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Notizie su Israele 270 - 8 dicembre 2004

1. I cristiani evangelici di fronte a un bivio
2. Una storica dichiarazione di Ben Gurion
3. «Israele si prepari ad assorbire gli ebrei di Europa!»
4. Terra in cambio di terra?
5. La carta di credito che rispetta il sabato
6. Chanukkà: la festa delle luci
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Zaccaria 2:10-12. Manda grida di gioia, rallégrati, figlia di Sion! perché ecco, io sto per venire e abiterò in mezzo a te», dice il Signore. «In quel giorno molte nazioni s’uniranno al Signore e diventeranno mio popolo; io abiterò in mezzo a te e tu conoscerai che il Signore degli eserciti mi ha mandato da te. Il Signore possederà Giuda, come sua parte nella terra santa, e sceglierà ancora Gerusalemme.»
1. I CRISTIANI EVANGELICI DI FRONTE A UN BIVIO




Gli amici d’Israele davanti a una nuova sfida

di Guido Baltes (Gerusalemme)

Quando ogni anno, al tempo della festa delle Capanne, migliaia di pellegrini cristiani affluiscono a Gerusalemme per prendere parte alla conferenza della International Christian Embassy Jerusalem, molti israeliani scorgono in questo un gradito segnale del legame cristiano con Israele. Naturalmente
La festa delle Capanne cristiana
questo dipende anche dall’enorme contributo finanziario che questi pellegrini portano nel paese. Non per nulla è stato proprio Gideon Ezra, il nuovo Ministro del Turismo, a dare il benvenuto ai partecipanti alla conferenza. Per lui infatti questa conferenza rappresenta il più grande gruppo turistico che il suo ministero registra nel corso di tutto l’anno. Ma oltre a questo, anche il segnale politico viene chiaramente inteso in Israele. «Quando osservo i vostri visi e vedo in loro il vostro amore e la vostra solidarietà con Israele, sono molto commossa», ha dichiarato il ministro Zipi Livni in rappresentanza del Primo Ministro. «Abbiamo bisogno del vostro sostegno, soprattutto in questi tempi».
    Ma c’è anche un altro motivo più profondo che giustifica la simpatia degli israeliani per questi visitatori cristiani, ed è il sensibile legame di questa particolare «specie» di cristiani con la storia biblica e la fede del popolo ebraico, cosa che viene chiaramente avvertita e apprezzata dalla popolazione.
    Quest’anno il collegamento tra cristiani evangelici e Israele ha raggiunto un nuovo alto livello attraverso due altre iniziative: l’istituzione del Gruppo di lavoro parlamentare nella Knesset per la collaborazione con i cristiani all’inizio di quest’anno, e il giorno di preghiera per la pace di Gerusalemme effettuato con grande partecipazione pubblica il 3 ottobre scorso, a cui hanno preso parte non soltanto molti membri del governo e della Knesset, ma anche il Rabbino Capo di Israele, Jona Metzger.
    

Un dilemma morale

    Ma nonostante tutti questi positivi sviluppi, quest’anno si sono uditi anche toni preoccupati nei resoconti su questa nuova alleanza giudeo-cristiana, perché l’attuale situazione politica in Israele pone a dura prova l’amicizia di qualche cristiano dell’estero. Sono i piani di ritiro dalla striscia di Gaza a mettere quest’anno molti amici d’Israele davanti a un nuovo dilemma morale: per loro questa decisione rappresenta un passo di disubbidienza di fronte a Dio. Ma come si deve reagire? Bisogna mettersi contro il governo d’Israele o dalla sua parte e in questo modo forse anche contro Dio?
    Pat Robertson, oratore principale nella conferenza della Festa delle Capanne, ha affrontato decisamente il problema quando con taglienti parole si è scagliato contro tutti quelli che appoggiano il ritiro da Gaza: «Dio dice: io giudicherò tutti coloro che staccano parti di terra dalla Cisgiordania e dalla striscia di Gaza. Questa terra è mia: giù le mani!» I grandi applausi che hanno accompagnato questa frase ed altre simili fatte in quei giorni fanno capire che molti partecipanti alla conferenza non avevano ben chiaro chi in realtà colpiva questa minaccia: quello che dall’oratore era inteso come un attacco contro gli Stati Uniti, l’ONU, l’Europa e altri avversari, in Israele non può che essere inteso come un attacco contro il governo israeliano, perché è soltanto lui che ha deciso il ritiro da Gaza, perfino contro la resistenza dell’estero.
    «Il piano di ritiro del diavolo» ha titolato una reporter del quotidiano israeliano "Ha´aretz" e ha commentato con preoccupazione: «Migliaia di cristiani si sono riuniti questa settimana davanti alla Knesset per elevare una preghiera di massa per Israele. Amano molto Israele, ma non hanno nessun amore per Ariel Sharon." Il silenzio glaciale con cui i cristiani riuniti hanno reagito quando la portavoce del Primo Ministro Sharon, Ra´anan Gissin, ha portato i saluti del Primo Ministro Sharon è stato «il momento più singolare di questa riunione di preghiera», ha scritto la giornalista.
    
    
Profonda insicurezza

    In modo sempre più alto si fanno udire negli ultimi tempi le perplessità presso gli osservatori israeliani. Sono espressione di una profonda insicurezza: fino a dove arriva l’amicizia dei cristiani evangelici? Faranno mancare la loro solidarietà se Israele non prenderà la strada politica desiderata? Seguono forse i cristiani, in fondo, un ordine del giorno tutto loro in cui Israele ha un posto solo fino a che gioca il ruolo a loro attribuito?
    I cristiani evangelici si trovano adesso davanti a un bivio: di fronte alla mutata situazione politica l’«amicizia con Israele» deve essere di nuovo sillabata e definita. La sfida non è del tutto nuova: «Quando a suo tempo Rabin parlò dallo stesso pulpito e tentò di spiegare il processo di Oslo, dovemmo affrontare lo stesso problema», ricorda un partecipante alle precedenti Feste delle Capanne. Ma del pericolo di un involontario «biblico anti-israelismo» oggi evidentemente molti cristiani non sono ancora o non sono più ben consapevoli.
    
    
Promessa e politica

    Gli organizzatori della conferenza hanno riconosciuto per tempo questa problematica e già alla vigilia dei decreti su Gaza - come di nuovo adesso in una lettera aperta al Primo Ministro Sharon - hanno formulato la loro risposta a questa nuova sfida:
    «Noi stiamo con Israele e siamo decisi a raccontare la "sua storia" in modo fedele e veritiero. Riconosciamo quindi che le questioni politiche non sono semplici, ma altamente complesse e difficili. Certamente la nostra comprensione della Bibbia ci fa dire che la terra d’Israele è stata promessa al popolo ebraico come eredità eterna, ma sappiamo anche che fino ad ora questa promessa non è stata ancora completamente adempiuta e che il suo compimento nel corso della storia dovrà un giorno avvenire, ma secondo il piano e il proponimento di Dio. Perciò noi preghiamo per Israele, lo consoliamo e lo benediciamo, ma siamo consapevoli che non è nostro compito - perché non è questo il nostro ruolo - immischiarci nel processo delle sue decisioni politiche».
    Se questa posizione troverà larga approvazione tra gli amici evangelici d’Israele, vorrà dire che il legame con Israele è ancorato ad un livello più profondo di una semplice presa di posizione su temi di politica giornaliera. Il legame sarà fondato sulla storia biblica, su una fede nella sovranità di Dio e su un radicamento del cristianesimo in Israele che non dipendono dalla odierna politica del governo israeliano.
    L’apprensione israeliana sulla volubilità dei cristiani occidentali sarebbe quindi infondata. E in questo modo si otterrà anche un effetto collaterale: gli amici d’Israele, sia di destra che di sinistra, potrebbero trovare una base comune per un legame con Israele che va al di là delle loro convinzioni politiche ampiamente divergenti.
    
(Israel Report, 5/2004)

NOTA - Una posizione simile era già stata espressa su "Notizie su Israele 264". Per i cristiani fedeli alla Scrittura due cose devono restare inalterate, indipendentemente dalle circostanze del momento: l’amore per Israele e la proclamazione pubblica che Gesù è il Messia. M.C.





2. UNA STORICA DICHIARAZIONE DI BEN GURION




Il 29 novembre 1947, l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite votò la storica risoluzione sulla partizione della Palestina – la Terra di Israele sotto il Mandato Britannico – in due stati. Subito dopo, David Ben Gurion, allora Presidente dell'Agenzia Ebraica, rilasciò una dichiarazione riportata su "The Palestine Post".


"Un atto di giustizia storica"


The Palestine Post
Ultima edizione ore 4.30, Domenica, 30 novembre 1947
Gerusalemme

 
Il Presidente dell'Esecutivo dell'Agenzia Ebraica, David Ben Gurion, ha dichiarato all'alba:

«La risoluzione delle Nazioni Unite di creare uno Stato sovrano del Popolo Ebraico in una parte dell'antica patria è un atto di giustizia storica, che compensa almeno in parte i torti senza eguali, subiti dal popolo ebraico per oltre 1800 anni.
    La risoluzione rappresenta una vittoria morale della stessa ragione di essere delle Nazioni Unite e dell'idea di operazione internazionale per la causa della giustizia e dell'uguaglianza in tutto il mondo.
    Il Popolo Ebraico ricorderà con gratitudine gli sforzi delle due Grandi Potenze, Stati Uniti ed Unione Sovietica, insieme a quelli dei molti altri stati che hanno ponderato tale risoluzione. La cooperazione fra America e Russia nel trovare una soluzione al problema della Palestina deve servire da incoraggiamento a coloro che, come il Popolo Ebraico, credono nella possibilità di una permanente separazione est-ovest per il perdurare di una permanente pace nel mondo.  La risoluzione dell'ONU di creare uno Stato Ebraico impone all'Yishuv (la Comunità Ebraica della Palestina sotto il Mandato Britannico) ed a tutto il Popolo Ebraico una grave responsabilità. Si tratta di fatto di una sfida a tutte le disperse comunità d'Israele affinché radunino le grandi forze, spirituali e materiali, necessarie alla fondazione dello Stato Ebraico, all'inserimento di un gran numero di immigranti dall'Europa, dall'Oriente e da altre parti, allo sviluppo delle nostre terre desertiche e alla creazione di una società ebraica indipendente, che esprima i grandi ideali dei profeti di Israele, la fratellanza umana, la giustizia uguale per tutti e la pace in mezzo alle nazioni del mondo.
    Anche nelle ore più buie della sua storia, il Popolo Ebraico non ha mai perduto la sua fede nel proprio futuro e nella coscienza del mondo. In questa ora fatidica, il Popolo Ebraico non deluderà il suo destino storico. 
    La nuova Giudea occuperà con dignità il suo posto fra le Nazioni Unite e sarà fattore di pace, prosperità e progresso in Terra Santa, in Medio Oriente e nel mondo intero.»
    
(Keren Hayesod, 2 dicembre 2004)





3. «ISRAELE SI PREPARI AD ASSORBIRE GLI EBREI DI EUROPA!»




«La storia dell’ebraismo europeo è prossima alla fine»

di Amiram Barkat

L’ex Rabbino Capo, Israel Meir Lau, ha affermato giovedì scorso che la storia dell’ebraismo europeo è prossima alla fine, e ha invitato il governo e l’Agenzia Ebraica a prepararsi ad assorbire in Israele gli ebrei provenienti dall’Europa.
    Nella sua dichiarazione Lau ha messo in guardia: c’è un aumento di antisemitismo in quasi tutti i paesi europei. Esso si esprime, tra l’altro, con sentimenti estremamente anti-israeliani.
    Lau cita dei dati pubblicati la settimana scorsa in Germania, secondo cui il sessantadue per cento dei cittadini di questo paese sono stufi di sentir parlare di Olocausto. Secondo l’inchiesta il settanta per cento dei tedeschi sono anche irritati quando si ricordano loro i crimini nazisti.
    Lau, che è egli stesso un sopravvissuto dell’Olocausto, dice di non vedere un avvenire per la comunità ebraica in Europa.
    «Vedo la fine della diaspora degli ebrei in Europa», ha detto. «Invito il governo [israeliano] a prepararsi a una nuova fase di assorbimento spirituale e fisico della comunità ebraica europea prima che comincino a pensare di emigrare negli Stati Uniti o in Australia», ha dichiarato Lau.
    Secondo stime demografiche, gli ebrei che attualmente vivono in Europa sono poco più di un milione.
    
(Ha´aretz, 4 dicembre 2004)





4. TERRA IN CAMBIO DI TERRA?




Umm el-Fahm in cambio della Valle del Giordano?
    
di Herb Keinon

L’idea di un grande scambio di terre (come ad esempio cedere ai palestinesi Umm el-Fahm, Taiba e Baka al-Gharbiyeh in cambio di insediamenti e dello strategico crinale dei monti di Cisgiordania) è stata a lungo liquidata dagli ambienti politici perbene come un’esclusiva dell’estrema destra, nient’altro che un altro nome per la vecchia idea, razzista e antidemocratica, di un "trasferimento" di arabi israeliani fuori dal paese. Così è stato, per lo meno, finora.
     Ora, però, Uzi Arad, direttore dell’Istituto politico-strategico del Centro Interdisciplinare di Herzliya e presidente dell’annuale Conferenza di Herzliya (uno dei convegni in assoluto più prestigiosi d’Israele), si è pronunciato esplicitamente a favore della proposta, che anzi verrà approfonditamente discussa nel prossimo appuntamento della Conferenza, che inizierà il 13 dicembre. "Il bello di questo baratto – ha dichiarato Arad in un’intervista

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questa settimana al Jerusalem Post – è che si scambia la stessa merce: non è soldi in cambio di terra, o terra in cambio di promesse di pace. E’ terra in cambio di terra".
     Lo scambio terra contro terra immaginato da Arad è relativamente semplice. Israele cederebbe aree a grande popolazione araba contigue alla Cisgiordania, come il cosiddetto Piccolo Triangolo nel centro del paese, e in cambio riceverebbe grandi blocchi di insediamenti e aree strategicamente vitali, ma disabitate, lungo la valle del Giordano e nelle colline a sud di Hebron. Ciò che Arad propone è di prendere quel pezzo di territorio contese che sta fra il mar Mediterraneo e il fiume Giordano e ripartirlo secondo le linee dell’attuale presenza demografica, e di farlo in modo che ne risulti una continuità territoriale. La continuità territoriale è un elemento essenziale ed è il motivo per cui la Galilea, benché ospiti una larga popolazione araba israeliana – non può diventare parte del nuovo stato palestinese: non vi sarebbe continuità. Non si devono creare cantoni, spiega Arad, bensì unità territorialmente continue: una Cisgiordania allargata, da una parte, e Gaza dall’altra. Se tutti i centri a popolazione araba all’interno di Israele diventassero parte dell’entità palestinese, allora bisognerebbe includervi anche Jaffa, cosa assolutamente non realistica.
     "Quando si considerano le cose in modo chiaro, con il senso della profondità storica – continua Arad – si notano i seguenti fatti. Tutta la storia del contenzioso israelo-palestinese si gioca sulla terra e, sin dagli anni trenta, chiunque abbia cercato una soluzione non ha potuto far altro che proporre una spartizione della terra. E ogni mappa di spartizione proposta non seguiva né i progetti, né la storia, né la religione e neanche la sicurezza: seguiva sempre la logica della distribuzione demografica". Secondo il ragionamento di Arad, la stessa logica che resse i piani di spartizione in passato, in base a demografia e continuità territoriale, deve essere impiegata anche oggi. Tutto ciò che occorre fare, dice, è aggiornare il concetto e "integrarlo nel presente".
     "Pertanto il Piccolo Triangolo, e alcuni altri settori lungo il confine con l’entità palestinese, potrebbero facilmente essere ceduti all’Autorità Palestinese. Cosa che può essere fatta perché sono contigui, perché la popolazione che vi risiede si sente più legata ai palestinesi e perché abbiamo certamente il diritto sovrano di ritirarci".
     Arad si scaglia contro l’idea che le linee di armistizio del 1949, note come Linea Verde, siano sacrosante. Umm el-Fahm, ricorda ad esempio, divenne parte di Israele nel 1951 come frutto di un accordo segreto tra David Ben-Gurion e il re di Giordania Abdullah I. "Perché mai – si domanda – un accordo tra Abdullah e Ben-Gurion dovrebbe essere più sacro di qualunque altra cosa? Perché mai dovrebbe avere la meglio su un accordo che venisse stretto oggi fra il governo sovrano d’Israele e la sovrana entità palestinese?"
     Secondo Arad, la logica sottesa alla sua proposta è assi semplice: "Voglio uno stato ebraico più ebraico possibile, con una sostanziale maggioranza di ebrei. I palestinesi di Umm el-Fahm e degli altri settori considerano se stessi palestinesi, hanno atteggiamenti ambigui verso Israele, per un terzo sono estremisti islamici, molti di loro sono in rapporti commerciali con la Cisgiordania e sono ad essa contigui. Dunque anziché essere, dal loro punto di vista, cittadini di seconda classe all’interno di Israele, che siano patriottici cittadini di prima classe all’interno della loro entità palestinese".
     E se non vogliono? E se gli abitanti di Tira e Taiba vogliono restare invece cittadini di seconda classe all’interno di Israele? "Non vogliono essere cittadini israeliani di seconda classe – risponde Arad – Quello che vogliono è essere sovversivi dall’interno. Non accettano Israele come stato degli ebrei. Se chiedete loro: accettate di essere israeliani?, rispondono: sì. Ma quando chiedete se accettano che Israele sia uno stato ebraico, iniziano i dubbi e i distinguo".
     Questo tipo di situazione, sostiene Arad, non verrebbe tollerata in altre democrazie. "Se in America un cittadino dicesse: sono disposto a vivere qui ma voglio sovvertire la Costituzione perché la odio, e voglio trasformare l’America in una repubblica islamica, non avrebbe modo di partecipare alla vita politica".
     Ciò che conta nei ragionamenti di Arad non è tanto il loro contenuto (non è la prima volta che vengono fatti questi discorsi), quanto il fatto che sia lui a farli. Arad non viene dalle file dell’estrema destra. È uno che ha preso il dottorato a Princeton, un professore di scienze politiche, un uomo che ha lavorato fino a diventare direttore di intelligence del Mossad e consigliere diplomatico di Benyamin Netanyahu, e che è tanto rispettato nei circoli politici e accademici internazionali che il suo convegno attira ogni anno il meglio dei nomi della politica e dell’accademia da tutto il mondo.
     Alla domanda perché i palestinesi dovrebbero accettare questo schema, Arad risponde che esso risponde perfettamente alla stessa logica che essi applicano per le loro rivendicazioni su Gerusalemme. L’unica ragione per cui gli arabi avanzano delle rivendicazioni su Gerusalemme, spiega, è perché accettano la logica della centralità della demografia e della continuità territoriale. Se rivendicano quartieri arabi di Gerusalemme come Eizariya e Abu Dis in quanto prevalentemente arabi, allora non possono poi girare le carte in tavola e dire che Umm el-Fahm deve restare parte integrante di Israele. "Come mai rivendicano Abu Dis e Eizariya e come sono riusciti a convincere Clinton di questa loro rivendicazione? Perché si tratta di aree abitate da arabi. Per il resto Gerusalemme è israeliana, sia storicamente che in virtù della nostra presenza. La sola ragione per cui dobbiamo prendere in considerazione queste loro richieste è perché accade che queste aree sono dominate da popolazione araba. Ora, se questo è il criterio che vale per i quartieri di Gerusalemme, allora vale anche per Umm el-Fahm. Volete che Eizariya diventi parte dell’entità palestinese? Allora prendetevi anche Umm el-Fahm. Non volete Umm el-Fahm? Allora non potete avanzare la stessa rivendicazione sui quartieri di Gerusalemme. Il criterio non può essere applicato a intermittenza".
     Ma in questo modo Israele non potrebbe indebolire la propria stessa posizione sul controllo futuro di Gerusalemme? "Può darsi – risponde Arad – ma la cosa può essere accettabile nel quadro di un grande accordo".
     Arad parla spesso di "grandi accordi", di diverse parti che fanno varie mosse. "Molte cose accadranno solo quando si avrà un grande accordo. Ecco perché parlo di scambi. Se si lavora a pezzettini non si arriva da nessuna parte. Ma se si trova la capacità di fare più negoziati paralleli, allora si possono fare grandi cose".
     Un’idea del genere era stata sollevata la scorsa estate nei termini di uno scambio di terre a tre fra israeliani, egiziani e palestinesi. Secondo questo progetto, Israele avrebbe dato all’Egitto una striscia di terra nel Negev sud-occidentale, gli egiziani avrebbero dato all’Autorità Palestinese della terra da Rafah a El Arish triplicando le dimensioni della striscia di Gaza e Israele avrebbe ricevuto una eguale estensione di terra in Cisgiordania, al di là delle linee del 1967, attorno ai principali blocchi di insediamenti.
     Come prevedibile, gli egiziani respinsero la proposta senza mezzi termini. Ma, secondo Arad, alcuni egiziani hanno detto che l’idea non è attuabile finché c’è il presidente Hosni Mubarak, ma che dopo di lui qualcosa del genere potrebbe prendere piede. "Non è un’idea da attuare nell’immediato – dice Arad – E’ qualcosa che potrebbe aver luogo fra cinque o dieci anni".
     Un’idea che, invece, non si accorda con i grandi disegni di Arad è il piano di disimpegno del primo ministro Ariel Sharon, un piano che Arad definisce senza mezzi termini "stolto" e che, a suo dire, potrebbe danneggiare irrimediabilmente la capacità d’Israele di negoziare in futuro sia con i palestinesi sulla Cisgiordania, sia con i siriani sulle alture del Golan. "Penso che Sharon abbia fatto un errore terribile rinunciando completamente a ogni richiesta di sicurezza rispetto ai palestinesi di Gaza – spiega – Così ha creato un precedente: la disponibilità a cedere terra e sradicare civili senza chiedere nulla. Non ha chiesto niente, non un arresto simbolico, non un’operazione di polizia di un giorno; nemmeno che i diecimila operativi della sicurezza di Dahlan facciano una ricerca degli esplosivi".
     Questo precedente, secondo Arad, si ritorcerà contro Israele nei colloqui con i siriani. "Una concessione terribilmente destabilizzante – aggiunge – Nessuna meraviglia che la posizione di Sharon si sia indebolita a fronte dei siriani". I siriani potrebbero chiedere perché Sharon esige da loro che agiscano contro Hezbollah mentre nello stesso tempo "è così disinvolto nel non chiedere a Dahlan di occuparsi di Hamas".
     Dunque, secondo Arad, il disimpegno unilaterale da Gaza danneggerà la futura posizione negoziale di Israele. "Non si deve mai fare concessioni unilaterali – sostiene – Mai. Date un’occhiata al manuale di Harvard sui negoziati: i negoziati non procedono mai per slanci di concessioni unilaterali, perché questo tipo di concessioni alterano il processo. Quando poi si vuole tornare a concrete concessioni reciproche, la controparte è guastata perché le sue aspettative si sono elevate".
     Con la morte di Yasser Arafat e il potenziale avvento di nuova leadership palestinese, dice Arad, Israele ha l’opportunità di riesaminare il processo e "introdurre reciprocità". "Questo – conclude – è il momento per ristrutturare il piano".
    
(Jerusalem Post, 4.12.2004 - israele.net)





5. LA CARTA DI CREDITO CHE RISPETTA IL SABATO




Una carta di credito utilizzabile sei giorni su sette e che potrà essere registrata soltanto nei negozi che restano chiusi il sabato, è la nuova sfida della banca di Leoumi che ha deciso di trovarsi un nuovo pubblico: gli ebrei ortodossi.
    Il rabbino Raphael Halperin, della catena dei negozi di ottica Halperin, e il deputato Meïr Porush (Yaadut Hatora), si sono rivolti alla banca Leoumi per lanciare un’iniziativa economica che dovrà permettere, secondo Porush, di lottare contro l’apertura dei negozi il sabato.
    Un sondaggio commissionato da Halperin dimostra che il 97% degli israeliani ci tengono al fatto che il sabato sia il giorno di riposo settimanale.
    Questi risultati, secondo Porush, permetteranno di toccare un pubblico molto largo, che egli stima di 850.000 clienti potenziali.
    La banca Leoumi ha accettato la sfida e ha messo in circolazione una speciale struttura riservata al pubblico religioso.
    «Il potere d’acquisto del settore religioso è molto importante e noi contiamo di realizzare grandi guadagni con questa carta di credito», ha dichiarato uno dei responsabili del progetto alla banca Leoumi.
    Prevedono entrate mensili di decine di milioni di shekel, secondo le prime cifre avanzate dagli iniziatori del progetto.
    «Centomila persone hanno già firmato di rifiutare di fare i loro acquisti in negozi e centri commerciali che aprono il sabato», afferma Meir Porush, che si rallegra della collaborazione con Leoumi.
    «Hanno capito i nostri bisogni, e se tutti ci possono guadagnare, perché no?» ha spiegato.
    
(Arouts 7, 2 dicembre 2004)





6. CHANUKKÀ: LA FESTA DELLE LUCI




Fra tutte le antiche ricorrenze ebraiche, è l’unica che non affondi in qualche modo le sue radici nella Bibbia e nei suoi racconti; è una festa stabilita dai Maestri del Talmud e ricorda un avvenimento accaduto nella terra d’Israele, nel 168 a.C.
    Antioco Epifane di Siria, ottavo re della dinastia seleucide, erede di una piccola parte dell’impero appartenuto ad Alessandro Magno, voleva imporre la religione greca alla Giudea. Le mire di ellenizzazione furono contrastate e impedite da Mattatià Maccabeo, un sacerdote di Modiin della famiglia degli Asmonei , che insieme ai suoi sette figli, diede avvio alla rivolta. Chanukkà è conosciuta anche come la festa del miracolo dell’olio: quando dopo una strenua battaglia, il 25 di Kislev di tre anni dopo(165 a.c.), il Tempio fu riconquistato, si doveva procedere alla riconsacrazione. Nel Tempio però fu trovata una sola ampolla di olio puro recante il sigillo del Sommo Sacerdote. Per la preparazione di olio puro (viene considerato olio puro quello raccolto dalle prime gocce della spremitura delle olive) occorrevano otto giorni. Nel trattato talmudico di Shabbat (21b) leggiamo del grande miracolo che occorse: l’olio che poteva bastare per un solo giorno, fu sufficiente per otto giorni dando la possibilità ai Sacerdoti di prepararne dell’altro nuovo. In ricordo di quel miracolo i Saggi del Talmud istituirono una festa di lode e di ringraziamento al Signore che dura appunto otto giorni: Chanukkà che letteralmente significa "inaugurazione". La prima sera della festa si accende un lume su un candelabro speciale a nove bracci e, ogni sera, per otto giorni, se ne aggiunge uno in più, fino a che l’ottava sera si accendono 8 lumi. Questo candelabro si chiama Chanukkià e può avere diverse forme.
    L’indicazione è che gli otto contenitori per le candele siano tutti allineati alla stessa altezza e che il nono, lo "shammash" (il servitore) quello che serve per accendere gli altri lumi, sia in una posizione diversa. I bambini ricevono regali ed in particolare delle trottoline su cui compaiono le iniziali delle parole "un grande miracolo è avvenuto lì". Uno dei precetti relativi alla festa è quello di rendere pubblico il miracolo che avvenne a quel tempo. Negli ultimi anni nelle grandi piazze di alcune città italiane, si issa una enorme Chanukkà, i cui lumi vengono accesi in presenza dei rappresentanti delle religioni monoteiste.
    
(Comunità ebraica di Casale, 7 dicembre 2004)

NOTA - Chanukkà è nominata anche nel vangelo di Giovanni, dove viene chiamata festa della Dedicazione (Gv 10.22).





7. MUSICA E IMMAGINI




Hiye Tov




8. INDIRIZZI INTERNET




Il paese che non sai

Messianic Links




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