito la sua opera di Creazione, dando la vita ad Adamo. Molti ebrei, in occasione del Capodanno, si recano vicino ad un corso d’acqua o davanti al mare e lì, recitando preghiere, vuotano le tasche, un atto che rappresenta il disfarsi delle colpe commesse e un impegno simbolico a respingere ogni cattivo comportamento. Gli ebrei ashkenaziti (originari dell’Europa orientale) in questo giorno vestono di bianco, simbolo di purezza e rinnovamento spirituale. Anche per Capodanno, così come per ogni giorno della vita degli ebrei, esistono regole alimentari e tradizioni che si tramandano da secoli, come il suono dello «shofàr», il corno di ariete. Nei primi due giorni del mese di Tishrì, dunque, gli ebrei - in Italia sono circa trentamila su un totale di 13 milioni, cinque dei quali residenti in Israele - mangiano cibi il cui nome o la cui dolcezza possano essere ben auguranti per l’anno nuovo. Il pane tipico della festa assume una forma rotonda, a simbolo della corona di Dio e anche della ciclicità dell’anno. Con l’augurio che l’anno nuovo sia dolce, si usa mangiare uno spicchio di mela intinta nel miele. Si usa anche piantare dei semi di grano e di granturco che germoglieranno in questo periodo, in segno di prosperità. Il pasto liturgico del Capodanno prevede anche la consumazione di altri alimenti: il porro, gli spinaci, il dattero, la zucchina, il pesce, il melograno e la testa d’agnello, simboli di un anno felice e prospero.
    I giorni che separano il Capodanno dallo Yom Kippur sono, tuttavia segnati più dalla riflessione che dalla festa. Un’introspezione che culminerà, il prossimo 25 settembre, nel giorno dell’afflizione: per venticinque ore gli ebrei non mangiano, non bevono e si astengono da qualsiasi lavoro o divertimento, dedicandosi solo al raccoglimento e alla preghiera; il digiuno che affligge il corpo ha lo scopo di rendere la mente libera e di indicare la strada della meditazione. Kippur è forse la più sentita tra le ricorrenze e anche gli ebrei meno osservanti in questo giorno vivono con più forza il loro legame con l’Ebraismo. Un tempo, gli ebrei più lontani venivano detti «ebrei del Kippur» perché si avvicinavano all’Ebraismo solo in questo giorno, quando il Capodanno si conclude con il suono dello shofar.

(Giornale di Brescia, 20 settembre 2004)





6. AFFINCHE' LA SOFFERENZA UN GIORNO SIA DIMENTICATA




Credo

di Judith Weber

«Io credo al cielo» ha detto l'uccello.
«Io credo all'acqua» ha detto il pesce.
«Ebbene io» ha detto l'ebreo con un sospiro,
«Non credo più a niente.»

«Io credo all'aria» ha detto il fiore.
«Io credo alla gioia» ha detto il giovane.
«Ebbene io» ha detto l'ebreo con indifferenza
«Io credo alla sofferenza.»

L'uccello deve credere al cielo,
Il fiore deve credere alla rugiada.
E affinché la sofferenza un giorno sia dimenticata
L'ebreo deve credere a Israele.

(Guysen Israël News, 14.09.2004)





7. MUSICA E IMMAGINI




Shimu Shimu




8. INDIRIZZI INTERNET




FaithFreedom.org

The American Jewish Committee




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