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Notizie su Israele 276 - 13 gennaio 2005

1. La tattica di Mahmoud Abbas confonde gli analisti
2. Per paura dell'antisemitismo
3. I nuovi israeliani provenienti dall'ex Unione Sovietica (II)
4. L'opinione di Benny Morris
5. La voce della «Nazione Araba»
6. Indovinate chi è stato
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 24:21-23. In quel giorno il Signore punirà nei luoghi eccelsi l’esercito di lassù, e giù sulla terra i re della terra; saranno riuniti assieme, come si fa dei prigionieri nel carcere sotterraneo; saranno rinchiusi nella prigione e dopo molti giorni saranno puniti. La luna sarà coperta di rossore e il sole di vergogna; poiché il Signore degli eserciti regnerà sul monte Sion e in Gerusalemme, fulgido di gloria in presenza dei suoi anziani.
1. LA TATTICA DI MAHMOUD ABBAS CONFONDE GLI ANALISTI




Mahmoud Abbas



Come si muoverà Abbas?

di Daniel Pipes


Vi sono delle perplessità riguardo a Mahmoud Abbas, il nuovo presidente dell'Autorità palestinese. Egli accetta l'esistenza di Israele oppure desidera la sua distruzione?
    Matthew Kalman del quotidiano canadese Globe and Mail discerne in merito "una palese campagna a fasi alterne". Un articolo pubblicato dal Jewish Exponent titola così "Egli desidera entrambe le cose: essere capolista palestinese e contrario al terrorismo, ma favorevole al ‘diritto al ritorno' ". Conoscendo la sua mistificazione l'Australia Broadcast Corporation titola: "La tattica elettorale di Abbas confonde gli analisti".
    I media si soffermano sulla medesima evidente contraddizione: un attimo prima Abbas chiede ai terroristi palestinesi di porre fine ai loro attacchi contro Israele e subito dopo li abbraccia (letteralmente), definendoli "eroi che combattono per la libertà". Egli parla altresì di fermare la violenza e del "diritto al ritorno" per oltre 4 milioni di palestinesi residenti in Israele, un modo risaputo per definire in modo velato l'eliminazione dello Stato di Israele.
    A cosa prestar fede?
    In realtà non c'è alcuna contraddizione. Insistendo sul "diritto al ritorno", Abbas mette in evidenza che lui, come Yasser Arafat e la maggior parte dei palestinesi, intende disfarsi degli eventi del 1948; che egli ricusa la reale legittimità di uno Stato ebraico e che si batterà per la sua scomparsa. Ma Abbas a differenza di Arafat è in grado di immaginare più di un modo per raggiungere questo obiettivo.
    Qualunque siano state le circostanze, dal 1965 al 2004 Arafat continuò a fare affidamento sul terrorismo. Egli non prese mai sul serio i suoi innumerevoli accordi con Israele, considerandoli piuttosto come dei mezzi per rafforzare la sua capacità di uccidere gli israeliani. La diplomazia di Arafat culminò nel settembre 2000 con l'esplosione della guerra terroristica contro Israele, che proseguì, a prescindere dal suo evidente fallimento fino alla morte del leader palestinese avvenuta nel novembre 2004.
    Contrariamente a lui, Abbas riconobbe pubblicamente nel settembre 2002 che il terrorismo doveva avere maggiormente leso i palestinesi piuttosto che Israele. Diretta a indurre alla demoralizzazione e a emigrare da Israele, questa tattica in realtà ha finora messo insieme uno Stato fratturato, arrivando quasi a distruggere l'Autorità palestinese e a prostrare la sua popolazione. Abbas ha correttamente concluso che "è stato un errore ricorrere all'uso delle armi nel corso dell'Intifada e a perpetrare degli attacchi in seno a Israele".
    Abbas mostra una flessibilità tattica. A differenza di Arafat, che non si poteva mai disfare del mezzo terroristico che gli aveva conferito benessere, forza e gloria, Abbas vede la situazione in modo più convincente. Se porre fine alla violenza contro Israele serve a raggiungere il suo obiettivo di eliminare lo Stato ebraico sovrano, questo sarà il suo programma.
    Egli non accetta più, ciò che l'altro giorno ha definito in modo così adorabile "il nemico sionista" e nemmeno ciò che ha fatto Arafat (o Hamas oppure la Jihad islamica palestinese), ma Abbas è disposto a ricorrere a una molteplicità di mezzi per distruggere lo Stato ebraico. Come ha annunciato subito dopo la sua vittoria elettorale di questa settimana, "la jihad [la guerra santa] minore è finita e quella maggiore si fa strada". La forma della jihad da violenta deve diventare non-violenta, ma la jihad prosegue.
    E tra gli innumerevoli modi per distruggere lo Stato ebraico essa può annoverare: l'armamento nucleare, gli eserciti invasori, il megaterrorismo, il vecchio terrorismo di routine, la fertilità demografica palestinese, il "diritto al ritorno" oppure disorientare gli israeliani fino a un punto tale che i politici della sinistra post-sionista inducono unilateralmente la popolazione a piegarsi e ad accettare una condizione di dhimmi (sottomissione) all'interno di una "Palestina araba".
    Per un istruttivo parallelo con Abbas, che ha concluso con l'asserire che la violenza è inappropriata, prendiamo in considerazione Stalin, nel decennio precedente alla Seconda guerra mondiale. Consapevole dello stato di debolezza interna, nel 1930, Stalin annunciò a nome dell'Unione Sovietica di voler diventare un ottimo partner internazionale:

    «La nostra è una politica di pace e basata sullo sviluppo di ottimi rapporti commerciali con tutti i Paesi. Un risultato di questa politica consiste nel miglioramento dei nostri rapporti con un certo numero di Stati e nella conclusione di un certo numero di accordi commerciali, di assistenza tecnica e così via dicendo. (…) Noi dovremo continuare a perseguire questa politica di pace facendo tutto ciò che è in nostro potere e ricorrendo a tutti i mezzi di cui disponiamo. Non desideriamo un solo metro di territorio straniero.»

    Non si trattava di parole a vanvera. Stalin si attenne in gran parte a questo programma fino al 1939, quando si sentì forte abbastanza per passare all'offensiva, a quel punto egli avviò una cinquantennale campagna di aggressione senza precedenti che ebbe fine con il crollo dello Stato sovietico.
    Per Abbas è il 1930; egli comprende la necessità di tranquillizzare la situazione. Come colui che è in grado di valutare realisticamente le circostanze e reagire in tutta tranquillità ad esse, egli potenzialmente rappresenta per Israele un nemico molto più acerrimo di quanto lo sia stato Arafat con il suo uso cieco e plateale della violenza.

(New York Sun, 11 gennaio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





2. PER PAURA DELL'ANTISEMITISMO




L'Ajax vuol eliminare le canzoni e i simboli ebrei della sua tifoseria

AMSTERDAM - L'Ajax, una delle più popolari e titolate squadre europee ha lanciato un processo interno per convincere i suoi sostenitori a rinunciare a quei simboli che hanno contribuito a dare un'identità ebraica alla formazione che ha sfornato tanti campioni, tra i quali Johnann Cruiff e Marco Van Basten. L'iniziativa non rappresenta un voltafaccia nei confronti degli ebrei e mira, invece, ad evitare reazioni antisemite da parte delle tifoserie avversarie in nome della rivalità calcistica. «Ne abbiamo discusso e ne riparleremo, ma sarà un dialogo interno e ci dispiace che il tema sia divenuto di pubblico dominio», dice Simon Keizer, portavoce della società, il quale ricorda che la notizia si è diffusa solo perchè ne ha parlato il presidente John Jaakke nell'incontro svoltosi in occasione delle recenti festività. «Non è una campagna pubblica, è un discorso tra la società ed i club che raccolgono i suoi sostenitori. Rinunciando alle bandiere con la stella di David ed a certe canzoni eviteremo che le reazioni dei tifosi avversari prendano di mira gli ebrei e alimentino la polemica religiosa», aggiunge Keizer, insistendo sul fatto che «l'Ajax non è un club ebreo, non abbiano alcun riferimento in merito nel nostro statuto, non abbiamo alcun legame con la religione» e questa immagine deriva semplicemente dal fatto che Amsterdam è una città con un'alta percentuale di ebrei, molti giunti profughi secoli fa perchè garantiva la libertà di culto. Altri sono arrivati quando la città è stata la capitale storica del commercio dei diamanti od a seguito delle persecuzioni naziste durante la seconda guerra mondiale. «Abbiamo già parlato più volte con i nostri tifosi e ci sembra che l'appello sia stato accolto perchè negli ultimi mesi allo stadio si vedono meno bandiere con la stella di David e meno cori dei club che hanno scelto la denominazione ebrea. Vogliamo scoraggiare queste iniziative per prevenire le reazioni dei sostenitori avversari. In questi casi si comincia dalla propria casa prima di chiedere agli altri di rispettarci», rileva Keizer. L'argomento è stato affrontato prima dai dirigenti. «Sono sicuro che i nostri tifosi non sono antisemiti, ma nella situazione di tensione che viviamo oggi certi atteggiamenti possono provocare questo tipo di reazione da parte dei sostenitori di altre squadre».

(L'Unione Sarda, 12 gennaio 2005)





3. I NUOVI ISRAELIANI PROVENIENTI DALL'EX UNIONE SOVIETICA (II)




Quindici anni dopo l’apertura delle porte dell’Unione Sovietica, che rese possibile l’alià in Israele di un milione di nuovi immigrati, Keren Hayesod presenta una vasta panoramica in quattro parti, scritta da due noti giornalisti, Sever Plozker e Natasha Mosgovia e recentemente apparsa sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Aharonot.


Un contributo decisivo alla società ed all’economia israeliane

da un articolo di Sever Plozker
pubblicato da Yediot Aharonot

Sono passati 15 anni da quando l’URSS ha aperto le porte. La stragrande maggioranza ha deciso di rimanere in Israele. Gli israeliani all’inizio erano ostili, ma oggi dicono: questa ondata di immigrazione era essenziale. La storia della più grande ondata di immigrazione della storia di Israele
 

Diligenza e Dividendi

    
Gli immigranti dal CSI sono venuti in Israele per lavorare e non per chiedere sussidi. Il loro tasso di partecipazione alla forza lavoro, specialmente per quanto riguarda le donne immigrate, è molto più alto che fra gli israeliani veterani, mentre il tasso di disoccupazione fra gli immigrati raggiunge solo il 9%. Quelli che sono arrivati negli anni ’90, come quelli che sono arrivati negli anni 2000, non si ritirano dinanzi ad alcun lavoro e non rifiutano alcuna offerta. Sono pronti a soprassedere al loro orgoglio professionale, a lasciare i loro certificati di laurea dell’Università di Leningrado a casa in cornice e ad andare al pulire vasi da notte negli ospedali. Tutto è accettabile, per potere guadagnare il denaro necessario all’istruzione dei loro figli.
    Gli immigranti hanno anche contribuito al settore high-tech israeliano (senza di loro il settore non avrebbe mai raggiunto il suo attuale livello – circa 100.000 ingegneri sono arrivati in Israele fra il 1989 e il 2002). Contrariamente al pregiudizio popolare, fra il 30% ed il 50% dei nuovi immigrati svolgono lavori manuali – nell’industria, commercio, servizi e trasporti. I loro salari sono notevolmente più bassi di quelli degli israeliani veterani, ma il numero dei lavoratori per famiglia è più alto e le famiglie sono più piccole.
     Secondo una ricerca speciale condotta dalla Dott. Mina Zemach dell’Istituto Dahaf su richiesta del quotidiano Yediot Aharonot, la metà delle famiglie degli immigrati possiede l’automobile e il 63% vive in un’appartamento di proprietà. Gli immigrati che sono arrivati fino al 1994, nella prima ondata, sono ben sistemati – il 76% vive in un appartamento di proprietà, quasi tutti hanno un lavoro ed il loro livello di vita è ragionevole. Il 67% si è detto soddisfatto della propria situazione – un successo stupefacente, in un paese in cui i cittadini tendono ad esprimere insoddisfazione praticamente su tutto, quasi fosse una questione di principio.
    L’asserzione di Israele di avere risorse limitate da dedicare all’integrazione dei nuovi immigrati si è evidentemente rivelata ingannevole. Fra il 1992 ed il 1996, Israele ha ricevuto garanzie dall’amministrazione americana - durante le presidenze Bush padre e Clinton – per un totale di 9 miliardi di dollari, da stanziarsi per l’inserimento degli immigrati. La maggior parte di questa somma non era necessaria ed è stata stornata per altri obiettivi o per rimpinguare le casse delle riserve di valuta del paese. La velocità con cui i nuovi arrivati si sono inseriti nella forza-lavoro locale hanno lasciato gli economisti a bocca aperta per lo stupore.
    Il compianto Yitzchak Modaì fu il Ministro delle Finanze che ideò la politica “dell’inserimento diretto”, secondo cui il governo garantisce a ciascun immigrante un “pacchetto di inserimento” in contanti, che l’immigrante ha la facoltà di impiegare a sua scelta.  La responsabilità del successo dell’integrazione è stato devoluto, per quanto possibile, all’immigrante stesso, invece di rimanere nelle mani dei burocrati. Il processo di inserimento diretto si è rivelato un successo al di là di ogni aspettativa, sia per i nuovi arrivati che per i veterani che li hanno integrati.
    L’ondata di immigrazione dal CSI è stato un successo stupefacente per Israele e può essere valutato in molti miliardi di dollari. Avrebbe potuto essere molto di più, tuttavia: il capitale umano e accademico portato dagli immigranti è stato sprecato, perché non si addiceva alle esigenze di un’economia che non è stata abbatanza astuta da adattarsi alle nuove professioni, che avrebbero potuto essere integrate nel mercato.
    Ad esempio, se Israele avesse sviluppato la sua rete ferroviaria un decennio fa invece di adesso, gli ingegneri ferroviari venuti dal CSI non avrebbero dovuto andare a fare i benzinai e oggi Israele non dovrebbe importare esperti stranieri a costi esorbitanti.
    Gli zenit e i nadir dell’economia e del commercio israeliano subiscono molto rapidamente le influenze delle ondate di immigrazione. Quando l’immigrazione è all’apice, il mercato israeliano fiorisce, il prodotto nazionale aumenta, crescono gli investimenti, la disoccupaizone cala e il livello di vita di ciascuno aumenta. Quando l’immigrazione cala, l’economia si contrae e la disoccupazione aumenta in modo drammatico. Gli apici della disoccupazione furono registrati in anni in cui non vi era quasi immigrazione.
    Questa è la dinamica del mercato israeliano, descritta per la prima volta dal Prof. Michael Bruno, che fu governatore della Banca d’Israele durante gli anni dell’immigrazione di massa. Allora il Prof. Bruno valutò che coloro che avrebbero tratto maggiore vantaggio dall’ondata di immigrazione sarebbero state le comunità costrette a confrontarsi faccia a faccia con gli immigrati, cioè gli abitanti delle cittadine di sviluppo.
     

Adattamento e ostilità
    
 
    L’immigrazione ha salvato il tessuto sociale delle cittadine di sviluppo in Israele, ne ha bloccato il deterioramento e esse sono diventate aree residenziali ricercate.  
    La popolazione delle città di provincia è aumentata quasi del 20%. A Kiryat Gat, Carmiel e Ashdod, per esempio, gli immigranti compongono il 30% della popolazione. Come apparirebbe oggi Beer Sheva, senza l’influsso di 55.000 nuovi immigrati? Come sembrerebbe oggi Nazaret Illit senza i suoi 22.000 nuovi immigrati?
    Sangue giovane, quello degli immigrati con una grande motivazione a riuscire a sistemarsi, è affluito alle zone periferiche, dove ha cambiato, aggiungendo varietà, lo stile di vita e la cultura, elevato il livello di vita sociale – fino all’inizio della crisi nazionale degli ultimi tre anni. La maggior parte di tali cittadine di sviluppo non sarebbe riuscita a sopportare la crisi senza l’apporto di questi immigranti.
    Chiedete ad un qualunque sindaco di una cittadina di sviluppo se vuole che arrivino nuovi immigranti nella sua città. La risposta è evidente. E’ quindi irrilevante quello che i vecchi abitanti di Lod, Afula o Hatzor HaGlilit possono dire dei “russi”  in un momento di rabbia o di difficoltà. Ciò che conta è il processo attualmente in corso sul terreno. La coesistenza sta prendendo il posto dello scontro e l’adattamento ha superato l’ostilità.
    Rivoluzione sefardita contro rivoluzione russa? Nulla di tutto ciò! La guerra fra i “russi” e i “marocchini”, che gli esperti della disintegrazione della società israeliana appartenenti ai diversi Istituti di ricerca palestinesi, egiziani e persino israeliani, avevano previsto con certezza – non è scoppiata. Il mosaico israeliano è andato a posto.
    Oggi, tre israeliani veterani (arrivati prima del 1989) su quattro pensano che l’immigrazione sia essenziale per il paese. Il 62% riconosce che l’immigrazione ha un effetto positivo sui tassi di occupazione. Solo un quarto è ancora attaccato al pregiudizio che l’immigrazione riduca le occasioni di impiego per i veterani. Si tratta di un chiaro giro di boa. Quattro o cinque anni fa quasi la metà della popolazione veterana era convinta che gli immigrati rubassero i loro posti di lavoro.
     

Bandiera e lingua
     
    
L’ “Immigrazione russa” non è esclusivamente russa. Su un milione di nuovi immigrati, solo 300.000 provengono dalla Russia e altrettanti provengono dall’Ucraina. Gli altri arrivano dal Baltico e dalle Repubbliche musulmane. Una moltitudine di persone, con stili di vita molto diversi e complessi legami comunitari. E’ difficile classificarli secondo i criteri comunemente accettati: gli ebrei di Tashkent sono ashkenaziti? Orientali? Altri?
    Questo ultimo gruppo comprende immigrati venuti in Israele sotto gli auspici della Legge del Ritorno, ma che non sono ebrei secondo la Halachà [legge religiosa]. Si tratta di 250.000-280.000 persone, che costiutiscono un quarto di questa ondata di immigrazione. (Nel corso degli ultimi tre anni, i nuovi arrivati classificati come non-ebrei secondo la legge religiosa ebraica costituiscono oltre il 55%).
    Chi sono questi non-ebrei? Un terzo ha il padre ebreo. Si considerano ebrei e figli di ebrei, esattamente come venivano considerati dal loro ambiente cristiano. Il 20% hanno nonni ebrei. La maggioranza hanno coniugi o compagni ebrei e tutti hanno scelto di legare il proprio destino con quello di Israele, di servire nel suo esercito e di diventare parte integrale del paese. La loro identificazione con il paese non è minore di quella degli israeliani veterani. Siamo noi, con la nostra povertà di spirito e l’insensibilità dei nostri rabbini, che li respingiamo e siamo la causa della loro alienazione, frustrazione e isolamento. E’un crimine demografico imperdonabile.
    La mafia russa è attiva in Israele? Ci sono diverse bande capeggiate da russi attive nel commercio delle donne, ma chiunque cerchi i miliardi russi “sporchi” che verrebero riciclati in Israele, è meglio che guardi altrove. Nemmeno la polizia israeliana è stata in grado di individuarli. Un solo uomo d’affari russo è stato condannato in Israele, per crimini che distano anni-luce dalle attività della mafia. La continue chiacchiere dei vari organi preposti all’applicazione delle leggi a proposito della “mafia russa”, sono riuscite solo a scoraggiare i potenziali investitori.
    Gli immigrati hanno definito un nuovo tipo di “ebraicità israeliana”, che è meno religiosa e più nazionalista, meno ebraica e più “falca”, meno polacco-marocchina e più russa. Si possono scrivere – e sono stati scritti – libri sulla questione se sentirsi russi, ebrei e israeliani in eguale misura sia un vantaggio o uno svantaggio. Quale identità sia più “grande” e quale cultura “dominante”.  E’ dubbio se si possa dare a tale domanda una risposta che soddisfi tutti, o se addirittura ci sia una risposta.
    La studio dimostra che il 48% degli immigrati che sono in Israele da 10 o più anni, ancora non parlano un ebraico fluente o non lo parlano per niente. Molti di loro usano quotidianamente il russo. Tuttavia non sono isolati nei ghetti e non tendono a rimanere appartati. Pensano “israeliano”, respirano

prosegue ->
“israeliano” ed hanno una coscienza israeliana.
    Agli immigrati è stato chiesto fino a che punto vogliano appartenere alla società israeliana. Il  74% ha risposto di essere desideroso e persino molto desideroso. Il 68% sente già di appartenervi. L’81% di coloro che sono arrivati 10 o più anni fa sono già membri a pieno titolo di questo strano club chiamato la “società israeliana”. Guardano il loro paese di origine con una certa quantità di nostalgia, che scompare con l’andare del tempo. L’idea di ritornare da Putin è una “non-opzione” per il 97%.
    Il tasso di riemigrazione fra questi immigrati è minimo. Il risultato più importante è che il 95% dei loro figli sono israeliani di nascita, per cui Israele è la Patria. Bianco e blu sono diventati i loro unici colori.  
    Le conclusioni riguardanti la più grande ondata di immigrazione nella storia di Israele può essere riassunta solo in termini positivi. Il milione di immigranti giunto dall’URSS, prima e dopo il suo smantellamento, ha dato ad Israele una spinta in avanti. Si sono assimilati in mezzo a noi e anche noi stiamo assimilandoci fra loro.
     La sintesi reciproca è sempre stata l’albero maestro della vitalità d’Israele.

Fine della 2° puntata

(Keren Hayesod, 11 gennaio 2005)





4. L'OPINIONE DI BENNY MORRIS




«Ma lo uccideranno se cercherà di disarmare i terroristi»

Lo storico israeliano Benny Morris: «La maggioranza dei palestinesi non vuole la pace e il nuovo leader sarà un ostaggio»

di Aldo Cazzullo

GERUSALEMME - Benny Morris, capofila dei nuovi storici israeliani, è lo studioso che ha cambiato il modo di pensare la storia del Medio Oriente. Le sue ricerche sulla questione dei rifugiati palestinesi hanno operato una doppia revisione: prima incrinando i miti fondativi di Israele, a cominciare dalla fede nella possibilità di convivere con gli arabi; poi giustificando la scelta di Ben Gurion e sostenendo la necessità della separazione dei due popoli.

Professor Morris, l’ampia vittoria di Abu Mazen apre una nuova prospettiva?
«Spero di sbagliarmi, ma temo di aver ragione: no».

Il nuovo presidente non è forse diverso da Arafat?
«È più presentabile: non è un barbaro come Arafat ma una persona civile, non è un bugiardo patologico. Ma è comunque ostaggio della volontà dei palestinesi. E la maggioranza dei palestinesi non vuole la pace ma la distruzione di Israele. Abu Mazen è un nice guy, una brava persona. Ma questo non è tempo per brave persone, bensì per leader forti».

I due terzi dei voti non danno abbastanza forza?
«Se Abu Mazen sarà coraggioso, disarmerà i terroristi di Hamas e Al Aqsa, li imprigionerà, riconoscerà il diritto di Israele a esistere. Ma in tal caso i terroristi lo ucciderebbero. In passato Sharon gli ha chiesto di fermare la violenza, e lui ha risposto: non posso, significherebbe scatenare la guerra civile».

Abu Mazen ha già iniziato una trattativa con i gruppi estremisti. Vorrebbe trasformarli in soggetti politici. Lei crede non abbia alcuna chance?
«Abu Mazen cercherà di trattare con Israele. Ma un eventuale accordo implica il riconoscimento di Israele. Proprio quello che Hamas non vuole. Né credo che Abu Mazen abbia la forza di rinunciare al ritorno dei profughi».

Se invece lo facesse?
«Lo farebbero fuori».

Lei nell'88 fu arrestato per essersi rifiutato di servire l'esercito nei Territori occupati. Oggi ci sono ufficiali che rifiutano di sgomberare i coloni. È una spaccatura che può allargarsi?
«Non credo. Alla fine il 95% dell'esercito obbedirà, e i coloni non oseranno affrontarlo. Ritirarsi da Gaza è giusto; anche se da Gaza continueranno ad attaccarci con i razzi, e cominceranno anche dalla West Bank».

L'unica via è la separazione, il Muro?
«Sì. Il Muro è una brutta cosa e una buona idea, per proteggerci dai kamikaze. L'errore è stato pensare di tracciare in questo modo la frontiera. Le pressioni internazionali ci costringeranno a retrocedere verso i confini del '67».

La sua idea dell'ineluttabilità della separazione richiama le polemiche sul «transfer», la cacciata dei palestinesi nel '48. Un male necessario, lei disse. Che può ripetersi?
«Il "transfer" è cosa gravissima, che può essere giustificata solo dal pericolo di un genocidio».

Israele oggi è in pericolo?
«Israele è in pericolo permanente. Lo era nel '48, nel '67, lo è oggi. E pensi quanto lo sarebbe domani se i Paesi arabi avessero l'atomica».

Come le pare il nuovo Sharon?
«Sovrappeso».

Sembra cambiato dall'uomo che lei descrive come intento a tessere trame, a consentire crimini al tempo dell'invasione del Libano.
«La politica cambia gli uomini. Guidare un Paese non è come guidare un esercito. Ma Sharon non sarà mai come Barak: non arriverà a offrire ai palestinesi il 95% della West Bank e Gerusalemme Est, e i palestinesi sono stati causa del loro male rifiutando con un tragico errore quell'opportunità. Tra la pace e la sicurezza di Israele, Sharon sceglierà sempre la sicurezza».

Abu Mazen l'ha definito «più forte di Ben Gurion».
«Abu Mazen non conosce la storia di Israele e non ha la minima idea di chi sia Ben Gurion. Ben Gurion è l'uomo che ruppe con gli estremisti e bloccò le armi destinate agli ebrei che volevano combattere gli arabi a oltranza. Vedremo se Abu Mazen farà lo stesso».

La trattativa ripartirà.
«Ma non sfocerà in un trattato, con strette di mano. Procederà per piccoli passi».

La spinta può venire dalla seconda amministrazione Bush?
«Non credo. Finché Bush sarà impantanato in Iraq non avrà né la passione né il tempo».

Il governo e l'opinione pubblica israeliana rimprovera all'Europa un pregiudizio filoarabo. È d'accordo?
«L'Europa vive il ritorno dell'appeasement, dell'attesa e dell'ignavia di fronte al male. L'evocazione dello spirito di Monaco e della resa a Hitler è forse semplicistico, ma giustificato. L'Europa rinnega le radici che la legano a noi, pratica un ostracismo antisraeliano, nasconde la testa sotto la sabbia come gli struzzi, si schiera dalla parte degli arabi posponendo i principi a quelli che considera i suoi interessi. La Francia è molto attenta agli interessi economici e all'immigrazione araba. E questo mi preoccupa, perché l'integralismo islamico può mettere l'Europa in grave pericolo».

Come accoglie le sue tesi la sinistra israeliana da cui lei proviene? Si sente isolato?
«Niente affatto. Il mio prossimo libro, «The road to Jerusalem», uscito due anni fa in inglese, sarà pubblicato da Amoved, un editore di sinistra. Solo una piccola parte della sinistra israeliana contesta le mie tesi, non chi è immune da ideologia. La gran parte dei miei amici, magari in privato, sono d'accordo con me. Attendo che escano i miei libri in Italia. Einaudi ne ha due ancora da pubblicare, tra cui la nuova versione del saggio sull'origine della questione dei profughi, "The birth of the Palestinian Refugee Problem rivisited "».

In cosa consiste la revisione?
«Dopo l'apertura degli archivi dell'esercito, aumentano le responsabilità degli ebrei nel "transfer", ma anche quelle dei leader arabi, in particolare del re giordano Abdallah».

(Corriere della Sera, 11 gennaio 2005)





5. LA VOCE DELLA «NAZIONE ARABA»




Le elezioni sotto la minaccia dei fucili non sono una soluzione

di Ibrahim Ebeid

Uno stato in una piccola porzione della Palestina non è una soluzione al problema palestinese; è piuttosto una legittimazione all'occupazione della Palestina da parte dell'Occidente Imperialista e Sionista.
    È una concessione ai piani Sionisti ed Imperialisti contro la nazione Araba. I capitolazionisti che stanno dietro ai tentativi di far passare questa come una soluzione non riceveranno mai un avallo e in nessun modo rappresentano il popolo palestinese. I Palestinesi non hanno lottato invano contro l'entità straniera nella loro terra. La liberazione totale della Palestina è il loro scopo finale e ritengono che un mini-stato non avrebbe la possibilità di essere indipendente e liberato. Un mini-stato negherebbe i diritti dei Palestinesi alla loro terra storica. Costringerebbe l’intera area della terra Araba a cambiare il proprio carattere e a diventare definitivamente una serie di nazioni mediorientali frammentate e divise, deboli e permanentemente sotto la dominazione straniera.
    La lotta per la liberazione deve continuare basandosi su quel carattere nazionale della Palestina che i capitolazionisti vogliono negare. Il nostro popolo crede fermamente che più noi lottiamo e ci sacrifichiamo e più vicini saremo al raggiungimento della liberazione della Palestina e più vicini alla realizzazione del ritorno del nostro popolo disperso nella loro terra dalla quale furono espulsi nel 1948.
    La “democratizzazione” della Palestina mediante l’elezione di un nuovo presidente ed un nuovo corpo di governo sotto occupazione, non è un atto legittimo specialmente nel momento in cui tale processo ignora i milioni di Palestinesi che vivono nei campi profughi fuori dalla Palestina ed i Palestinesi sparsi in tutto il mondo nel loro esilio forzato. Questa elezione è un tentativo ulteriore di comprimere i Palestinesi e di spogliarli del diritto a continuare la lotta per liberare la loro terra e a stabilire il proprio stato nella Palestina storica che si estende dal mar Mediterraneo al fiume Giordano.
    Una soluzione rivoluzionaria al problema fu già intrapresa decenni fa quando i Palestinesi ricorsero alla lotta armata per liberare la Palestina e preservare il proprio carattere arabo. Il nostro popolo ha adottato questa soluzione e migliaia di loro hanno sacrificato le proprie vite e hanno bagnato il nostro suolo con il sangue per realizzare questa nobile causa. La nazione Araba sa molto bene che i governi arabi non vogliono seguire questo percorso rivoluzionario, perché la liberazione della Palestina vorrebbe dire la fine del loro dominio e la fine dei loro regimi, che sarebbero sostituiti da una nazione Araba unita con uno stato che comprenda milioni di arabi, dall’Iraq e dal Golfo Arabo fino all'Oceano Atlantico, al Marocco e alla Mauritania.
    Chiaramente la soluzione rivoluzionaria non piace alle potenze Imperialiste e Sioniste che vogliono che gli arabi siano frammentati, divisi e deboli sotto la loro dominazione.
    I capitolazionisti dell'autorità Palestinese, che calpestano la Carta Palestinese, sono parte in gioco nel processo voluto da Sionisti e Stati Uniti, non vogliono seguire il percorso rivoluzionario, ma hanno scelto di essere parte del “Nuovo Medio Oriente” in cui l'entità Sionista è accettata come potere dominante coloniale e colonialista in rappresentanza degli interessi degli imperialisti americani nell'area.
     L'era di Arafat deve essere abbandonata e non deve continuare, è stata basata su false promesse che conducono alla resa incondizionata della Palestina, a Oslo, Madrid e in altri accordi si è stati accomodanti con l'entità Sionista legittimando così l'occupazione della Palestina e lasciandoci nella condizione di “nazione” dispersa. Noi abbiamo bisogno di leader che vengano dalla lotta rivoluzionaria e che sono disposti e capaci a portare la lotta sino alla fine. Noi abbiamo bisogno di leader che sono fedeli alla causa e che credono che la Palestina Libera si situerà tra il mar Mediterraneo ed il fiume Giordano e che resterà araba per sempre.
    La causa palestinese affronta oggi l'ultimo atto, in cui si dispiegano i progetti per la liquidazione concepiti dall'alleanza tra Imperialisti, Sionisti e reazionari. Ed è per questa ragione che l'Imperialismo Sionista e degli Stati Uniti ha sostenuto l’idea delle elezioni “democratiche” in Palestina ed in Iraq. La sporca alleanza dell’Imperialismo degli Stati Uniti con il Sionismo sta camuffando la sua ostilità ed aggressività dietro questa nuova facciata di “democrazia” sotto la minaccia dei fucili per far eleggere degli uomini che li rappresentino in Iraq ed in Palestina. I candidati principali sono scelti da Washington e da Tel Aviv sotto il loro controllo e dominio e sono disposti a sabotare qualsiasi avanzamento che la Resistenza in Palestina ed in Iraq stia realizzando. La scelta di Allawi in Iraq e di Abu Mazen in Palestina è una necessità per realizzare i piani Imperialisti nella regione Araba.
     Gli Stati Uniti hanno dichiarato di voler schierare più di 35.000 soldati nella città di Baghdad per forzare l’elezione dei suoi candidati contro la volontà del popolo Iracheno. Ma la Resistenza Irachena si sta dimostrando sempre più forte e sta guadagnando sempre maggiore sostegno popolare. Le operazioni di liberazione in terra irachena sono sempre più numerose e più efficaci che mai. La Resistenza in Palestina ed in Iraq è determinata a vincere la guerra di liberazione. L’Imperialismo ed il Sionismo saranno sconfitti alle porte di Gerusalemme e di Baghdad. La vittoria sarà prima di quanto la maggior parte di noi si aspettano. Il popolo Arabo rovescerà i governanti che si sono rafforzati sulle loro spalle per poi arrendersi al Sionismo e all’Imperialismo. La liberazione e l’unificazione della terra Araba verranno realizzate.

Tratto da "Free Arab Voice"

(Lega Antimperialista, 13 gennaio 2005)






6. INDOVINATE CHI E' STATO




Lo tsunami: è stato Israele?

di André Nahum

Ci siamo. Non cercate più.
"Probabilmente" abbiamo trovato la causa e i responsabili del terribile sisma che ha devastato con i suoi tsumani l'Asia del sud.
Indovinate?
Chi può essere il responsabile di un tale massacro?
E' facile, tuttavia.
Ebbene, "probabilmente" sono stati Israele e gli USA. Così almeno sostiene il mensile egiziano «Al-Usbu'».
Normale.
Si sapeva che questi due paesi, soprattutto il tandem Bush-Sharon, sono responsabili di tutti i mali del pianeta, ma come diavolo avranno fatto a scatenare un simile terremoto?
Molto semplice.
Stando a quello che dice il mensile in questione, sarebbe stata un'esperienza nucleare indiana a cui hanno partecipato esperti nucleari americani e israeliani, a essere la causa di tutto.
La complicità del grande e del piccolo Satana non possono sorprenderci, perché il loro scopo, se abbiamo ben capito l'articolo in questione, non è nient'altro che sterminare l'umanità. Ma il fatto nuovo è che l'India, con il suo miliardo e passa di abitanti, partecipa anche lei a questo club dei "Satana", grande e piccolo.
Trovate tutto questo demenziale?
Anch'io.
Tanto demenziale e tanto illogico quanto le accuse fatte a Israele e al Mossad all'indomani degli attentati dell'11 settembre 2001 agli Stati Uniti.
Ma ciò non toglie che ci siano persone che leggono queste insulsaggini e ci credono.
Poco importa a questi accecati dalle loro colpevoli certezze che gli americani dispieghino mezzi considerevoli in materiali, in uomini e in dollari per venire in aiuto all'Asia del sud sinistrata.
Poco importa a loro che Israele, paese minuscolo alle prese con innumerevoli problemi, sia stato uno dei primi ad inviare laggiù delle forze di sicurezza e del materiale.
Tutto questo non conta.
Conta soltanto l'odio cieco.
Ed è ben triste.

(Guysen Israël News, 8 gennaio 2004)





MUSICA E IMMAGINI




Fiddler




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Americans For A Safe Israel

Israel and Zionism




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