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Notizie su Israele 265 - 3 novembre 2004

1. Confronto fra ebraismo laico ed ebraismo religioso
2. Musica e immagini
3. Indirizzi internet
Isaia 43:21. Il popolo che mi sono formato proclamerà le mie lodi.
L'approvazione alla Knesset del piano di ritiro dalla striscia di Gaza ha ravvivato un dibattito appassionato e doloroso, particolarmente acuto negli ultimi decenni, tra l'anima laica e l'anima religiosa dell'ebraismo. Questo numero di "Notizie su Israele" è interamente dedicato alla presentazione di due interventi contrapposti in questo dialogo.




1. CONFRONTO FRA EBRAISMO LAICO ED EBRAISMO RELIGIOSO




Ebrei contro israeliani

di Aviram Golan

Sul ponte che collega Bnei Brak con il campus dell'Università Bar-Ilan, il mese scorso è stato sbandierato un nuovo slogan: "Comandante, noi siamo ebrei. Non posso farlo".
    Quello che l'autore dello slogan non può fare, è chiaro: non può evacuare gli insediamenti. Ma il rifiuto in sé è meno interessante del motivo. Il soldato a cui si riferisce lo slogan non può eseguire l'ordine non perché ha il cuore rotto alla vista di famiglie strappate dalle loro case, e nemmeno perché è convinto, in virtù della sua visione del mondo di destra, che l'evacuazione è una calamità. Tutte le ragioni del suo rifiuto sono riassunte nella pregnante espressione: "Noi siamo ebrei".
    Questa espressione è un codice che, come nella diaspora pre-sionista, differenzia un ebreo da un "goy", e consente tutto agli ebrei in virtù del loro status di vittime. E' anche il codice che ha spinto intere comunità a separarsi dalla famiglia delle nazioni a motivo della loro fede messianica, a isolarsi nei ghetti, a voltare le spalle alla modernità e all'umanesimo, e li ha sottomessi a un destino esclusivo determinato dalla volontà di Dio, privando l'uomo della sua libertà di scelta e della responsabilità del suo destino.
    Non è un caso che i coloni usino la parola "ebrei" nella loro attuale lotta. Non è una battaglia per Gaza, né una lotta per la democrazia o per la difesa del diritto. Questa lotta, riguardante un limitato e problematico disimpegno unilaterale, mette in scena - come un proiettore che indirizzi il suo fascio di luce su un particolare punto nascosto - il grande problema che covava sotto la superficie della società israeliana e dello Stato d'Israele dal 1967.
    Il problema, che il pubblico laico moderato ha cercato di evitare in tutti i modi, è quello della contrapposizione tra ebraicità e israelianità. O, per essere più precisi, tra ebraismo e sionismo. Il sionismo poneva una sfida al "noi siamo ebrei" di Rabbi Avraham Shapira e dei suoi discepoli, perché affermava che il destino del popolo ebraico è un fatto che dipende dall'agire dell'uomo e non da quello di Dio. E' proprio seguendo questa linea erronea che i rabbini non hanno solidarizzato col sionismo. Il movimento sionista religioso si è staccato dal messianismo quando ha raggiunto la normalizzazione sionista. Ma non per molto tempo.
    Questa esistenza "ebrea" - come i coloni ora cercano di sostenere - definisce la vita nel quadro di un pensiero messianico come se fosse perennemente sotto la minaccia incombente di una catastrofe. In questa linea i pogrom e i severi editti antiebraici sono la prova eterna del destino ebraico. Quando l'ombra della catastrofe svanisce, o quando s'intravede una possibilità di sventare questa minaccia - con accordi diplomatici o altre misure di normalizzazione - i coloni "ebrei" si danno molto da fare per ricrearla attraverso la pregiudiziale del rifiuto, della divisione nazionale, facendo saltare moschee e assassinando un Primo Ministro.
    Il sionismo ha tentato di far rientrare gli ebrei nella storia, cioè di portarli a un regime moderno e democratico che funzioni secondo la decisione della maggioranza e tenga conto delle mutevoli circostanze. Nella loro stragrande maggioranza i cittadini d'Israele non riescono a capire, forse, quello che i coloni avvertono fin nelle ossa. Il poco affascinante piano di Sharon - così come il piano di spartizione prima della creazione dello Stato d'Israele, come la ritirata dal Sinai dopo la campagna del 1956 e gli accordi di Oslo - è in accordo con l'aspirazione sionista alla normalità, all'adozione di valori universali, e al rinnovato rigetto del distruttivo e messianico atteggiamento del "noi siamo ebrei".
    Il voto sul disimpegno da Gaza costituisce quindi una svolta decisiva per i coloni. Fino al 1967, quando la minaccia dell'Olocausto aveva portato altre parti del popolo ebraico a salire sul treno sionista, il messianismo era stato messo in un angolo. La vittoria e l'occupazione del 1967 gli hanno dato invece nuovo impulso. Il confuso pubblico laico ha dimenticato che il sionismo ha sempre considerato il territorio come un mezzo per realizzare la normalizzazione di un popolo in marcia. E' l'esatto opposto della concezione che attribuisce alla terra un valore sacrale.
    Di conseguenza è una svolta anche per gli israeliani. Se il "noi siamo ebrei" vincerà sull'aspirazione a una vita normale, vorrà dire che è arrivato il momento della tragica resa finale del sionismo alla follia messianica.

(Haaretz, 26 ottobre 2004)

NOTA DI COMMENTO - Si può quindi dire che il sionismo storico è una forma di assimilazionismo nazionale. Gli ebrei, non riuscendo a integrarsi nelle varie nazioni come singoli individui che vogliono essere come tutti gli altri, con il sionismo tentano di integrarsi nella comunità mondiale come nazione che vuole essere come tutte le altre. Ci riusciranno? Un ebreo della diaspora affronta il tema nell'articolo che segue. M.C.


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La pace in cambio dell'apostasia?

di Menahem Macina

Risposta di un ebreo francese all'articolo di Aviram Golan (i grassetti sono originali).

Non avendo purtroppo il tempo di sviluppare adeguatamente questo soggetto, a cui conto di dedicare un'opera specifica, mi limiterò qui a una riflessione sulla storia religiosa d'Israele. Sono cosciente del fatto che la sua tonalità religiosa, quasi mistica, irriterà più di una persona, ma la credo necessaria perché, a parer mio, è proprio nella particolare e misteriosa relazione che unisce il Sia-Santo-Benedetto al popolo che si è riservato (‘am segullah) che risiede l'irriducibile incomprensione suscitata dal destino d'Israele, sia nei non-ebrei che in molti degli stessi ebrei.
    E' nota la celebre profezia emessa suo malgrado e sotto ispirazione divina dal veggente pagano Balaam, chiamato da Balaq, re di Moab, a maledire Israele suo nemico (Numeri 23.9):

«Dalla sommità delle rocce io lo guardo, dall'alto dei colli lo contemplo. Ecco un popolo che dimora solo e non è contato nel numero delle nazioni.»

    Durante i millenni le vicissitudini, spesso tragiche, della storia del popolo ebraico hanno dato l'impressione di giustificare questo apologo, e gli antichi rabbini vi si sono riferiti per spiegare il destino particolare del loro popolo. Ma tutt'altra cosa è il credere che gli ebrei si siano adattati ad accettare di cuore le esegesi e le speculazioni dei loro dirigenti religiosi. La loro storia infatti è picchettata di tentativi - limitati e sempre infruttuosi, ma significativamente ricorrenti - di diventare come tutti i popoli della terra.
    La Scrittura testimonia eloquentemente di queste tendenze «assimilazioniste» [1]. Fin dai tempi dell'«esodo», e nonostante i segni miracolosi che l'hanno accompagnato, il popolo che dopo tanto tempo ritorna nel deserto si lamenta amaramente della scipitezza della manna (cfr. Numeri 11.4-5) e vuole «ritornare in Egitto» (cfr. Numeri 14.3), cosa che Dio solennemente proibisce (cfr. Deuteronomio 17.16).
    Nel VI secolo avanti l'era cristiana, senza dubbio per replicare ad analoghe recriminazioni, Neemia rivolge dei rimproveri intessuti con le stesse reminiscenze scritturali (cfr. Neemia 9.15-17) alla sua comunità di «sionisti» ante litteram ritornati dall'esilio di Babilonia con la benedizione di Ciro per riprendere possesso di una terra d'Israele che i samaritani gli contendevano aspramente.
    Qualche secolo dopo, nell'epoca ellenistica, il processo si aggrava: è l'apostasia, come testimonia questo passaggio del primo libro dei Maccabei:

«Allora sorse da Israele una stirpe di traditori che sedussero molte persone dicendo: Venite, facciamo alleanza con le nazioni che ci stanno attorno, perché da quando ci siamo separati da loro, molti mali ci sono capitati ... Costruirono dunque una palestra in Gerusalemme secondo le usanze delle nazioni, si rifecero i prepuzi e rinnegarono l'alleanza santa per associarsi alle nazioni.» (1 Maccabei 1.11-15).

    La tradizione aggadica ebraica posteriore ha moltiplicato le parabole e le esegesi per battere in breccia questa tendenza all'assimilazione, giudicata nefasta e contraria al disegno di Dio per il Suo popolo. E' così che, commentando il passaggio della Genesi: «e si informò Abramo, l'ebreo [le‘avram ha‘ivri]», Rabbi Judah dichiara: «Il mondo intero è da una parte [me‘ever ehad] e lui [Avram] dall'altra». Mentre da parte sua Rabbi Neemia afferma: «Egli viene dall'al di là [me‘ever]...». [2]
    Non si potrebbe illustrare meglio il particolarismo ebraico.
    Lungo tutta la storia del movimento di questo popolo si vedono all'opera due tendenze: l'una, centrifuga, che spinge gli ebrei ad assimilarsi; l'altra, centripeta, che ricorda a Israele che la sua vocazione è di essere «dalla parte di Dio», come sull'«altra riva» dell'umanità, e dunque separato dalle nazioni non ebraiche.
    E nessuno dubita che è con intenzione e per fedeltà al disegno di Dio verso il popolo che Lui si è scelto che i Saggi d'Israele hanno come «stretto in un busto» i fedeli ebrei nelle maglie impenetrabili di un insegnamento, di norme di comportamento, di pratiche cultuali e tradizioni di cucina e di abbigliamento che hanno modellato la mentalità, i comportamenti e perfino l'aspetto esteriore dell'ebreo osservante, al punto di attirare l'attenzione sospettosa dei suoi

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contemporanei di tutte le epoche.
    Ma tutto questo è cambiato dopo l'avvento dell'epoca dei «Lumi», a motivo della quale prese consistenza un movimento nazionalista politico conosciuto sotto il nome di sionismo. Ricordiamo che, nello spirito dei suoi fondatori, all'epoca dei pogrom russi e dell'affare Dreyfus questo movimento di riappropriazione laicizzata del vecchio sogno religioso espresso per millenni dall'augurio tradizionale: «L'anno prossimo a Gerusalemme!» sotto la forma di una aspirazione a ricreare uno stato nazionale sulla loro terra ancestrale, appariva come la sola risposta adeguata alle violente persecuzioni antisemite a cui non avevano messo termine né l'emancipazione, né il lealismo nazionale di cui gli ebrei avevano fatto prova in tutti i paesi in cui si erano, nell'insieme, ben integrati.
    I teorici di questo movimento erano convinti che il loro popolo doveva prendere nelle sue mani il suo destino politico e sociale, invece di subire la legge e i desideri delle nazioni dove nei secoli passati non erano stati altro che degli ospiti appena tollerati, spesso umiliati, minacciati, spogliati, talvolta messi a morte e sempre costretti a patteggiare e ad arrangiarsi per sopravvivere e preservare i beni acquisiti. Ai loro occhi soltanto uno Stato fondato da ebrei su una terra ebraica poteva redimere il loro popolo, responsabile, per inerzia o rassegnazione, della sua immagine, allora universalmente diffusa, di usurai o venditori ambulanti crudeli e avidi. Chi poteva prevedere che quella misera terra lontana - che allora non era l'oggetto di alcuna rivendicazione nazionale e di cui nessuno avrebbe mai potuto immaginare che un giorno sarebbe stata contesa al popolo che ne era uscito - sarebbe diventata una trappola per gli ebrei che, stanchi di essere i paria delle nazioni, avevano creduto - tragica ingenuità! - di recuperare la loro dignità e guadagnare il rispetto dell'umanità diventando infine una nazione come le altre?
    Sarebbe troppo lungo tracciare qui le incessanti vicissitudini del popolo israeliano, alla cui esistenza politica i palestinesi oppongono, da decenni, un rifiuto e un odio irredentisti. Solo gli storici potranno confermare o smentire quello che qui affermo - cosciente che esprimo più un'intuizione personale che una certezza proveniente da una ricerca specializzata che resta ancora da fare.

Lo sfaldamento sempre più generalizzato, in seno alla società israeliana, della coscienza nazionale e dell'identità ebraica è in gran parte il risultato dell'usura e dello scoraggiamento generati dalla situazione, apparentemente senza vie d'uscita, in cui si dibattono il popolo israeliano e i suoi dirigenti politici sotto la crescente e quasi universale riprovazione delle nazioni.

    Su un punto almeno i palestinesi hanno riportato una vittoria decisiva: sono riusciti a far vacillare il sentimento israeliano di essere una nazione giusta e umanista, a far dubitare strati sempre più larghi della popolazione del ben fondato diritto alla riappropriazione nazionale di questa terra su cui i loro antenati sono vissuti per più di un millennio. Sono riusciti a colpevolizzare uno dei popoli più sensibili e morali della terra, convincendolo ad ammettere che agisce da colonizzatore e da depredatore di un altro popolo.
    E' duro, quasi insopportabile, affrontare in continuazione e per più di due generazioni la riprovazione di una gran parte dell'umanità, e di dovere la propria sopravvivenza soltanto al mantenimento di un esercito e di un armamento il cui costo grava pesantemente sull'economia, senza parlare dell'incidenza dei frequenti appelli sotto le bandiere dei riservisti, e dell'incidenza economica e psicologicamente negativa che queste mobilitazioni a ripetizione hanno sulle persone coinvolte e sulle loro famiglie.
    Ho vissuto abbastanza a lungo in Israele per testimoniare, al mio umile livello, dello sfinimento morale e nervoso di molti israeliani e israeliane, e dei dubbi che li assalgono. Ho molte volte assistito, sconvolto, ai violenti scontri verbali, quasi fisici, tra religiosi e laici; agli urti ideologici tra due concezioni radicalmente antitetiche del modo di uscire dalla situazione di blocco mortale derivante dallo scontro irriducibile di due rivendicazioni nazionali su tutto o parte di questo sventurato paese. Capisco l'esasperata stanchezza di quelli che sono pronti a rinunciare alla specificità ebraica e israeliana perché al popolo che per lungo tempo ne ha fatto un motivo di fierezza è costata troppo cara, in vite e in qualità di esistenza, Ma non posso approvare questa rinuncia. E questo per una sola e semplice ragione: che sarà contestata da molti, ebrei e non-ebrei. In altre parole:

Anche se - Dio non voglia! - gli israeliani gettassero il guanto e accettassero di farsi assorbire in un Stato unico palestinese (ultimo canto delle sirene politicamente corrette, più mortale ancora dei precedenti), la loro apostasia politica ed esistenziale non li salverebbe né dalla paura né dalla minaccia dei loro nemici e, soprattutto, certamente non procurerebbe loro la pace a cui così disperatamente aspirano.

    Il rifiuto da parte di Arafat del processo di Oslo e delle enormi concessioni territoriali e politiche proposte in seguito da Ehud Baraq - quali che siano le giustificazioni apologetiche palestinesi e pro-palestinesi avanzate da una quantità di falsi apostoli della pace - ha fatto capire alla quasi totalità della popolazione israeliana di ogni tendenza politica che i dirigenti politici palestinesi se ne infischiavano di una pace negoziata, e ancora meno di un spartizione della sovranità su questa terra - che considerano appartenente a loro nella totalità -, ma erano ferocemente determinati a imporre a Israele una resa politica e militare senza condizioni, con l'aggiunta di una sopravvivenza concessa agli ebrei per assorbimento in un mare demografico arabo-musulmano, di cui niente garantisce che non divenga, a scadenza più o meno lunga, islamico-estremista, con le conseguenze che si possono immaginare.
    Al termine di questa analisi - largamente insufficiente, lo confesso -, si capirà che rifiuto totalmente il dilemma riduttivo che tenta di accreditare, senza prove, Aviram Golan, secondo cui «se il "noi siamo ebrei" vincerà sull'aspirazione a una vita normale, vorrà dire che è arrivato il momento della tragica resa finale del sionismo alla follia messianica”.

Ciò che raccomanda ai loro concittadini questo ebreo israeliano, insieme a molti altri della medesima tendenza che si vantano della loro laicità "illuminata" - cioè di "rifarsi il prepuzio" e "rinnegare l'alleanza santa per associarsi alle nazioni" -, è la riedizione moderna e tragica dell'apostasia degli ebrei del periodo dei Maccabei.

    Come i "traditori" dell'Israele di quel tempo, essi invitano tutti gli ebrei ad imitarli nella loro marcia suicida dicendo: "Venite, facciamo alleanza con le nazioni che ci stanno attorno perché da quando ci siamo separati da loro molti mali ci sono capitati ."
    Loro, e tutti quelli che conoscono la storia del nostro popolo, sanno quale ne è stato il risultato: la persecuzione di Antioco Epifane, che "pubblicò in tutto il suo regno l'ordine che tutti formino unico popolo e che ciascuno rinunci ai propri costumi", e poi mise a morte, senza pietà, tutti quelli e tutte quelle che persisterono nel restare fedeli ai costumi e alle tradizioni dei loro Padri.
    Passò meno di un secolo e mezzo prima che i romani, chiamati in aiuto dagli stessi ebrei per resistere all'egemonia pagana dei greci, s'installassero nel paese e vi stabilissero un'occupazione ancora peggiore di quella dei greci, che suscitò in seguito una grande rivolta ebraica repressa con terribili massacri e con il saccheggio del Tempio, nel 70 della nostra era, terminando con la repressione finale della ribellione, la morte di Bar Kochba, il divieto fatto agli ebrei di recarsi a Gerusalemme, la scomparsa della sovranità ebraica, e infine l'esilio e la dispersione della quasi totalità della popolazione tra le nazioni, fino al giorno d'oggi.
    E se questa lezione di storia biblica non dovesse bastare a dissuadere i membri increduli di questo popolo contestato dal dare il loro consenso alla politicamente corretta "apostasia" dalla loro identità ebraica, cosa che li invitano a fare facendo balenare davanti a loro che in questo modo sfuggiranno a un destino fatidico, che si ricordino almeno della Shoah.
    Un ebreo non getta la sua stella tanto facilmente, soprattutto quella con cui furono marchiati e destinati alla morte i genitori dei loro genitori, e che applicheranno ai loro discendenti, qualsiasi cosa essi affermino, neghino o rinneghino.

Perché quello che vedranno i loro nemici accaniti a distruggerli non è quello che sono diventati, ma quello che sono per loro origine. Cioè: ebrei.

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Note
[1] Cfr. Deuteronomio 17.14; 1 Samuele 8.5,20; Ezechiele 20.32, ecc.
[2] Tale è, in effetti, il senso dell'esegesi, simbolica e popolare, del termine "ivri" assegnato al nome di Abramo in Genesi 14.13, come si può leggere nell'antichissimo Midrash, Bereshit Rabbah, Parashah 41 (42).

(UPJR, 31 ottobre 2004)




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