1. IL VOTO DELLA KNESSET SUL RITIRO DALLA STRISCIA DI GAZA
Qualcuno ringrazi Sharon
di Angelo Pezzana
Quando Arik Sharon annunciò un anno fa che Israele si sarebbe ritirato da Gaza smantellando tutte le colonie nessuno volle credere che parlasse sul serio. In Italia, in Europa, l'opinione pubblica, da
sempre orientata dai grandi mezzi d'informazione a individuare in Israele, se non l'unico, il maggiore responsabile della polveriera mediorientale, lo giudicò un diversivo, un tentativo di confondere le carte per lasciare le cose come stavano. Come poteva Sharon, il falco, volere l'abbandono di Gaza e di una parte dei villaggi costruiti dagli israeliani in Giudea e Samaria, proprio lui che ne era stato il più deciso propugnatore? Non era sempre stato contro ogni soluzione che prevedesse la nascita di uno Stato palestinese? Ma Sharon, come buona parte della leadership politica israeliana, prima di continuare a servire il suo Paese in parlamento, lo ha fatto nell'esercito, un fatto inaudito per la civile e democratica Europa. È lì che ha imparato che non essere realisti può essere una follia. Per alcuni è difficile riconoscerlo, ma Israele è non solo una democrazia, a differenza di tutti i suoi vicini arabi, ma una democrazia che funziona, nella quale se il popolo non è soddisfatto della politica del governo, va a votare e lo cambia. Sharon, avuta la fiducia dalla maggioranza degli israeliani, aveva promesso che avrebbe fatto l'impossibile per portare fuori il Paese da una situazione ormai insostenibile. E quando Arafat ha dimostrato chiaramente al mondo intero che non era uno Stato palestinese indipendente che voleva ma che mirava a portarsi via tutto Israele con i suoi Hamas, i suoi kamikaze, il suo terrorismo organizzato, Sharon ne ha tratto le dovute conclusioni. Israele, conviene ripeterlo sempre, non ha mai voluto governare un altro popolo, se si è trovato ad amministrare territori densamente abitati da palestinesi ciò è dovuto al fatto che ha vinto nel 1967 la guerra dei sei giorni, trovandosi come risultato in casa territori che né l'Egitto né la Giordania accettavano di riprendersi. Ecco come è nata la questione di Gaza e, in parte, quella della Cisgiordania. Quando Sharon - ma anche Barak prima di lui - ha capito che lo status quo era di fatto diventato il maggior pericolo per l'esistenza dello stato ebraico, ha deciso di agire. Da solo, anche senza una controparte, come sanno fare i coraggiosi. Ha capito quanto fosse vera la profezia-minaccia che lo sceicco Yassin rivolse al nemico sionista. Saranno i prolifici uteri delle donne palestinesi a sconfiggere Israele. Ecco quello che Sharon ha capito, il pericolo demografico non lo si può sconfiggere con le armi del controterrorismo. La separazione dai palestinesi quindi come scelta obbligata, senza la quale Israele è destinato nel giro di qualche decennio a diventare uno Stato a maggioranza araba. Il compito che ha davanti è enorme. Da un lato, capire la situazione nella quale si trovano decine di migliaia di israeliani che hanno dedicato la loro esistenza a vivere in zone di confine, garantendo in parte la sicurezza dello Stato. Dall'altro riuscire a risistemarli all'interno del Paese nel modo che si conviene, non da profughi, ma da cittadini che meritano la riconoscenza dell'intera società israeliana. Certo, la politica e i partiti hanno le loro leggi, anche in Israele come in qualunque altra democrazia occidentale. Se Sharon si è trovato contro gli oltranzisti della sua stessa parte, ha però ritrovato in Peres e in una parte della sinistra moderata un alleato pronto a capire che la strada scelta era quella giusta. I palestinesi si troveranno uno Stato da amministrare - meglio se prima si libereranno di Arafat - e Israele avrà allontanato da sé il pericolo mortale dello stato binazionale. Certo, l'immagine che Sharon offre di sé è quella del condottiero, non ricorda le alchimie e i bizantinismi di tanta classe politica europea. È stato un guerriero, come hanno dovuto esserlo obbligatoriamente milioni di isrealiani, pur non avendone la vocazione, pur desiderando una vita pacifica, nella mai abbandonata speranza di vivere entro confini sicuri senza temere di essere invasi e massacrati dagli Stati vicini. È questo il sogno israeliano, è questo il progetto che Arik Sharon, caparbiamente, vuole realizzare.
(Libero, 27 ottobre 2004)
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NOTA DI COMMENTO - Non spetta agli amici cristiani d'Israele valutare e criticare le specifiche scelte politiche del parlamento israeliano, quindi ce ne asterremo. Ci sono già tanti altri che si assumono il compito di ordinare agli israeliani quello che devono o non devono fare. Possiamo soltanto dire che il "sogno israeliano" di Sharon non coincide con il piano biblico, e che il futuro di Israele è più collegato a quel "complesso messianico" rimproverato ai "coloni" che non alle speranze di pace degli umanisti laici. Bisogna riconoscere però che Ariel Sharon si muove nella linea sionista di Ben Gurion (più che di Rabin): vuol proteggere il popolo ebraico dai suoi nemici lottando per l'esistenza e la sicurezza dello Stato d'Israele, sia militarmente che politicamente. Quanto al riuscirci è un altro discorso, e certamente non dipende soltanto da lui. In ogni caso, non si deve dimenticare che se oggi esiste uno Stato ebraico è perché a suo tempo Ben Gurion e compagni hanno accettato per Israele dei confini che sono ben al di sotto di quelli indicati dalla Bibbia. I confini definitivi un giorno saranno comunque stabiliti. E non saranno né quelli pretesi oggi dai palestinesi, né quelli imposti dalla comunità internazionale. M.C.
2. LA SANTIFICAZIONE DI UN ALTRO PERSONAGGIO ANTISEMITA
Il peccato mortale del Vaticano
Da un articolo di Michael Freund (*)
Ci risiamo. Ogni tanto, a quanto sembra, si apre una nuova controversia perché papa Giovanni Paolo II si mette in movimento per dichiarare santo un altro personaggio storico inquinato dallantisemitismo.
A quanto pare inconsapevole degli effetti che queste azioni possono avere sulle già deboli relazioni fra ebrei e cattolici, il Vaticano prosegue nella glorificazione di questi ambigui modelli di comportamento, ignorando il fatto che è una religiosità condizionata dal pregiudizio.
L'ultima santificata da Roma è una suora tedesca di nome Anna Katerina Emmerick, che ha dichiarato di aver avuto una serie di visioni sulla morte di Gesù. Allinizio di questo mese il papa ha deciso di beatificarla, passo che precede il conferimento della santità.
Sembra che le visioni della Emmerick, raccolte in un libro da un importante autore tedesco, abbiano pesantemente influenzato la sceneggiatura del film di Mel Gibson: La Passione di Cristo.
Anche una rapida occhiata alle parole della Emmerick rivela una persona piena di ostilità verso gli ebrei. Continuamente fa riferimento ai "crudeli ebrei e ai malvagi ebrei in generale. "La compassione, infatti, era un sentimento sconosciuto al loro cuore crudele".
In una biografia del 1976, il Rev. C.E. Schmoeger riferisce che la Emmerick ha raccontato la visione di una vecchia ebrea Meyr", che a quanto sembra ha ammesso che "gli ebrei del nostro paese e di altre nazioni hanno strangolato bambini cristiani e hanno usato il loro sangue per ogni tipo di pratica sospetta e diabolica".
In un tempo in cui lantisemitismo sta crescendo in tutto il globo, è sconvolgente che il Vaticano prenda soltanto in considerazione l'idea di pagare un tributo a tali individui. Qualunque tipo di buona azione la Emmerick possa aver fatto, è difficile che odio e santità possano rappresentare un buon assortimento.
[...]
Nellottobre 2002 il papa ha canonizzato Josemaria Escriva de Balaguer, un prete Spagnolo che nel 1928 fondò lOpus Dei, un gruppo religioso cattolico. Escriva è noto per aver nutrito ben poco amore per gli ebrei. Un prete inglese sostiene che ha perfino difeso Adolf Hitler, dicendo che il capo nazista è stato trattato male perché non avrebbe mai potuto uccidere sei milioni di ebrei. Sarebbero stati soltanto quattro milioni, al massimo
Un altro caso, nel settembre del 2000, è stato quello della beatificazione di papa Pio IX, che nel 1858 ha appoggiato il sequestro di Edgardo Mortara, un bambino ebreo italiano sottratto alla sua famiglia e forzatamente battezzato.
Come pontefice, Pio IX obbligò gli ebrei di Roma ad essere confinati nel ghetto, nel loro buco, come veniva definito per scherno. Fu lultimo papa a fare una cosa simile. Inoltre proibì agli ebrei di possedere una proprietà privata, di insegnare nelle scuole e perfino di ricevere cure mediche. E li chiamò "cani".
Sono QUESTI i requisiti di un santo?
Tra gli altri destinatari del riconoscimento di Giovanni Paolo si trova Massimiliano Kolbe, anche lui canonizzato. Kolbe, un prete polacco, editore di una rivista prima della seconda guerra mondiale, diffuse i protocolli degli anziani di Sion, un falso zarista russo che afferma lesistenza di un complotto ebraico per governare il mondo. Kolbe difese l'autenticità dei protocolli e disse che erano stati scritti da una crudele, astuta e poco conosciuta cricca ebraica che era stata sedotta da Satana.
Nellottobre del 1998 il papa beatificò unaltra figura controversa, quella di Alojzjie Stepinac. Stepinac, che esercitò come arcivescovo di Zagabria nel 1940, fu un sostenitore del regime fantoccio pro-nazista in Croazia noto come Ustashe, che massacrò ebrei e serbi. Come tale, non poté denunciare le loro azioni.
Per aggiungere insulti alle ferite, c'è stata poi anche linsistenza di Giovanni Paolo per la canonizzazione di Edith Stein, unebrea convertitasi al cattolicesimo e morta ad Auschwitz. In un'omelia del 1987 il papa arrivò al punto di mettere sullo stesso piano la Stein e la biblica Esther, come se fosse legittimo paragonare una persona che ha abbandonato la fede dei suoi progenitori con leroina della festa di Purim, che aiutò il suo popolo a salvarsi.
Naturalmente la chiesa cattolica è libera di prendere le sue decisioni per quanto riguarda quelli che vuole onorare facendoli diventare santi. Ma quando questo tocca il popolo ebraico, allora gli ebrei devono farsi sentire.
Dopo tutto, negli ultimi duemila anni abbiamo terribilmente sofferto per le crociate ispirate dalla chiesa, per inquisizioni, libelli diffamatori, conversioni forzate, massacri e pogrom. Durante tutta la sua storia la chiesa cattolica ha ripetutamente commesso il peccato mortale di propaganda antisemita, spesso con risultati letali.
Ed è proprio a causa di questo tremendo passato che il Vaticano ha la specifica responsabilità di considerare limpatto delle sue azioni nei confronti degli ebrei.
[...]
Naturalmente nessuno degli individui coinvolti è onorato dal papa a causa del suo antisemitismo, ma piuttosto nonostante questo. Tuttavia, il messaggio inviato ai cattolici e ad altri in tutto il mondo è agghiacciante, perché necessariamente implica che i pregiudizi vecchi di secoli contro gli ebrei non sono poi così inaccettabili.
Perché se una persona può arrivare alla santità nonostante che abbia odiato, o addirittura perseguitato il popolo ebraico, com'è possibile che l'antisemitismo sia proprio così malvagio?
Affinché un giorno cattolici ed ebrei possano avere nuove relazioni basate sul rispetto, è compito di questo papa e dei suoi successori smettere di glorificare coloro che mettono insieme bigottismo e odio.
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(*) Lo scrittore è stato direttore sostituto delle comunicazioni e pianificazioni della politica nellufficio del Primo Ministro sotto Benyamin Netanyahu.
(Jerusalem Post, 19 ottobre 2004)
3. PER SODDISFARE LA COMUNITA' INTERNAZIONALE
Sacrificare Israele
di Charles Krauthammer
La parte centrale del programma politico di John Kerry consiste nel ricostruire le alleanze americane mondiali, così che il mondo aiuti l'America, specialmente in Iraq. Ripete tutto questo incessantemente, dal momento che è l'unica idea che sa offrire in politica estera. Il problema di Kerry è che non è in grado di spiegare come si propone di farlo.La semplice apparenza di un volto filoeuropeo non basta a far sì che le truppe francesi marcino a Baghdad. Inoltre, si può pensare che Kerry sia semplicemente cinico nel ventilare l'ipotesi di trovare nuovi alleati, dato che non ha modo di realizzare questa promessa.
Oppure si può pensare che intenda farlo sul serio. Intende porre fine all'isolamento dell'America. Ed ha un'idea su come farcela. Ma non lo spiegherà alla vigilia delle elezioni.
Pensateci un attimo: di cosa si lamentano continuamente l'Europa e i paesi arabi, a proposito del Medio Oriente?
Qual è, a parte l'Iraq, la maggiore critica rivolta alla politica statunitense? Quale questione isola maggiormente l'America dal resto del mondo? E dalle Nazioni Unite?
La risposta è ovvia : Israele.
In quale moneta, quindi, noi pagheremo il resto del mondo, in cambio del loro appoggio in posti come l'Iraq? La risposta è chiara : pagheremo con Israele.
Nessun democratico lo dirà apertamente. Ma chiunque abbia un minimo di familiarità con il gergo diplomatico del Medio Oriente può tranquillamente leggerlo tra le righe.
Leggete cosa dice Sandy Berger, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale sotto Clinton, in "Politica estera di un presidente democratico", un manifesto scritto mentre era consigliere per la politica estera di Kerry.
"Per ottenere un nuovo accordo con gli alleati, gli Stati Uniti devono rimettersi in discussione.... mettere fine al conflitto israeliano-palestinese... dobbiamo reinserirci nel processo di pace, e ricostruire alleanze spezzate, ed in cambio di questo cosa chiede un presidente democratico? In primo luogo, un impegno concreto in termini di truppe e di denaro in Afghanistan ed in Iraq."
Così, per ottenere un "nuovo accordo con gli alleati", l'America "si rimette in discussione" nel "processo di pace", in cambio di truppe e denaro per l'Afghanistan e l'Iraq.
Non fatevi ingannare dal termine "processo di pace". Sappiamo bene cosa significava "processo di pace", negli otto anni in cui Berger era con Clinton alla Casa Bianca - una Casa Bianca in cui Yasser Arafat era invitato più spesso di qualsiasi altro leader del pianeta.
Significava credere agli inganni arafattiani sulla pace e lasciarlo poi compiere il più violento incitamento al terrorismo. Significava fare pressione costantemente su Israele affinché facesse una concessione territoriale dietro l'altra - in cambio di niente. Peggio di niente: alla fine Arafat lanciò una sanguinosa guerra terroristica che ha provocato mille vittime israeliane innocenti.
"Reinserirsi nel processo di pace" è proprio quello che gli europei, i Russi e le nazioni Unite hanno chiesto agli Stati Uniti per anni. A qualcuno di loro sta a cuore la salvezza di Israele? Venderebbero Israele in un istante, e stanno facendo pressioni all'America affinché faccia esattamente questo.
Perché ce l'hanno tanto con la politica estera di Bush? Dopo tutto, non è stato Bush il primo presidente ad essersi impegnato per uno stato palestinese indipendente? Lo sbaglio di Bush è quello di insistere nel chiedere che i palestinesi accettino l'esistenza dello Stato di Israele, e cancellino la dittatura corrotta e terrorista di Yasser Arafat.
Reinserirsi nel processo di pace mentre la violenza continua e mentre Arafat è al potere significa annullare la politica di Bush. Quella politica - isolare Arafat, sostenere il diritto di Israele a difendersi sia dagli attacchi terroristici sia a costruire una barriera difensiva - che ha avuto successo, che ha sconfitto l'Intifada e ha prodotto un calo nelle morti di israeliani innocenti ben dell'84%.
John Kerry vuole riunirsi alla comunità delle nazioni. Non c'è altra questione nella quale l'America vada contro al consenso internazionale, se non Israele. Lo scorso luglio, l'assemblea generale delle Nazioni Unite ha dichiarato il Muro illegale, con 150 voti contro la barriera e 6 a favore. Nel difendere Israele, l'America era praticamente sola.
Volete essere approvati dalla comunità internazionale? Sacrificate Israele. Gradualmente, e con la scusa della "pace". Fate pressioni su Israele affinché faccia concessioni ai leader palestinesi, che hanno già dimostrato a Camp David nel 2000 che non vi sarà, mai, pace.
(Washington Post, 22.10.2004 - da www.uncuoreperisraele.net)
4. ANTISEMITISMO LINGUISTICO
"Ebrei", nuovo nomignolo per le truppe Usa
Gli iracheni utilizzano questo vocabolo per i soldati americani
NEW YORK - L'allarme e' stato lanciato da Thomas Friedman, uno
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degli editorialisti di punta del New York Times. In Iraq, il nomignolo che la popolazione locale ha dato ai soldati americani presenti sul territorio e' "ebreo".
"Non entrate in quel vicolo, gli ebrei hanno costruito un posto di blocco" e' una delle espressioni piu' comuni per le strade di Baghdad. Friedman sottolinea di non sapere se questo fenomeno sia comune in tutto l'Iraq occupato dalle truppe della coalizione. "Molti iracheni non sanno che cosa sia l'America - scrive l'editorialista - perche' l'amministrazione non ha interagito in maniera corretta con la popolazione". A questo va sommato anche che sui media arabi la percezione di tutto il problema mediorientale viene ridotto alla questione israelo-palestinese. "Se vuoi apostrofare negativamente qualcuno - scrive Friedman - lo puoi chiamare ebreo". Il grande nemico dell'Islam e' il Jia, Jews Israel e America, ovvero ebrei, Israele e Stati Uniti. Ed e' contro questo nemico che, anche gli iracheni, continuano a combattere.
"Una generazione di musulmani - scrive Krugman dalle colonne del Times - e' cresciuta guardando immagini antisemite in televisione e su internet. Una generazione altamente pericolosa per ebrei, Israele e Stati Uniti". E questa settimana, una delle cruciali per la risoluzione della questione israelo-palestinese, quando il governo israeliano discute il ritiro unilaterale da Gaza, il governo Bush tace.
Krugman punta il dito sul silenzio della Casa Bianca. "Sul fronte palestinese, l'attuale amministrazione Usa non ha alcuna alternativa da offrire a Israele. Non ha cercato di costruire una nuova classe dirigente che potesse sostituirsi all'attuale presidente Yasser Arafat." Con l'unico risultato di stringere rapporti sempre piu' stretti con il nemico.
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Jesurum: non mi stupisco
"Gravissimo, ma anche nei nostri stadi cori denigratori"
ROMA - Stefano Jesurum, autore del libro "Israele nonostante tutto", edito da Longanesi, da poco in libreria, non si stupisce dell'allarme lanciato oggi da Thomas Friedman. L'editorialista di punta del New York Times ha denunciato oggi l'uso dispregiativo del nomignolo "ebreo" da parte della popolazione irachena per definire i soldati americani.
"E' una cosa gravissima, ma non mi stupisce", ha aggiunto Jesurum, giornalista del Corriere della Sera. "La parola 'ebreo' è usata spesso come insulto nei paesi arabi, ma non solo lì - ha aggiunto Jesurum - Anche nei nostri stadi si sentono spesso cori di tifosi che usano l'epiteto 'ebreo' in maniera denigratoria", ha dichiarato l'autore di "Israele nonostante tutto". Si tratta del diario di viaggio di un autore che sente con forza l'affinità sentimentale con Israele e la sua realtà, con i problemi e le angosce che ne attraversano da sempre l'esistenza fisica e morale. Questo però non gli impedisce di vedere gli odi, i pregiudizi, la violenza di certe prese di posizione della politica israeliana. Durante il viaggio incontra politici, scrittori, artisti e gente comune: israeliani, palestinesi e arabi.
L'allarme dell'editorialista del New York Times imputa in parte all'ignoranza della popolazione irachena l'utilizzo improprio e dispregiativo del termine "ebreo" come nomignolo comune delle truppe Usa. "Molti iracheni non sanno che cosa sia l'America - scrive l'editorialista - perché l'amministrazione non ha interagito in maniera corretta con la popolazione". A questo va sommato anche che sui media arabi la percezione di tutto il problema mediorientale viene ridotto alla questione israelo-palestinese.
"Se vuoi apostrofare negativamente qualcuno - scrive Friedman - lo puoi chiamare ebreo". Il grande nemico dell'Islam e' il Jia, Jews Israel e America, ovvero ebrei, Israele e Stati Uniti. Ed e' contro questo nemico che, anche gli iracheni, continuano a combattere.
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Tullia Zevi: "Ebreo" come insulto non merita commento
Dopo denuncia Friedman su uso nomignolo "ebrei" per truppe Usa
ROMA - Tullia Zevi, presidente del Consiglio delle Comunità Ebraiche, non considera "degna di commento" la denuncia di Thomas Friedman, editorialista del New York Times, che dalle colonne dell'influente quotidiano americano ha lanciato un allarme: la popolazione irachena usa l'epiteto dispregiativo "ebrei" per i soldati americani.
"Francamente non ho molto da dire su questo allarme del New York Times. La parola 'ebreo' è diventata un epiteto offensivo in epoca vetero cristiana - ha detto Tullia Zevi - Poi, si usava anche la parola 'sionista' per vituperare Israele. Con il surriscaldarsi della situazione irachena, il termine 'ebreo' si sarà maggiormente diffuso anche in Iraq. Ma non mi sembra una questione degna di nota".
Tullia Zevi è stata vice presidente della Comunità Ebraica Italiana dal 1978 al 1983. E' stata eletta presidente - unica donna ad aver mai assunto questa carica - nel 1983. È vice presidente dello European Jewish Congress e membro dell'Esecutivo dello European Congress of Jewish Communities. È stata, tra l'altro, corrispondente per il quotidiano israeliano "Maariv" e per il settimanale londinese "The Jewish Chronicle".
(Apcom, 25 ottobre 2004)
5. INTERVISTA CON IBRAHIM HILAL
Le confessioni di un pentito di Al-Jazeera
di Driss Bennani
Per tre anni Ibrahim Hilal è stato il redattore capo di Al-Jazeera. E' lui che, quando arrivavano delle cassette di Bin Laden, decideva sul contenuto da diffondere e sul montaggio. Oggi abbandona la catena e ne fornisce qui le spiegazioni
D. Dopo aver partecipato alla costituzione di Al-Jazeera e esserne stato l'unico redattore capo per tre anni, adesso lei lascia definitivamente la catena del Qatar. Perché?
R. Le mie dimissioni sono definitive e meditate. C'è anzitutto l'aspetto personale. Dopo tre anni di responsabilità, avevo voglia di ritrovare la mia umanità, di ridiventare un essere normale, che ha una vita sociale.In questi ultimi anni Al-Jazeera non si è accontentata di informare sull'attualità del mondo, ma spesso ne ha fatto parte. Al-Jazeera è diventata un'informazione in sé stessa, e io il portavoce di una causa che non conoscevo troppo bene. C'è poi la paura del fallimento. In sei anni ho fatto tutto, o quasi: Afghanistan, Iraq, l'11 settembre. Mi chiedevo che cosa potesse fare ancora Al-Jazeera. Non ne potevo più di spiare i miei concorrenti, di vedere le somme mostruose che si sborsavano per essere concorrenziali al livello arabo, poi internazionale. Mi chiedevo dove si andava a finire. Il senso d'urgenza, di breaking news, di corrispondenze dirette ci facevano dimenticare le regole elementari del controllo delle testimonianze e del rigore.
D. Può darci un esempio?
R. Dopo la caduta di Bagdad, il bombardamento dell'ufficio di Al-Jazeera, il rovesciamento degli ex-oppositori iracheni, ho saputo attraverso certi contatti che Abu Dhabi stava preparando un package di informazioni quotidiane in diretta dall'Iraq. La mia reazione è stata di inviare immediatamente una grande équipe sul posto con tutte le attrezzature necessarie e un budget adeguato. Risultato: abbiamo superato Abu Dhabi e il nostro programma ha avuto più successo. Ma a quale prezzo? Mentre i nostri concorrenti avevano preparato tutto in anticipo, noi abbiamo puntato sulla popolarità e la legittimità di Al-Jazeera nel mondo per far passare un programma meno professionale. E il peggio è che la cosa ha funzionato.
D. Al-Jazeera è passata da un modo di pensare liberale a una posizione chiaramente islamista. Anche questo è dovuto alla corsa all'indice d'ascolto?
R. Sono sempre stato quella voce liberale che si alzava per sbarrare la strada al populismo dell'ambiente. Sono io che ho preparato l'intervista ad Ariel Sharon, che però non è andata in porto quando lui ha preteso che le domande non fossero fatte da Doha ma nel suo ufficio a Tel Aviv. Ma cerchiamo adesso di capire questo populismo. Al-Jazeera è un media panarabo, e nella regione in cui lavora i due principali comuni tabu hanno questi nomi: Israele e USA. La sua linea editoriale è tale che la catena favorisce i programmi interattivi in diretta, dove le persone possono telefonare e rovesciare tutto il loro odio. Succede allora che i più visibili sul terreno, quelli che chiamano, sono i populisti, mentre l'élite preferisce piuttosto restare nelle retrovie. In questo senso, Al-Jazeera non è che un riflesso di una società dove i populisti, spesso islamisti, dominano. Cosa che, ammettiamolo, fa anche gli affari della catena.
D. E' lei che ha preso la decisione di trasmettere le registrazioni di Bin Laden?
R. Ho deciso soltanto il contenuto da diffondere, il montaggio e il contenuto. Non le cassette in sé stesse.
D. Chi ha deciso questo?
R. Il consiglio d'amministrazione.
D. Come vi arrivavano le cassette?
R. Attraverso gli uffici di Kabul o di Islamabad. Per posta o direttamente depositati negli uffici da persone velate. Una volta una cassetta è arrivata, non so come, a Doha. Era una cosa talmente eccezionale che ci abbiamo messo tre giorni per rendercene conto. Per le registrazioni sonore il processo è più semplice. Gli estratti sono messi in linea e noi riceviamo dei codici per accedervi.
D. Avete mai pagato per delle registrazioni?
R. Mai. E' una questione di principio e di equilibrio delle forze.
D. Qual è il tipo di contenuto che lei tagliava nel montaggio?
R. Le incitazioni alla violenza e gli eccessi delle fatwa religiose.
D. Incitare allo sterminio degli ebrei e degli americani non è un'istigazione alla violenza?
R. Noi facciamo differenza fra istigazione alla violenza e invito alla resistenza (annassiha Bilmouqawama). Bin Laden utilizzava un referenziale religioso, e dunque complesso. Al Zawahiri invece era più diretto. Ho perfino rifiutato di trasmettere delle cassette di Al-Qaida, bisogna saperlo, in cui i messaggi di Bin Laden costituivano soltanto una parte. Perché insieme a loro c'erano anche parti del Corano, canti, documentari, ecc.... Il punto di svolta è stato la battaglia di Tora Bora. Perché subito dopo ogni apparizione di Bin Laden era un'informazione in sé stessa. Le considerazioni di contenuto erano diventate secondarie.
D. Avete mai avuto un contatto diretto con Al-Qaida?
R. No, solo per motivi di sicurezza. Al-Qaida sapeva che Al-Jazeera è sorvegliata, che il mio telefono era sotto controllo.
D. Chi la controllava? Il Qatar?
R. Non lo so, ma i servizi americani possono ottenere informazioni da ogni parte. Io vivevo in una zona residenziale in mezzo a 80 persone che lavoravano nella base americana di Doha. L'ho saputo solo più tardi. La mia villa quindi era certamente sorvegliata. Tra colleghi lo sapevamo e ci comportavamo di conseguenza. Avevamo perfino messo a punto un sistema di codici.
D. Come spiega l'atteggiamento schizofrenico del Qatar? In conclusione Al-Jazeera si è allontanato dal piccolo emirato del golf?
R. Al-Jazeera è parte di tutto un programma di riforme politiche lanciate nel Qatar. Col passar dei giorni la catena ha preso importanza, al punto da far dimenticare il programma di riforme, tanto da far dimenticare il Qatar. Chi sa o ricorda oggi, per esempio, che il Qatar è uno Stato wahabita? Quello che si sa è che è uno Stato che si sta liberando culturalmente e politicamente. Al-Jazeera è diventato un simbolo.
D. Più forte dello Stato?
R. Più celebre, perché la forza in fin dei conti è materiale.
D. Chi decide della sorte di Al-Jazeera?
R. Il direttore, in gran parte, poi il redattore capo. Il presidente del consiglio d'amministrazione (membro della famiglia del principe, ndr) interviene quando le sue qualità d'esperto nei paesi del Golfo sono richieste.
D. E il principe?
R. L'ho incontrato una o due volte. Non mi ha nemmeno riconosciuto, perché non passavo sotto l'antenna. Il suo entourage dice che molte informazioni gli sono pervenute attraverso Al-Jazeera nel momento della loro diffusione. L'unico che partecipava alle nostre riunioni era il presidente del consiglio d'amministrazione, di solito per degli orientamenti professionali generali.
D. Al-Jazeera esisterebbe senza crisi?
R. Da quando la catena ha dei concorrenti, è sempre più difficile distinguersi quando non ci sono crisi. In redazione avevamo perfino l'abitudine di dire che c'è un santo che ci rifornisce di crisi. L'esempio che mi viene in mente è quello di Tariq Ayub, un giornalista di Al-Jazeera ucciso il giorno della caduta di Bagdad. Ma in realtà non ci sono segreti. Bisogna essere costantemente sul terreno e aspettare. Nessuno può pretendere di fare una qualsiasi pianificazione.
(Proche-Orient.info, 25 ottobre 2004)
6. PROGETTATO UN QUINTO MINARETO SUL MONTE DEL TEMPIO
GERUSALEMME - Un comitato istituito dal re giordano sta progettando la costruzione di un quinto minareto sul Monte del Tempio a Gerusalemme. I minareti dovrebbero simbolizzare i cinque pilastri dell'Islam.
Il presidente del Comitato per il rinnovamento della moschea Al-Aqsa e della Cupola della Roccia, Raef Nijem, la settimana scorsa ha detto che i progetti per la costruzione di un quinto minareto sul Monte del Tempio già quest'anno sono ormai conclusi. I lavori di costruzione dovrebbero quindi cominciare all'inizio dell'anno prossimo.
Il comitato è ufficialmente incaricato dal governo giordano di interessarsi dei lavori sul Monte del Tempio. Ha l'autorizzazione sia del regno hashemita sia delle autorità israeliane. Negli ultimi tempi si è occupato soprattutto del rinnovamento del muro meridionale del Monte del Tempio, dopo che sul muro sono apparsi dei rigonfiamenti in diversi punti.
"Per deliberazione del re Abdullah, il minareto sarà costruito. Con questo saranno in tutto cinque, e rappresenteranno i cinque pilastri dell'Islam", ha dichiarato Nijem venerdì scorso. Per un musulmano questi cinque pilastri sono: confessione di fede, preghiera, elemosine, digiuno e pellegrinaggio alla Mecca.
Il minareto è progettato per l'angolo sud-orientale del Monte del Tempio. Il minareto è una torre da cui il muezin chiama cinque volte al giorno per la preghiera. Il nome proviene dalla parola araba "manara", che significa "faro".
(Israelnetz Nachrichten, 25.10.2004)
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