<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 275 - 8 gennaio 2005

1. Il Primo Ministro di uno Stato che non esiste
2. Libia-Israele, accordo vicino
3. Il popolo ebraico, la terra e la Torah
4. I nuovi israeliani provenienti dall'ex Unione Sovietica
5. In Israele cresce il rischio di attentati aerei
6. Intervista con un membro della Knesset
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 35:10. I riscattati dal Signore torneranno, verranno a Sion con canti di gioia; una gioia eterna coronerà il loro capo; otterranno gioia e letizia; il dolore e il gemito scompariranno.
1. PRIMO MINISTRO DI UNO STATO CHE NON ESISTE




Giochi di parole palestinesi

di Daniel Pipes

Leggiamo che il "Primo ministro" Mahmoud Abbas si presenterà alle elezioni di domenica prossima per subentrare a Yasser Arafat alla "presidenza" della "Palestina".
    Permettetemi di osservare che il termine Primo ministro, secondo l'Encyclopedia Britannica, sta a significare "il capo dell'esecutivo di Governo in Stati in cui vige un sistema parlamentare". Malgrado le decine di migliaia di riferimenti ad Abbas come Primo ministro, nessuno di essi rientra in questa accezione.
    Ah, e c'è un altro dettaglio da rilevare: e cioè che non esiste un Paese chiamato Palestina. Le carte geografiche arabe lo collocano abitualmente all'interno di Israele. Le Nazioni Unite riconoscono la sua esistenza. E così anche due compagnie telefoniche come la francese Bouygues Telecom e la Bell Canada. Ciononostante, non esiste un posto del genere.
    Si può ricusare l'uso di questi termini quali avvisaglie della stessa mancanza di realismo che ha minato i tentativi bellici palestinesi a partire dal 1948. Ma l'uso di questi vocaboli promuove altresì la causa palestinese (una locuzione elegante per designare "la distruzione di Israele") considerandola di vitale importanza.
    In un'epoca in cui lo scontro per accattivarsi l'opinione pubblica ha la stessa importanza del fragore delle armi, il successo dei palestinesi nel truccare le questioni è valso loro il cruciale appoggio dei politici, degli editorialisti, degli accademici, dei manifestanti di piazza e degli attivisti delle ONG. Nel complesso, questi innumerevoli ausiliari mantengono vivo lo sforzo palestinese.
    L'opinione pubblica riveste enorme importanza, soprattutto in una disputa di lunga data con una situazione statica di fondo. E questo perché le parole riflettono delle idee – e le idee motivano la gente. Le armi in se stesse sono inerti; oggigiorno, le idee inducono gli uomini a imbracciare le armi o a sacrificare le loro vite. Il software guida l'hardware.
    Israele ha la meglio sulla nomenclatura geografica di base. Lo Stato viene chiamato in inglese Israele e non l'entità sionista. La sua capitale è chiamata Gerusalemme e non Al-Quds. E parimenti, il Monte del Tempio e il Muro occidentale sono molto più diffusi di Al-Haram ash-Sharif o di Al-Buraq. La barriera di separazione viene molto più sovente definita come una barriera di sicurezza (che tiene fuori gli attentatori palestinesi suicidi) piuttosto che come un muro di separazione (che richiama alla mente la divisione di Berlino).
    Ma le espressioni linguistiche dei palestinesi dominano in altri modi l'uso della lingua inglese, aiutandoli a vincere la guerra per accattivarsi l'opinione pubblica.
    Collaboratore sta per qualcuno che "coopera sediziosamente" e richiama alla mente i collaboratori francesi e norvegesi che tradirono i loro Paesi davanti ai nazisti. Questo termine (più che informatore, talpa o agente) descrive ancora ovunque quei palestinesi che forniscono informazioni a Israele.
    Lo status di rifugiato si applica normalmente a qualcuno che "a causa di un timore fondato di essere perseguitato… si trova fuori dal Paese di cui possiede la cittadinanza", ma non ai suoi eredi. Ma nel caso palestinese anche i bambini, i nipoti e i pronipoti dei rifugiati meritano lo status di rifugiato. Uno studio demografico stima che oltre il 95% dei cosiddetti rifugiati palestinesi non è mai scappato da nessun luogo. Ciononostante, il termine continua ad essere usato per indicare che milioni di palestinesi hanno il diritto di spostarsi in Israele.
    Un insediamento viene definito come una piccola comunità o come un establishment situato in una nuova zona. Sebbene alcune città ebraiche in Cisgiordania e a Gaza abbiano decine di migliaia di abitanti ed esistano da quasi quaranta anni, esse vengono designate quasi ovunque come insediamenti, con sfumature di colonialismo.
    L'accezione territori occupati implica una situazione palestinese creatasi nel 1967, quando Israele conquistò la Cisgiordania e Gaza, ma non era questo il caso, rendendo quei territori legalmente contesi e non occupati.
    Ciclo di violenza, un termine coniato dal presidente George W. Bush ("il ciclo di violenza è arrivato alla fine per lasciare posto al processo di pace"), sottintende un'equivalenza etica tra gli uccisori dei civili israeliani e i terroristi palestinesi. Il termine confonde gli incendiari con i vigili del fuoco.
    In Israele, il campo dei pacifisti – un termine di uso leninista – si riferisce alle persone di sinistra che pensano che l'unico modo per porre fine alle aggressioni da parte dei palestinesi consista nel rabbonire con concessioni eccessive i nemici acerrimi. I fautori di altri approcci (come la deterrenza) implicitamente costituiscono il "campo dei bellicosi". In effetti, tutti gli israeliani si trovano nel "campo dei pacifisti", nel senso che tutti vogliono essersi sbarazzati del conflitto e nessuno di loro mira a uccidere i palestinesi, a occupare il Cairo o a distruggere la Siria.
    Può darsi che gli arabi siano rimasti indietro rispetto a Israele per ciò che riguarda il reddito pro-capite e nella corsa agli armamenti, ma sono di gran lunga superiori nella battaglia semantica. Un secolo fa, chi avrebbe mai immaginato che gli ebrei avrebbero avuto il migliore esercito e gli arabi i migliori agenti pubblicitari?

(New York Sun, 4 gennaio 2005 - dall'Archivio di Daniel Pipes)





2. LIBIA-ISRAELE, ACCORDO VICINO




GERUSALEMME.  Nel nuovo, sorprendente corso della politica estera della Libia ci sarebbero anche contatti, per ora segreti, con Israele e un'asserita disponibilità del leader libico Gheddafi a indennizzare gli ebrei di Libia per le proprietà loro confiscate. Questo è ciò che riferiscono due siti Internet, arabo e israeliano. Secondo il sito in ebraico del quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth, contatti segreti tra rappresentanti israeliani e libici, svoltisi con la mediazione del Qatar a Ginevra e a Vienna, avrebbero aperto la strada alla visita in Libia di una delegazione israeliana nella seconda metà di questo mese per discutere «della fine delle ostilità tra il popolo libico e quello israeliano e la costruzione di rapporti naturali tra i due paesi».
    Il giornale riferisce che all' incontro era presente un diplomatico americano di alto livello. Le parti avrebbero convenuto che la delegazione israeliana che andrà a Tripoli comprenderà funzionari dei ministeri degli Esteri e della Difesa e un rappresentante del Mossad.
    Secondo le fonti di As-Siasa, la fine delle ostilità con Israele sarebbe una delle condizioni poste alla Libia nel corso dei negoziati segreti con Usa e Gran Bretagna, culminati tre settimane fa con l'annuncio della Libia di rinunciare al possesso delle armi di distruzione di massa. Anche il Qatar avrebbe svolto opera di mediazione presso il governo di Tripoli a favore di una distensione tra Libia e Israele.

(La Sicilia Multimedia, 7 gennaio 2005)





3. IL POPOLO EBRAICO, LA TERRA E LA TORAH




Tacere per una terra?

di Gérard Touaty

Tra qualche mese dovremo affrontare una delle situazioni più strazianti e più tragiche che il popolo ebraico abbia dovuto conoscere dalla creazione dello Stato. Mi riferisco al progetto di ritiro degli abitanti da quei famosi territori. Non si tratta del dramma emozionale, che si capisce da solo, ma di un'altra tragedia, più profonda e dalle implicazioni più lontane.
    Questo avvenimento, infatti, metterà a nudo la dimensione reale dell'identità ebraica e costringerà tutti gli attori ad andare fino in fondo nelle loro convinzioni. Ma prima della fatidica scadenza, riflettiamo insieme su un'idea che può darci il giusto valore del rapporto dell'ebreo con la sua terra e consentire, forse, presso alcuni protagonisti di questo dramma, un nuovo approccio.
    Una delle specificità del popolo ebraico risiede nella relazione che ha con la sua terra. In generale, è la terra, cioè lo spazio geografico, che precede la costituzione di una nazione: delle persone riunite su un territorio comune a poco a poco cominciano ad elaborare dei costumi, dei comportamenti specifici, per arrivare - dopo molti secoli - a formare una coscienza nazionale comune.
    Per il popolo ebraico è il contrario: l'entità nazionale esiste prima della scelta di una terra. Il popolo ebraico esisteva come «popolo di Dio» prima che si installasse sulla sua terra. In altri termini, è la Torah che ha determinato l'ubicazione del territorio e la natura del rapporto del popolo con questa terra.
    Questo parametro è rimasto sempre lo stesso fino ad oggi: le più alte autorità contemporanee della Torah sono unanimi nell'opporsi a questo ritiro perché non corrisponde alle norme della Torah.
    Di conseguenza, abbandonare il futuro di una parte di Eretz Israel ai desideri (interessati) dei politici è un procedere contrario all'etica dell'ebraismo. Ed è per questo che mette a rischio la vita di migliaia di ebrei. I fatti sono lì a provarlo.
    
(Arouts, 4 gennaio 2005)





4. I NUOVI ISRAELIANI PROVENIENTI DALL'EX UNIONE SOVIETICA (I)




Quindici anni dopo l’apertura delle porte dell’Unione Sovietica, che rese possibile l’alià in Israele di un milione di nuovi immigrati, Keren Hayesod presenta una vasta panoramica in quattro parti, scritta da due noti giornalisti, Sever Plozker e Natasha Mosgovia e recentemente apparsa sul più diffuso quotidiano israeliano, Yediot Aharonot.


Quando “Noi e voi” è diventato “Noi”
 
da un articolo di Sever Plozker
pubblicato da Yediot Aharonot

Sono passati 15 anni da quando l’URSS ha aperto le porte. La stragrande maggioranza ha deciso di rimanere in Israele. Gli israeliani all’inizio erano ostili, ma oggi dicono: questa ondata di immigrazione era essenziale. La storia della più grande ondata di immigrazione della storia di Israele


Nella primavera del 1993, quando già circa 400.000 immigrati dall’Unione Sovietica erano arrivati in Israele, il Primo Ministro Yitzchak Rabin si recò in visita a Mosca.  Una festosa esibizione in onore di Israele segnò la fine del viaggio. Migliaia di ebrei avevano riempito la grande e non particolarmente attraente aula delle conferenze del Partito Comunista al Cremlino. Il palco, che fino a poco tempo prima era stato riempito da file e file di membri del comitato centrale, serissimi nei loro completi grigi e con le facce rosse di vodka, era decorato di bandiere e simboli israeliani. Quella sera la sala era affollata di giovani di Tel Aviv e di Mosca, ci furono discorsi in ebraico e in russo e fu suonata “Hatikvà”, l’inno nazionale israeliano.
    Gli ebrei ballavano sulla tomba di Brezniev: il Comunismo era caduto, il Sionismo aveva vinto. Israele riceveva ciò che non aveva osato sognare: l’ultima ondata di immigrazione di massa del XX secolo.
    
    
Speranza e orgoglio

    All’inizio degli anni ’70 si trovavano in URSS due milioni e due centomila ebrei. Oggi vi sono solo 400.000 ebrei circa nei paesi che in passato formavano l’Unione Sovietica. La preghiera “Lascia andare il mio popolo” era stata esaudita. La maggioranza di coloro che hanno lasciato l’URSS, oltre un milione di donne, uomini e bambini, sono immigrati in Israele. La prima ondata, relativamente piccola, era composta di immigranti che erano stati coinvolti in attività sioniste e nella resistenza al regime. La seconda ondata, enorme, comprendeva chiunque.
    La porte della Russia si sono aperte per consentire l’uscita senza limitazioni nel 1989, e 950.000 persone sono arrivate in Israele da allora. In un primo momento arrivavano attraverso stazioni di transito in Finlandia, Ungheria e Romania e poi con voli diretti da tutto l’impero in via di smantellamento. Al culmine dell’esodo, 1.000 persone arrivavano giornalmente all’Aeroporto Ben Gurion. Israele non aveva mai sperimentato prima una simile ondata di immigrazione.
    
    
Un altro milione di israeliani.

    In Israele, ormai un ebreo su sei era un nuovo immigrante dal CSI.
    Non fuggivano dalle persecuzioni, e non avevano nemmeno patito nelle segrete della KGB prima di immigrare. Non avevano studiato clandestinamente l’ebraico e non avevano ascoltato “Kol Israel la-Golà” (la stazione radio israeliana che trasmette alla Disapora) al riparo di porte chiuse. Gente comune, come te e me, che un bel giorno, per una qualche ragione sfuggente, hanno impaccato le loro cose in semplici cartoni o in borse di plastica strapiene e in riverente timore si sono messi in fila in lunghe code per ricevere il visto di ingresso in Israele: la prescelta, per quanto non particolarmente sicura, Terra Promessa.
    Hanno con sé tutti gli anni che hanno sprecato laggiù, i rimpianti che non saranno dimenticati in questa generazione, i bambini che piangevano lungo tutto il viaggio in Israele, i barattoli di crauti, che avrebbero dovuto sostenerli nei loro primi giorni di vita nel deserto. Hanno portato anche la vecchia nonna da un qualche kolkhoz, con la testa coperta da un fazzoletto ricamato e il nonno patriota veterano di guerra, che sfoggiava sul petto due file di decorazioni.
     Così comuni, eppure così diversi, questi erano gli ebrei che formavano l’ondata di immigrazione russa in Israele alla fine del XX secolo.
    Hanno sconvolto tutti gli stereotipi. Erano nazionalisti, ma non religiosi, colti, ma non sapevano l’inglese, lavoratori manuali senza essere medio-orientali o nord-africani. A differenza delle precedenti ondate di immigrazione dal Marocco e dalla Polonia, non si vergognavano delle loro origini. Era vero l’esatto contrario: erano orgogliosi dell’impero che avevano lasciato, della sua cultura, della sua lingua, dei suoi tesori e dei suoi panorami. Avevano – e hanno tutt’ora – due patrie e vivono in pace con tutte e due.
    

Sorpresa e gioia

    
Tutti furono sorpresi da questa ondata di immigrazione di massa, soprattutto gli esperti di immigrazione – proprio come il crollo del Comunismo aveva colto di sorpresa gli esperti di Comunismo.
    Subito prima della festa di Pesach del 1988, fui avvicinato dal Prof. Haim Ben Shachar, che allora rappresentava in Israele l’uomo d’affari ebreo-americano Armand Hammer, che mi chiese di intervistare Hammer per il supplemento festivo del giornale. Hammer era proprietario di una grande società petrolifera e manteneva vaste relazioni con le compagnie sovietiche. Era molto noto per i suoi rapporti con il Cremlino e per il suo andirivieni nella fortezza degli Zar durante gli anni bui del regime di Brezniev.
    L’intervista fu data per telefono dall’ufficio di Hammer. La sua voce era animata, nonstante l’età avanzata. Parlammo di temi ordinari, come affari, petrolio e la fine della Guerra Fredda. All’improvviso, Hammer disse:

prosegue ->
“Questa settimana sono stato a cena con il nuovo segretario generale dell’URSS, Michail Gorbachev. Un grande leader, questo Gorbachev. Ho chiesto al Compagno Gorbachev: ‘Perché non date agli ebrei la libertà di emigrare dal vostro paese in Israele?’ Egli ha replicato: ‘Ha ragione, Signor Hammer. Le prometto che apriremo i cancelli dell’URSS entro pochi mesi. Ad ogni ebreo che lo desideri, sarà consentito di andarsene’”.
    La conversazione fu pubblicata su “Yediot Aharonot” il 22 aprile 1988. Sebbene si trattasse della primissima dichiarazione pubblica indicante un cambiamento della politica sovietica, non suscitò alcuna eccitazione. L’Agenzia Ebraica e i funzionari dell’ “Ufficio di Collegamento” la accantonarono senza dimostrare interesse. Alcuni telefonarono al giornale dicendo: “Avete provocato un grave danno agli ebrei russi. Hammer è un visionario. In questo momento stiamo negoziando con il nuovo regime la graduale immigrazione di 100.000 ebrei nel corso di cinque anni”.
    A Pesach del 1988, l’dea di 100.000 nuovi immigranti sembrava una fiaba per bambini. I cancelli si aprirono un anno dopo. Gorbacev aveva mantenuto la promessa.
     Immediatamente li definimmo “i russi”. In un primo momento li accogliemmo a braccia aperte. Fummo piacevolmente sorpresi dal fatto che qualcuno che veniva da tanto lontano avesse un benché minimo interesse a stabilirsi qui, in Israele, che soffriva di una propria immagine davvero carente, nel periodo fra la fine della prima Intifada e l’inizio della prima Guerra del Golfo. Considerammo il loro arrivo come un complimento, nonché come un mezzo per migliorare l’equilibrio demografico fra ebrei e arabi in Israele.
    
    
Animosità e ansia

    
In poco tempo, l’eccitazione si trasformò in malevolenza. Che cosa ne faremo di tutta questa gente, ci chiedevamo. Come faremo a mantenere centinaia di migliaia di nuovi immigranti senza beni e senza casa? Come faremo con le strade, l’istruzione, i servizi sanitari e la cosa più importante, il lavoro? Il nostro stesso sangue era divenuto un oggetto alieno in mezzo a noi. Sono venuti ad occupare i nostri posti di lavoro, ad aumentare i nostri affitti, ad occupare il nostro posto nella scala sociale e a privarci di quel livello sociale, per cui abbiamo lavorato così duramente nel corso degli anni.
    Le tesi degli economisti che questa nuova ondata di immigrazione avrebbe dato il via ad una maggiore attività economica, accelerato lo sviluppo, accresciuto il prodotto nazionale e avrebbe fatto diminuire e non aumentare i tassi di disoccupazione, fatto aumentare e non diminuire i salari e portato un beneficio alla società israeliana e non un danno, non erano convincenti.
     La sensazione di essere minacciati si rafforzò e investì ampi settori della popolazione, arrivando ad uno stadio che fu descritto da uno dei maggiori ricercatori del paese nel campo dell’immigrazione, il prof. Eliezer Leshem, come “la fase della competitività e del conflitto fra veterani e nuovi arrivati”. Una spaccatura profonda e non dichiarata si sviluppò nei rapporti interpersonali fra il vecchio Israele ed i nuovi venuti dall’ex-Unione Sovietica.
    In un rapporto consuntivo sulla situazione degli immigranti, preparato per il Joint, scrive il prof. Leshem, della Scuola di Assistenza Sociale dell’Università Ebraica di Gerusalemme: “Gli studi indicano un incremento del livello di scontro fra i veterani ed i nuovi immigrati, che si esprime in una visione negativa degli immigrati, che stanno acquistando forza”. Interi settori della popolazione veterana non sprecarono tempo, formulando un atteggiamento che vedeva nel nuovo immigrato (a differenza dell’”immigrazione” in quanto ethos nazionale astratto) un peso piuttosto che una ricchezza. Una minaccia, piuttosto che un’opportunità.
    Dal 1995 al 2000 il nuovi immigranti furono percepiti come una minaccia fisica alla serenità della popolazione delle cittadine israeliane in via di sviluppo, dove erano considerati in parte ebrei, in parte russi, che avevano soprasseduto agli elementari valori sociali, concupendo i posti di lavoro e portandoli via ai veterani. In quei giorni, la voce del partito Shass (ultra-ortodosso sefardita) era ancora molto prominente, i rabbini cominciarono una campagna revanchista, che consisteva essenzialmente nel proclamare gravi ‘avvertimenti’ contro centinaia di migliaia di “non-ebrei”, che pur essendo arrivati nel paese in base alla “Legge del Ritorno” israeliana, non erano tuttavia considerati ebrei secondo la Halachà (la legge religiosa ebraica) e quindi rappresentavano un pericolo per il carattere religioso ebraico di Israele.
    Contemporaneamente, storie di Mafia (russa), liquidazioni, contrabbando, ubriachezza, violenza e ‘commercio’di donne’ aumentevano. Secondo il prof. Leshem, la stampa in ebraico rafforzava questi pregiudizi con rapporti tendenziosi. “Una pesante coltre è stata gettata su questa ondata di immigrazione, malgrado il capitale umano che ha portato”.
    Poi è cominciata l’Intifada. L’ordine del giorno e le priorità di Israele sono cambiate. Sotto l’ombra del terrorismo, la minaccia posta da un’immigrazione di massa si è dissolta nell’aria. La disputa fra la percezione di Israele come “un crogiulo” o “un serbatoio di diverse culture” è finita. La discussione accademica – che si chiedeva se la società israeliana pretendesse che i nuovi venuti rinunciassero al loro passato e si adattassero implicitamente alla cultura israeliana o se la società israeliana avesse la maturità, l’empatia e il realismo necessari a tollerare “l’alterità” e le qualità specifiche dei diversi gruppi di immigranti desiderosi di integrarsi – fu confinata in un angolo remoto. Tutti i temi correlati furono sepolti in profondità sotto l’asfalto straziato del lungomare di Tel Aviv, all’ingresso dell’edificio distrutto del Dolfinario.
    Oggi, i veterani, persino quelli che non vogliono ammetterlo, si rendono conto che Israele non avrebbe potuto battere l’attuale Intifada senza i russi. La loro capacità di sopportazione rafforza la nostra posizione. La loro sofferenza silenziosa dà conforto alla nostra sofferenza rumorosa. Nei giorni più bui e colmi di terrorismo di Israele, la comunità russa del paese ha dato un esempio su come si accettano le perdite, su come si debba stringere i denti e continuare a vivere qui.
    Mentre gli abitanti di Ramat Aviv Ghimmel (un quartiere alto-borghese di Tel Aviv) parlavano della fine dello Stato e aprivano conti in banca in Svizzera, i ragazzi di Afula Illit, metà dei quali sono “russi”, continuavano ad andare a scuola in autobus e le “babushke” andavano a pregare sulle tombe fresche. In uno strano scambio di ruoli, “gli assimilati” hanno dato agli “assimilatori” una lezione di Sionismo pratico.

Fine della 1° puntata

(Keren Hayesod, 4 gennaio 2005)





5. IN ISRAELE CRESCE IL RISCHIO DI ATTENTATI AEREI




Negli ultimi sei mesi le Forze armate dello Stato ebraico (IDF) sono in stato di massima allerta a causa delle ripetute violazioni dello spazio aereo israeliano da parte di velivoli commerciali egiziani; oggi a dare notizia del crescente allarme è il quotidiano 'Jerusalem Post'.
    Solo recentemente, afferma il giornale israeliano, si sarebbero registrati almeno 25 episodi di sorvolo non autorizzato nell'area di Eilat, la città portuale situata a sud del paese, sul Mar Rosso. Secondo la fonte giornalistica per facilitare le operazioni di controllo dello spazio aereo intorno ad Eilat, Gerusalemme avrebbe riaperto una base militare chiusa da anni, la 'Uvda', e avrebbe collocato numerosi battaglioni anti-aerei alle porte del centro abitato. In realtà, in base agli accordi di pace del 1979, i jet commerciali egiziani possono sorvolare il territorio israeliano soltanto entro pochi 'corridoi' ben definiti. Oggi, tuttavia, molti piloti preferiscono 'tagliare' ad ovest per utilizzare una scorciatoia che permette di guadagnare tempo. In realtà il governo israeliano avrebbe già affrontato la questione con il Cairo, ma senza risultati.
    Ma a preoccupare Israele non sono solo le violazioni dello spazio aereo. A settembre il capo di stato maggiore israeliano, Moshe Ya'alon, accusò Al-Qaeda di addestrare piloti-kamikaze sauditi per sferrare attacchi da una base militare, distante appena 200 chilometri da Israele. Allora Gerusalemme riuscì a ottenere aiuto dagli Stati Uniti e convinse Riad a spostare la flotta di F-15 verso sud, allontanandola dallo stato ebraico. Ma, dopo che l'Arabia Saudita ha dato luce verde agli Usa per l'utilizzo delle basi aeree durante la guerra in Iraq, le cose sembrano essere cambiate.
    Conclude il 'Jerusalem Post' che il rischio di attentati aerei contro Israele sembra essere più che mai tangibile; a riprova sta il fatto che ogni settimana l'IDF realizza una simulazione anti-terrorismo aereo alla quale prendono parte, tra gli altri, le uniche quattro persone che nello Stato ebraico possono autorizzare l'abbattimento di un velivolo commerciale: il primo ministro, il ministro della Difesa, il capo dello stato maggiore e il comandante dell'aeronautica militare.

(Nuova Agenzia Radicale, 7 gennaio 2005)





6. INTERVISTA CON UN MEMBRO DELLA KNESSET




Gila Gamliel: la donna del Likud


Gila Gamliel
Intervista di Mariangela Maritato

Gila Gamliel, trentenne membro della Knesset e caposquadra investigativo delle forze aeree israeliane, è la parlamentare più giovane del Parlamento israeliano. Esponente del Likud, è membro del comitato economico e presidente del comitato per la tutela dei diritti delle donne.

Che aria si respira alla Knesset dopo la morte di Arafat?

In questo momento stiamo tutti aspettando le elezioni per il rinnovo dei vertici dell’Olp con la speranza che una nuova leadership in Palestina possa superare la politica di legittimazione degli attacchi terroristici da parte di Fatah ed Hamas. Israele vuole davvero raggiungere un accordo di pace con i palestinesi e trovare nuove soluzioni per superare il conflitto ma allo stesso tempo l’Olp deve dire chiaramente da che parte sta nei confronti del terrorismo. Sharon intende scarcerare entro poche settimane alcune decine di detenuti palestinesi come gesto di buona volontà verso l’autorità palestinese in vista delle prossime elezioni e ha creato 4800 permessi di lavoro per i palestinesi di Gaza e Giordania portando il totale a 10 mila. Stiamo facendo di tutto per venire loro incontro.

Qual’ è la causa degli attacchi terroristici contro Israele?

Alla base della violenza degli attacchi terroristici c’è la povertà e l’ignoranza di una popolazione sfruttata e abbandonata a sé stessa. L’unica cosa che l’Olp dovrebbe fare, a mio avviso, è rivedere la politica portata avanti in questi anni e puntare soprattutto all’educazione e alla cultura. Il terrorismo parte dal basso e va condannato in tutti i modi. Lo stesso Nemer Hammad, l’ambasciatore dell’Anp in Italia, sostiene che l’Intifada armata, ovvero il terrorismo va condannato perché esso non ha ideologia, religione e tantomeno appartenenza politica. Non è mai con il popolo, ma contro di esso.

Cosa prevede per le prossime elezioni per la successione di Arafat alla presidenza dell’Autorità palestinese?

Spero che ci siano elezioni democratiche, perché è di democrazia che il popolo palestinese ha bisogno e che venga eletto un leader moderato. Israele ovviamente non potrà ignorare la candidatura di Marwan Barghouti , il capo terrorista condannato a cinque ergastoli da un tribunale israeliano, ma Barghouti dovrà partecipare alla campagna elettorale nel quadro delle condizioni di detenzione in cui si trova. La vecchia classe dirigente ha accumulato milioni di dollari lasciando povera la popolazione. Questo stato di cose non ci ha permesso fino ad ora di trovare accordi e compromessi per una comune e pacifica convivenza nei territori di confine, dove solo in seguito alla costruzione del muro per volontà del governo Sharon, si è registrata una diminuzione del 90% degli di attacchi terroristici. So che questa barriera ha suscitato molte polemiche in Italia e in Europa, ma le cifre parlano chiaro. Lo abbiamo fatto per la sicurezza della popolazione.

Secondo lei, cosa può fare l’Europa per contribuire al dialogo e alla pace in Medio Oriente?

Il ruolo dell’Europa e dell’Italia nei confronti del conflitto israelo-palestinese non deve essere solo politico, ma anche sociale, perché in base alle convenzioni e agli aiuti che l’Europa dà ai palestinesi, può protendere dall’ Olp di puntare ad una politica di scolarizzazione più efficace che attualmente manca. Ci vuole più chiarezza per quanto riguarda l’utilizzo dei fondi visto che nel 2004 sono stati stanziati 75 milioni di euro per la Palestina. Solo così si può creare democrazia all’interno dell’Autorità palestinese.

Come giudica l'operato del governo Sharon

Non ho nulla da criticare alla politica portata avanti da Ariel Sharon e spero venga riconfermato primo ministro anche alle prossime elezioni. La sua politica nei confronti dell’Olp è chiara e, a mio avviso, efficace. Sicurezza in cambio di territori.

Eppure lo scorso ottobre lei ha votato contro il piano Sharon per il disimpegno dalla striscia di Gaza.

In quell’occasione ho preferito rimanere al fianco dei coloni contrari al piano di sgombero di tutti gli ebrei dalla striscia di Gaza, piuttosto che scendere a compromessi con chi finanzia il terrorismo. In ogni caso il piano di disimpegno verrà attuato e Sharon ha ribadito che è disposto a coordinare con l’Autorità Palestinese vari aspetti del ritiro unilaterale nel caso in cui la nuova dirigenza che emergerà dopo le elezioni palestinesi di domani 9 gennaio combatta e ripudi ufficialmente il terrorismo e si adoperi concretamente per smantellare le infrastrutture del terrorismo.

(Palatino Communication & Multimedia Concepts, 8 gennaio 2005)





MUSICA E IMMAGINI




Pharoah's Story




INDIRIZZI INTERNET




Welcome to State of Israel

Koinonia House Online




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.