<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 286 - 11 marzo 2005

1. Avremo presto «Via Yasser Arafat»?
2. Tumori, alleanza Italia-Israele
3. Un ponte di pace tra due popoli in guerra
4. La comunità ebraica in Puglia
5. Di ritorno da Gerusalemme
6. Da duemila anni i rabbini duellano su Israele
7. Il Sinedrio d'Israele prende posizione
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Michea 4:1-2. Ma negli ultimi tempi, il monte della casa del Signore sarà posto in cima ai monti e si eleverà al di sopra delle colline e i popoli affluiranno ad esso. Verranno molte nazioni e diranno: «Venite, saliamo al monte del Signore, alla casa del Dio di Giacobbe; egli c’insegnerà le sue vie e noi cammineremo nei suoi sentieri!» Poiché da Sion uscirà la legge, da Gerusalemme la parola del Signore.
1. AVREMO PRESTO «VIA YASSER ARAFAT»?




Toponomastica terrorista

di Giacomo Nardone

Se l’Italia, e conseguentemente l’Europa, non manterranno un elevato livello d’attenzione contro il terrorismo internazionale, creando spazi in cui ancora si rendono possibili esplosioni di ordigni terroristici come a Roma e Milano, potremo presto trovarci a regredire in un disordine che costringerà il paese ad una stasi politica, fautrice solo di involuzione della democrazia.
    L’attenzione prima risiede anche nei gesti che, chi ci amministra, compie, a volte in modo inaccorto, come potrebbe avvenire proprio a Roma dove qualcuno ha proposto di intitolare una via a Yasser Arafat. Come potremo spiegare ai nostri ragazzi che, indipendentemente dai suoi torti o ragioni, una strada venga intitolata ad un uomo che scelse la via del terrorismo, contro civili e anche infanticida, per far valere le sue ragioni? Come potremo spiegare la necessità di una legislazione più rigida verso chi usa farsi esplodere tra disoccupati in fila, come in Iraq, o in una discoteca, come in Israele, se riteniamo contemporaneamente giusto immortalarne la memoria in un’insegna stradale?
    Specie se queste morti avvengono in paesi democratici, come il nostro e forse con maggiore diritto ad esserlo del nostro. La vigilanza, affinché non avvenga nulla di simile, è più rilevante in questo periodo, anche in considerazione degli sforzi che si stanno compiendo per portare la pace e la sicurezza in Israele, sforzandosi di chiudere proprio quell’epoca del terrore aperta e sostenuta da Arafat, alla cui morte sono venuti alla luce gravissimi e mai chiariti interessi economici miliardari personali, mentre il suo popolo pativa condizioni di grande miseria. Subito dopo la strage di Tel Aviv nella discoteca, si è tenuta la Conferenza di Londra, per il sostegno alla Palestina. Abu Abbas, presidente eletto della Palestina e tristemente omonimo del terrorista che guidò il sequestro della nave Achille Lauro, si è potuto così confrontare con i ministri degli esteri Ue, con il Segretario di Stato americano, con il Segretario generale dell’Onu, con i rappresentanti dei paesi arabi moderati e con i vertici della Banca Mondiale.
    La riunione è stata voluta e presieduta da Tony Blair e ha avuto il risultato di chiarire che qualunque aiuto sarà pattuito con la Palestina è da condizionare al rispetto della Road Map e al mantenimento della tregua concordata a Sharm el Sheikh. Ma se non verranno compiuti atti concreti, come l’individuazione e immediato arresto dei responsabili dell’ultimo attentato in Israele, se non verrà combattuto dalla Palestina apertamente chiunque ancora immagini l’uso del terrore contro Israele, allora sarà ancora una volta tutto inutile. E non si può dare torto al ministro degli esteri Shalom quando afferma che l’Anp continua ad esitare nella lotta e condanna al terrorismo, che il ministro Gianfranco Fini ha dichiarato essere stata aggiunta alla dichiarazione conclusiva della conferenza grazie alle pressioni italiane. Italia che ha anche l’ardire di meravigliarsi se pentiti Br, lucidi assassini, vengono condannati alla pena massima prevista, e che rischia di vedere una propria toponomastica terrorista: Corso Arafat, Piazza Baader, Largo Morucci. Qualcuno spieghi la differenza tra questi nomi.

(Il Denaro, 4 marzo 2005)





2. TUMORI, ALLEANZA ITALIA-ISRAELE




ROMA - I risultati di studi su trattamenti dei tumori del pancreas, del retto, della prostata e delle metastasi ossee, la radioterapia, i programmi innovativi come il Rome Oncogenomic Center (ROC) e il ‘collaudo dei farmaci’, grazie a test in vitro. Sono i temi principali del ‘Joint Scientific Meeting’ all’Istituto Regina Elena di Roma. L’appuntamento è nato da un obiettivo: lavorare insieme al Rambam Medical Center di Israele per combattete il tumore. I due Centri infatti da qualche mese portano avanti una joint-venture, punto di partenza per una serie di promettenti collaborazioni cliniche.
    “Quella contro il cancro è una lotta globale”, commenta Francesco Cognetti, Direttore Scientifico dell’Istituto romano, “e per vincerla è necessario unire le forze, scambiando esperienze e confrontandosi sulle migliori tecniche diagnostiche e terapeutiche. La joint-venture tra il Regina Elena e il Rambam Medical Center di Israele costituisce un ulteriore passo in questa direzione, un’iniziativa per questo fortemente voluta dalle autorità regionali e dal Ministero degli Esteri”.
    I promettenti risultati ottenuti da questa cooperazione confermano la bontà della scelta: durante il primo seminario di aggiornamento, tenutosi in Israele nel maggio 2004, si è cercato di delineare i temi su cui incentrare i possibili sviluppi di progetti di cooperazione. Si tratta di aree di ricerca clinica dove il Regina Elena svolge un’attività di eccellenza e dove diventa possibile operare un confronto pragmatico con i responsabili delle divisioni e dei servizi attivi presso il Rambam Medical Center di Haifa.
    L’appuntamento di quest’anno è servito per verificare i risultati delle ricerche da loro condotte in questi settori: trattamento combinato dei tumori localmente avanzati del retto (studio di fase II), trattamento dei tumori metastatici del rene, trattamento multidisciplinare dei tumori pancreatici, e per discutere delle terapie per le metastasi ossee (farmaci di nuova generazione e radioterapia) e contro le neoplasie della prostata. Antonio Caperna

(Yahoo! Salute, 4 marzo 2005)





3. UN PONTE DI PACE TRA DUE POPOLI IN GUERRA




La salute unisce

di Roberta Pizzolante

    
Un ponte di pace unisce due popoli in guerra. Un ponte costruito su un bisogno comune: la salute. A gettarne le fondamenta sono stati dei medici israeliani, palestinesi e giordani che dal 1995 lavorano insieme a progetti sanitari comuni con un doppio obiettivo: portare le cure necessarie a chi ne ha bisogno e creare una collaborazione al di là dei confini. Risultati raggiunti con successo, come raccontano Harvey Skinner e i colleghi dell'Università di Toronto (Canada) in un articolo apparso su The Lancet: "la nostra esperienza dimostra che anche i professionisti della sanità possono contribuire al processo di pace".
    Tutto inizia all'indomani del conflitto giordano-israeliano del 1994 su richiesta di Re Hussein di Giordania. Serviva un'iniziativa, basata su esigenze sanitarie comuni, per consolidare la pace appena siglata. L'idea convinse anche lo Stato di Israele e l'Autorità Palestinese. Nasceva così il programma del Canada International Scientific Exchange Program (Cisepo), un'organizzazione non governativa con base al Mount-Sinai Hospital e all'Università di Toronto, che nell'arco di dieci anni ha coinvolto 21 ospedali (12 in Israele, 8 in Giordania e uno in Cisgiordania), 9 università, tra le quali 5 israeliane, due palestinesi e due giordane e il Royal Medical Service di Giordania, oltre che molti centri per la salute dell'infanzia e numerose organizzazioni non governative.
    Il bisogno medico comune è stato individuato inizialmente nella sordità congenita, problema rilevante per il territorio. La collaborazione promossa da Cisepo ha portato alla nascita nel 1998 della prima associazione professionale di arabi e israeliani, l'Associazione per la sordità infantile del Medio Oriente (Meha), e allo screening di 17 mila neonati dei tre paesi nel 2001. L'anno seguente il gruppo di lavoro arabo-israeliano ha pubblicato importanti studi sulla genetica della sordità congenita sulla rivista "Human Genetics", ha organizzato congressi e seminari e nel 2003, anno di conclusione del programma, ha avviato 300 bambini alla riabilitazione, all'apparecchio acustico o all'impianto cocleare a seconda del deficit uditivo.
    "Il nostro lavoro è iniziato prima a piccoli passi, con workshop e corsi di formazione ed è proseguito con progetti sempre più importanti", spiega Skinner. "A quello della sordità si sono aggiunti progetti di prevenzione per la salute materno-infantile e dei giovani, programmi sulla nutrizione e sulle malattie infettive. Tutte collaborazioni che sono proseguite nonostante le tensioni dovute alla seconda Intifada palestinese del 2000". Prossimo obiettivo: lo screening di 130 mila bambini che vivono in comunità prive di servizi sanitari e la creazione di centri di assistenza per i piccoli e le loro famiglie.
    Il segreto di questo successo? La costruzione di relazioni fra i medici, la voglia di crescere a livello professionale e accademico, l'attenzione verso temi sanitari di interesse comune e la presenza di un intermediario che coordini le varie attività. "Il nostro lavoro si basa su un modello a due livelli, che integra obiettivi specifici ad altri di più largo raggio", continua Skinner, "I medici sono attratti, infatti, dalla possibilità di migliorare la propria professionalità e i servizi da offrire e così si viene a creare un network che costituisce un ponte verso la pace". E che può trovare vigore anche grazie ad accordi come la recente Dichiarazione di Cooperazione Internazionale negli Affari Scientifici ed Accademici firmato il 4 maggio 2004 all'Università "La Sapienza" dai rettori di cinque istituzioni accademiche israeliani e da quattro palestinesi.
    L'esperienza, insomma, sarebbe la dimostrazione che una collaborazione è possibile nonostante le difficili circostanze, anche in mancanza di decisioni politiche che sanciscano la fine di ogni conflitto. Questo è sufficiente a promuovere la costruzione di una pace duratura? E' convinto di no Samer Jabbour, dell'American University of Beirut, come spiega provocatoriamente in un commento su The Lancet: "La pace è qualcosa di più di un limitato numero di relazioni tra medici. Perché i palestinesi dovrebbero gettare le basi per una collaborazione prima che lo Stato di Israele abbia reso giustizia al loro popolo?". E' necessaria, quindi, in ogni caso una decisione politica. Al di là di ogni polemica, però, l'esperienza positiva di questo dialogo tra arabi e israeliani è una realtà.

(Galileo, 3 marzo 2005)





4. LA COMUNITA' EBRAICA IN PUGLIA




Trani ebraica
così piccola, così importante

di Daniel Della Seta

Rinasce l'anima ebraica più autentica, ritornano le tradizioni, riemergono luoghi e oggetti, vengono restituiti ai naturali proprietari le sinagoghe, l'emozione, capirete, è reale, sia da parte degli eredi di quella comunità antica che dopo 463 anni torna a splendere, sia per qualunque spirito che abbia a cuore tradizione, cultura, filosofia ebraica. E tornare in questa grande splendida cittadella di 60mila abitanti, a pochi anni di distanza ha un sapore particolare. Da semplice turista a parte integrante del tessuto visibile cittadino, incamminandosi tra le mura e il castello svevo, tra la cattedrale sul mare i vicoli dove penetrano a fatica i raggi di luce, mentre sul porto l'odore di pesce rammenta le origini del borgo e tutt'intorno il luccichio delle acque riflette un sole caldo che dona energia, e illumina il cuore. E' un cammino verso la storia, a ritroso nel tempo.
    E che sorpresa nel chiedere una semplice indicazione: ci imbattiamo per caso, nell'unico ebreo tranese che passeggiando nel pomeriggio assolato, sembra un personaggio teatrale a metà tra realtà e finzione. Sembrava quasi ci aspettasse, ma non è così. A volte la vita riserva dei momenti di forte intensità. La stella di David che pende dal collo fuga qualunque dubbio. E' Abramo Zecchillo, una vita spesa tra Italia ed Israele, cinquantenne anima errante e sta attendendo una delegazione di lubavitch da Roma. Allora è vero. Riemerge la comunità ebraica in Puglia. Viene ricostituita la Comunità ebraica pugliese.
    Fra gli artefici Shalom Bahbout, membro dell'Ufficio rabbinico della Comunità ebraica di Roma, ha promosso questo ritorno alle origini ed ha contribuito concretamente a riaprire un primo registro su cui riportare i nomi di quanti facciano esplicita richiesta d'iscriversi, perché ebrei praticanti o già iscritti presso altre comunità israelitiche italiane o estere. "La costituzione della comunità pugliese non ha finalità di proselitismo - ha sottolineato Bahbout - ma intende soltanto riprendere con speranza quell'itinerario interrotto bruscamente nel 1541, allorché l'editto di espulsione dal Regno di Napoli, emanato dal re spagnolo Ferdinando, colpì gli ebrei del Sud d'Italia".
    Trani è il faro dell'ebraismo in tutta la Puglia, ma anche nel mondo; il più antico codice ebraico è nato a Trani da Isaia il Giovane e sono due i grandi maestri dell'ebraismo mondiale che vi hanno vissuto: Isaia da Trani nel tredicesimo secolo e Mosè da Trani nel sedicesimo secolo. Nella storia più recente in Puglia, che mostra nel 1940 un episodio a Sannicandro Garganico di conversione collettiva che ha portato numerosi pugliesi in Israele, la piccola comunità ebraica di Trani è oggi un riferimento per tutto il Sud Italia.
    Tra le personalità più appassionate e entusiaste del progetto è certo Francesco Lotoro. Il direttore d'orchestra e responsabile del locale Istituto di musica giudaica, ha voluto fortemente l'assemblea, che ha sottolineato il profondo significato della costituzione della comunità, che richiamerà a Trani gli ebrei che risiedono in Puglia, da Sannicandro Garganico (dove ne sono presenti circa cinquanta) a Bari (che conta sette famiglie), dalla stessa Trani, Cisternino, dove vivono tre famiglie, a quelle sparse tra Brindisi, Copertino e Otranto, e che torneranno a praticare la propria religione in una città che ha rappresentato, dal IX al XVI secolo, l'autentica culla dell'ebraismo europeo. A Trani, infatti, avevano sede ben quattro sinagoghe, e vi operarono importanti biblisti e talmudisti, come i citati Isaia ben Malì e suo nipote Isaia il Giovane.
    "Il giorno che mi sposai a Roma il rabbino mi disse di impegnarmi per riportare in vita le ossa secche, quelle degli ebrei di Trani e quelle dei musicisti dei campi di concentramento della cui arte la Shoah ha privato il mondo - racconta Lotoro - Far rinascere questa comunità è anche un simbolico omaggio a chi come me, esercita una professione e rammenta nella sua produzione la Shoah, intesa come dovere di ogni uomo. Personalmente non credo molto nel dialogo con il mondo cattolico e musulmano, ma so che l'Universo è immerso in suoni musicali ordinati secondo un sistema armonico. Chi ascolta la musica meravigliosa dei grandi artisti che abbiamo perso nella catastrofe - conclude - ascolta un testamento di dialogo fra i popoli attraverso la musica".
    Siamo quindi pronti ad inaugurare la Scolanova di Trani, la nuova Sinagoga riconsegnata dal Sindaco Giuseppe Tarantini e dal sovrintendente ai monumenti ai legittimi proprietari, dopo ch'era stata trasformata in chiesa nel XIII secolo: si tratta della chiesetta dedicata alla Madonna e nota come Nova, che si trova in via La Giudecca, fra il porto e la cattedrale, chiusa al culto da diversi anni. L'edificio, restaurato presentava un'immagine di Maria dipinta sul muro orientale, là dove gli antichi ebrei collocavano l'armadio sacro contenente la Toràh, in attesa di essere rimossa e trasferita presso il Museo diocesano. Con "Lunga vita alla vita!", titolo di un'operetta scritta in campo di concentramento a Terezin dal musicista Karel Svenk, è stato compiuto il primo passo di un percorso ambizioso e pieno di orgoglio per un ritorno alle origini e alla tradizione di rinascita dell'ebraismo pugliese sostenuto dall'Unione delle Comunità ebraiche italiane. Amos Luzzatto, sarà il 27 Dicembre a Trani ad ufficializzare l'avvenuta rinascita, mentre l'onorevole Gabriella Carlucci, si è attivata come deputata del collegio, permettendo alla cittadina entro il 2005 di poter beneficiare dei finanziamenti per i beni ebraici, al pari di Napoli e Casale. E la suggestione mista a commozione nel riascoltare Shachrit, Musaf, Minchà, Neillà, e Arvith, rappresenta l'apice dell'emozione.

(TraniWeb, Giovedì, 10 marzo 2005)





5. DI RITORNO DA GERUSALEMME




In Israele si scopre che il Muro è di sinistra
e che i sognatori sono quelli con la pistola

di Giorgio Tonini

"Parliamo il linguaggio della verità: quello da Gaza non è un disimpegno, ma un'espulsione. Novemila persone, molte delle quali vivono in quel territorio da tre generazioni, saranno mandate via perché ebrei. Quello di Sharon è un vero e proprio tradimento. Aveva vinto le elezioni contro i laburisti che chiedevano il disimpegno, ora accetta di fare di Gaza una terra Judenrein, ripulita dagli ebrei, come avrebbe detto Hitler. 26 deputati del Likud hanno chiesto un referendum sul ritiro da Gaza perché non si vuole sentire il popolo?" Chi parla così, alla sessantina di parlamentari, politici, giornalisti, esponenti della comunità  ebraica italiana, volati in Israele per la terza edizione di Appuntamento a Gerusalemme, iniziativa di amicizia e di solidarietà con Israele, è Sergio Tezza, un italo-israeliano, colono a Hebron.
Porta la kippà, i boccoli e la barba degli ebrei ortodossi, su un paio di pantaloni di velluto marroni e un'improbabile Lacoste verde pisello. Alla cintura porta la pistola. Non ha l'aspetto del violento, né del fanatico. Dice cose terribili con passione, ma senza odio. Lo sguardo è sorridente. La scena si svolge in una sala da pranzo dell'hotel David Cittadel di Gerusalemme. La sera è quella del 26 febbraio scorso. Ventiquattro ore prima, a meno di un'ora di autostrada, sul lungomare di Tel Aviv, un giovane palestinese si era fatto saltare in aria. Trascinando con sé, in un assurdo destino di morte, cinque giovani che facevano la fila all'esterno di una discoteca.
    A Sergio Tezza risponde un altro italo-israeliano, Etan Loewmeier, psichiatra, esponente della sinistra pacifista: «La posizione di Sergio - dice - è delirante. Per fortuna, come lui la pensa solo una frangia messianica del tutto minoritaria, che non riesce ad accettare l'idea che il popolo ebraico abbia subito la Shoà nel silenzio di Dio. Per costoro, l'olocausto può avere un senso solo come doglia del parto messianico. In questa visione, cedere un passo di terra conquistata da Israele equivale a cedere un pezzo del Messia. La maggioranza degli israeliani non la pensa così. La maggioranza degli israeliani vuole la pace, a una sola condizione: la sicurezza. E la pace e la sicurezza si possono ottenere solo separando gli israeliani dai palestinesi». La barriera difensiva, il cosiddetto "muro", (che in realtà è un muro solo per il 10 per cento del tracciato, per il resto è un sofisticato reticolato elettronico) è espressione di tutto questo: «La barriera - dice Sergio Minerbi, autorevole esponente "anziano" della comunità italo-israeliana, favorisce la sicurezza attraverso la separazione fisica. E stabilendo un confine, mette una pietra sopra il sogno messianico del Grande Israele, riconoscendo il diritto dei palestinesi a un loro territorio».
    In altre parole la barriera non solo ha ridotto del 90 per cento gli attentati, ma punta a laicizzare il conflitto israelo-palestinese trasformandolo (almeno per parte israeliana) da contrasto totale, insolubile perché religioso, in una contesa territoriale, sulla quale è possibile trovare quel "compromesso" che Amos Oz considera l'unica strada per la pace. «Non a caso - osserva ancora Minerbi - la barriera è un'idea laburista, all'inizio sdegnosamente respinta da Sharon».
    Pochi in Italia lo sanno, ma questa è la realtà, in Israele: il "muro" non è una invenzione perversa del perfido Sharon, ma una proposta "di sinistra", una via per la pace, a lungo avversata dalla destra, in nome del sogno del Grande Israele. Già, perché in Israele i sognatori sono quelli con la pistola e i realisti quelli che vogliono la pace. Di solito, i sognatori vincono le elezioni, ma poi diventano realisti e cercano una intesa con gli sconfitti. Come Rabin a suo tempo, Sharon ha avuto il merito di spezzare il sogno e di richiamare

prosegue ->
Israele alla realtà. Ancora una volta, il Likud si è spaccato e il governo ha dovuto cercare l'appoggio dei laburisti. E' l'ennesima vittoria politica di Shimon Peres, l'eterno sconfitto alle elezioni. Anche questo lo sanno in pochi, in Italia: l'opposizione in Israele, un'opposizione dura, che si tema possa diventare violenta, è un'opposizione "di destra" e ha nel no al disimpegno da Gaza l'obiettivo immediato e nel no allo Stato palestinese quello strategico.
    Alla Knesset incontriamo le due anime del Likud. Ci sono quelli che la pensano come Sergio Tezza e che vivono il disimpegno da Gaza come un incomprensibile voltafaccia di Sharon. Tra di loro c'è anche il presidente della Knesset, che si congeda da noi con un sorriso malizioso: «Devo tornare in aula, oggi abbiamo tre mozioni di sfiducia contro il governo». L'opposizione interna al Likud è così forte che la legge sul disimpegno da Gaza è passata con 59 voti contro 40, su 120 membri dell'Assemblea: in pratica grazie agli assenti. Ma l'asse Sharon-Peres è solido e la posizione della maggioranza è preoccupata ma ferma.
    Michael Eitan è il presidente della commissione Giustizia dalla Knesset. Ha avuto l'incarico dalla maggioranza di mettere a punto un pacchetto di provvedimenti di emergenza che, nel rispetto dei principi costituzionali, consentano al governo di fronteggiare efficacemente possibili incidenti di piazza a Gaza, provocati da una prevedibile resistenza dei coloni che potrebbe attirare sostenitori da tutto il paese, o addirittura attacchi terroristici, da parte di estremisti israeliani (si teme per lo stesso Sharon). Perfino l'esercito è attraversato da tensioni e non si escludono clamorose obiezioni di coscienza. Chiedo a Eitan perché stanno affrontando una così grande tribolazione. Mi risponde: «Perché vogliamo la pace. E dopo tante delusioni, da Oslo in poi, abbiamo deciso di dimostrare alla comunità internazionale che siamo pronti a fare la nostra parte, a ritirarci in sicurezza dai territori. La nostra è anche una sfida ai palestinesi: fate vedere al mondo di saper governare, in modo pacifico e democratico. Noi, la grande maggioranza degli israeliani, abbiamo da tempo smesso di sognare il Grande Israele. Chiediamo ai palestinesi di fare altrettanto, col loro sogno, il sogno di distruggerci, di liberare la Palestina dagli ebrei. Sappiamo che sia noi che loro avremo ancora a lungo minoranze fanatiche. Ma noi vogliamo mostrare al mondo che il mainstream israeliano crede nella pace, nel dialogo, nel compromesso. Noi chiediamo ai palestinesi di fare altrettanto, di fare emergere il loro mainstream laico, pacifico, democratico. L'elezione di Abu Mazen è un buon inizio. Ma la strada è ancora lunga».
    Ascoltando Eitan penso che è difficile non essere d'accordo con l'estremismo ebraico su un punto: Shimon Peres ha fatto un altro miracolo. Ha portato Sharon e una parte del Likud sulla via della pace. Incontriamo l'ottuagenario premio Nobel per la pace a Tel Aviv. E' preoccupato del presente, ma fiducioso nel futuro. Il presente parla la lingua del terrorismo suicida, l'arma «totale», con la quale gli islamici «pensano di difendere la tradizione contro la modernità», in realtà suicidano il loro mondo, i loro popoli. Non si rendono conto infatti che il «tradizionalismo sta uccidendo il mondo arabo e che, in particolare, la parità tra uomo e donna è decisiva per lo stesso sviluppo: basti pensare alla questione demografica». Proprio per queste ragioni, sostiene Peres, il tradizionalismo islamico non può vincere: i musulmani sono stanchi della povertà e la nuova generazione pensa di non poter andare avanti in questo modo. Dall'Egitto alla Malesia, dalla Libia al Libano, le cose stanno cambiando. E la ritrovata unità tra Usa e Ue sta mettendo alle corde paesi pericolosi come la Siria e l'Iran.
    E tuttavia, «solo il mondo arabo-musulmano può aiutare se stesso. Le donne e i giovani, in particolare, hanno in mano le chiavi del futuro di questo mondo. Israele, dal canto suo, non deve mai dimenticare di avere alle spalle una grande storia, non una grande geografia. La maggioranza degli israeliani lo sa e la politica ha il dovere di fare le cose giuste per il paese, non di cavalcare le emozioni. I sondaggi sono come un profumo: si possono annusare, ma non si devono bere.
    Dall'Europa, dice ancora Peres, ci aspettiamo molto. Negli ultimi anni l'Europa ha comprensibilmente guardato soprattutto a Est, dove ha gestito in modo brillante la difficile desovietizzazione. Ora deve volgere lo sguardo verso Sud: con l'ingresso di Malta e Cipro ha messo i piedi nell'acqua del Mediterraneo. Ora deve nuotare verso di noi».
    Gli chiediamo cosa possa fare la sinistra, l'Internazionale socialista: «Ha fatto molto per la pace: è stato grazie a Kreisky e Palme che fu avviato il dialogo tra noi e l'Olp. La pace è ancora da venire e il socialismo non può ancora andare in vacanza».

(Il Riformista, 4 marzo 2005)


COMMENTO - «Come Rabin a suo tempo, Sharon ha avuto il merito di spezzare il sogno e di richiamare Israele alla realtà», dice l'articolista. Qual era la realtà a cui Rabin ha riportato Israele? Quella degli anni che hanno seguito gli accordi di Oslo? Era questa la realtà a cui il realista Rabin voleva riportare gli israeliani? E' stato un merito il suo? Gli intellettuali laici si autoconvincono sempre di guardare i fatti con sobri occhi realisti, e considerano con benevola sufficienza le irrealiste fantasie dei sognatori. Quando poi la realtà gli rovina addosso, non per questo si ravvedono. Dopo un attimo di smarrimento riprendono ben presto a tessere la loro tela di acute e "realistiche" argomentazioni e previsioni, che domani saranno i primi a spiegare perché erano sbagliate. Dal 1967 in poi le "realistiche" proposte di pace sono sempre state ottenute con progressivi arretramenti di Israele. Soltanto arretrando Israele ha trovato consenso, e quindi se vorrà continuare ad avere consenso dovrà continuare ad arretrare. Begin è stato approvato perché è arretrato. Rabin è stato approvato perché è arretrato. E adesso è la volta di Sharon, che da cattivo è diventato buono solo perché finalmente anche lui si è deciso ad arretrare. Sa dire qualcuno dove è posto il limite ultimo oltre il quale Israele non dovrà più arretrare?
    Detto in altro modo, con gli accordi internazionali i nemici di Israele sono riusciti a mettere un cappio intorno al collo dell'odiata entità sionista e ogni tanto provano a dare uno strattone. Gli opinionisti internazionali, solidali con gli oppressi, osservano, sospirano, comprendono. Israele invece si oppone con tutte le sue forze, anche facendo uso di violenza. Gli opinionisti internazionali, amanti della pace, severamente riprovano. La corda viene tirata con sempre più forza, la violenza aumenta, ma il cappio non si chiude. A questo punto intervengono i moderati tra i nemici di Israele. «Basta tirare con forza, basta con la violenza, così non si ottiene niente, ci vuole una tregua», dicono. E naturalmente gli opinionisti internazionali, amanti della pace, approvano. Più a bassa voce i moderati spiegano ai loro colleghi: «Tirare non serve, adesso è il momento di riaggiustare con calma il cappio intorno al collo del nemico, che però non bisogna chiamare nemico ma controparte. Con il dialogo, le buone maniere e l'approvazione internazionale riusciremo a convincerlo che se vuole la pace deve dare prova di buona volontà accettando di farsi stringere un po' di più il cappio intorno al collo, ma con la solenne promessa da parte nostra che non tireremo mai la corda». Gli opinionisti internazionali, pienamente soddisfatti, approvano. E il processo di pace va avanti. Fino al prossimo strattone. M.C.

(Ved. anche "La Road Map della prostituta", Notizie su Israele 193)






6. DA DUEMILA ANNI I RABBINI DUELLANO SU ISRAELE




Ovadia Yossef e “il diavolo”
    


Il leader spirituale dello Shas annuncia la morte del premier. Smentite, polemiche. Liti sulla sacralità di “Terra” e “Territori”
    

MILANO - Ovadia Yossef, il più influente rabbino sefardita d’Israele, avrebbe annunciato la morte del “diavolo” Ariel Sharon e del suo piano di disimpegno. Sono seguite la richiesta laburista di un’inchiesta e le smentite dell’entourage del rabbino, ma la decisione del primo ministro di ritiro unilaterale da alcuni territori non solo ha spaccato il governo e lo stesso partito del premier, il Likud, rappresenta anche un problema su cui i rabbini discutono da tempo.
    Lo stesso ritorno in Israele è stato oggetto di riflessione. A differenza che nella politica, quando si entra nelle dispute sull’Halachà, la legge rabbinica, ci si accorge che non vi sono contrapposizioni nette di schieramenti, ma che ciascuno tiene conto delle opinioni altrui, anche quando sono espresse in luoghi e tempi diversi. S’intreccia così un dialogo che attraversa i secoli. Distrutto il Tempio di Gerusalemme e dispersi nella Diaspora, gli ebrei hanno coltivato un caleidoscopio di sentimenti verso la Terra di Israele. Nel Talmud si riconosce un grande merito all’ebreo che anche solo passeggi in Israele. Per il Maharam di Rottemburg (XIV secolo) andare in un luogo sacro necessita cautela, “non si può sfidare il Re nel proprio palazzo”. Alcuni sottolineano più la santità della terra, altri vi vedono più il luogo dove fondare concretamente lo Stato. Ma dopo duemila anni in esilio, passati a pregare tutti i giorni rivolti verso Gerusalemme, gli ebrei come sarebbero dovuti tornare? Nessuno sostiene esplicitamente l’uso della violenza, sebbene tutti riconoscano il diritto a difendersi. Ramban (XIII secolo) afferma che risiedere in Erez Israel è un precetto. Israele andrebbe dunque conquistata e sembrerebbe quindi ammesso l’uso della forza. Eppure in molti ricordano il limite posto dal Talmud nel trattato di Qetubot. Per “i giuramenti” non si sarebbe tornati in Israele “superando le mura”, con violenza. Per Izhak de Leon, per questo motivo, Maimonide non inserisce il risiedere in Israele tra i 613 precetti. Per alcuni, i giuramenti sarebbero tuttavia superati per la loro particolare formulazione. Rabbi Simcha haCohen di Dvinsk e altri commentatori evitano l’ostacolo grazie alla presenza dei trattati internazionali. Per questo, grande eco hanno avuto nel pensiero rabbinico la dichiarazione Balfour del 1917 e le successive risoluzioni dell’Onu.
    Se non è facile per gli ebrei decidere di riottenere Israele, non lo è nemmeno cedere parte della Terra. Per alcuni è necessario farlo quando serve a evitare un pericolo per la vita umana e il terrorismo lo è certamente. Ma qual è il limite, domandano i rabbini che vivono nei Territori. Se si cede Gerico perché ci si dovrebbe ostinare a combattere per Tel Aviv, perché, si chiedeva Shaul Yasraeli, non consegnare tutto? Fino a quindici anni fa proprio Ovadia Yossef sosteneva che ci fosse una differenza tra zone davvero conquistate, e quindi di sicura proprietà, e altre che non lo sarebbero ancora. I Territori su cui sarà costituito lo Stato palestinese ora rappresentano zone di confine per Israele e secondo la Mishnà queste andrebbero meglio difese, perché è da lì che arriva il pericolo di essere conquistati. Yossef interpretava differentemente e attribuiva maggior peso agli esperti militari per decidere il livello del rischio implicito alla rinuncia ad alcune zone. Oggi forse ha cambiato idea.

Sostiene Dan Segre
La complessità della questione spiega anche alcuni paradossi della politica israeliana. L’attuale governo ha l’appoggio di un partito religioso antisionista come Hagudath Israel. Uno dei suoi fondatori, rav Shach, era critico sull’amministrazione israeliana dei territori per l’atteggiamento che avrebbe provocato nel popolo ebraico. Provava quasi fastidio per gli abitanti degli insediamenti che gli ricordavano la frase biblica “la mia forza mi ha portato a questo” e Yeshayahu Leibowitz aveva preoccupazioni analoghe. Dispute che non riguardano solo i rabbini, che “non sono sacerdoti e nessun rabbino può negare le opinioni di un altro. Le parole di Ovadia Yossef lascerebbero il tempo che trovano se non mostrassero come nella democrazia israeliana alcuni partiti, come lo Shas, seguano persone che nessuno ha votato ed eletto”, dice al Foglio Dan Segre.
    Persino Ehud Barak – il premier che nel 2000 propose un piano ma da Arafat ottenne il terrore – disse di sentirsi più vicino a rav Perez, residente nei Territori, che non a quelli favorevoli a concessioni territoriali per indifferenza verso la Terra. A unire il rabbino e il laico Barak era la convinzione della sacralità di ogni pietra di Israele. Così è per Sharon, pronto a dolorose concessioni.

(Il Foglio, 10 marzo 2005);





7. IL SINEDRIO D'ISRAELE PRENDE POSIZIONE




26 Adar 1 5760

Dichiarazione del Sinedrio concernente il Disimpegno


Nel suo incontro del 28° Shvat 5765, il Sinedrio ha preso in considerazione l'iniziativa del Primo Ministro di Israele, le decisioni del governo e la legislazione emanata dalla Knesset riguardo al piano conosciuto come "Il disimpegno", che d'ora in poi nel presente documento sarà chiamato lo "sradicamento".
Il piano coinvolge lo sradicamento di comunità ebraiche dalla striscia di Gaza e dal nord della Samaria, la forzata espulsione di Ebrei dalle loro case e il volontario trasferimento di queste terre a una potenza straniera.
A seguito di un intenso studio effettuato sulle questioni halachic (autentica legge Ebraica) che sorgono dalla decisione del governo, il Sinedrio porta qui alla pubblica attenzione le sue conclusioni e decisioni.

1) Il programma di sradicamento del Primo Ministro è in diretta contraddizione con la Torah di Israele.

2) La decisione di eseguire lo sradicamento obbligherà un gran numero di Ebrei a trasgredire molti comandamenti della Torah. Questo si applica a molti e svariati comandamenti, che includono quelli riguardanti sia il rapporto tra l'uomo e D-o, sia il rapporto tra l'uomo e il suo simile; sia quelli riguardanti la nazione nel suo insieme, sia quelli che si applicano ad ogni singolo individuo.

3) Il Governo di Israele e la Knesset, nella loro presente forma e struttura di potere, non costituiscono istituzioni che secondo la halacha hanno una qualsiasi autorità di prendere decisioni che contraddicono la Torah di Israele.

4) I ministri del Governo che hanno giudicato iniquo questo piano di sradicamento sono stati rimossi dalle loro posizioni, e nello stesso modo anziani ufficiali delle forze di sicurezza che hanno espresso opinioni indipendenti su questo argomento sono stati espulsi.

5) DI CONSEGUENZA, le decisioni di questo governo - che oltre tutto ha violato le promesse da lui fatte al suo elettorato - sono nulle e vuote.

6) PERCIO': a nessun Ebreo è permesso di cooperare con il programma di sradicamento, in qualsivoglia forma.

7) Ogni Ebreo - compresi i soldati e i poliziotti - che appoggia lo sradicamento, sia direttamente che indirettamente, sia votando in suo favore, sia dando consigli o fornendo veicoli o materiali, e ovviamente ogni persona che attivamente partecipa allo sradicamento... così facendo, trasgredisce un gran numero di comandamenti della Torah.

8) Lo sradicamento dei residenti della Striscia di Gaza e Samaria è un crimine e un'ingiustizia verso i residenti, e pone molte altre comunità - nei fatti, tutti i cittadini dello Stato d'Israele - in mortale pericolo.

9) Ogni Ebreo che partecipa al piano o coopera con esso, attivamente o anche semplicemente restando silenzioso, trasgredisce il comandamento "Non restare indifferente davanti al sangue del tuo prossimo" (Lev 19:17), e in futuro sarà giudicato da D-o per questo peccato.

10) I leader e i loro agenti - inclusi soldati e poliziotti che sostengono lo sradicamento e vi partecipano - potranno essere obbligati a rendere conto, sulla loro personale responsabilità, di tutti i danni causati a coloro che sono colpiti e alle loro proprietà.

11) Con questa dichiarazione, il Sinedrio, come anello di continuità della Torah ricevuta da Mosè al Sinai, esprime qui la posizione della Torah di Israele. E se, il Cielo non voglia, il presente governo metterà in atto questo o qualche altro programma di sradicamento, questa azione non ha valore. Il Paese d'Israele è terra santa, e tutte le sue regioni appartengono esclusivamente alla nazione di Israele, per sempre.

12) Il Sinedrio, come rappresentante del popolo Ebraico attraverso la storia, dichiara qui che il popolo Ebraico - indipendentemente da questo o quel governo - non rinuncia, e non è autorizzato a farlo, a neppure un palmo della Terra d'Israele secondo i suoi confini biblici... perché è terra di D-o.

13) Il comandamento "eredita e abita" (Deut. 12:29) il Paese di Israele è obbligatorio per ogni governo di Israele. A questo riguardo, Israele ha ricevuto da D-o il comandamento di conquistare l'intera estensione della Terra d'Israele all'interno dei suoi confini Biblici, inclusa la striscia di Gaza.

14) QUINDI: anche se (il Cielo non voglia) i residenti saranno forzatamente rimossi dalle loro case - quando il governo cambierà, e in Israele ci sarà un governo che si condurrà secondo la Torah, l'esercito d'Israele tornerà e riconquisterà quella striscia di terra per reinsediare il popolo d'Israele nel suo legittimo posto. Questo si applica non solo a quell'area, ma a tutta l'estensione della Terra d'Israele che è stata rubata e al presente è in mani straniere.

15) Siamo pieni di fiducia nel D-o degli Eserciti di Israele, certi che il giuramento da Lui fatto al nostro patriarca Abraamo nel "Patto tra le due metà" sarà adempiuto esattamente come è stato stabilito, e, con l'aiuto di D-o, rapidamente - come è scritto (Gen. 15:18).

"In quel giorno il Sig-re fece un patto con Abramo, dicendo, alla tua discendenza darò questo paese, dal fiume d'Egitto al gran fiume, il fiume Eufrate..."

(The Temple Institute, 8 marzo 2005)




MUSICA E IMMAGINI




Amen




INDIRIZZI INTERNET




Jewish Virtual Library

israel today




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.