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Notizie su Israele 257 - 14 settembre 2004 |
1. Intervista con David A. Harris 2. Gli ebrei dimenticati dalla storia 3. Musica e immagini 4. Indirizzi internet |
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1. INTERVISTA CON DAVID A. HARRIS
Gli ebrei sono gli americani più liberali di Philipp Gessler Intervista del quotidiano tedesco "Die Tageszeitung" con David A. Harris, direttore generale del AJC (American Jewish Committee), una delle principali organizzazioni ebraiche americane. Die Tageszeitung - Quando un tedesco esprime la sua posizione cominciando con la frase: "L'influenza della lobby ebraica sul governo americano è molto grande", si può essere sicuri che a queste parole segue qualcosa di antisemitico. Lei ha difficoltà ad usare l'espressione "lobby ebraica"? David A. Harris - Ho dei problemi, perché in Europa, e non solo in Germania, ho fatto già esperienza che quando si usa questa espressione ci sono sotto profondi significati e implicazioni che vanno al di là di quello che normalmente s'intende per "lobby". In Europa c'è la lobby degli agricoltori, e sappiamo quanto è forte in Francia. C'è la lobby degli affari. Negli USA c'è un intero spettro di lobby, etiche, religiose e altro ancora. Ma quando qui in Europa sento riferimenti alla "lobby ebraica" mi preoccupo, perché credo di capire quello che si nasconde dietro questa espressione. D. - La "lobby ebraica" ha una grande influenza sul governo Bush? R. - Anzitutto gli europei devono capire che nella politica americana il "lobbyng" è un'attività del tutto normale e naturale. Ogni gruppo cerca di esercitare influenza, sia che si tratti di medici o di americani cubani o di cattolici o di agricoltori. Gli ebrei in questo non sono diversi. Gli ebrei hanno degli interessi. Hanno delle preoccupazioni riguardo a Israele e alle relazioni israelo-americane. D. - Qui in Germania lei ha parlato con i vertici dello Stato, il Presidente, il Cancelliere. E' difficile avere accesso a Bush? R. - Abbiamo buoni contatti con i dirigenti politici negli USA e all'estero. E' il risultato di molti decenni di lavoro diplomatico e politico. Credo che noi presentiamo pubblicamente una posizione aperta, con disposizione ad ascoltare e discrezione, il che ci fa essere partner fidati. D. - Quando lei vuole parlare con Bush, quanto ci vuole prima di riuscire a ottenere un incontro? Mesi? Settimane? R. - Abbiamo un buon accesso ai vertici politici, sia al governo Bush sia, prima, al governo Clinton. Non c'è una formula che permette di dire quanto dura l'attesa. Comunque, il Presidente Bush ha tenuto il suo primo discorso pubblico nel gennaio 2001, e nella comunità ebraica presso l'American Jewish Comittee (AJC) nel maggio 2001. D. - I leader evangelici riescono ad avere accesso più facilmente di lei? R. - Gli evangelici o "cristiani nati di nuovo" sono una parte importante della sua base elettorale. Non sorprende quindi che abbiano un buon accesso a Bush. D. - Questi gruppi hanno più influenza, per esempio, del suo AJC? R. - Più del 20 percento dei cittadini americani, cioè più di 50 milioni, si definiscono come evangelici: una grossa base demografica per i "Repubblicani". D. - Un precedente leader di "Christian Coalition" ha detto: "Hitler era cattivo, ma quello che i musulmani vogliono fare agli ebrei è peggio". Sono di aiuto questi cristiani riguardo al tema Israele? R. - Negli ebrei, nei cattolici e negli evangelici ci sono gruppi particolari e divisioni. Ma in generale gli evangelici come gruppo sono fortemente a favore di Israele. Di conseguenza sono amici naturali su temi che riguardano Israele. Ma per quel che riguarda i temi di politica interna, la comunità ebraica di solito è di opinione diversa. D. - Per esempio? R. - Oh, su molti temi! Loro tendono ad essere piuttosto conservatori, gli ebrei invece piuttosto liberali; per esempio, su temi come i diritti degli omosessuali, le leggi sulle armi, la separazione tra Stato e Chiesa, l'aborto. Gli ebrei sono molto spesso tra gli americani più liberali. Non ci sono alleanze permanenti. D. - Come ha detto, uno dei suoi temi alla Casa Bianca sarà Israele. Saranno le preoccupazioni degli ebrei a costituire una parte della politica degli USA verso Israele? R. - Lo spero! D. - Con Bush è più facile che con Clinton? R. - La maggioranza degli americani, ebrei e non ebrei, è istintivamente per Israele. In Europa hanno l'impressione che sia la vecchia lobby ebraica a condurre la politica americana. Non è vero. Le organizzazioni ebraiche come l'AJC sono attive, ma non siamo i soli. La maggioranza degli americani sostiene Israele come Stato democratico collegato con gli USA, asilo del cristianesimo e dell'ebraismo. Gli americani credono che il popolo ebraico abbia bisogno di una patria dopo l'olocausto. D. - Nel 2000 solo il 24 percento degli ebrei americani ha votato per Bush, il 66 per cento per Al Gore. Non sarà forse che Bush ha un orecchio non troppo aperto per i rappresentanti ebrei? R. - Non credo che il candidato George Bush nell'anno 2000 si aspettava un'alta quota di voti ebraici. Al Gore era ben conosciuto da anni nella comunità ebraica ed era considerato un grande amico del popolo ebraico. Quest'anno Bush si presenta non con promesse, ma con i suoi fatti. E' convinto che le elezioni si vinceranno per pochi voti, quindi conta ogni voto, soprattutto negli Stati chiave come la Florida. I "Repubblicani"' vogliono alzare la loro quota di elettori ebrei rispetto al 2000. Per me, come attivista politico ebreo, è importante che entrambi i partiti tengano in considerazione l'elettorato ebraico. Naturalmente vogliono gli elettori ebrei, come tutti. E lottano per conquistare l'elettore ebreo. Questo è bene. (Die Tageszeitung, 10 settembre 2004) 2. GLI EBREI DIMENTICATI DALLA STORIA Lettera da un ebreo del mondo arabo di David A. Harris Sono un ebreo dimenticato. Le mie radici hanno quasi duemilaseicento anni, i miei antenati contribuirono a porre pietre miliari nel processo di civilizzazione del mondo e la mia presenza venne sentita tra il nord dell'Africa fino alla terra della luna crescente - ma oggi non esiste quasi più. Vedi, io sono un ebreo del mondo arabo. No, questa definizione non è interamente accurata. Sono caduto in una trappola semantica. Io c'ero già prima della conquista araba di ognuno di questi paesi nei quali ho vissuto. Quando gli invasori arabi conquistarono il nord Africa, per esempio, io lì ci vivevo già da più di sei secoli. Oggi, non troverai le mie tracce nella maggior parte di questa vasta regione. Prova a trovarmi in Iraq, una nazione che probabilmente avrà un gran bel numero di visitatori stranieri molto presto. Ricordi l'esilio babilonese dall'antica Giudea, seguendo la distruzione del primo tempio nel 586 prima dell'era comune? Ricordi la vibrante comunità ebraica che emerse là e che produsse il Talmud babilonese? Sapevi che nel nono secolo, sotto il governo musulmano, noi ebrei eravamo costretti ad indossare una pezza di stoffa gialla sui nostri vestiti come un distintivo - un precursore dell'infame marchio nazista - e ci trovammo di fronte altre misure discriminatorie? Oppure che nell'undicesimo e nel quattordicesimo secolo affrontammo tasse onerosissime, la distruzione di molte sinagoghe e una durissima repressione? E mi chiedo se hai mai sentito parlare del "Farhud", il capitolare della vita civile e delle leggi, a Baghdad nel 1941. Come riporta la cronaca di uno specialista del comitato ebraico americano, George Gruen: "In uno spasmo di violenza incontrollata, tra i 170 ed i 180 ebrei vennero assassinati, più di 900 vennero feriti e 14.500 sopportarono perdite materiali durante le razzie o la distruzione dei loro negozi e delle loro case. Sebbene il governo volesse eventualmente ristabilire l'ordine pubblico... gli ebrei vennero banditi dal pubblico impiego, limitati nelle carriere scolastiche e soggetti al carcere, pesantemente multati, confiscati delle loro proprietà per il più debole sospetto di essere in contatto con gli altri due movimenti banditi (dalla vita politica irachena di quel tempo, n.d.t.). Infatti comunismo e sionismo venivano spesso equiparati per statuto. In Iraq il solo ricevere una lettera da un ebreo nella Palestina di allora (prima del 1948) era sufficiente per sottoporti all'arresto e alla perdita delle proprietà." Al culmine (della crescita demografica, n.d.t.) eravamo in 135.000 ebrei nel 1948, eravamo un fattore vitale ed importante in ogni aspetto della società irachena. Per illustrare il nostro ruolo, ecco cosa scrisse l'enciclopedia giudaica circa l'ebraismo iracheno: "Durante il ventesimo secolo, intellettuali, autori e poeti ebrei diedero un importante contributo al linguaggio arabo e alla letteratura scrivendo libri e numerosi essays". Nel 1950 altri ebrei iracheni ed io affrontammo la revoca della cittadinanza, la confisca delle proprietà e ancor più ominosa, l'impiccagione pubblica. Un anno prima il primo ministro arabo Nuri Sa'id parlò all'ambasciatore britannico ad Amman di un piano per espellere l'intera comunità ebraica e di piazzarla sui gradini del Giordano. L'ambasciatore raccontò l'episodio nelle sue memorie intitolate: "From the Wings: Amman Memoirs, 1947-1951". Nel 1951 miracolosamente 100.000 tra noi lasciarono il paese grazie all'aiuto straordinario da parte di Israele, con un po' meno dei nostri vestiti addosso. Gli israeliani diedero all'operazione di salvataggio il nome di "Esdra e Nehemiah". Quei pochi che restarono, vissero in paura perpetua - paura della violenza e di più impiccagioni pubbliche, come accadde il 27 gennaio del 1969, quando nove ebrei vennero impiccati nel centro di Baghdad sulla base di prove false, mentre centinaia di migliaia di iracheni intorno a loro incitavano selvaggiamente all'esecuzione. Il resto quindi abbandonò l'Iraq in un modo o nell'altro, inclusi alcuni miei amici che trovarono la sicurezza nell'Iran governato dallo Scià. Adesso non ci sono più ebrei a parlare, tanto meno monumenti o musei o altre forme di ricordo per la nostra presenza sul territorio iracheno durato ventisei secoli. I libri di testo dell'Iraq riferiscono della passata presenza ebraica in Iraq? Del nostro contributo positivo allo sviluppo della società e della cultura irachena? Neanche per sogno. Duemila e seicento anni sono stati cancellati, completamente sdradicati, come se non fossero mai esistiti. Potete mettervi al mio posto e sentire il dolore bruciante della perdita e dell'invisibilità? Sono un ebreo dimenticato. Dal governatore egiziano Ptolomeo Lagos (323-282 prima dell'era comune) venni insediato in ciò che oggi è l'attuale Libia, secondo gli scritti dello storico del primo secolo Josefo. I miei antenati ed antenate vissero in modo continuativo per più di due millenni su quel territorio, il nostro numero venne incrementato dai Berberi che si convertirono all'ebraismo, dagli ebrei spagnoli e portoghesi in fuga dall'inquisizione e dagli ebrei italiani che attraversavano il mediterraneo. Venni confrontato con la legislazione anti-ebraica dei fascisti italiani che avevano occupato il paese. Sopportai l'incarcerazione di 2.600 compagni ebrei nei campi dell'"Asse" nel 1942. Sopravvissi la deportazione di duecento fratelli in Italia in quello stesso anno. Riuscii a superare il lavoro forzato in Libia durante la guerra. Divenni testimone dei pogroms nel 1945 e nel 1948 che costò agli ebrei libici la vita di 150 fratelli, centinaia di feriti e migliaia di senza tetto. Guardai con incertezza il divenire uno stato indipendente della Libia nel 1951. Mi chiesi cosa sarebbe avvenuto a quei 6.000 di noi che si trovavano ancora là, e che erano i resti di 39.000 ebrei che avevano formato la allora orgogliosa comunità - questo fu finché i libici mandarono via tutti a fare i bagagli e partire alla volta del nuovo stato di Israele. La nuova buona era che vennero stabilite protezioni costituzionali per i gruppi delle minoranze viventi nel nuovo stato libico. La nuova cattiva era che vennero completamente ignorate. Entro dieci anni di indipendenza del mio paese nativo non potei più votare, tenere uffici pubblici, servire nell'esercito, ottenere il passaporto, acquistare nuove proprietà, acquisire la maggioranza di proprietà in ogni nuovo affare o partecipare alla supervisione degli affari della nostra comunità. Nel giugno del 1967 i dadi vennero tratti. Coloro che erano rimasti, sperando contro la speranza che le cose sarebbero migliorate in un paese al quale erano profondamente attaccati ed il quale un tempo era stato buono con noi, non ebbero altra scelta che quella di fuggire. La guerra dei sei giorni creò un'atmosfera esplosiva nelle strade. Diciotto ebrei vennero uccisi e i negozi e case di proprietà ebraica vennero dati alle fiamme fino a che non ne rimase più assolutamente nulla. Io e 4.000 altri ebrei abbandonammo il paese con i mezzi possibili, i più con una sola valigia in mano e l'equivalente di pochi dollari. Non ci venne mai concesso di tornare. Non ho mai recuperato i profitti perduti in Libia a dispetto delle promesse del governo. Di fatto, tutto venne rubato - le case, i mobili, i negozi, le istituzioni comunitarie. Anche peggio, non fummo mai in grado di visitare le tombe dei nostri cari. Questo ci ferì profondamente ed in maniera particolare. Per la verità mi venne detto, che sotto il colonnello Gheddafi, che prese il potere nel 1969, i cimiteri ebraici vennero invasi dai bulldozzer e le pietre tombali vennero usate per costruire strade. Sono un ebreo dimenticato. La mia esperienza - quella buona e quella cattiva - vivono nella mia memoria, e io faccio il possibile per tramandarla ai miei figli ed ai miei nipoti, ma quanto di essa può venire assorbita da loro? Quanto possono identificarsi con una cultura che sembra più la reliquia di un tempo passato, che appare sempre più remoto ed intangibile? È vero, due o tre libri ed articoli sono stati scritti, ma - e qui voglio essere generoso - essi sono lontani dall'essere Best-Sellers. In ogni caso, possono questi libri competere con il tentativo dei leader del governo libico di cancellare ogni traccia della mia millenaria presenza? Possono questi libri competere con un mondo che virtualmente non pone attenzione alla fine della mia esistenza? Dai un'occhiata all'indice del New York Times del 1967 e vedrai tu stesso come il giornale fa la cronaca della tragica scomparsa di quell'antica comunità. Posso risparmiarti la fatica di guardarci - poche |
righe pietose furono tutto ciò che documenta come andarono le cose. Sono un ebreo dimenticato. Sono una delle centinaia di migliaia di ebrei che una volta vivevano in paesi come l'Iraq e la Libia. Tutti insieme eravamo circa 900.000 persone nel 1948. Oggi siamo meno di 5.000 concentrati in due paesi moderati - Marocco e Tunisia. Una volta eravamo vibranti comunità in Aden, in Algeria, in Egitto, in Libano, in Siria, in Yemen e altre nazioni, con radici profonde e datate letterariamente a più di duemila anni fa. Adesso siamo prossimi al nulla. Perché nessuno parla di noi e della nostra storia? Perché il mondo parla senza pietà ed ossessivamente dei rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967 nel medio oriente - che vennero spostati da guerre dichiarate da parte dei loro fratelli arabi - ma ignorano totalmente i rifugiati ebrei del 1948 e del 1967. Perché il mondo è lasciato con l'impressione che ci sia solo una popolazione di rifugiati nel conflitto arabo-israeliano, o per essere più precisi, nel conflitto arabo con Israele, quando, di fatto, ci sono due popolazioni di rifugiati ed il nostro numero era di qualche misura più grande di quello dei palestinesi? Ho passato molte notti insonni, tentando di capire quest'ingiustizia. Devo sentirmi responsabile di questo? Forse noi ebrei dei paesi arabi abbiamo accettato il nostro fato con troppa passività. Forse abbiamo fallito nel cogliere l'occasione per parlare della nostra storia. Guarda gli ebrei d'Europa. Loro si sono espressi in articoli, libri, poesie, pezzi teatrali, dipinti e film che raccontano la loro storia. Loro seppero rappresentare i momenti di gioia e quelli di tragedia e lo fecero in una maniera che catturò l'immaginazione di molti non ebrei. Forse sono stato troppo fatalista, troppo scioccato, troppo insicuro del mio talento letterario ed artistico. Ma quella non può essere la sola ragione per il mio non voluto stato di ebreo dimenticato. Non è che non ho provato ad attirare almeno un po' di attenzione; l'ho fatto. Ho organizzato assemblee e petizioni, allestito mostre, mandato appelli alle Nazioni Unite e ho incontrato i rappresentanti di quasi tutti i governi occidentali. Ma in qualche modo tutto questo sembra assemblarsi a meno della somma delle sue parti. No, questo è ancora troppo gentile,. La verità è che, è stato come parlare ai sordi. Conosci l'acronimo - MEGO? Significa "My eyes glazed over", cioè: "I miei occhi si appannano". Questa è l'impressione che ho avuto spesso nel tentativo di sollevare l'argomento degli ebrei provenienti dagli stati arabi con diplomatici, rappresentanti eletti e giornalisti - "I loro occhi si appannano". (Their eyes glazed over.) No, non dovrei ritenermi responsabile, sebbene avrei sempre potuto fare di più in nome della storia e della giustizia. Al momento c'è un fattore molto più importante che spiega tutto. Noi ebrei provenienti dai paesi arabi raccogliemmo i pezzi dispersi qua e là della nostra esistenza dopo la nostra partenza - conseguita alla violenza, all'intimidazione e alla discriminazione - e ci trasferimmo. La maggior parte di noi andò in Israele, dove venimmo accolti. Gli anni seguenti al nostro arrivo non furono propriamente i più facili - ricominciammo daccapo e lavorammo per risollevarci. Arrivammo con diversi livelli di istruzione e con poche risorse materiali tangibili. Ma disponevamo di qualcosa in più a sostenerci attraverso il difficile processo di acculturazione ed adattamento: il nostro incommensurabile orgoglio di essere ebrei, la nostra fede profondamente radicata, i nostri stimatissimi rabbini e i nostri usi e costumi così come il nostro impegno nella sopravvivenza e nel benessere di Israele. Alcuni di noi - qualcosa come un terzo o un quarto di noi in totale - scelsero di andare in altri paesi. Gli ebrei dei paesi arabi francofoni gravitarono verso la Francia ed il Quebec. Ebrei dalla Libia crearono comunità a Roma e a Milano. Ebrei egiziani e libanesi vennero dispersi tra l'Europa ed il Nord- America, un piccolo gruppo si stabilì in Brasile. Gli ebrei siriani immigrarono negli Stati Uniti, specialmente a New York, cosí come anche a Mexico City e Panama City. E la vita continua. Ovunque ci stabilimmo, seguimmo la ruota della vita e creammo nuove vite. Imparammo i linguaggi locali, se già non li conoscevamo, trovammo lavoro, mandammo i nostri figli a scuola e, appena potemmo, fondammo nuove congregazioni e comunità per preservare i nostri riti e rituali come qualcosa che distingueva la nostra tradizione. Non sta bene vantarsi, ma io penso che abbiamo fatto bene le nostre cose ovunque noi siamo andati. Non vorrei mai sottovalutare o perdere di vista coloro che per ragioni di età, di salute o di povertà non riuscirono a rimettersi, ma nella maggior parte dei casi in poco tempo facemmo passi da gigante, sia in Israele che altrove. Ma cosa è accaduto ai palestinesi, e gli altri rifugiati del conflitto arabo con Israele? Tristemente, un destino interamente differente e in questa prospettiva io sospetto che le bugie siano il maggior fattore esplicativo per un ampio e vario discorso per trattare delle due saghe che riguardano i rifugiati. Mentre noi essenzialmente sparimmo dallo schermo del radar mondiale in una notte - se mai ci siamo stati - quando ci imbarcammo per le nostre nuove vite, i palestinesi non fecero la stessa cosa. Al contrario, per tutta una serie di ragioni - in parte a causa del loro proprio modo di vedere, in parte per il cinismo dei leader dei paesi arabi e parzialmente anche per le azioni di terzi bene-intenzionati ma privi di lungimiranza - i palestinesi non furono messi in condizione di avere le stesse chance di ricominciare una vita nuova. Invece, vennero manipolati e strumentalizzati. I palestinesi vennero raccolti in campi profughi ed incoraggiati a vivere lì, generazione dopo generazione. Loro beneficiarono dell'aiuto dell'UNRWA, il dipartimento delle Nazioni Unite fondato più di un secolo fa, che non li ristabilì altrove, ma che li mantenne in quei campi e provvede a tutta una serie di servizi di educazione e sociali. Tra l'altro, la gran parte dei fondi UNRWA non veniva dai paesi arabi - molti dei quali non contribuirono nemmeno con un centesimo - ma dai paesi occidentali. Infatti tutte le nazioni arabe insieme non donarono che una minuscola percentuale di un budget annuale della UNRWA. Questo era tutto quello che venne fatto a seguito delle lacrime di coccodrillo compassionevoli e piene di empatia che noi periodicamente sentiamo dal mondo arabo. Le Nazioni Unite comprendono anche l'Alto Commissariato per i rifugiati (UNHCR), responsabile per i 22 o 23 milioni di rifugiati nel mondo oggi che si trovano al di là delle frontiere dei loro paesi di nascita e non sono in grado di rientrarvi, cerca di ristabilire quei rifugiati in paesi che li ricevono come immigranti o altrimenti li aiutano ad arrangiare le loro nuove vite. Unicamente i rifugiati della popolazione palestinese sono al di fuori del campo d'azione del UNHCR. Perché? È ovvio. Qualsiasi spiegazione ufficiale venga fornita, mantenere i campi per i rifugiati significa mantenere l'incubatrice per la guerra contro Israele. Dopo tutto, se ai rifugiati venisse veramente offerta l'occasione per cominciare una vita nuova e produttiva, come accadde a noi, forse la loro animosità verso Israele potrebbe, il cielo ce ne guardi, cominciare a dissiparsi e la loro propensione a produrre "martiri" nelle operazioni terroristiche contro Israele forse diminuirebbe. Ho cercato dappertutto una spiegazione che avesse uno straccio di senso, non ne ho trovata alcuna. La triste verità è che i leaders del mondo arabo non hanno mai voluto risolvere il problema dei palestinesi rifugiati. Hanno preferito nutrirlo e mantenerlo da tutti lati al centro dell'attenzione per poi mantenere ben vive le loro insoddisfazioni verso Israele da dimostrare di fronte a tutto il mondo. Dopotutto, molti nel mondo hanno ingoiato l'osso, e divennero quasi ipnoticamente preoccupati della piaga dei rifugiati palestinesi, senza essersi mai posti le difficili domande ed aver mai pensato a noi - ebrei provenienti dai paesi del mondo arabo. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, suppongo. Se questi diplomatici, politici, giornalisti e attivisti per i diritti civili si fossero mai posti la spiacevole domanda, forse gli si sarebbe paventato il fatto, che il problema dei profughi palestinesi era il risultato del rifiuto del mondo arabo di accettare il piano di spartizione approvato dalle Nazioni Unite nel 1947 e della dichiarazione di guerra all'appena nato stato di Israele nel 1948; che soltanto la Giordania, tra gli stati arabi, professi vera preoccupazione per i palestinesi, offra loro la cittadinanza e un vero nuovo inizio; e che gli stati arabi cinicamente usino i palestinesi quando questo serve ai loro scopi, ma altrimenti li lascino da soli a combattere per se stessi (o peggio). Inoltre, se non avessero abbandonato la loro capacità di giudizio critico molto tempo fa, questi attori internazionali potrebbero chiedersi, perché ci sono ancora campi profughi in città come Jenin. Gli accordi di Oslo misero le basi per il ritiro israeliano dalle cittá principali della Cisjordania, e le posero direttamente sotto il governo palestinese. Sorprendente, non è vero, che anche sotto completa autorità palestinese i campi non vennero smantellati? Qualcuno ha mai osato chiedere apertamente perché? Un'altra cosa provoca la mia agitazione. Qualche volta sento che il mondo pensa al problema dei profughi palestinesi come all'unico problema di questo tipo. Tragicamente, ci sono stati centinaia di milioni di profughi nella storia, probabilmente anche di più. Presto o tardi, tutti trovano una nuova casa e cominciano una nuova vita. E ci sono stati pesanti scambi di popolazione come risultato delle guerre e della ridefinizione dei confini territoriali. Milioni di persone si stavano muovendo in entrambe le direzioni, quando la Gran Bretagna spartì India e Pakistan nel 1947, e Grecia e Turchia fecero esperienze di ancora più grandi dimensioni all'inizio dello scorso secolo. Niente di tutto questo è detto per minimizzare la tragedia della perdita di possedimenti e del luogo. Lo so. Ci sono passato anch'io. Istintivamente il mio cuore è vicino ad ogni profugo. Ma perché i palestinesi sono trattati come se fossero l'unica popolazione profuga ad aver meritato simpatia senza confini e perché così tante altrimenti ben intenzionate istituzioni ed individui continuano su questa strada? E mentre mi sfogo, lasciami parlare di un'altra cosa che mi inquieta. Questo accade quando i portavoce arabi si alzano, fanno un viso dall'espressione sincera ed asseriscono che non c'è antisemitismo nel mondo arabo. Alla fin dei conti, dicono che anche loro sono semiti, così per definizione loro non possono essere antisemiti. Lasciami fare una pausa. Questa asserzione dà un nuovo significato alla parola sofista. È ben noto che il vocabolo "antisemitismo" venne coniato nel 1879 da un tedesco, Wilhelm Marr, non amico degli ebrei, che descriveva un senso di odio ed ostilità unicamente verso gli ebrei e l'ebraismo. I portavoce arabi non si fermano qui. Loro dichiarano che gli ebrei sono stati sempre ben trattati nelle società arabe, sottolineando il fatto che l'Olocausto avvenne nella cristiana Europa. Purtroppo è vero, l'Olocausto ebbe luogo nell'Europa cristiana e, altrettanto vero, c'erano periodi di relativa quiete ed armonia nel mondo arabo, ma la discussione non può finire qui. L'assenza dell'Olocausto - mettendo da parte per un attimo l'entusiasmo incontenibile con il quale alcuni leaders arabi politici e religiosi abbracciarono la soluzione finale dei nazisti - non significa di per sé che gli ebrei vennero sempre trattati con giustizia ed equamente, è solo che il livello della discriminazione e della persecuzione non raggiunse mai gli stessi picchi raggiunti al tempo della guerra in Europa. E, citando gli esempi degli ebrei in Andalusia sotto il governo musulmano dall'ottavo al dodicesimo secolo, oppure prendendo nota del fatto che nel dodicesimo secolo il saggio Maimonides si stabilì in Egitto, si ha il ricordo di un'era differente e molto più promettente. Ma i portavoce arabi rafforzano la povertà dei loro argomenti se hanno bisogno di andare indietro di così tanti secoli per trovare un così lodevole esempio di tolleranza ed armonia, dal momento che non sembrano in grado di trovare qualcosa di più simile in tempi più recenti. Se Israele non esistesse... Infine, essi asseriscono che se Israele non esistesse, loro non avrebbero alcun problema con gli ebrei in paesi arabi. Questo è un altro argomento quantomeno bizzarro. Con questo standard non ci dovrebbero essere un milione di arabi cittadini dello stato di Israele, ma, naturalmente ci sono. A quegli arabi che rimasero in Israele dopo il 1948 venne data la cittadinanza, il diritto di voto, libertà religiosa e l'opportunità di mandare i loro bambini a scuola con l'insegnamento della lingua araba. Quello è democrazia e pluralismo reale, anche se ci sono errori nel sistema. Mentre Israele ha affrontato guerra e terrorismo iniziati dai vicini arabi, esso non ha mai chiesto alla propria popolazione araba di pagarne il prezzo. Per contrasto, le nazioni arabe costrinsero le loro comunità ebraiche a pagare un prezzo molto alto. Io ne sono la prova vivente. Io parlerò. Posso essere un ebreo dimenticato, ma la mia voce non resterà in silenzio. Essa non può, perché se lo facesse, essa diverrebbe un complice storico della negazione e del revisionismo. Io parlerò perché i miei antenati non hanno meritato niente di meno. Io parlerò perché la mia antica tradizione lo rivendica. Io parlerò perché io non permetterò che il conflitto arabo con Israele venga definito disonesto attraverso il prisma di una sola popolazione di profughi, i palestinesi. Io parlerò perché l'ingiustizia che mi è stata inflitta deve, una volta per tutte, essere riconosciuta e indirizzata, qualunque tempo questo processo prenda in considerazione. Io parlerò perché quello che mi accadde si sta ripetendo, con sgradevole familiarità, per un'altra minoranza nella regione, quella cristiana, e vedo un'altra volta il mondo voltare lo sguardo, come se negare risolvesse qualcosa. Io parlerò, perché non voglio essere un ebreo dimenticato. (American Jewish Committee, 28 luglio 2003 - trad. Laura Sedda) 3. MUSICA E IMMAGINI BaShana HaBa-ah 4. 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