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Notizie su Israele 278 - 26 gennaio 2005

1. «Non solo, ma anche»
2. L'eterna domanda
3. Limitazioni all'immigrazione di ebrei in Germania
4. Il lungo cammino di Susanna Nirenstein
5. Quei soldi che imbarazzano Gerusalemme
6. Storie di ebrei in Italia durante il Fascismo
7. Tel Aviv, la diaspora e il muro
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 10:20-22. In quel giorno il residuo d’Israele e gli scampati della casa di Giacobbe smetteranno di appoggiarsi su colui che li colpiva, e si appoggeranno con sincerità sul Signore, sul Santo d’Israele. Un residuo, il residuo di Giacobbe, tornerà al Dio potente. Infatti, anche se il tuo popolo, o Israele, fosse come la sabbia del mare, un residuo soltanto ne tornerà; uno sterminio è decretato, che farà traboccare la giustizia.
1. «NON SOLO, MA ANCHE»




L'Islam e il nodo della Shoah

La commemorazione della Shoah sta diventando per gli ebrei un'occasione triste non solo per il ricordo del passato, ma ancor più per l'esperienza del presente. Il richiamo all'Olocausto offre oggi il pretesto per muovere accuse a Israele, e di conseguenza a tutti gli ebrei. Nel caso peggiore, il genocidio nazista del passato diventa un'efficace illustrazione del “genocidio" dei palestinesi perpetrato da Israele nel presente. Nel caso "migliore" (che è anche il più diffuso) si fa mostra di un superiore senso di giustizia applicando il principio del “non solo, ma anche". I nazisti hanno sterminato "non solo" gli ebrei, "ma anche" gli zingari, gli omosessuali, i polacchi. Bisogna commemorare "non solo" il genocidio degli ebrei, "ma anche" tutti gli altri massacri che avvengono nel mondo, primo fra tutti quello dei palestinesi. E se questo non si fa, l'accusa non può che ricadere sugli ebrei. I musulmani in Italia e nel mondo stanno dando un forte contributo in questa direzione, come le dichiarazioni qui sotto riportate fanno capire. E certamente il terreno su cui spargono il loro seme è molto fertile. M.C.


La posizione dei musulmani inglesi sulla commemorazione della Shoah

Iqbal Sacranie
I musulmani inglesi non  parteciperanno alla commemorazione della Shoah: dimentica le vittime  degli altri olocausti, primo su tutti quello palestinese. A comunicare la scelta della comunità islamica britannica è stato il segretario del Consiglio Musulmano inglese, Iqbal Sacranie, in una lettera inviata al ministro dell'Interno, Charles Clarke. ''Non siamo disponibili - si  legge nella lettera di Sacranie - a partecipare alla cerimonia, perché esclude gli altri genocidi e abusi dei diritti umani che vengono  perpetrati oggi al mondo, incluso quello in Palestina''. Il mondo islamico italiano prende posizione di fronte al rifiuto dei musulmani inglesi. Reazioni diverse che vanno dal totale  disaccordo alla condivisione, in nome della necessita' che le  celebrazioni non siano a senso unico e che si celebri il sacrificio di tutti gli uomini del mondo.


Il presidente della Lega musulmana in Italia

Netto il giudizio negativo nei confronti della  scelta dei musulmani inglesi, del presidente della Lega musulmana  mondiale in Italia, Mario Scialoja. ''Non sono assolutamente d'accordo con i musulmani inglesi. La celebrazione dell'Olocausto, che ha  sconvolto e segnato per sempre l'umanità, è importante, doverosa. E'  chiaro - aggiunge il presidente della Lega musulmana - che ci si  dimentica di molte altre cose. La tragedia del popolo palestinese è un dato di fatto. Ma questo non giustifica in alcun modo la decisione del segretario del Consiglio Musulmano della Gran Bretagna. Non si devono  confondere le cose''. ''Ho rapporti continui con la comunità ebraica italiana - spiega Scialoja - con Amos Luzzato e con il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, e siamo stati invitati anche noi a partecipare alle  commemorazioni del 27. Personalmente, e me ne dispiaccio, non ci sarò perché sono impegnato all'estero''.


Il presidente dell'Unione musulmani italiani

Di tutt'altro segno l'opinione del presidente  dell'Unione musulmani italiani (Umi), Adel Smith. ''Condivido  pienamente la decisione della comunità musulmana britannica - dichiara il presidente dell'Umi all'ADNKRONOS - finché non verranno usati gli  stessi pesi e le stesse misure nei confronti di tutti gli essere umani al mondo, e si continuerà a porre l'attenzione mondiale solo sul  cosiddetto olocausto degli ebrei, è giusto non partecipare alle  commemorazioni''. ''Tra l'altro - afferma Adel Smith - spesso l'Olocausto è  diventato un business guidato dai sionisti, come denuncia il libro  dell'ebreo Norman G.Finkelstein 'L'industria dell'Olocausto'. E non mi risulta poi - aggiunge ancora il presidente dell'Umi - che gli ebrei,  abbiano mai partecipato alla commerazione del genocidio che stanno  perpetrando contro i Palestinesi''. ''Finora - conclude Smith - non  siamo stati invitati a partecipare alla Giornata della Memoria, ma se  lo avessero fatto avremmo rispedito tutto al mittente''.


L'Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia

Più diplomatica invece la posizione dell'Unione  delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia (Ucoii). ''Per  quanto ci riguarda - dichiara il segretario dell'Ucoii, Hamza Roberto  Piccardo all'ADNKRONOS - nessuno ci ha invitato ufficialmente a una  commerazione e quindi non abbiamo posizioni da esprimere. Mi limito a  dire che è meglio commemorare tutte le vittime che non commemorarne  nessuna''. ''Ogni azione atta a mantenere viva la memoria - spiega il  segretario dell'Ucoii - è sicuramente positiva e va fatta. Ogni uomo  ha però il diritto di chiamarsi vittima. Oggi ci sono alcuni genocidi, come quello iracheno, il più grave, che non hanno l'attenzione che  meritano''. ''Talvolta - conclude Piccardo - le commemorazioni servono a far dimenticare i massacri in corso. C'è un filo di ipocrisia.  Settantanni fa poi, molte atrocità venivano commesse all'insaputa del  mondo, erano facilmente occultabili. Oggi, grazie ai moderni mezzi di  comunicazione, tutto avviente alla luce del sole. Non ci sono alibi''.


L'Associazione donne musulmane italiane

L'Associazione donne musulmane italiane (Admi)  valuta la scelta del segretario del Consiglio musulmano inglese come  una provocazione, una richiesta di aiuto. ''Credo che la decisione dei musulmani inglesi - spiega all'ADNKRONOS la portavoce dell'Admi, Asmae Dachan - vada vista come un grido di aiuto, per far sentire la voce di coloro che non vengono commemorati. Sono sicura che non è una scelta  che va contro l'identità ebraica. Se così fosse mi dissocerei  totalmente''. ''Noi - sottolinea la portavoce delle donne musulmane - siamo  sempre stati molto sensibili al tema dell'olocausto, tema del passato  che non può essere archiviato, un tragico momento storico dagli  effetti drammatici, disumani, non bisogna mai abbassare la guardia su  questi concetti. Non abbiamo mai negato - aggiunge ancora Asmae Dachan - la nostra disponibilità a partecipare alle commemorazioni di tutte  le vittime, e se in questa occasione si commemarono le vittime  dell'olocausto, bene, è giusto farlo, e soprattutto è giusto non  dimenticare le motivazioni che hanno portato alla Shoah, bisogna stare in allerta contro il pericolo razzista e antisemita''. D'altro canto la portavoce dell'Admi non rinuncia  a sottolineare che ''l'olocausto, sì, ce lo ricordiamo, ma purtroppo  ci dimentichiamo, o forse non vediamo, gli olocausti che ci sono in  questo momento, il massacro dei civili palestinesi e il massacro dei  civili iracheni, ad esempio. In Palestina - denuncia Asmae Dachan -  donne e bambini muoiono, non perché c'è una guerra in corso tra due  parti, ma perché una parte aggredisce l'altra''. ''Se Anna Frank fosse viva - aggiunge - e vedesse quale è la politica di Sharon oggi si  scandalizzerebbe. Milioni di ebrei sono morti perché portatori di una  fede, senza colpa alcuna, oggi i bambini palestinesi muoiono perché  sono palestinesi. Credo che questo offenda la memoria dei caduti nella shoah. Se potessero parlare direbbero di fermare quella 'mano che uccide'''. Nemmeno l'Admi, finora, ha ricevuto inviti da parte della  comunità ebraica, ma accetterebbe ben volentieri di partecipare  attivamente alla Giornata della Memoria. ''Se gli italiani dovessero  invitarci - conclude la portavoce delle donne musulmane - parteciperei volentieri. Porterei con me la poesia di Primo Levi 'Se questo è un  uomo', l'ho imparata alle elementari e la so a memoria. Le sue parole  sono drammaticamente attuali. Ma se togliessimo il nome dell'autore,  potremmo tranquillamente attribuirle a un detenuto di Guantanamo o a  uno sfollato di Gaza''.


L'imam della moschea di Centocelle a Roma

L'imam della moschea di Centocelle a Roma, Samir  Khaldi, non vuole dare un giudizio di valore sulla decisione dei  musulmani inglesi. ''Se il segretario del Consiglio Musulmano della  Gran Bretagna - spiega all'ADNKRONOS - ha preso questa decisione, avrà i suoi buoni motivi, io non posso giudicare, e non posso nemmeno  mettermi nei suoi panni''. ''Ma, per quanto mi riguarda - sottolinea Samir Khaldi - credo  che non si debbano confondere i diversi aspetti dell'Olocausto. Da un  lato è giusto che l'evento storico venga commemorato, come crimine  contro l'umanità, affinché non si perda la memoria e non si ripetano  mai quelle atrocità, ma dall'altro, ritengo che le celebrazioni non  debbano essere strumentalizzate per fini politici o d'altro genere''. ''Nel mondo, oggi - spiega l'imam - ci sono  chiaramente due pesi e due misure. In Palestina i diritti degli arabi  non sono gli stessi che hanno gli ebrei. Gli ebrei oggi con il loro  governo stanno riservando ai musulmani e ai cristiani lo stesso  trattamento che hanno subito nella Shoah. Lo stesso spazio che si  dedica alla Giornata della Memoria, e più in generale al ricordo  dell'Olocausto, deve essere riservato per informare di ciò che Sharon  e la sua equipe stanno facendo quotidianamente contro l'umanità in  Palestina, la popolazione mondiale deve sapere''. Finora i musulmani della Moschea di Centocelle non hanno  ricevuto nessun invito da parte della comunità ebraica italiana a  partecipare alle manifestazioni per la Giornata della Memoria, ''se  dovessimo ricevere un invito - spiega l'imam - valuteremo la cosa in  gruppo, discutendone approfonditamente all'interno della nostra  comunità''. '


Il responsabile del centro islamico di Milano e Lombardia

'Non sono al corrente di quanto affermato dal  Consiglio Musulmano della Gran Bretagna. Posso però dire che noi siamo vicini indiscriminatamente a tutte le popolazioni colpite  dall'Olocausto, non siamo solidali con uno in particolare''. Queste le parole di Ali Abushwaima, responsabile del centro islamico di Milano e Lombardia, riguardo alla commemorazione del quinto 'Giorno della  memoria' di giovedì prossimo. ''Ricordiamo con commozione - spiega Abushwaima - tutti gli  Olocausti del mondo di cui veniamo a conoscenza ogni giorno. Sono eventi estremamente drammatici''.


Gli imam del Friuli Venezia Giulia

L'imam di Trieste, Salim Mesbah, preferisce non  esprimersi sulla decisione dei confratelli britannici che non  parteciperanno alla commemorazione dell'Olocausto perché, dice,  ''prima ascolto i telegiornali sui satelliti e poi mi faccio  un'opinione''. Mesbah delega a commentare la vicenda il presidente del Centro culturale islamico del Friuli Venezia Giulia, Salih Igbaria,  che afferma di non condividere la decisione maturata in Gran Bretagna  con la giustificazione che il 27 gennaio non si commemorano le vittime di tutti i conflitti comprese quelle palestinesi. ''Il 27 gennaio è una giornata specifica per ricordare quelle vittime - afferma Igbaria -  non è giusto chiedere di estendere 'la festa' ad altre vittime. Se i musulmani che vivono in Gran Bretagna, ritiene Igbaria  ''desiderano commemorare le vittime di tutte le guerre, chiedano una  giornata specifica''. Sia l'imam che Igbaria hanno confermato che uno dei due anche quest'anno parteciperà, a nome della comunità islamica a Trieste ai riti per ricordare la Shoah nella Risiera di San Sabba. 


L'imam di Genova

''Siamo vicini, ma non partecipiamo''. E' la  posizione espressa dall'Imam Sal à Hussein, rappresentante dei circa  6.000 musulmani residenti a Genova, rispetto alle commemorazioni  dell'Olocausto. ''Siamo naturalmente d'accordo - spiega Salà Hussein - sulla  condanna di quel sacrificio di innocenti, ma contestiamo il fatto che  vengano ricordate le vittime di un popolo solo. Sono stati sterminati  anche gli zingari, per esempio, ma non se ne parla. E non ci sono  soltanto i martiri di sessanta anni fa, ci sono anche quelli di oggi.  Noi saremmo d'accordo se si volesse utilizzare questo momento per  condannare tutte le vittime innocenti, di allora e di oggi, compresi i civili colpiti dai terroristi e da truppe militari regolari''.


Il direttore del Centro culturale islamico di Bologna

''Il giorno della Memoria è solo propaganda  ebraica''. Senza mezze parole il direttore del Centro culturale  islamico di Bologna, Nabil Bayoumi, accusa il mondo ebraico della  Diaspora e l'Europa intera di ''chiudere volutamente gli occhi sulla  verità del presente'' e continuare a celebrare un passato dove ''i  morti sono più importanti dei vivi''. ''È inutile parlare di 60 anni  fa - dice Bayoumi - se anche al giorno d'oggi vi sono massacri che  nessuno cerca di fermare. Se l'Europa ha qualcosa da farsi perdonare del proprio passato, la cosa non ci riguarda''. Per Bayoumi, la decisione dei musulmani inglesi di non  partecipare alla commemorazione dell'apertura dei cancelli del campo  di sterminio di Auschwitz, è il frutto di ''buoni motivi''. ''Quando gli ebrei scappavano dall'Europa nazista - prosegue il direttore del  Centro culturale islamico - il mondo arabo li accolse: loro che hanno  fatto? Ci hanno morso la mano. Gli ebrei sono tutti degli assassini''. Bayoumi non si ferma: ''Sei milioni di ebrei morti, secondo i  sionisti, vorrei tanto sapere se è vero - dice - Io i 6 milioni di nomi, cognomi e indirizzi non li ho mai visti''. Occorre aprire gli occhi, incalza Bayoumi, ''e  guardare al nuovo campo di sterminio che è la Palestina''. ''Occorre  avere il coraggio - prosegue il direttore del centro culturale  islamico di Bologna - di chiamare gli assassini con il loro nome''.  Per poi concludere con una frase dal tono profetico: ''I crociati non sono resistiti molto in medio-oriente, gli ebrei si stanno scavando la fossa da soli''.


L'imam di Colle Val D'Elsa

''Lo sterminio del popolo ebraico ha sdegnato  tutta l'umanità. Ricordare l'Olocausto è un fatto di moralità perché  la ferocia del razzismo e del nazismo può ancora colpire altri esseri  umani''. E' la posizione di Feras Jabareen, Imam di Colle Val D'Elsa,  in provincia di Siena. Feras Jabareen ha spiegato di non conoscere il  motivo per il quale i musulmani britannici non intendano commemorare  l'Olocausto. ''Dico solo - ha aggiunto all'ADNKRONOS - che i musulmani della provincia di Siena sono solidali in tutti i sensi con il popolo  ebraico''.


L'imam di Perugia

''Di fronte alla decisione del segretario del  Consiglio musulmano della Gran Bretagna posso solo dire che ogni  tragedia merita di essere ricordata da tutti in tutto il mondo''. Con  queste parole l'imam di Perugia, Abdel Qader, ha commentato la  decisione del segretario del Consiglio musulmano della Gran Bretagna. ''Una questione - ha proseguito l'Imam di Perugia - che riguarda una certa comunita', quella della Gran Bretagna, appunto, ma che  comunque, chiama l'attenzione di tutti. L'Olocausto e' certamente un  fatto tremendo, che ha provocato tanta sofferenza e merita di essere  ricordato, perche' e' importante essere vicini alle vittime e a chi  subisce''. ''E' sempre giusto ricordare vittime innocenti, ma bisogna guardare al futuro.


L'imam di Napoli

Se noi cominciassimo a ricordare le  crociate non si finirebbe più''. Amar Abdallah, imam della comunità  islamica di Napoli, invita a ripensare ai motivi che spingono a  ricordare l'Olocausto e se è o meno il caso di considerare un altro  risultato a cui porterebbe il ricordo costante delle vittime delle persecuzioni naziste. ''Far girare tutto il mondo dietro questo  ricordo - dice - rischia di fare crescere l'odio, i punti di  conflitto, le differenze. E invece, nel 21esimo secolo va costruita la pace''. Per l'imam della comunità di corso Arnaldo Lucci ''è necessario che le generazioni nuove guardino al futuro'' e poi, aggiunge ''meglio non fomentare l'odio tra ebrei e tedeschi.  L'Olocausto è stato riconosciuto e si è pagato per questo''. Amar Abdallah non vuole toccare gli ''estremismi'' della  comunità islamica inglese, che ha fatto sapere che non parteciperà  alle commemorazioni dell'Olocausto, ma afferma: ''Tali commemorazioni  non abbiano interessi politici e personali, ma siano davvero un  contributo per la pace e per dimenticare l'odio''.


L'imam di Catania

D'accordo con i musulmani britannici l'imam di  Catania Moufid AbuTouq. ''Personalmente non partecipo alla  commemorazione dell'Olocausto. Sono vicino alla scelta dei fratelli  musulmani britannici perche' gli ebrei occupano ancora la nostra terra palestinese e continuano quotidianamente a compiere massacri contro il nostro popolo come se non sapessero cosa significa la sofferenza''.

(Segnalato da Davide Romano, newsletter di Morasha.it, 25.01.2005)





2. L'ETERNA DOMANDA




Perché ci odiano così tanto?


Risposta dei britannnici

Il quotidiano israeliano Yediot Aharonot ha pubblicato in gennaio un esauriente rapporto sulla cattiva immagine che l'Europa ha di Israele. L'occasione di questo articolo è stata un'inchiesta pubblicata alcuni giorni prima in Gran Bretagna (Telegraph) da cui risultava che agli occhi dei britannici il paese più odiato è Israele. Il noto commentatore del giornale inglese Guardian, Johathan Friedland, ritiene che il motivo stia nella politica di conquista che Israele persegue da 38 anni. «Fino al 1967 i britannici hanno amato Israele, e mandavano perfino i loro figli come volontari nei kibbutz. Ma dopo la guerra dei sei giorni Israele si è trasformato dal piccolo Davide nel cattivo Golia», scrive Friedland. Solo pochi mesi prima, un sondaggio in Europa aveva mostrato che il 59% degli europei considera Israele la più grande minaccia per la pace mondiale.


Risposta del Ministero degli Esteri israeliano

L'odio dell'Europa per Israele ha, secondo il Ministero degli Esteri israeliano, diversi motivi:

    1. Poiché l'Europa da una parte ha un ricordo collettivo dell'Olocausto, il quale suscita ancora sentimenti di colpa, soprattutto in Germania e in Italia, dall'altra non riesce a capire l'inumano comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi.
    2. Nella politica europea i diritti dell'uomo hanno preso il primo posto nell'ordine del giorno. L'Unione Europea si dichiara esplicitamente contro la presenza di Israele nei cosiddetti territori occupati.
    3. Nella politica europea i posti chiave sono occupati oggi da politici della generazione del '68, che hanno combattuto l'imperialismo e quindi sono decisamente contrari a Israele e agli USA. Il 45% degli europei è costituito da cosiddette "colombe", il cui atteggiamento politico è fortemente inflluenzato da un'area che va dai partiti del centro fino ai gruppi di estrema sinistra.
    4. Gli studenti in Europa vedono il mondo in bianco e nero e simpatizzano quindi con i più deboli. Ai loro occhi i palestinesi sono le vittime, nel conflitto mediorientale con Israele.
    5. In Europa si sta propagando una nuova ondata di antisemitismo e, secondo dati del Ministero degli Esteri israeliano, un terzo degli europei nutre sentimenti antisemiti.
    6. La popolazione musulmana in Europa sta crescendo drasticamente e nella politica europea diventerà un fattore sempre più importante che alimenterà fortemente l'antisemitismo.


Inchieste europee

    Due mesi fa è stata pubblicata nella Repubblica Ceca un'inchiesta da cui risulta che il 53% dei cittadini non ama lo Stato d'Israele, che anzi è il meno favorito dei paesi compresi in una lista di 15 nazioni.
    In Gran Bretagna un'inchiesta (Guardian) ha mostrato che il 38% dei cittadini britannici credeva che i coloni ebrei fossero cittadini dello Stato palestinese che si trovavano nei cosiddetti territori occupati.
    Anche i tedeschi sono stati interrogati su questo argomento, e si è constatato che il 27% aveva la stessa idea.
    In Olanda, secondo un'inchiesta condotta da un giornale ebraico, il 71% dei cittadini vede in Israele un pericolo per la pace nel mondo.
    Anche in un'inchiesta del Ministero degli Esteri francese Israele risulta essere, in una lista comprendente parecchi paesi, uno degli ultimi nella scala delle preferenze. Soltanto la Siria risulta essere meno amata di Israele dai francesi.
    La Germania, che molti considerano la più grande amica d'Israele in Europa, ha molte cose da criticare a Israele, più di quanto sembri dall'esterno. Negli ultimi quattro anni si è registrato un evidente cambiamento di opinione per quel che riguarda l'immagine positiva di Israele che hanno i tedeschi. Adesso vogliono farla finita con il "virtuale tabù" che impediva di criticare Israele in pubblico a causa dell'Olocausto. Più della metà dei tedeschi (52,1%) sono del parere che il comportamento di Israele nei confronti dei palestinesi sia paragonabile a quello dei nazisti verso gli ebrei nel Terzo Reich. Il 68% dei tedeschi sostiene perfino che Israele sta conducendo una "guerra di sterminio" contro i palestinesi. Lo studio sul tema "Critica a Israele - Antisemitismo" è stato realizzato nel dicembre scorso nel quadro di uno studio annuale sulla situazione dell'antisemitismo e del razzismo in Germania, con il nome "condizioni tedesche", sotto la direzione del dr. Wilhelm Heitmeyer dell'Università di Bielefeld.
    Per combattere contro l'immagine negativa di Israele in Europa, il Ministero degli Esteri d'Israele ha ancora molto da fare. Alcuni dicono che Israele dovrebbe soltanto lasciare tutti i cosiddetti territori occupati e lasciare in pace i palestinesi per diventare più gradita ai popoli. Altri invece non vedono su questo punto nessuna soluzione operata dagli uomini e aspettano l'intervento di Dio, perché se si guarda indietro nella storia, da sempre gli ebrei sono stati ben poco amati.

(israel heute, febbraio 2005)





3. LIMITAZIONI ALL'IMMIGRAZIONE DI EBREI IN GERMANIA




Berlino, basta ebrei russi «Vivono di assistenza»
    
di Paolo Valentino

BERLINO - Dividono le forze politiche anche al loro interno, suscitano proteste, evocano vecchi fantasmi, avvelenano i delicatissimi rapporti con la comunità israelita. Sono i piani delle autorità tedesche per ridurre drasticamente il flusso di immigrati ebrei dalla Russia e dai Paesi dell’ex Unione Sovietica, che, nei quindici anni seguiti alla caduta del Muro di Berlino, hanno avuto tutti accesso libero e senza restrizioni alla Germania riunificata.
    I ministri degli Interni dei sedici Länder federali hanno annunciato il mese scorso di voler ammettere in futuro solo coloro che parlano la lingua e hanno buone prospettive di trovare un lavoro. Conseguenza immediata della decisione è stato il blocco delle procedure di ammissione per 27 mila ebrei, da mesi in attesa del visto d’ingresso.
    Nel frattempo, i ministri regionali hanno dichiarato di voler formalizzare le nuove regole. Ieri al Bundestag la Commissione parlamentare per gli affari interni ha confermato il potenziale esplosivo della questione, che vede divisa al suo interno anche la maggioranza rosso-verde: «Alla vigilia del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, la decisione dei ministri degli Interni è una vergogna», ha detto la co-presidente dei Grünen, Claudia Roth.
    Il piano non è ancora stato approvato dal ministro federale degli Interni, il socialdemocratico Otto Schily, il quale nutre molte perplessità e ha promesso comunque di discuterlo preventivamente con il Consiglio centrale degli ebrei in Germania. Ma i margini di Schily, in questo caso, sono piuttosto esigui, avendo i Länder il potere di introdurre i tagli ognuno per conto proprio. Un incontro del ministro con il Consiglio è previsto in febbraio.
    I leader ebraici contestano proprio di non essere stati consultati su un tema esplosivo, che rischia di riaccendere l’accusa di antisemitismo contro il Paese che fu protagonista dell’Olocausto, lo sterminio degli ebrei d’Europa. «Dopo 14 anni, probabilmente una revisione delle procedure è necessaria, ma il modo in cui sta passando e la maniera in cui ci stanno trattando sono inaccettabili», ha detto Stephan Kramer, membro del Consiglio centrale ebraico.
    La nuova Germania aveva aperto le sue frontiere agli ebrei dell’Est nel 1989, in segno di riconciliazione e risarcimento: da allora, quasi 200 mila persone sono arrivate da Russia, Ucraina e dalle altre ex Repubbliche sovietiche, a ripopolare una comunità ebraica ridotta, nel 1990, a meno di 30 mila persone. Oggi, gli ebrei in Germania sono oltre 100 mila, comunque meno di un sesto rispetto ai 670 mila, che vi abitavano all’inizio degli Anni Trenta, prima dell’avvento del nazismo.
    Motivata dalle responsabilità storiche della Germania, la politica delle porte aperte ha avuto però anche alcune controindicazioni. Molti immigrati, una volta entrati in Germania, non si sono mai registrati presso le comunità israelite, sfuggendo a ogni sforzo di integrazione, rifiutandosi di imparare il tedesco e gravando sulla sicurezza sociale. Inoltre, la legge tedesca essendo piuttosto larga nell’accettare la definizione di ebreo, tanti in Russia se ne sono serviti solo per poter partire, anche non avendo diritto: «Quasi la metà di quelli che hanno potuto lasciare la Russia in quanto ebrei, non si sono stabiliti in Germania come tali», spiega Dieter Wiefelspuetz, portavoce di politica interna dei deputati socialdemocratici. E aggiunge: «Noi vogliamo rimanere aperti all’immigrazione ebraica in Germania, ma consentire l’ingresso di migliaia di persone, che non parlano la lingua e vivono d’assistenza, significa rovesciare sulle comunità ebraiche il peso di integrarli».
    Le comunità contestano le ragioni delle autorità tedesche. Cornelia Knobloch, vice-presidente del Consiglio centrale, nega, per esempio, che le regole in favore degli ebrei abbiano favorito una sorta di abuso di massa dello stato sociale tedesco: «La cifra degli immigrati ebrei dalla Russia è in calo da anni ed è falso l’argomento secondo cui, se uno non è iscritto a una comunità ebraica, viva automaticamente a spese dell’erario». Sulla necessità di parlare il tedesco, spiega Knobloch, potremmo anche accordarci, ma allora,

prosegue ->
«il governo federale dovrebbe finanziare corsi di lingua tedesca in Russia, visto che, tra la richiesta di visto e il viaggio passano in genere alcuni anni». Schily invita alla calma, dice che ogni nuova regola dovrà essere concordata, «senza rompere alcuna porcellana». Ma i suoi colleghi dei Länder, compresi i suoi compagni di partito della Spd, restano sulla linea dura.
    
(Corriere della Sera, 20 gennaio 2005)





4. IL LUNGO CAMMINO DI SUSANNA NIRENSTEIN




Inneggiava ad Arafat, adesso pensa all'aliyah
    
«Nel 1968 mi avviavo a finire il liceo». Con impeccabile accento fiorentino, Susanna Nirenstein, giornalista di Repubblica, risponde così all’indiscreta domanda, quella che, per tradizione, non si dovrebbe fare alle signore. Come la sorella Fiamma, in quegli anni vorticosi, era «una giovane comunista». Alle spalle, una storia familiare che raccoglieva già molti elementi del percorso a venire, seppur in ordine sparso, e in attesa di una rielaborazione. Il padre, Alberto, giovane polacco e socialista, già nel 1933 era nella Palestina mandataria. «Teorizzava un sionismo capace di fondare una società nuova, un’occasione di emancipazione e di giustizia per tutti. Era un sionista alla Enzo Sereni, per intenderci...». In perfetta coerenza con quell’ideale, in Europa tornò da arruolato nelle “Brigate Ebraiche”, al fianco degli alleati, e contro il nazifascismo combattè in Italia, dove si fermò, dopo aver conosciuto la sua futura moglie, Wanda Lattes. «Dopo la guerra, in Italia, mio padre ha lavorato per alcuni giornali polacchi. Lo fece per ragioni ideali, perché era comunista». La convinzione di servire la nuova Polonia, all’interno della cornice di un più ampio progetto rivoluzionario, si scontra presto con una realtà ingrata. Prima arrivano le voci delle purghe antisemite, poi l’esperienza diretta di quali tratti andasse assumendo il sogno comunista. «Mio padre volle tornare in Polonia, all’inizio del 1950, e non gli fu consentito di lasciare il paese e di tornare in Italia fino alla morte di Stalin». In quegli angosciosi anni di cattività polacca, mentre tocca con mano l’anima nera dello stalinismo, Alberto Nirenstein inizia a studiare la Shoah, e quel che restava delle memorie del Ghetto di Varsavia.
    Poi, nel 1967, scoppia la guerra dei sei giorni, senza dubbio la più simbolica tra le tante combattute in mediorientre. La propaganda filo-sovietica sta con Nasser e il panarabismo, e contro Israele. La sinistra italiana, anche quella “indipendente”, non sa o non vuole smarcarsi dall’egemonia semplificatrice della guerra fredda. Proprio un parente di Susanna, un intellettuale del calibro di Franco Fortini, fornisce un esempio patente di quel clima, quando raccoglie a caldo le sue riflessioni su quei sei, drammatici giorni, ne «I cani del Sinai», un libro violentemente antisionista, non scevro da pericolose ambiguità, laddove adombra la necessaria, naturale parzialità del giornalista ebreo Arrigo Levi. Per Alberto Nirenstein, sono quelli, probabilmente, i giorni della definitiva “perdita dell’innocenza”. Per Susanna no. Lascerà la Fgci, per vivere da operaista gli autunni caldi dei primi anni Settanta a Torino, e confluire, dopo l’esperienza de Il Manifesto, in Lotta Continua. «Non ricordo con certezza, ma è probabile che anch’io abbia urlato “Arafat vincerà”, assieme ai compagni di allora». Ritrae, con libertà e senza finti pudori, l’idealismo di quegli anni, e la solidarietà espressa, nella maniera schematica e manichea di quei tempi, ai palestinesi e alla loro causa.
    Il cammino è ancora lungo, ed emerge un tormento personale limpido e disinteressato che si coagula in una parola che torna, quasi a metronomo della nostra conversazione: “solitudine”. Lotta Continua entra, nella seconda metà degli anni Settanta, in una crisi che si rivelerà già irreversibile nei primi anni Ottanta. Susanna attraversa quegli anni liberandosi degli ultimi vincoli con un passato da metabolizzare, quello di “comunista”, e sondando in profondità un’identità dai tratti in parte ancora sopiti, quella di ebrea. «Mi segnò la lettura dei libri di Vassilij Grossmann, la scoperta piena e compiuta dell’orrore del comunismo applicato», dice. Un altro percorso, in qualche modo parallelo e intersecante, la porta al fondo dell’orrore della Shoah. «Realizzai compiutamente cosa quel passato di persecuzione significava per me, donna ebrea, quando avevo più di trent’anni. Dopo anni di studio e di riflessione. Iniziai a chiedermi perché ero viva, e a concepirmi come una sopravvissuta io stessa, anche se nata dopo la fine della guerra». Israele - «una zattera di salvezza per tutti noi, anche per me» - smette definitivamente, allora, i panni dell’oppressore «colonialista» o «imperialista», e diventa oggetto «di un’infinita gratitudine per la sua stessa esistenza». Un’identità compiutamente dissepolta attraverso lo studio e la conoscenza della persecuzione trovava in Israele un’espressione positiva, che guarda al futuro, e non solo al passato. «Ho iniziato ad andarci spesso, a conoscere il paese, anche perché la mia sorella più piccola, Simona, si era trasferita in Israele già da diversi anni, ed ora è Fiamma a viverci. E anch’io penso spesso all’ipotesi di fare Aliya...».
    E oggi, da questa miscela esplosiva, come è uscita Susanna Nirenstein? «Per comprendere la mia solitudine di oggi, è importante tornare alla prima guerra del Golfo e, subito dopo, al processo di pace suggellato a Oslo, e infrantosi nello scoppio della seconda Intifada. Mentre Israele era sotto tiro, evidentemente minacciato, a sinistra nessuno aveva il coraggio di riconoscerne il diritto a difendersi. E lo stesso senso di abbandono si respirava anche negli anni a seguire, mentre i governi israeliani facevano passi da gigante per aprire la prospettiva di un accordo coi palestinesi, per poi trovarsi, di nuovo, di fronte al terrorismo». Il terrorismo e l’antisemitismo trovano, nelle sue parole, un punto di sutura. «Il problema quotidiano di Israele», cioè di un paese che costituisce e rappresenta il cuore dell’ebraismo contemporaneo, «è quello di sopravvivere al terrorismo». E il terrorismo ha radici che affondano ben oltre la rivendicazione territoriale, secondo Susanna Nirenstein. «Quanto è difficile leggere, in Italia, della martellante propaganda antisemita diffusa nei paesi islamici? Eppure è una tragica realtà, come la serie televisiva iraniana, in cui si spiega che gli israeliani uccidono i bimbi palestinesi per rubarne gli organi. E di notizie come queste ne arrivano molte, come quella sulla predicazione islamica che descrive gli ebrei figli di porci e di scimmie... Quando Israele viene demonizzato, definito come uno Stato illegittimo, e trattato sempre secondo standard diversi, più esigenti, rispetto a quelli applicati al resto del mondo, allora non mi si parli di legittima critica allo Stato d’Israele. Questo è semplicemente antisemitismo, di cui l’informazione e la sinistra dovrebbero dare conto in modo libero, per emanciparsi finalmente da certi cliché». Cita, ad ulteriore esempio di un clima culturale che la inquieta, la conferenza internazionale sul razzismo, tenutasi a Durban alcuni anni fa, dove «sionismo e razzismo venivano semplicemente sovrapposti, e nessuno trovò da ridire».
    Sulle polemiche di queste settimane, fa sua la posizione di Giorgio Israel, ma apprezza anche la mediazione proposta da Pigi Battista sul Corriere del 16 gennaio. «E’ vero, la coscienza piena della Shoah è arrivata tardi, ci son voluti decenni. Ma certo, rimane vero che come alcuni uomini di chiesa questa coscienza ce l’avevano, e tanto più poteva e doveva coltivarla e praticarla Papa Pio XII». Ma son polemiche su anni lontani, che forse non appassionano davvero Susanna Nirenstein. «Ha ragione Elie Wiesel. Gli unici ebrei che interessano sono quelli che soffrono. Se diventano indipendenti, all’interno di uno Stato sovrano, allora non li si ama più».

(Il Riformista, 21 gennaio 2005)





5. QUEI SOLDI CHE IMBARAZZANO GERUSALEMME




Potrebbero essere i superstiti indigenti della Shoah i beneficiari ultimi di circa cento milioni di euro.

GERUSALEMME - Ci sono in Israele circa novemila conti dormienti aperti da ebrei europei, presunte vittime della Shoah. L’esistenza di questi conti era nota allo Stato israeliano e alle banche che però nulla hanno fatto per rintracciare i proprietari o i loro eredi. Lo ha affermato una commissione di inchiesta della Knesset, il Parlamento israeliano, a conclusione di un lavoro di ricerca durato quattro anni.
    Secondo la commissione “A differenza di ciò che è successo in Europa, ad esempio in Svizzera, dove per più di 50 anni i soldi delle vittime della Shoah sono rimasti giacenti in conti dormienti, diverso percorso hanno seguito questi conti, col coinvolgimento di organi governativi britannici e israeliani, prima nella Palestina mandatoria e poi nello stato di Israele”. “Gran parte di ciò che abbiamo trovato - afferma la commissione - mostra che la maggior parte dei conti delle vittime della Shoah sono stati trasferiti al Custode generale (dello stato israeliano) fino a metà degli anni Sessanta e da allora i dati sono nelle sue mani.
    Ne consegue che la responsabilità di questi soldi ricade sulle banche e sul Custode e la responsabilità di quest’ultimo - cioé dello stato - è più pesante”. Tradotta in termini monetari è una responsabilità che nel caso dell’ipotesi massimalista (piena indicizzazione dei soldi dal 1939 più 4% di interesse annuale) può essere quantificata in circa 102 milioni di euro (1 euro = 5,7 shekel) a carico dello stato e in 56 milioni di euro a carico delle banche. Nell’ipotesi minimalista (indicizzazione dal 1948 più 3% di interesse annuale) l’onore a carico dello stato è di 57 milioni di euro e delle banche di 6,5 milioni di euro. Il calcolo massimalista, precisa la commissione, sarà applicato in tutti quei conti di cui si troveranno i titolari o gli eredi, ma si stima che la percentuale sarà bassissima e che perciò la cifra stimata degli oneri sarà bassa. Il calcolo minimalista sarà applicato in tutti gli altri conti e l’importo sarà interamente devoluto ai superstiti della Shoah indigenti e alla preservazione del ricordo della pagina più nera del Ventesimo secolo. Il lavoro della commissione ha anche riaperto una pagina di storia che sembrava dimenticata.
    Nei primi decenni del secolo scorso furono migliaia gli ebrei europei che scelsero di aprire conti e acquistare proprietà terriere in Palestina, vuoi per sionismo e vuoi per crearsi un rifugio davanti alle minacciose nuvole di tempesta e di antisemitismo che si addensavano sull’Europa con la costituzione del regime nazista in Germania. Inoltre la disponibilità di un conto poteva facilitare la concessione dei sospirati certificati necessari per avere il permesso di emigrare in Palestina da parte delle autorità britanniche. Allo scoppio della guerra questi conti furono trasferiti al Custode britannico in Palestina in quanto appartenenti a cittadini di stati nemici.
    Nel 1948, con la costituzione di Israele, furono poi trasferiti al Custode israeliano. Secondo la commissione, quei superstiti del conflitto che si presentarono alle banche israeliane riebbero i loro depositi che però furono calcolati secondo parametri volutamente minimalisti. La commissione esige ora dalle banche di rivedere i calcoli secondo parametri più giusti.
    Il rapporto della commissione è causa di non poco imbarazzo a Israele che aveva condotto una campagna mondiale contro le banche svizzere, accusate di celare conti di vittime della Shoah. La presidente della commissione, la deputata laburista Colette Avital, ha detto: “Noi ci aspettiamo che le banche israeliane usino gli stessi criteri di rimborso che Israele e i gruppi ebraici hanno chiesto alla Svizzera e ad altri paesi”.
    Le banche israeliane hanno detto di aver collaborato e di voler collaborare con la commissione, ma hanno criticato il metodo di calcolo degli interessi sui conti. A loro dire sono interessi ingiustificati e più alti di quelli accettati altrove nel caso di conti risalenti alla seconda guerra mondiale.

(Avanti!, 24 gennaio 2005)





6. STORIE DI EBREI IN ITALIA DURANTE IL FASCISMO




Voci dal silenzio delle leggi razziali

di Gabriella Gribaudi

Nel 1938 il censimento razziale schedava a Napoli 835 ebrei, di cui 484 di nazionalità italiana e 351 stranieri. Molti provenivano dalla Grecia e dalla Turchia, in particolare si trovava in città una piccola colonia di salonicchioti, scampati al grande incendio di Salonicco dell’agosto 1917.
    Vittorio Gallichi, i cui nonni materni venivano dalla città greca, ricorda che un gruppo cospicuo abitava a via Piedigrotta, tanto che la zona veniva chiamata la piccola Tel Aviv. E ricorda ancora che al tempio si teneva un culto specifico legato alla tradizione degli ebrei greci. Con le leggi razziali e il decreto del 7 settembre 1938 gli ebrei stranieri venivano ufficialmente espulsi dal regno e veniva revocata la cittadinanza a coloro che l’avevano ottenuta dopo il 1919.
    Fu quella una data fatale per una buona parte della comunità. Mario Levi era arrivato bambino da Jannina in Grecia. Nel 1935 si era laureato in legge e, al momento della promulgazione delle leggi razziali nel settembre 1938, stava facendo pratica legale presso un avvocato. Perse insieme il lavoro e la cittadinanza. «Io mi son laureato nel 1935, ho fatto pratica legale presso lo studio di un avvocato dal 1935 al 1938, senonché il 3 settembre del 1938 hanno inizio le leggi razziali.
    La prima legge 3 settembre 1938: tutti gli stranieri che son venuti in Italia dopo il 1920 devono lasciare il regno e le colonie. Io ero fra questi, avevo mio padre a Napoli, avevo due fratelli a Napoli, guarda caso mio padre aveva più di 65 anni, i miei fratelli avevano sposato cittadine italiane e la legge diceva: tutti gli stranieri che son venuti dopo il 1920 in Italia e nel regno italiano debbono lasciare il regno e le colonie entro sei mesi da oggi 3 settembre, tranne quelli che hanno compiuto i 65 anni - e mio padre aveva compiuto i 65 anni - tranne quei cittadini stranieri che avevano sposato cittadine italiane - e i due miei fratelli avevano sposato cittadine italiane. Quindi mio padre e i miei fratelli restavano in Italia e io dovevo lasciare il regno e le colonie, entro sei mesi.
    Allora ero fidanzato con una cittadina italiana, non era sufficiente essere fidanzati con una cittadina italiana per poter godere di questo privilegio, allora mio suocero, che era una persona abbastanza intelligente e conosceva molti personaggi di Roma di allora, si diede da fare, andò a Roma e cercò di trovare una scappatoia per farmi rimanere in Italia. Prima della scadenza di sei mesi - perché c’erano sei mesi di tempo per lasciare l’Italia e le colonie - poté avere un certificato di residenza per me come studente che doveva proseguire gli studi in Italia e quindi - sebbene ci fosse una legge che mi espelleva dal regno e dalle colonie - io ero autorizzato con questo certificato di residenza per ragione di studio a continuare a restare in Italia: prima vittoria. Questo è avvenuto nel 1938, dopo il 3 settembre».
    Dopo la dichiarazione di guerra alla Grecia la sua condizione di ebreo si era aggravata, perché era diventato anche cittadino di uno stato nemico. Con il padre fu mandato in internamento prima in un paese vicino a Napoli, poi ad Atessa in Abruzzo, dove erano confinati altri ebrei stranieri, fra cui il fratello Giuseppe, giunto dall’America. Il gruppo internato ad Atessa fu in un certo senso fortunato, poiché riuscì a superare indenne, nascosto sulle montagne insieme agli abitanti e ai partigiani, la lunga battaglia dell’inverno ’43-’44 e a passare nel territorio liberato nella primavera del ’44.
    Non tutti gli ebrei greci ebbero la stessa sorte. I genitori di Alberto Bivash erano originari di Salonicco; erano arrivati a Napoli per impiantarvi un’attività commerciale ed erano stati raggiunti dai cognati con i figli. Con le leggi razziali la famiglia Bivash aveva perso la cittadinanza italiana, ma avendo rinunciato precedentemente a quella greca, divenne apolide. «Nel 1940, allo scoppio della guerra, la situazione per noi è cambiata, perché nella mia famiglia... eravamo apolidi, apolidi significa che avevamo perso la cittadinanza che prima mio padre aveva, quindi non essendo italiani, non essendo cittadini di nessuno stato, non potevamo nemmeno essere espulsi... Mio padre già aveva dovuto liquidare la sua attività commerciale, nel ’40 è stato arrestato, è stato detenuto per un certo periodo a Poggioreale e poi è stato mandato in un campo di concentramento a Tarsia, in provincia di Cosenza. È stato, come si suol dire, tradotto, cioè allora si attraversava la stazione ammanettati, poi si saliva su uno scompartimento eccetera.
    Poi verso la fine del ’40 siamo stati mandati tutti in internamento a San Severino Marche, in provincia di Macerata». A San Severino Marche nonostante le terribili ristrettezze economiche - il padre non poteva lavorare, la famiglia non aveva più alcuna risorsa a cui attingere... - riuscirono a sopravvivere relativamente tranquilli fino al fatidico ’43, quando il territorio passò sotto il controllo della Repubblica di Salò.
    «Alla fine del ’43, mio padre è stato arrestato dai carabinieri ed è stato portato con altri internati che c’erano, italiani e non, in una località vicino a Macerata che si chiamava Villa Lauri, dove è stato per un certo periodo detenuto... tenuto dai carabinieri. Mia madre, invece, è riuscita a scappare con noi due ragazzi. Siamo andati in montagna e lì siamo stati ospitati da certi contadini con l’aiuto sia dei partigiani, che già c’erano, sia del parroco, del prete di questa frazione, che si chiama Stigliano».
    Nel ’44 Davide Bivash fu tradotto a Fossoli e da lì ad Auschwitz.
    «L’ultima notizia che abbiamo avuto da mio padre è stata una cartolina che ha mandato da Fossoli. Molto tempo dopo abbiamo avuto notizie da persone che sono passate da Napoli, che si erano salvate da Auschwitz e avevano visto tutto il gruppo che era stato direttamente eliminato».
    Identica sorte ebbe l’altro ramo della famiglia, i cui membri, essendo rimasti di nazionalità greca, furono espulsi dall’Italia e rimandati a Salonicco, da dove furono deportati e uccisi.
    Dino Assom ci guarda sorridente da una fotografia scattata nella classe della Vanvitelli, dove erano stati radunati tutti i bambini ebrei. Di lì a qualche anno avrebbe trovato la morte nei campi di sterminio nazisti, dove era giunto, tuttavia, spinto dalle «fascistissime» leggi razziali.

(Il Mattino, 23 gennaio 2005)





7. TEL AVIV, LA DIASPORA E IL MURO





Appunti friulani di viaggio nel cuore d’Israele e della sua geopolitica della molteplicità


Arrivi.


L'aereoporto Ben Gurion accoglie nella luce opalina di Tel Aviv. Anche le bandiere israeliane, bianco-azzurre e appese ovunque, emanano una trasparenza lattiginosa. E' ora di punta, ma c'è poco ingorgo. Sempre meno -ci spiegano- dopo la seconda Intifada e con il turismo, anche quello cristiano, diventato merce sempre più rara. Sia pure per sottrazione, c'è però in giro un campionario di umanità da melting pot est-ovest. Degli israeliani, con o senza Kippà, sgusciano via di fretta, perché qui -pare -si va per le spicce. I visi tradiscono le più spiazzanti provenienze diasporiche. In disparte, attendono i bagagli due anziani in lunghi caffettani informi e con visi di arcaica miseria, bucati da occhi scuri di mediorientale sonnolenza: aravìm, chissà, cioè arabi-israeliani che hanno scelto di restare in Israele dopo il '49. Quasi addossati ad una parete, degli ultradossi chassidìm, impenetrabili e severi, neri in tutto, grande barba, cappello e cernecchi, sfrecciano via a passetti rigidi e rapidi. Due giovani fraticelli francescani parlottano a bassa voce. E subito si intuisce che qui è terra di domande aperte, senza risposte se non improbabili.


Gerusalemme.

La superstrada, che da Tel Aviv conduce a Gerusalemme, è punteggiata ai lati da un ininterrotto museo all'aperto di cimeli di guerra. Sono carcasse arrugginite di camion, jeep, mortai, lasciati lì dal 1948-49, tra pietraie, ulivi e palmeti, sulla strada che Domique Lapierre chiamò del "coraggio". Guerra, pace, ricordi di allarme sempre possibile: tutto si incrocia in Israele, che soffre della sindrome collettiva di essere di nuovo ricacciata in mare e spazzata via, come lo spazio bianco, svuotato di città e strade, che compare nelle carte geografiche dell'ANP. E tuttavia quel cimitero di guerra esibito lungo la strada sconcerta: come se le vie della pace debbano passare per forza per il passaggio obbligato della mano militare.
    E poi eccola lì la ragione di tanto contendere. Gerusalemme, bellissima, abbagliante di rosa, sensualmente adagiata su un saliscendi di quartieri dagli echi architettonici più vari. Al centro dello scrigno, il gioiello murato della Città vecchia, rivendicata da tutti, su cui svetta la cupola luccicante della Moschea Al-Qasa, sulla Spianata -oggi, ahimé, non visitabile- proprio sopra il Kotél, il Muro del Pianto degli Ebrei, e intorno un dedalo di luoghi di fede diverse, come il Santo Sepolcro, ben incastrato dentro il Suk arabo, chiassoso, colorato e odoroso di spezie. E' un troppo pieno di religioni che puntano all'assolutezza; una vertigine di storia d'arte e cultura a strati e per incastri. Abbiamo la fortuna di assistere all'entrata dello Shabbah, al tramonto di venerdì, nel tempio ebraico del ritorno all'armonia naturale. Allora il mondo si ferma, il traffico dirada quasi all'unisono e Gerusalemme è tutto un coro di preghiere, ognuno al suo dio. Il muezzin in alto cerca di sovrastare le nenie salmodianti degli Ebrei, che gareggiano a loro volta in volume, mentre intanto gli Armeni, nel loro quartiere appartato, profumano l'aria di nuvole di incenso.


Il Muro.

Finalmente vediamo il Muro. Guai però a chiamarlo così. Qui è fence, cioè difesa, siepe, sicurezza, rimedio escogitato da Sharon dal 2002 per bloccare gli Hizbullah, specie là dove i reticolati elettronici non servivano a impedire gli spari dei cecchini. Tanti, militari e civili, si premurano di scendere in dettagli: che non è un nuovo Muro di Berlino; che solo 7 dei 140 Km di barriera sono formati di blocchi di cemento alti 8 metri; che il sistema ha effettivamente funzionato contro gli attacchi suicidi; che il tutto sarà smantellato. Excusatio non petita, verrebbe da dire. Perché di fatto il Muro è lì, con la sua brutale ferita geografica e umana, noi di qua e "loro" di là. Monstre visibile del fallimento della politica, quando rinuncia ai piccoli-grandi passi del compromesso e del dialogo.


Pezzi di Friuli in Israele.

Alla Sinagoga Italiana di Gerusalemme ci accoglie il rabbino David Cassuto, uomo di squisita affabilità. Il tempio è tutto un ricamo di luce e marmo giallo in pregevole stile veneziano del '700, trasferito da Conegliano Veneto in Israele nel 1952. Ma la sorpresa scatta nel piccolo museo allestito sopra la Sinagoga. Vi campeggia uno splendido mobile sacro traslocato dal ghetto di S.Daniele del Friuli, uno dei pezzi forti della raffinata raccolta. Sarà, ma questo pare l'unico luogo al mondo in cui si parla della cittadina friulana senza parlare anche del prosciutto.


Una nazione-laboratorio.

Pezzi di mistero medioevale nei luoghi sacri. L'avvenirismo hi-tech degli insediamenti industriali in Galilea, come a Teffen dove c'è perfino un'"incubatrice" tecnologica, unica al mondo, che traduce i progetti in brevetti e business plan. Il rigoglio in ogni dove di parchi e giardini, per un totale -dicono- di 700 milioni di alberi piantati, oggi nutriti da una rete capillare di irrigazione a goccia. Il collettivismo dei mitici Kibbutz, 25 dei quali rimasti fedeli allo spirito pionieristico delle origini. La laica modernità di Tel Aviv, frenetica, intellettuale, trasgressiva, luccicante di stratosferici grattacieli. L'aridità del Negev, deserto mozzafiato ai confini con l'Egitto, percorso da beduini in cammello e cingolati militari. I centri smaglianti per efficienza e laboriosità, in cui sono assistiti i bambini, le donne o i feriti di guerra. Il rigore delle scuole, tra informalità di rapporti e assoluto rispetto delle regole, secondo il motto "ricerca, educazione, pace" di cui ci parla a Nitzana, in pieno deserto, Lyova Eliav, superbo patriarca di 80 anni arrivato dalla Russia nel 1920 col sogno di fondare un villaggio per lo studio del sole. Il quale oggi c'è, vitale, a un passo da Sde Boqer, l'ascetico luogo in cui è sepolto Ben Gurion, su un rialzo affacciato sul canalone lunare attraversato da Mosè col suo popolo. E poi, in un orizzonte polveroso, l'aldilà degli "altri", palestinesi dei Territori, di cui non è difficile immaginare la tragica disperazione cenciosa.
    Israele è tutto e il contrario di tutto. E'anche la speranza di pace che trapela dalle parole di due straordinarie intelligenze che incontriamo, Shimon Peres e Abraham Yehoshua. Quest'ultimo, con visionaria provocazione, si spinge fino ad auspicare una Gerusalemme-Vaticano, città a protettorato internazionale. Ottimismo? Ma esso -dice Peres- in questo si distingue dal pessimismo, che sa trasformare gli ostacoli in opportunità. Altrimenti saranno disastri. Per tutti, Israele compresa, con il suo cangiante laboratorio sempre sulla corda per dimostrare al mondo la necessità della sua esistenza.


Partenze.

Partiamo con lo spiacevole retropensiero che sono maggiori le cose non viste di quelle effettivamente viste. Un ultimo saluto a Hagit, la solare guida ebreo-triestina che ha fatto negli anni '70 la sua aliyà Eretz Israel, e a Raffi, il simpatico ebreo-yemenita, gran fumatore e autista di pullman con ineffabile creatività da ranger. Tocca correre, perché ci aspetta l'ossessione dei controlli. E' già successo a Fiumicino, figurarsi ora. E infatti è così, con un'interminabile raffica di domande ("Ha fatto lei la valigia?" "Non l'ha avvicinata nessuno?" ecc. ecc.) e, alla faccia della privacy, l'apertura della valigia, frugata con impietosa indiscrezione. Ma così c'è anche tutto il tempo per guardarsi in giro. Meraviglia finale: una settimana prima, siamo scesi in uno scalo vecchiotto e trasandato e ora ripartiamo da uno nuovo di zecca, vasto, fresco di inaugurazione. La visione vale come metafora. Perché Israele è così: una realtà mobile che, zac, ti cambia le cose sotto gli occhi.

(Il Gazzettino On Line, 23 gennaio 2005)




MUSICA E IMMAGINI




Hevenu Shalom




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