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Notizie su Israele 282 - 17 febbraio 2005

1. Sharon: Il piano di ritiro non sarà unilaterale
2. Il referendum contro il piano di ritiro
3. Le condizioni delle Brigate Martiri di al-Aqsa
4. I problemi apparentemente sepolti si inaspriscono
5. Il veleno della propaganda antisemita palestinese
6. Barghouti: «Sarò libero entro fine 2005»
7. La più piccola comunità ebraica del mondo
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Geremia 3:17. Allora Gerusalemme sarà chiamata il trono del Signore; tutte le nazioni si raduneranno a Gerusalemme nel nome del Signore, e non cammineranno più secondo la caparbietà del loro cuore malvagio.
1. SHARON: IL PIANO DI RITIRO NON SARÀ UNILATERALE




GERUSALEMME – Parlando con i giornalisti stranieri a Gerusalemme, Sharon ha promesso che le minacce di morte profferite contro di lui dagli estremisti nazionalisti israeliani non avranno ripercussioni sul suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza. «La mia incolumità personale non mi interessa, nè influenzerà i miei progetti», ha detto ancora il primo ministro israeliano; «Io non mi preoccupo, e sono determinato a portare a compimento quanto hanno deciso il governo ed il parlamento. Minacce del genere sono intollerabili, in tutta la mia vita non ho mai ceduto alle minacce, e non ho intenzione di cominciare adesso». La premura di Sharon di coordinare con l'Anp il ritiro dalla striscia di Gaza è motivata, come ha spiegato il primo ministro stesso, dalla necessità di non lasciare spazi alle formazioni miliziane oltranziste palestinesi, per non creare vuoti di potere che possano essere occupati dagli estremisti: «Per noi - ha detto Sharon ai giornalisti stranieri - è molto importante che Gaza non cada nelle mani di Hamas, della Jihad Islamica, ma resti nelle mani dell'Autorità Palestinese». Questa preoccupazione ha evidentemente indotto un ripensamento di Sharon, che in un primo tempo aveva parlato di un ritiro unilaterale dalla striscia di Gaza. Il piano di ritiro e di sgombero di quattro insediamenti nel nord della Cisgiordania del premier israeliano Ariel Sharon deve anche dare a Israele la sicurezza di non essere più obiettivo di attacchi da parte di gruppi militanti palestinesi. Lo ha dichiarato ieri a Gerusalemme, il presidente della commissione esteri della Camera Gustavo Selva, secondo il quale «l'offerta del primo ministro Sharon di liberare Gaza dagli insediamenti israeliani deve essere accompagnata dalla sicurezza dello stato di Israele di non essere più oggetto di un'azione da parte di Hamas, della Jihad, tale da mettere in pericolo la sicurezza e la libertà del popolo israeliano».

(Gazzetta del Sud, mercoledì 16 febbraio 2005)





2. IL REFERENDUM CONTRO IL PIANO DI RITIRO




Coloni e ribelli del Likud contro Sharon

Mentre il vertice di Sharm el Sheikh sembra aprire nuovi spiragli di pace, numerose incognite si addensano sul piano di ritiro da Gaza proposto da Sharon. Il Primo Ministro israeliano deve infatti affrontare la netta ostilità dei coloni e dei ribelli del Likud.

di Daniele Atzori


Il vertice di Sharm el Sheikh

Il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon e il Presidente dell’Autorità Palestinese Mahmud Abbas hanno annunciato l’8 febbraio a Sharm El Sheikh la cessazione delle ostilità tra Israeliani e Palestinesi, rianimando le speranze di una ripresa del processo di pace. Durante la conferenza, Sharon e Abbas hanno convenuto sulla necessità di coordinare gli sforzi per realizzare il piano di disimpegno israeliano da Gaza e da alcuni insediamenti della Cisgiordania settentrionale, garantendo la sicurezza dei territori. La Giordania e l’Egitto hanno inoltre annunciato che i loro ambasciatori ritorneranno in Israele, ristabilendo normali relazioni diplomatiche per poter partecipare più attivamente alla delicata fase del disimpegno. Sharon ha inoltre chiaramente affermato che nel suo incontro col Presidente Abbas si è concordato che i Palestinesi fermeranno ogni atto di violenza contro gli Israeliani e Israele cesserà ogni attività militare contro i Palestinesi.
     Il Primo Ministro israeliano ha inoltre dichiarato durante l’incontro che Israele non tollererà la violenza palestinese durante il ritiro; Abbas ha risposto che la sicurezza è una priorità anche per i palestinesi, e ha promesso che tutto il possibile sarà fatto affinché la partenza dei coloni non si svolga sotto il fuoco. Abbas ha inoltre toccato un tema scottante per l’opinione pubblica israeliana, domandando il rilascio dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane; Sharon ha mostrato una cauta apertura, ricordando però che 1.042 israeliani sono stati uccisi durante attentati terroristici negli ultimi quattro anni, e che, in conseguenza di ciò, la liberazione dei responsabili o presunti tali suscita numerose, e legittime, risposte ostili in Israele; solo se ci sarà una completa quiete sarà meno difficile procedere in tal senso.


La contromossa dei ribelli del Likud

Poche ore dopo la conclusione del vertice di Sharm, il Ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom, non invitato al vertice internazionale, annunciava la risposta della fronda del Likud ostile al disimpegno da Gaza: Shalom ha annunciato che egli stesso guiderà una campagna per un referendum che dovrà decidere delle sorti del piano. L’annuncio è stato fatto durante un talk show sulla rete televisiva Channel 2; il referendum è caldamente sostenuto anche dai 13 parlamentari dissidenti del Likud, oltre ai ministri Benjamin Netanyahu, Yisrael Katz e Dan Naveh. Nel caso in cui il referendum non dovesse tenersi, i ribelli del Likud hanno annunciato il loro voto negativo al bilancio. Si tratterebbe evidentemente di un colpo durissimo per il nuovo esecutivo Sharon, per il quale quei 13 voti sono fondamentali. Un fronte sempre più ampio sta creandosi nella società israeliana intorno alla proposta referendaria: il 7 febbraio anche l’influente leader spirituale Rabbi Yosef Shalom Elyashiv ha appoggiato pubblicamente il referendum.
     La sola possibilità che il popolo israeliano possa esprimersi su un argomento così delicato e lacerante, indebolisce in parte la posizione del Primo Ministro, rischiando di rendere meno credibili gli impegni assunti formalmente in più occasioni, e in particolare l’8 febbraio davanti ad Abu Mazen, a Hosni Mubarak ed al re Abdallah di Giordania. Nonostante la ferma volontà di Sharon di evacuare gli insediamenti, il forte dissenso organizzato, sia nella società israeliana, sia nel suo stesso partito, cerca di minare le basi del progetto di disimpegno. Shalom ha dichiarato che la scelta di tenere un referendum ha il solo scopo di evitare contrasti, facendo emergere una posizione largamente condivisa; è invece facile prevedere quali toni potrebbe assumere una campagna referendaria così controversa, bloccando per mesi la politica estera di Israele, il cui Primo Ministro e Ministro degli Esteri si troverebbero su fronti avversi a proposito di un tema assolutamente prioritario e ineludibile. Nel caso in cui gli israeliani votassero contro il disimpegno, Sharon e tutto il nuovo esecutivo di unità nazionale vedrebbero sconfessata la stessa causa di esistenza del nuovo governo, varato proprio in funzione del piano di evacuazione degli insediamenti.


Le posizioni dello Yesha Council

Lo Yesha Council (Consiglio delle comunità ebraiche di Giudea, Samaria e Gaza) è il più importante organo di rappresentanza degli interessi dei coloni, fondato nei tardi anni ’70 come successore del Gush Emunim, l’organizzazione che aveva intrapreso la campagna per il ritorno degli ebrei nelle “patrie” storiche di Giudea, Samaria e Gaza (Yesha infatti è un acronimo ebraico di questi tre territori). La popolazione di Yesha è cresciuta dai circa 3.000 abitanti di quando l’organizzazione fu fondata agli oltre 225.000 attuali; l’aumento è sostenuto sia dall’alto numero di arrivi sia dall’alto tasso demografico delle comunità. Lo Yesha Council rappresenta tutte le città e i villaggi delle tre regioni ed il suo plenum risulta composto da 25 sindaci democraticamente eletti e da altri dieci leader di comunità.
     Il Consiglio Direttivo, eletto dal plenum, è composto dal Presidente Bentzi Lieberman, sindaco di Samaria; dal vice presidente Hisdai Eliezer, sindaco di Alfei Menashe; da Shaul Goldstein, sindaco di Gush Etzion; da Pinchas Wallerstein, sindaco di Binyamin; da Zvi Bar-Chai, sindaco di Hebron Hills; da Zeev Chever e Adi Mintz. Gli scopi dichiarati dell’associazione sono quelli di garantire la sicurezza dei coloni, venire incontro alle loro esigenze umanitarie e municipali, tutelarli attraverso l’azione politica e mediatica, diretta a proteggere la natura ebraica e il futuro dello Stato di Israele, proteggendo la sovranità di Eretz Yisrael da coloro che vogliono abbandonarla ai nemici del popolo ebraico”. La posizione dello Yesha Council sugli insediamenti è, di conseguenza, assolutamente netta: Gaza appartiene al popolo ebraico fin da quando, dopo l’Esodo dall’Egitto, a ogni tribù di Israele furono date parti della Terra Promessa, e Gaza toccò alla tribù di Giuda (Giosuè 15,47 ; Giudici 1, 18) in eredità eterna. Da allora, sostengono i coloni, quella terra appartiene di diritto al popolo ebraico; e dal 1967, in seguito alla guerra dei Sei Giorni, durante la quale la striscia di Gaza fu strappata all’Egitto, fa parte integrante dello Stato di Israele. I 7.000 ebrei che vivono a Gaza non sono quindi né invasori, né occupanti, né intrusi, ma semplicemente “residenti indigeni” ritornati a casa, che calpestano la stessa terra che occuparono i loro antenati prima di loro. I coloni sostengono con forza la propria presenza a Gaza anche con argomenti di carattere strategico-militare: Gaza rappresenta infatti il miglior punto d’accesso in Israele, e mantenere il controllo su di essa significa per Israele garantirsi sicurezza e indipendenza. Molti conquistatori, da Tito a Napoleone agli inglesi, sono infatti penetrati in Palestina da Gaza. E’ chiaro che, essendo questa la posizione ufficiale dei coloni, ogni intesa o accordo per negoziare un ritiro da Gaza appare fortemente improbabile.
     D’altronde, Pinchas Wallerstein, membro del Direttivo dello Yesha Council e sindaco di Binyamin, era stato molto esplicito: nel suo “proclama” di dicembre aveva chiamato il piano di Sharon “immorale”, “stalinista” e “disumano” in quanto avrebbe legittimato un “crimine inaudito: lo sradicamento forzato degli ebrei dalle proprie case”. Wallerstein aveva invitato pubblicamente i coloni alla resistenza civile, rifiutandosi di obbedire agli ordini del governo, e dichiarandosi disposto ad andare in prigione pur di difendere i suoi concittadini da un ordine criminale, convinto che le carceri di Israele non sarebbero state sufficienti per imprigionare tutti gli oppositori.


Il sostegno degli ultraortodossi dello Shas

Rabbi Ovadiah Yosef, influente leader spirituale del partito ultraortodosso Shas (Shomrei Torah Sephardim–Sephardi Torah Guardians), ha pubblicamente dichiarato la propria opposizione di principio al referendum, rifiutandosi di seguire la posizione di Rabbi Elyashiv, che si era invece detto favorevole alla consultazione. Rabbi Yosef ha affermato che il compito di prendere le decisioni spetta agli ufficiali eletti, e il portavoce dello Shas Eli Yishai ha ironizzato, chiedendosi se vi sarà un referendum anche sulla fallimentare (a suo dire) politica economica del Ministro delle Finanze Netanyahu. L’ostilità dello Shas è determinante per impedire che la proposta referendaria venga approvata dalla Knesset.


Conclusioni

Ariel Sharon, detto Arik, è un generale di lungo corso, e sa come fronteggiare le numerose insidie che gli si presentano dinanzi: in un’intervista al quotidiano israeliano Haaretz, il giorno dopo il summit di Sharm, ha affermato, in un tono arrabbiato e determinato, che intende porre fine all’ondata di minacce che provengono dal fronte referendario. Sharon ha naturalmente compreso che il referendum sul piano di disimpegno ha lo scopo di impedire l’evacuazione o almeno di ritardarla per un anno, sottoponendo così la società israeliana a tensioni destabilizzanti dagli esiti imprevedibili. La motivazione ufficiale dei referendari, quella di evitare attraverso la consultazione una guerra civile, è rifiutata nei suoi assunti logici: Sharon sa bene che un anno di accesa campagna elettorale determinerà un clima di odio e violenza crescente. Già ora, denuncia il Primo Ministro israeliano, dozzine di persone, fra cui anche membri del suo stesso partito, che lavorano negli uffici ministeriali, stanno minacciando, attraverso telefono, fax e e-mail, i deputati del Likud e le loro famiglie, per farli desistere dal sostegno al piano di disimpegno. Ma mentre sui muri di Tel Aviv campeggiano scritte come “Abbiamo ucciso Rabin, uccideremo anche te” e “Morte ai traditori”, in molti, su entrambe le sponde dell’Oceano, sperano che Arik abbia la forza necessaria per traghettare Israele in questo delicato momento della sua storia.

(Equilibri.net, 15 febbraio 2005)





3. LE CONDIZIONI DELLE BRIGATE MARTIRI DI AL-AQSA




Il quotidiano londinese Al-Quds Al-Arabi ha pubblicato recentemente (3 febbraio 2005) un articolo di Nasser Uweis, un comandante delle Brigate Al-Aqsa che è in carcere in Israele. Nell’articolo, Uweis espone le condizioni delle Brigate riguardo alla cessazione della violenza. Seguono brani dell’articolo.


“Daremo ancora una volta una chance all’attività politica, ma l’occupante deve sapere che questo popolo ha soldati leali”

“In questi giorni, molti si interrogano sulla posizione delle Brigate riguardo agli sviluppi dopo la morte del presidente Arafat, la nomina alla presidenza dell’Autorità Palestinese e dell’OLP di Abu Mazen e quella di Faruq Qaddumi alla testa di Fatah. Forse noi tutti ci chiediamo se le Brigate deporranno le armi. La ragione della loro esistenza è venuta meno? Forse la leadership di Fatah le considera un’organizzazione indesiderata? Le Brigate accetteranno il nuovo cessate il fuoco [hudna]?

Bisogna chiarire che non ci fu una delibera per creare le Brigate e non ce ne sarà una per smantellarle. Tutti questi problemi, per quanto gravi, dipendono dagli sviluppi successivi. Le Brigate non sono una finalità in sé ma piuttosto il mezzo necessario per passare dal silenzio all’azione, per mettere fine all’occupazione, per portare avanti riforme interne palestinesi e per dare impulso al movimento. Di conseguenza, le Brigate non saranno smantellate con un fiat e le sue attività non cesseranno finché ci sarà un’occupazione israeliana che attacca la nostra gente e la nostra terra, assassina i nostri quadri, la nostra gioventù, bambini, donne e anziani.   

Noi, le Brigate, nonostante che abbiamo pagato un pesante tributo per Fatah e la nostra giusta causa, considereremo attentamente le proposte serie, riguardo il futuro, che ci verranno fatte. Non permetteremo tuttavia nessuna soluzione ingiusta. Da una parte, appoggeremo tutti gli sforzi che Abu Mazen ha annunciato riguardo riforme, fine dell’occupazione e salvaguardia dei principi nazionali. Daremo di nuovo una possibilità all’attività politica. Non intralceremo alcuna iniziativa positiva, produttiva e al servizio degli interessi del nostro popolo, ma l’occupante deve sapere che questo popolo ha soldati leali e che restano in uno stato d’allerta per difenderlo da ogni offesa e ogni tentativo di danneggiare la nuova leadership militare e politica. In questo contesto, i comandanti delle Brigate in carcere apprezzano molto la proposta di Zakaria Al-Zubeidi [comandante delle Brigate] di non accettare il cessate il fuoco fino a dopo una discussione tra tutti i comandanti delle Brigate, incarcerati e non”.


“Non si può eludere il completamento delle discussioni con i membri di Hamas”

“Nel prossimo futuro, è necessario aderire rigorosamente alla piattaforma elettorale dichiarata, che rappresenta i programmi di Fatah. E’ venuto il momento di individuare i corrotti, di allontanarli e di dissuaderli. Sono un gruppo ristretto ma le loro attività sono gravi al di là di ogni immaginazione. E’ venuto il momento di frenare l’anarchia delle masse e finirla con il crepitio delle armi a fini dimostrativi, che non aiuta la resistenza, e di dissuadere coloro che sfruttano la situazione per derubare i cittadini, le loro fonti di reddito e sicurezza. E’ tempo di vedere nuove facce nei ministeri, persone qualificate e veramente patriottiche. E’ tempo di finirla con il nepotismo, con l’ottenimento di beni e servizi sulla base delle proprie conoscenze, con lo sperpero di fondi pubblici attraverso la distribuzione arbitraria di denaro a parenti, soci e gruppi o istituzioni fittizie. E’ tempo di affidarsi alla dirigenza e di agire rispettando la legge. I cittadini vogliono vedere misure reali, tangibili. Abu Mazen non deve permettere alle gang corrotte di stargli intorno, dato che sono la rovina di ogni persona sincera e sono un morbo che distrugge la terra e i suoi frutti.

Quel che ci vuole è una nuova era, nel vero senso della parola, che manterrà il buono e si libererà del cattivo e in cui le questioni sacre saranno rispettate. I cittadini saranno uguali di fronte alla legge e tutti i procedimenti [di polizia] con riguardo a furti e rapine, che hanno ammorbato le istituzioni, saranno riaperti, così come quelli per assassinio e attentato alla sicurezza dei cittadini. L’unità nazionale sarà rafforzata e dobbiamo evitare conflitti interni. I principi democratici si rinsalderanno andando ai seggi elettorali per votare autentici rappresentanti del popolo e di tutti i suoi gruppi, strati e tendenze politiche [...].

Riguardo all’organizzazione [OLP], il Consiglio nazionale palestinese dovrebbe riunirsi. Non è ragionevole per l’OLP ignorare la nostra gente fuori del paese. Esiste una grande diaspora sparsa ai quattro angoli della terra, eppure è oggetto di poca attenzione. Ha bisogno di una vera rappresentanza all’interno del Consiglio. Non si può eludere il completamento delle discussioni con i membri di Hamas per arrivare a un programma nazionale unificato, che ci porterà tutti a partecipare nell’OLP, l’unico legittimo rappresentante dei palestinesi ovunque. Dobbiamo tutti ricordare che l’OLP e la sua legittimità sono la linea rossa che non può essere oltrepassata. La legittimità dell’OLP è costata al nostro popolo battaglie difficili e un fiume di sangue dei nostri martiri. 

Quanto a Fatah, Abu Mazen, Faruq Qaddumi e Abu Maher Ghneim [un esponente di Fatah nel mondo] devono operare seriamente per riunire l’assemblea generale del movimento, per rafforzarlo con gente nuova e per finirla con il principio che “L’appartenenza al comitato centrale o al consiglio rivoluzionario equivale [a essere soci nella] morte”.

Quest’assemblea sarebbe un punto di svolta qualitativo per la continuità generazionale, contrariamente a quanto è accaduto per molti anni: un gap tra generazioni all’interno del movimento, una separazione e divisione tra la dirigenza e la base. D’altra parte, Fatah deve essere consapevole della vastità della sfida che ha davanti con le prossime elezioni legislative. Sarebbe irragionevole che il movimento presentasse candidati che hanno danneggiato il nostro popolo, abusando della loro sicurezza e delle loro proprietà. Nel Fatah c’è molta gente degna di fiducia, con le mani pulite e che non si sono macchiati con fondi pubblici o con il sangue nobile dei figli della nostra nazione. Bisogna evitare di presentare candidati il cui valore non è stato apprezzato in precedenza”.


“Dobbiamo dare una chance alle iniziative politiche di Abu Mazen”

“Dobbiamo agire senza esitazioni e senza trucchi per dare una chance alle iniziative politiche e interne che Abu Mazen sta prendendo. Considereremo chiunque tenti di minare questo processo come qualcuno che vuole mantenere

prosegue ->
lo stato di anarchia, per evitare di dar conto o spiegazioni di certe negligenze, di crimini e corruzione. I corrotti e coloro [che cercano di sfruttare] la storia delle Brigate stanno cercando di sabotare l’operato di Abu Mazen e il suo piano politico, che è quello del Fatah, chiaro, attendibile e fermo. Le Brigate resteranno sempre unite come sono state nel passato, sempre pronte nelle ore più buie ad agire, a prendere l’iniziativa e a rispettare le decisioni [...] per proteggere il proprio popolo contro qualsiasi aggressione.

Torneremo ai nostri banchi di scuola, incarichi e lavoro, ma resteremo in un alto stato d’allerta per agire quando sentiamo che il dialogo con il nemico è improduttivo. Nessuna hudna o cessate il fuoco viene senza un compenso: il ritiro israeliano, la fine degli assassini, il rilascio dei prigionieri di libertà di tutte le fazioni, misure contro la corruzione, l’avviamento di riforme interne, un controllo più severo dei fondi pubblici, il rifiuto di ogni soluzione parziale, la salvaguardia dei principi nazionali e la garanzia di una decente fonte di reddito per i combattenti che mettono a rischio la loro vita per difendere la libertà. Quest’ultima misura deve essere presa in maniera appropriata per garantire al combattente onore e auto-stima, una misura non negoziabile.

Ciò significa che le Brigate saranno smantellate e si dissolveranno? No, le Brigate, come esseri umani, non possono scomparire dato che fanno parte di questo popolo e saranno pronte ad agire in qualsiasi battaglia futura in reazione ad attacchi o aggressioni israeliane.

Infine, bisogna riconoscere che il movimento Fatah è in un travaglio difficile e nessuno sa dove questi problemi interni approderanno. La situazione suggerisce che ci sono solo due opzioni per Fatah. [La prima,] di rafforzare la propria condizione e quella del popolo, di analizzare in maniera seria e vera la sua efficienza, di guardare al futuro con occhi sinceri e qualificati e di eliminare chi ha agito male e i corrotti. [La seconda,] di essere spazzati via e di scomparire, il che sarebbe un colpo per il movimento nazionale palestinese forse per molte generazioni future”.

(MEMRI, 14 febbraio 2005)





4. I PROBLEMI APPARENTEMENTE SEPOLTI SI INASPRISCONO




L'antisemitismo si evolve

di Daniel Pipes


L'antisemitismo potrebbe apparire come un fenomeno statico e invariabile, ma di fatto l'odio ossessivo per gli ebrei ha una storia millenaria e continua ad evolversi.
     Gli sviluppi avutisi a partire dalla Seconda guerra mondiale e dall'Olocausto sono stati particolarmente rapidi e profondi. Qui di seguito, quattro dei più significativi cambiamenti:

Dalla Destra alla Sinistra. Per secoli, l'antisemitismo ha contraddistinto la Destra e occasionalmente la Sinistra. Per riportare gli esempi salienti di questa tendenza, la giudeofobia di Stalin fu marginale rispetto al suo mostruoso progetto, ma quella di Hitler costituiva il fulcro della sua ideologia. Addirittura un decennio fa questo paradigma veniva ancora fondamentalmente considerato reale. Ma negli ultimi anni vi è stato un rapido e globale riassetto che ha visto la corrente principale della Destra sempre più solidale verso gli ebrei e Israele e la Sinistra nel suo insieme sempre più fredda e ostile.

Da cristiano a musulmano. I cristiani svilupparono le costanti dell'antisemitismo (come l'avidità e l'ambizione di dominare il mondo) e storicamente uccisero il maggior numero di ebrei. Pertanto, gli ebrei rifuggirono abitualmente la cristianità per l'islamismo. Nel 1945, questo paradigma mutò bruscamente. I cristiani accettarono di nuovo gli ebrei, mentre i musulmani adottarono i vecchi discorsi cristiani come pure l'istinto omicida. Oggigiorno, l'antisemitismo istituzionale è nella stragrande maggioranza una questione musulmana. Ne è risultato un esodo inverso permanente, con gli ebrei che adesso rifuggono l'islamismo per la cristianità.

Dal religioso al laico. Ciò che iniziò come un rifiuto della religione ebraica si è evoluto nel corso dei secoli in un pregiudizio verso la presunta razza ebraica (pertanto, il nostro continuo uso del termine privo di senso, antisemitismo) e in seguito in anti-sionismo ovvero l'odio nei confronti dello Stato ebraico. Un sorprendente sondaggio del 2003 secondo il quale gli europei considerano Israele come la principale minaccia alla pace mondiale rivela quanto sia radicato questo nuovo sentimento.

Assimilazione dell'antisemitismo e dell'anti-americanismo. Ebrei ed americani, Israele e Stati Uniti – si mescolano nelle menti di parecchia gente, ovunque nel mondo, a tal punto che i pregiudizi verso gli uni si applicano abitualmente agli altri. Questi due sentimenti di odio hanno una principale caratteristica in comune: entrambi sono refrattari a una discussione logica, pertanto ognuno di essi andrebbe inteso come il sintomo di un disordine psicologico piuttosto che come un'arcana logica politica.

Un'analisi globale di questi sviluppi induce ad alcune riflessioni sul precario futuro delle tre maggiori comunità ebraiche.
     Israele affronta il pericolo più estremo, circondato com'è dai nemici che nella generazione passata hanno disumanizzato gli ebrei utilizzando dei modi che richiamano alla mente la Germania nazista degli anni Trenta. In entrambi i casi, i governi hanno ingaggiato una sistematica campagna per trasformare il vicino di casa ebreo in una belva minacciosa che può essere controllata solo attraverso la sua distruzione. Nella Germania nazista questa visione culminò nei campi della morte; al giorno d'oggi, essa potrebbe (e sottolineo potrebbe; non sto preconizzando che ciò accadrà) concludersi con una scarica di bombe nucleari lanciate su Israele, una prospettiva che un autorevole leader iraniano ha pubblicamente contemplato. Ciò potrebbe provocare in fieri un secondo Olocausto, per altri sei milioni di ebrei.
     Gli ebrei europei sono i prossimi ad essere maggiormente in pericolo, sebbene i pericoli da affrontare siano più ordinari: l'isolamento politico e sociale, le depredazioni commesse da parte degli islamisti, i radicali palestinesi ed altre teste calde, e un crescente sentore che gli ebrei non hanno futuro nel vecchio continente. Nel prossimo futuro potrebbe aver luogo un esodo che replica quello che ha visto muovere dopo la Seconda guerra mondiale gli ebrei dai Paesi musulmani, dove la popolazione ebraica ha subito un forte calo di presenze passando da un milione circa del 1948 ai 60.000 di oggi.
     E per finire, gli Stati Uniti. Gli ebrei d'America può darsi che non siano consapevoli di ciò, ma negli ultimi sessanta anni hanno vissuto una delle epoche d'oro dell'ebraismo, di gran lunga più rifulgente rispetto a quella vissuta dagli ebrei dell'Andalusia, della regione dell'Aragona, della Germania, dell'Ungheria, della Lituania e di Praga. Ma adesso, in forma più blanda rispetto all'Europa, gli ebrei affrontano correnti simili che sconvolgono la vita americana, specie l'ondata islamista, coccolata dalla Sinistra. Pertanto, l'epoca d'oro dell'ebraismo americano sta per concludersi. Gli ebrei d'America hanno potuto concedersi il lusso relativo di preoccuparsi di questioni come quella dei matrimoni misti, dei correligionari di ogni parte del mondo, della preghiera a scuola, e dell'aborto; se persisterà la tendenza attuale, essi dovranno sempre più preoccuparsi della sicurezza personale, dell'emarginazione e di altri sintomi già visibili in Europa.
     Mentre si avvicina il sessantesimo anniversario della vittoria in Europa e di quella sul Giappone, è chiaro che i problemi apparentemente sepolti nei forni crematori di Auschwitz e di Birkenau si inaspriscono e ci accompagnano sempre più.

(New York Sun, 15 febbraio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





5. IL VELENO DELLA PROPAGANDA ANTISEMITA PALESTINESE




«Ammazza l'ebreo e vai in paradiso»

di Martino Cervo

Nathan Sharansky è ministro del governo Sharon. Ebreo di origine ucraina, eroe del dissenso sovietico incarcerato per anni dal regime di Mosca, è diventato uno dei punti di riferimento della " dottrina Bush". Gli esperti di politica estera annoverano il recente saggio di Sharansky "The case for democracy" tra le letture decisive del presidente americano, che ha spesso convocato l'ex dissidente alla Casa Bianca per incontri riservati. Ora Sharansky gioca il peso del suo nome e del suo prestigio per pubblicizzare uno studio condotto dal Palestinian Media Watch, un istituto che monitora i mezzi di comunicazione nei territori palestinesi.
     Il titolo del report è quanto mai eloquente: «Ammazza un ebreo e vai in paradiso». Cogliendo l'occasione delle celebrazioni della memoria dell'Olocausto, Sharansky, scriveva ieri il Weekly Standard (giornale statunitense vicino ai neoconservatori), ha lanciato l'allarme: «La propaganda antisemita avvelena la società palestinese come accadde in Germania ai tempi del nazismo». Frase non esagerata se si dà anche solo una rapida scorsa al testo dello studio, a cura di due ricercatori del Palestinian Media Watch, Marcus e Crook. Le venti pagine sono un concentrato di citazioni, interviste, estratti da programmi tv diffusi dai canali dell'Autorità nazionale palestinese che fanno capire di quanti passi concreti e di quanta volontà politica avrà bisogno la tregua firmata due giorni fa da Sharon e Abu Mazen.
     Il rapporto è diviso in tre sezioni che replicano i tre passaggi della strategia della propaganda antisemita diffusa nell'Anp. Primo: un'etichettatura di massa appiccicata su Israele e gli ebrei in generale. La natura ebraica è mostrata come intrinsecamente malvagia: esperti psicologi hanno spiegato di fronte alle telecamere della tv palestinese che «i bambini ebrei vengono allattati con odio e complessi di superiorità che condizionano la loro personalità». Pupazzi animati nei programmi per bambini incitano i piccoli telespettatori a «non fidarsi degli ebrei, che possono colpire in qualsiasi momento». Nei manuali scolastici si legge che «Perfidia e slealtà sono i tratti caratteristici della popolazione ebraica», mentre nel cruciverba di un popolare quotidiano la definizione «tratto tipico dell'ebreo» corrisponde a «traditore».
     Non mancano esempi, dal 2000 alla fine del 2004, di autorità accademiche che associano gli ebrei a «maiali», «scimmie», «asini», nonché a «discendenti del demonio». Un insegnante di religione ha spiegato alla tv palestinese che «gli ebrei hanno alterato la Bibbia, modificando la vera religione», mentre il dottor al Astal ha dichiarato che «Israele è stata fondata in base ai Protocolli di Sion». La seconda fase è la «creazione della minaccia»: le caratteristiche dell'ebreo sono presentate come un pericolo mondiale. Gli israeliti punterebbero al «dominio mondiale dei media», «uccidono per natura» chi è diverso da loro. Sarebbero inoltre responsabili «dello scoppio della seconda guerra mondiale», «dello sterminio di alcuni ebrei sgraditi nei campi di concentramento in accordo con la Germania», perfino (dicembre 2004) dello tsunami asiatico.
     Un altro cruciverba del quotidiano Al-Hayat Al Jadida riportava la seguente definizione: «Luogo ebraico per eternare le bugie dell'olocausto». Risposta: Yad Vashem (il luogo della memoria della Shoah, ndr). Poche settimane fa lo sceicco Ibrahim Mudayris, sentito dalla tv palestinese, ha detto: «Gli ebrei sono ebrei. Le loro caratteristiche sono la rovina della nostra terra. State attenti: sono un cancro negli stati arabi».
     Il terzo passaggio è l'«eliminazione della minaccia»: una volta definiti caratteri e azioni degli ebrei, si dipinge la necessità di estirparli. Il rettore di una importante scuola islamica ha detto nella stessa tv palestinese: «Laburisti o del Likud, tutti gli ebrei sono bugiardi. Vanno macellati e uccisi. È proibita la pietà nei loro confronti». In più occasioni capi religiosi hanno ripetuto che «la salvezza dipende dallo sterminio degli ebrei». Uno degli slogan più in voga è quello recitato in un video- testamento da Reem Riyashi, la 21enne kamikaze che ha dilaniato quattro israeliani: «È sempre stato mio desiderio trasformare il mio corpo in una bomba contro i sionisti e bussare alle porte del paradiso con i loro teschi». Purtroppo non sono novità. Ma il fatto che ora Sharansky si sia fatto sponsor dello studio è un ulteriore segnale che la Casa Bianca non intende più avallare lo status quo.

(Libero, 10 febbraio 2005 - da Informazione Corretta)





6. BARGHUTI: «SARÒ LIBERO ENTRO FINE 2005»




TEL AVIV - "Penso che entro la fine dell'anno sarò libero": lo prevede in una intervista al quotidiano Maariv il dirigente di al-Fatah Marwan Barghuti che sconta l'ergastolo in un carcere israeliano dopo essere stato giudicato colpevole di aver ispirato attentati terroristici.
     L'intervista è stata organizzata dalla direzione del carcere 'Eshel', nel sud di Israele. Il giornalista ha potuto vedere la cella che il dirigente palestinese divide con altri tre reclusi palestinesi, ha constatato che è abbonato a tre quotidiani israeliani e ha appreso che segue divertito una trasmissione satirica trasmessa dalla televisione commerciale israeliana.
     Sul piano politico, Barghuti si schiera con Abu Mazen: "È una persona seria. Lo conosco molto bene e lo appoggio".
     A suo parere Israele non fa abbastanza per sostenere il presidente palestinese: invece di liberare 500 detenuti dovrebbe - a suo parere - liberarne 5.000 e la cosa avrebbe un effetto immediato e benefico sulla popolazione palestinese.
     Contrariamente a quanto pensano molti israeliani, il vertice di Sharm el-Sheikh (Egitto) non ha rappresentato la fine dell'intifada, "che invece - a suo parere - proseguirà fintanto che continua la occupazione di terre palestinesi".
     Fra i detenuti, spiega ancora Barghuti, anche fra i reclusi di Hamas "si è comunque diffuso un atteggiamento pragmatico, e un generale sostegno al cessate il fuoco".

(TicinOnline, 16 febbraio 2005)





7. LA PIU' PICCOLA COMUNITA' EBRAICA DEL MONDO





"Io, l'ultimo ebreo in tutto l'Afghanistan"

Parla l'unico reduce di una comunità antichissima, che un tempo arrivava a 40 mila persone. Decimata da guerre e persecuzioni. E quasi azzerata dai talebani.

di Riccardo Talenti


La comunità ebraica dell'Afghanistan si è dimezzata: infatti è morto uno dei due ultimi ebrei del paese. Itzhak Levin, 80 anni, è deceduto la settimana scorsa a Kabul per cause naturali. Era lo shamash , cioè il custode, della sinagoga della capitale afghana e morendo ha lasciato solo l'altro ebreo che viveva nella sinagoga, che di nome fa Zebulon Simentov. I due erano entrambi originari della città di Herat e si conoscevano fin da quando Simentov, che ora ha 45 anni, era bambino. "Adesso sono l'unico ebreo rimasto in Afghanistan, purtroppo ne sono sicuro. Quando eravamo ancora una comunità, ci conoscevamo tutti per cui se ci fosse qualcun altro in vita qui nel paese lo saprei" dichiara Simentov, vestito con una lunga tunica afghana e con la kippah, lo zuccotto ebraico, sul capo.
     La moglie di Levin e i suoi quattro figli erano partiti 18 anni fa per stabilirsi in Israele, ma Itzhak era rimasto a Kabul. Così i due uomini avevano cominciato a vivere insieme nella sinagoga di Flower Street tra i venditori di fiori e le botteghe di vestiti. Ma anche nella più piccola comunità ebraica del mondo, racconta ora Simentov con un sorriso, la convivenza non è sempre stata facile. Una discussione su chi dovesse custodire un rotolo della Torah, la Bibbia, degenerò in una rissa, poi ricomposta. Durante il regime dei talebani i due vennero arrestati e torturati, ma nonostante questo quando furono liberati decisero di rimanere comunque nel Paese. Anche adesso che è rimasto solo Simentov, che di mestiere esporta prodotti e antichità afghane, non intende andarsene: "Sono abituato a vivere in questo posto. E se la situazione migliora, altri ebrei arriveranno". Semmai, ha aggiunto, andrà più spesso a trovare la moglie e i figli in Israele.
     Nel frattempo Simentov ha trovato un nuovo coinquilino per la sinagoga: è Mohammed Amir, una delle guardie musulmane dei due cimiteri ebraici di Kabul. "Dato che era solo, mi ha chiesto di venire a vivere con me" dice Amir, aggiungendo che sarà un esempio di "possibile convivenza" tra ebrei e musulmani.
     Gli ebrei afghani affondano le loro origini in una delle dieci tribù disperse, risalenti al tempo del Primo Tempio e dell'esilio babilonese. Nei secoli passati furono molto importanti perché, come mercanti, funsero da punto di collegamento tra il Medio Oriente e la Cina. Alla fine del XIX secolo, la comunità ebraica afghana contava 40'000 membri. L'incremento del numero vi era stato a seguito della fuga degli ebrei persiani, fuggiti dall'Iran dopo il tentativo delle autorità di convertirli. Alla metà del XX sec, il numero era sceso a 5'000 persone, e la maggior parte di queste sono emigrate in Israele dopo il 1948. Secondo quanto raccontato da Simentov, le ultime 9 famiglie ebraiche afghane hanno lasciato il Paese dopo l'invasione sovietica del 1979.

(L'Espresso, 16 febbraio 2005)




8. MUSICA E IMMAGINI




Chag Purim




9. INDIRIZZI INTERNET




One Family Fund

Union of Nazarene Yisraelite Congregations




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