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Notizie su Israele 285 - 6 marzo 2005

1. Dibattito sulla riedificazione del Tempio
2. Il ruolo del Keren Hayesod nel mondo ebraico
3. La politica non influenza molto la finanza di Israele
4. Dire la verità su Israele è rischioso
5. Una pagina gloriosa della storia albanese
6. Di ritorno da Betlemme
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 55:6-7. Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. Lasci l’empio la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al Signore che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare.
1. DIBATTITO IN ISRAELE SULLA RIEDIFICAZIONE TEMPIO




«Abbiamo uno struggente desiderio di tornare ad adorare nel sacro Tempio», ha dichiarato Rabbi Josef Elboim, uno degli iniziatori dell'insolito vertice sul Tempio che si è tenuto a Gerusalemme. «Tre volte al giorno preghiamo affinché Dio ci conceda di pregare di nuovo sul sacro luogo del Tempio. Come nei tempi biblici, vorremmo anche oggi accendere nel Tempio il candelabro-Menorah e offrire a Dio i profumi. Sono tutti comandamenti divini e a questo noi vogliamo prepararci.»
    Al convito di Gerusalemme hanno preso parte circa 1000 persone, rabbini, professori e alcuni cristiani che avevano tutti il medesimo interesse: l'edificazione del III Tempio ebraico.
    I presenti hanno espresso la loro fiducia in Dio, confidando che Lui saprà trovare la via per edificare il nuovo Tempio ebraico a Gerusalemme. E' vero che al momento, dal punto di vista politico, la cosa sembra impossibile, perché sul luogo del Tempio ebraico ci sono adesso due moschee, di cui una è la terza più sacra nell'Islam, la grigia moschea Al-Aqsa con la cupola argentea. «Ma quando considero che Dio ha riunito il suo popolo dopo 2000 anni e lo riporta a casa, mi sembra che la riedificazione del terzo Tempio sia molto più semplice», pensa un Rabbi. «Quando e come, non lo so. E' una cosa che lascio all'Onnipotente. In ogni caso noi ci prepariamo.»
    Una dei principali sponsor di questo singolare progetto del Tempio è la senatrice americana del Sud Carolina, Orkly Benny Davis, che sta facendo forti pressioni sul suo Presidente George W. Bush affinché sposti l'Ambasciata americana a Gerusalemme. «Dobbiamo alla fine renderci conto che nell'arena politica internazionale Gerusalemme non è ancora riconosciuta come capitale di Israele» ha dichiarato Davis. «E nello stesso tempo i palestinesi vanno in giro per tutto il mondo a dire che Gerusalemme appartiene soltanto a loro.»
    «Israele non deve dimenticare che in questo paese l'esistenza ebraica è fondata sul suo passato biblico. Senza Gerusalemme e senza il luogo del Tempio ebraico, Israele non avrà mai la forza morale per annettersi gli altri territori contesi.»
    Il prof. Hillel Weiss, che fa parte del gruppo dei professori favorevoli a un forte Israele, ha detto davanti ai presenti che «è nostro compito portare da Gerusalemme a tutto il mondo pace e amore. Già nella Bibbia sta scritto che il sacro Tempio a Gerusalemme sarà una casa di preghiera per tutti i popoli.»
    La riedificazione del Tempio ebraico viene presa molto sul serio. Nei dibatti politici il tema è il valore spirituale della sacra città di Gerusalemme, che rende viva la speranza del terzo Tempio.
    
(israel heute, febbraio 2005)





2. IL RUOLO DEL KEREN HAYESOD NEL MONDO EBRAICO




Discorso tenuto da Greg Masel, Direttore-Generale del KH-UIA, all'Assemblea Plenaria dell'Agenzia Ebraica

A conclusione dei lavori di febbraio del Keren Hayesod e della Dirigenza JAFI (dal 17 al 23 febbraio 2005), presentiamo il discorso pronunciato da Greg Masel, Direttore-Generale del KH-UIA all'Assemblea Plenaria dell'Agenzia Ebraica a Gerusalemme.

Greg Masel
GERUSALEMME (20 febbraio 2005) - Vorrei che deste una rapida occhiata alla mia vita, per cui vi faccio partecipi della sensazione che si prova a far parte del Keren Hayesod. Prima di tutto, in termini di tempo, significa far parte di una storia che sta andando avanti da 85 anni, consapevoli del fatto che durerà a lungo anche dopo di noi. Questo è un grande onore – e comporta anche una maggiore responsabilità.
    Poi, in termini geografici. Noi parliamo sempre di – "57 campagne di promozione in 45 paesi su 5 continenti." E' quasi diventata una frase fatta. Ma pensiamoci bene, per un attimo, al vero significato di questa frase. Esistono 25 fusi orari – ebbene, noi conduciamo delle campagne in quasi ognuno di essi. In questo modo si svolge una tipica giornata nella vita mondiale del Keren Hayesod.
    Quando arrivi al lavoro alle 8 di mattina, trovi tutte le e-mail dall'Australia e dall'Estremo Oriente, che ti hanno inviato durante la loro giornata lavorativa, mentre qui da noi era notte. Ti affretti a rispondere e a fare loro delle telefonate prima che vadano a dormire!  Inoltre, ti trovi ad operare più o meno in "tempo reale" con il Regno Unito, l' Europa e l'Africa del Sud. Quando arrivi alle 4 di pomeriggio, ora in cui la maggior parte dei posti di lavoro in Israele sta per chiudere, ecco che in Canada e in America Latina sta appena iniziando la loro giornata lavorativa, per cui cominci insieme a loro!
    E, naturalmente, c'è il problema della lingua. Noi siamo soliti pubblicare tutto il nostro materiale in sei lingue. Quest'anno, abbiamo cominciato a farlo in nove lingue. Ma non è solo un fatto di lingua – lo è anche di cultura. Per curiosità, mi sono messo a chiedere a vari delegati come si dice nella loro lingua "chi siede a capotavola è  pregato di distribuire le carte per l'impegno di fedeltà". Ho constatato che in alcune delle nostre campagne di promozione non esiste un tale concetto. Essi hanno differenti modi di  esprimere i propri impegni di fedeltà.
    Ed il rabbino Eckstein mi ha insegnato che, per qualche pubblico, c'è anche bisogno di un lessico speciale in inglese.
    E poi c'è qualcosa di inafferrabile….che deriva dal far parte di 85 anni della vita di una nazione. Siamo anche sul punto di pubblicare un libro sulla nostra storia. Gli autori hanno eseguito un gran numero di interviste con gli attivisti del passato e del presente. Uno degli argomenti a cui cercano di dare una risposta è questo – che cosa   invoglia gli ebrei di tutto il mondo a volere essere così impegnati con il Keren Hayesod? Uno degli elementi più comuni che quasi tutte le persone intervistate hanno menzionato è stato il senso di appartenenza ad una famiglia. Nonostante le distanze geografiche, i fusi orari, le diverse lingue, le differenze culturali – in tutte le parti del mondo, ci sono gli attivisti del Keren Hayesod che condividono la stessa sensazione, per cui facciamo parte di un'unica famiglia. Anch'io, personalmente, sono orgoglioso di far parte di questa famiglia.
    Ho assunto questa carica in tempi stimolanti. Ci sembra di essere all'alba di una nuova era, un'era di speranza. Speranza che, quattro anni fa, sembrava perduta. Speranza che esattamente quattro mesi fa sembrava irreale.
    Infatti, sono passati quattro mesi – dallo scorso ottobre – da quando siamo venuti con il Consiglio d'Amministrazione dell'Agenzia Ebraica per una visita di solidarietà nella città di Sderot e nei kibbutzim della regione confinante con Gaza che, in quei giorni, erano costantamente sotto il tiro dei razzi Kassam. Presi dalla routine della nostra quotidianità, non sempre abbiamo avuto il tempo di ricordare che cosa loro stavano passando.
    Ma proprio un mese fa, il 15 gennaio, è successo qualcosa che rimarrà sempre impresso nella mia memoria. Una ragazza diciassettenne di Sderot, Ella Abukasis, stava tornando a casa dalla riunione del Bnei Akiva per incontrare il suo fratello più giovane, Tamir, e alcuni suoi amici quando ha sentito lo slogan "alba rossa" pronunciato dai sistemi di allarme pubblico. Ognuno a Sderot sa che cosa significa "alba rossa" – significa che è in arrivo un tiro di sbarramento di razzi kassam. Questo non ti dà troppo tempo per pensare, e invero, senza pensarci due volte, Ella si è gettata addosso al fratello, a mo' di scudo umano. Così facendo, ha perso la vita e ha salvato quella del fratello. Ella, sia benedetta la sua memoria, era consapevole del prezzo che avrebbe pagato – eppure non ha agito preoccupandosi della propria incolumità, ma pensando solo a mettere in salvo il fratello più piccolo.
    Noi, che viviamo nel Duemila, abbiamo visto di tutto. Oggi non ci sono troppe cose che ci impressionano. Per molti dei nostri contemporanei, e certo per le giovani generazioni, i vecchi ideali sionisti sembrano sorpassati. Sono pochi che oggi credono in questi vecchi miti di eroismo. Ebbene, con tutto il cinismo che si può avere, nessuno può negare che questa ragazza diciassettenne, Ella Abukasis, sia stata un'eroina. Sì, una di questa giovane generazione – guidata da tali ideali sorpassati.
    La scorsa settimana, un po' prima del "shloshim" di Ella, ossia della fine dei primi trenta giorni di lutto, qualcosa in me mi ha spinto a telefonare al padre di Ella, per dirgli che, sebbene non lo conosca e non abbia conosciuto sua figlia, mi sento vicino al suo cordoglio. Gli ho chiesto di parlarmi di Ella. Lui mi ha detto che per lei, all'età di soli 17 anni, la cosa più importante era di aiutare il prossimo. Era continuamente preoccupata per le persone indigenti e voleva dedicare la sua vita a loro. E, sopratttutto, aveva un profondo amore per lo Stato d'Israele e per il popolo ebraico.
    I valori di Ella erano gli stessi valori che noi tutti, in questa sala, condividiamo. Sono i valori che fanno entrare gli ebrei di tutto il mondo nella grande famiglia del Keren Hayesod al fine di raccogliere fondi per sostenere le attività dell'Agenzia Ebraica, mirate ad assicurare la forza dello Stato d'Israele ed il futuro del popolo ebraico. E' questo ciò che abbiamo tutti in comune, è questo che trascende le distanze, i fusi orari e le barriere linguistiche e culturali.
    E sono questi valori comuni e quell'unità, solidarietà e sostegno dal popolo ebraico in ogni parte del mondo, che hanno dato vita allo Stato Ebraico e hanno dato al popolo israeliano la forza di tenere duro in questi 56 anni contrassegnati da tanti conflitti. E sono questi valori e quell'unità, solidarietà e sostegno, che ci hanno portato lungo questa era di speranza. Ed è fondamentale far ricorso a tutti questi valori per ispirare le nostre più giovani generazioni e conservarle all'interno della nostra famiglia.
    Il Keren Hayesod ha mantenuto il suo posto centrale nel mondo ebraico per 85 anni, perchè siamo un'organizzazione dinamica, pronta ad offrire risposte alle mutevoli sfide dei tempi. Nel mondo odierno, che procede a passi rapidi, anche le sfide vanno a pari passo coi rapidi cambiamenti e noi dobbiamo essere sicuri di stare al passo.
    Quando Israele è in crisi, la crisi parla per sé e il mondo ebraico è chiamato a raccolta. Ma ora che l'orizzonte appare più chiaro, abbiamo bisogno del vostro sostegno come non mai, al fine di potenziare il Paese, sia per gli israeliani che ci vivono e sia come àncora di salvataggio per i nostri figli, sotto qualsiasi meridiano essi vivano. E' il tempo di cambiare marcia e di trasformarci da nazione in via di costruzione a popolo in via di costruzione. Oggi, la nostra più grande sfida è di trovare strade nuove e creative che sappiano infondere nuove energie alle più giovani generazioni con la stessa passione che ci infonde energia e motivazione, con lo stesso senso di decisione e di responsabilità che hanno motivato Ella Abukasis lungo la sua breve vita, così come nella sua impavida morte.
    Dobbiamo riprestinare qualcosa di questi vecchi e antiquati ideali per infonderli ai giovani del Duemila.
    Molti dei nostri rinomati leader del passato, come Albert Einstein, Ben Gurion, Chaim Weitzman, Yitzhak Rabin e altri, hanno fatto discorsi sul Keren Hayesod. Ma adesso non intendo citarne alcuno. Invece, desidero terminare con le parole che ha scritto una giovane ragazza, Nurit Roded, tornando da un'esperienza di viaggio in Israele:
    "Non mi sono mai resa conto di aver perso qualcosa fino a che ho fatto questo viaggio. Non sapevo di nascondere il mio zelo per Israele e il mio zelo per l'ebraismo … Camminare attraverso Israele è stata una sensazione meravigliosa…Mi ha fatto capire che per anni avevo soppresso una parte di me stessa che è molto più vitale – la mia ebraicità. Amo essere ebrea! Amo Israele!"
    Sono parole come queste che non lasciano nella mia mente alcun dubbio – se lo vorremo e se ci daremo da fare – non sarà solo più un sogno.
 
(Keren Hayesod, 3 marzo 2005)





3. LA POLITICA NON INFLUENZA MOLTO LA FINANZA DI ISRAELE




Ottimismo sulla Borsa di Israele,
più per i bassi tassi che per la pace

di Sarah Pozzoli

A Sharm El Sheik, in Egitto, l’8 febbraio scorso potrebbe esserci stata la tanto attesa svolta nei rapporti israelopalestinesi. Il premier israeliano Ariel Sharon e il presidente palestinese Abu Mazen si sono incontrati per un’ora, davanti a due padrini autorevoli come il premier egiziano Hosni Mubarak e il re Abdallah II di Giordania, e alla fine Sharon ha dichiarato: "Oggi abbiamo concordato che tutti i palestinesi cesseranno ogni atto di violenza contro tutti gli israeliani ovunque si trovino e parallelamente, Israele cesserà ogni sua attività militare contro i palestinesi ovunque". La speranza che il processo di pace questa volta vada avanti è forte. Ma la comunità finanziaria per ora sembra preferire non crederci troppo. "E’ un accordo positivo – dice Samuel Oubadia, senior investment manager per i mercati emergenti di Ing Investment management – ma non possiamo contarci, non si sa quanto potrà durare", ricordando che è il decimo cessate il fuoco da quando quattro anni fa è scoppiata l’intifada armata. Gli fa eco Paolo Monaco, gestore dei mercati emergenti di Nextra (gruppo Intesa): "Il processo di pace è importante per l’andamento del mercato ma non dominante." Insomma, ben venga la stabilità politica ma negli ultimi anni l’economia e la finanza di Israele si sono abituate a farne a meno. Anzi – nota Monaco – "alcune società si sono sviluppate proprio grazie al quadro politico instabile nei settori della difesa e della sicurezza".
    E in genere le principali compagnie israeliane dei due settori dominanti dell’economia (tecnologia e farmaceutico, che rappresentano i due terzi della capitalizzazione della Borsa di Tel Aviv con la compagnia farmaceutica Teva che conta per il 40% del totale) sono poco legati allo scenario domestico perché sono forti esportatori oppure hanno anche attività all’estero, soprattutto negli Stati Uniti (un esempio è Nice, una società tecnologica che produce apparecchiature digitali multimediali per le banche e il governo e che da diversi mesi sta avendo una performance molto positiva).
    E così nonostante il clima difficile sul fronte interno, l’anno scorso il Paese è uscito da un periodo di stagnazione e anche nel 2005 la ripresa dovrebbe continuare (stime attorno al +3,5%) anche se è previsto un rallentamento delle esportazioni. La Borsa di Tel Aviv ha seguito la scia e nel 2004 ha messo a segno un rialzo di circa il 20% in dollari e da inizio anno sta continuando la corsa in avanti.
    E per i prossimi mesi che cosa si prevede? "Sono abbastanza positivo – afferma Oubadia – perché lo scenario macroeconomico è in miglioramento e i tassi d’interesse sono abbastanza bassi". Visione moderatamente favorevole anche quella di Monaco che aggiunge. "La stabilità politica è un fattore positivo perché potrebbe attirare più investimenti e poi la nomina di Stanley Fisher (era capo economista del Fondo monetario internazionale, ndr) come presidente della Banca Centrale dà garanzie". E continua: "Sono costruttivo sui temi legati all’economia domestica che beneficeranno del quadro politico. Un esempio? Il bancario potrebbe continuare a fare bene. Per il resto non si può generalizzare". Secondo Oubadia, invece, meglio continuare a puntare su compagnie del settore tecnologico o del farmaceutico con attività all’estero. I rischi da non sottovalutare per chi decide di investire su questo mercato? "La politica è sempre un rischio – conclude il gestore di Ing nonostante la premessa – e poi c’è il pericolo che gli interessi americani salgano e indeboliscano lo shekel, la valuta locale. Situazione che porterebbe a un rialzo dei tassi anche da parte della banca centrale israeliana".

(Repubblica, 28 febbraio 2005)





4. DIRE LA VERITA' SU ISRAELE E' RISCHIOSO




Un episodio veramente accaduto nella sede
di un rinomato quotidiano tedesco


Un eloquente esempio di come la stampa internazionale può essere

influenzata quando riferisce episodi della realtà israeliana.

C'era una volta un redattore di un importante quotidiano della Germania meridionale. Questi aveva ricevuto sulla sua scrivania una foto su cui si vedevano alcuni soldati israeliani pesantemente armati. Di fronte a loro c'era un pugno di ragazzi e bambini con alcune pietre in mano. Era chiaro il messaggio che questa immagine, inviata da un'importante agenzia di stampa, voleva trasmettere. «I militari israeliani si volgono con smisurata durezza contro bambini e ragazzi palestinesi». «Le malvagie forze di occupazione sparano con cannoni sui passeri». Questo era il tono della didascalia che avrebbe accompagnato l'immagine, perché le immagini non mentono. Ma è veramente sempre così?
    Il redattore era un cristiano con ottimi contatti personali in Israele, anche nei ranghi militari più alti. La foto, a causa delle sue esperienze personali, suscitava in lui scetticismo. Si rivolse immediatamente ai suoi contatti in Israele per chiedere un'opinione. Dopo breve tempo, ricevette un'altra foto da Israele. C'era la stessa situazione, ripresa però da una visuale diversa. Su questa foto non si vedevano solo i soldati israeliani e i bambini palestinesi, ma anche decine di palestinesi adulti e armati pesantemente dietro i bambini.
    Sulla prima foto, questo «piccolo e insignificante dettaglio» era stato semplicemente taciuto. Il redattore, che non era disavveduto, agì immediatamente e mandò in stampa la seconda foto, non quella ufficiale dell'agenzia.
    Che redattore coraggioso; lui e il suo giornale avrebbero dovuto essere orgogliosi ed elogiati per questa presa di posizione corrispondente a un resoconto dei fatti conforme alla verità, indipendente ed equilibrato. Non meritavano forse il premio Pulitzer o almeno una spilletta in bronzo come «decorazione»?
    Ma come avviene spesso nella vita, tutto si svolse in modo assolutamente diverso. Dopo la pubblicazione della foto e del relativo testo, il redattore responsabile venne subito chiamato dal redattore capo, non per ricevere i complimenti bensì per sentirsi impartire una vera e propria ramanzina. «Cose del genere non devono avvenire mai più!» Perché? Il problema non era il redattore capo, a prescindere dalla sua piccola disabilità, cioè la mancanza di spina dorsale. Anche il redattore capo aveva ricevuto a sua volta un bel rimprovero. Un grande e importante produttore automobilistico della Germania meridionale si era fatto sentire: «Se cose del genere succedono ancora, sospenderemo per un anno le inserzioni sul vostro giornale». La minaccia aveva colpito nel segno, poiché se messa in atto avrebbe causato la perdita di milioni dei marchi tedeschi dell'epoca in entrate pubblicitarie, e come tutti sanno, a nessuno piace scherzare con i soldi. Tuttavia, spesso i soldi fanno cambiare opinione anche per quanto riguarda il rispetto e della verità e l'obbligo di attenersi a essa.
    Perché questo grande gruppo aveva reagito in modo così esagerato? La maggioranza delle azioni è detenuta dai sauditi ed erano loro a esercitare pressioni. Il redattore in questione, dopo poco tempo, diede le dimissioni e insieme a esse fu costretto a firmare una dichiarazione in cui si impegnava a non denunciare in pubblico l'accaduto. Per tale motivo non possiamo indicare i nomi delle persone e delle organizzazioni coinvolte (noti alla redazione di Chiamata di Mezzanotte). Vediamo che non è solo e sempre il giornalista o il redattore a essere responsabile delle manipolazioni nei giornali, ma ci sono altri «poteri» a giocare un ruolo importante e chi ha il coraggio di opporsi a tali pressioni? La morale della favola è: non credere troppo ai giornali! T.L.

(Chiamata di Mezzanotte, febbraio 2005)





5. UNA PAGINA GLORIOSA DELLA STORIA ALBANESE




"Nessun ebreo venne deportato dall'Albania"

Una ricerca condotta dalla Fondazione Istituto Gramsci e dall'Archivio di Stato albanese ha riportato alla luce l'unicità della situazione albanese negli anni dell'occupazione militare italiana, conclusa l'8 settembre 1943.

di Carlo Griseri

TIRANA – Nessun ebreo venne deportato dall'Albania nel corso della seconda Guerra Mondiale, né durante l'occupazione delle truppe italiane – dal 7 aprile 1939 all'8 settembre del 1943, ndr - né quando al potere andarono direttamente i nazisti tedeschi.
    Sono questi i primi risultati di un'importante ricerca, in corso da circa un anno, portata avanti dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla Direzione Generale degli Archivi Albanesi, sotto la guida dei rispetti direttori Giuseppe Vacca e Shaban Sinani. Una ricerca che verrà pubblicata, con il titolo " Repertorio delle fonti ebraiche contemporanee degli Archivi di Tirana". "Stiamo per pubblicare la Guida ai documenti, di cui è già stato concluso il testo in albanese e che attende solo la traduzione in italiano" dice lo stesso Sinani.
    "Gli archivi albanesi sono rimasti chiusi e inaccessibili per 60 anni, poi dopo la caduta del comunismo sono seguiti 10 anni tumultuosi" spiega Natale Parisi, assistente di Vacca e responsabile dell'area Balcani. Poi, in concomitanza con i preparativi della Giornata della Memoria dello scorso anno, vennero presentate le ricerche che sono ancora in corso e si concluderanno solo "quando le migliaia di fascicoli ora a nostra disposizione saranno visionate e catalogate, in modo da dare un quadro storico ancora più completo ".
    Lo spunto allo studio è stato dato dal libro di memorie di Jacomoni di San Savino, Luogotenente del Re Imperatore in Albania dal 1939 al 1943, pubblicate da Cappelli nel 1965 ma di cui non si era mai potuto verificare l'attendibilità. "Negli archivi c'è tutta la corrispondenza tra i vari uffici governativi – in particolare prefetture, questure, direzione generale di polizia, governo albanese, comandi militari italiani e luogotenenza generale – che conferma tutta l'operazione. Per esempio - racconta il professore dell'Istituto Gramsci -, in una lettera del Questore di Pristina alla Direzione Generale di Polizia si racconta di una famiglia ebrea con regolari passaporti albanesi rilasciati dal Consolato del Regno Unificato a Skopje, ma la stessa famiglia non risulta nell'anagrafe di nessuna città albanese! Dal Comando della Milizia Fascista, si protesta per il trattamento benevolo riservato agli ebrei, denunciando il caso di una ventina di capifamiglia assunti dal genio militare italiano a Kavaja nelle vicinanze di Tirana ".
    Nelle sue memorie, Jacomoni raccontava episodi importanti di azioni di salvataggio e di difesa nei confronti di ebrei nel Paese. "In quel periodo vennero convogliati in Albania tutti gli ebrei del Kosovo, del Montenegro, della Dalmazia, che venivano sostenuti economicamente, muniti di veri passaporti con false generalità " spiega Parisi.
    "Nel corso degli anni di Guerra – aggiunge Shaban Sinani – tutti gli ebrei che vivevano in territori sotto il controllo tedesco cercavano di raggiungere l'Albania per salvarsi. Le truppe militari italiane non hanno mai portato avanti azioni di violenza contro gli ebrei: 'Sorvegliamo ma non puniamo' era il loro motto ".
    "In quel periodo nessun ebreo fu deportato dall'Italia e dai suoi possedimenti militari, non solo in Albania" sostiene Michele Sarfatti, Direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) di Milano e autore del volume "La Shoah in Italia, La persecuzione degli ebrei sotto il fascismo" ( Giulio Einaudi editore, Torino 2005). " Per l'Albania non è quindi corretto parlare di salvataggio fino all'8 settembre 1943: non è stato un fatto speciale: in linea di massima, salvo alcuni sparuti eventi – la politica italiana non era per lo sterminio". La Shoah non sarebbe infatti stato un evento omogeneo in tutto il continente. "Ci sono stati Paesi in cui le condizioni sono state migliori o peggiori, e da questo deriva un continuo spostamento di ebrei verso le aree in cui si potevano sentire più protetti ".
    L'occupazione italiana in Albania durò fino all'8 settembre 1943, data dell'annuncio dell'armistizio con gli Alleati e della fine dell'alleanza militare con la Germania. "Dopo quella data, la situazione per gli ebrei non cambiò molto, grazie alla volontà della gente albanese. Mentre gli italiani avevano gli elenchi di tutti gli ebrei lì residenti, e di coloro che erano giunti negli anni, quando arrivarono i tedeschi e chiesero di avere quegli elenchi nessuno li fornì loro", dice il Direttore degli Archivi di Tirana. Nel Paese è conservata anche una parte degli archivi nazisti di quegli anni. "Da quei documenti è chiaro che i tedeschi avevano capito che non ci sarebbe stato nulla da fare: avevano bisogno di un Paese in cui poter riparare in tranquillità e dovettero sottostare a un compromesso con la popolazione locale. Un ambiente tranquillo, senza rivolte, ma in cambio nessun sopruso e nessuna deportazione di ebrei" continua Sinani. "Alla fine della seconda Guerra mondiale, in Albania gli ebrei residenti erano circa 3.000. Non un gran numero in termini assoluti, ma decisamente rilevante se si pensa che nel 1939 erano solo 200 ".
    In Albania si verificò una situazione unica in Europa: "C'è da capire perché accadde" prosegue Parisi. Dopo l'8 settembre i nazisti arrivano in Albania, trattano un compromesso con il governo che diventa loro collaboratore: "Da questo  - spiega lo storico - nasce la tesi di una certa parte di destra albanese, secondo la quale gli italiani furono gli invasori e i tedeschi, invece, i liberatori ".
    La storia è questa solo dall'8 settembre 1943. "I tedeschi rimasero circa 12 mesi nel Paese e in tutto quel periodo non ci fu una sola deportazione: da documenti tedeschi ritrovati, abbiamo potuto registrare che i nazisti avevano capito che la popolazione e il governo locale erano contrari e decisero di non intervenire in tal senso . Inoltre la pianura albanese da Valona fino ai confine del Montenegro era la più facile e sicura via di ritirata della armate naziste dalla Grecia". Anche per questo ai tedeschi interessava rimanere nel Paese.
    Perché un episodio storico così importante è rimasto nascosto così a lungo? "L'Albania è stata chiusa in sé stessa, per motivi politici, per molti decenni - spiega Sarfatti -. Era un episodio conosciuto, ma non molto. Alcuni libri sulla Shoah non nominano neanche l'Albania! Eppure si tratta di un evento storico molto rilevante: un Paese musulmano, e anche tra i più poveri, ha avuto in quegli anni uno dei comportamenti migliori, se così si può dire, e più coraggiosi nei confronti della persecuzione contro gli ebrei".
    La singolarità della vicenda sarebbe proprio questa, secondo Parisi, " che si tratti di eventi quasi sconosciuti agli storici, testimoniati solo dai racconti di alcuni sopravvissuti, ma mai verificata, sia per l'inaccessibilità delle fonti, sia per lo scarso interesse provocato dalle vicende albanesi; essendo un Paese piccolo, lo si è sempre ritenuto marginale".
    Il carattere della società albanese nel corso degli anni del comunismo fu determinante per mettere sotto silenzio tali avvenimenti. "Era un motivo di orgoglio per tutti – conclude Sinani – ma era purtroppo anche un argomento tabù, che non poteva essere affrontato. Oggi finalmente possiamo portare alla luce una gloriosa pagina di storia dell'Albania ".

(News ITALIA PRESS, 3 marzo 2005)





6. DI RITORNO DA BETLEMME




Tra i palestinesi che sono stanchi di terrorismo, kamikaze e miseria
    

di Gianni Vernetti
    
Sono stato diverse volte in Israele e ogni volta che vi torno ritrovo una società aperta, plurale, dinamica, civile, democratica, in continua evoluzione e sempre in grado di stupire. Stupiscono i dati economici. Israele è l’unico paese in guerra al mondo che è riuscito nonostante l’estenuante conflitto contro il terrorismo ad aumentare costantemente il proprio Pil, a confermare tassi di crescita nell’ordine del 2,8% l’anno, a realizzare in pochi anni decine di parchi scientifici e tecnologici, incubator con migliaia di piccole e dinamiche start-up, detenere il record dei brevetti nel campo delle nuove tecnologie informatiche, nella telecomunicazione, nella biochimica, nella fisica dei materiali. Stupisce la politica. Israele è un paese con un sistema elettorale di tipo proporzionale che ha prodotto un clima politico a noi familiare: litigiosi governi di coalizione spesso ostaggio di piccoli partiti estremisti, governi di unità nazionale per meglio rispondere alla minaccia terroristica, continue crisi di governo, scissioni nei partiti. Israele è fuori di ogni dubbio una democrazia compiuta e matura, uno stato di diritto nel quale vige la più rigorosa separazione fra i poteri e che è riuscita, nonostante le guerre e il terrorismo, a non arretrare di un passo nella difesa delle libertà civili e nella tutela dei diritti fondamentali. E proprio il rispetto della rule of law ha fatto sì che pochi mesi fa la Corte Suprema abbia imposto al governo un ridisegno del tracciato della Barriera Difensiva per tutelare meglio i diritti dei palestinesi. La decisione verrà rispettata e il ministero della Difesa ne ridefinirà il percorso.
    E talvolta stupiscono anche i palestinesi. Prima di tornare in Italia ho deciso di fare una puntata a Betlemme per rivedere la Chiesa della Natività, dopo la brutale occupazione delle milizie armate palestinesi dello scorso anno. Betlemme, che un tempo non era altro che un paese dell’hinterland di Gerusalemme raggiungibile con un bus di linea è oggi in un altro pianeta: prima un taxi israeliano fino al check point che divide l’area controllata dall’Anp, poi 400 metri a piedi di no-man land, e infine un taxi palestinese per giungere nel centro del paese. La Chiesa della Natività è stata «restaurata» dopo l’arbitraria occupazione di circa un anno fa ed è nuovamente accessibile al pubblico. Mi ricordo la lunga coda per poter sostare qualche secondo nella Grotta della Natività, sostituita oggi dalla quasi totale assenza di pellegrini e di turisti. Il taxista comprende il mio stupore nel vedere quei luoghi deserti, allarga le braccia e mi confessa di non poterne più del terrorismo, dei kamikaze, dei negoziati che non si concludono mai. Mi ricorda che a Betlemme dall’inizio dell’Intifada hanno chiuso l’80% dei negozi, il 90% dei ristoranti, la gran parte delle botteghe artigiane.
    Ha votato Abu Mazen con un un’unica idea in testa: non certo la vendetta, non certo cacciare in mare gli ebrei, ma bensì la voglia di un accordo di pace duraturo per poter iniziare una vita normale. Abu Mazen ascolti i suoi elettori: ci faccia dimenticare in fretta Arafat, reprima duramente i gruppi terroristici palestinesi, avvii una riforma radicale e profonda in senso democraticodell’Anp e concluda un accordo di pace con il nuovo governo di Sharon e di Peres. Troverà molti nemici su questa strada: la Siria che ospita e finanzia da sempre tutte le organizzazioni terroristiche che operano a Gaza e in Cisgiordania, i cui servizi segreti sono i principali indiziati dell’omicidio dell’ex primo ministro libanese Hariri; l’Iran che finanza e organizza il terrorismo degli Hezbollah nel sud del Libano e in Palestina e progetta lo sviluppo di armamenti nucleari.
    Ma troverà anche molti amici nel mondo arabo: la giovane democrazia in Iraq nata grazie al coraggio dagli 8 milioni di iracheni che hanno votato lo scorso 30 gennaio; la folla araba, cristiana e drusa di Beirut che ha pacificamente cacciato il governo filosiriano e che vuole con forza la democrazia; gli uomini e donne, del Qatar,del Bahrein e del Kuwait che hanno votato alle prime elezioni municipali della loro storia; il fermento democratico che sta attraversando l’intero mondo arabo.

(Il Riformista, 4 marzo 2005)





7. MUSICA E IMMAGINI




Elihavi




8. INDIRIZZI INTERNET




Israel and Zionism

Chosen People Ministries




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