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Notizie su Israele 290 - 4 aprile 2005

1. Il messianismo degli ebrei Lubavitcher
2. Preparativi per la celebrazione della Pasqua ebraica
3. La Ville Lumière preoccupa Israele
4. Il film «La caduta» oggetto di discussione in Israele
5. La dura vita degli ultrà dell'Ajax
6. E' finito il monopolio ortodosso sulle conversioni
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Zaccaria 12:10. «Spanderò sulla casa di Davide e sugli abitanti di Gerusalemme lo spirito di grazia e di supplicazione; essi guarderanno a me, a colui che essi hanno trafitto, e ne faranno cordoglio come si fa cordoglio per un figlio unico, e lo piangeranno amaramente come si piange amaramente un primogenito.»
1. IL MESSIANISMO DEGLI EBREI LUBAVITCHER




Il messia è giunto a Brooklin

di Giuseppe Gennarini


Menahem Mendel Schneersohn
La comunità ebraica in tutto il mondo è alle prese da alcuni anni con un fenomeno singolare: il Messia è arrivato a Brooklyn e ha ricostruito il “tempio” al numero 770 di Eastern Parkway; poi nel 1994, dopo due anni di paralisi, è morto e i seguaci ne attendono ora la resurrezione in modo che possa completare la redenzione. Potrebbe sembrare una stranezza o uno scherzo, ma non è così: i cosiddetti “messianisti”, coloro che riconoscono il “Rebbe”, cioè Menahem Mendel Schneersohn, come “Melek Moshiach”, il Messia per eccellenza, costituiscono la maggioranza del gruppo hassidico Lubavitcher (chiamato anche Chabad).
    David Berger, un rabbino americano ortodosso ma vicino ai gruppi “liberal”, aveva pubblicato un paio d’anni fa un libro (“The Rebbe, the Messiah, and the scandal of Orthodox indifference”, Littman Library. 195 pp., $ 29,50) dove chiede la scomunica di tutti gli ebrei Lubavitcher che riconoscono Menahem Mendel Schneersohn come Messia e la loro condanna per “avodah zarah”, cioè idolatria, la più grave colpa che un ebreo possa commettere e che nella Bibbia merita la lapidazione.
    Confessando la sua “vergogna” per questa richiesta di scomunica, Rabbi Berger scrive: “Io, un sostenitore della tolleranza, che invoco l’intolleranza; un credente nel non escludere nessuno che predica l’esclusione; un sostenitore dell’unità che fomenta la divisione!”. Secondo Berger, la scomunica è però necessaria perché la fede in questo Messia mette a rischio la sopravvivenza della fede ebraica e il futuro dell’ebraismo in tutto il mondo.
    Così, inaspettatamente, in pieno Ventunesimo secolo, mentre la venuta del Messia è vista dalla maggioranza degli ebrei come una metafora politica o culturale, e per gran parte dei cristiani la seconda venuta di Gesù è sempre più “demitologizzata” come semplice simbolo, è scoppiata una discussione, a volte feroce, tra messianisti e anti-messianisti, fatta a colpi di citazioni di passi del Talmud e dello Zohar.
    Per capire l’importanza di questo fenomeno, in gran parte sfuggito al pubblico italiano, basti pensare che i Lubavitcher sono il gruppo hassidico più dinamico oggi nel mondo e che negli ultimi cinquant’anni maggiormente si è dedicato per aiutare le comunità ebraiche perseguitate o in difficoltà e per mantenere e risvegliare la fede negli ebrei di tutto il mondo. La morte del “Rebbe” nel 1994, già riconosciuto come messia mentre era ancora in vita, non ha affievolito questa spinta missionaria, ma l’ha anzi rafforzata. In Inghilterra, in Olanda e a Sydney, in Australia, il cinquanta per cento del rabbinato è Chabad; a Montreal il capo della corte rabbinica è Chabad; in Italia, a Milano e Venezia, c’è una forte presenza Chabad, che a Roma controlla la più importante macelleria rituale; forte anche la presenza in Francia, mentre in Germania vi sono centri Chabad in tutte le principali città e sono tra gli elementi più importanti del ritorno degli ebrei in Germania. Nei territori di quella che era l’Unione Sovietica la presenza Lubavitcher è così forte che il termine Chabad sta diventando sinonimo di ebraismo.
    Durante la tirannia stalinista e la persecuzione degli ebrei in Russia anche dopo la morte di Stalin, i Lubavitcher furono quelli che più si adoperarono, molte volte eroicamente e subendo gravi persecuzioni, per la sopravvivenza dell’ebraismo in Russia, costruendo yeshiva, sinagoghe clandestine, con bagni rituali sotterranei e organizzando poi l’emigrazione o la fuga di molti ebrei russi. Fortissima infine l’influenza negli Stati Uniti e in Israele.
    In questo modo i Lubavitcher hanno trasformato il movimento dei hassidim, che dopo l’olocausto rischiava di diventare una reliquia del passato, in una delle componenti più influenti dell’ebraismo ortodosso.
L’hassidismo si presenta agli albori del Settecento come una rinascita religiosa sulle linee della cabala di Isaac Luria, che ripropone l’attesa del messia come centro della fede ebraica e anche come una reazione alle idee di assimilazione prospettate da Spinoza. I Lubavitcher nacquero verso la fine del millesettecento a opera del Rabbi Shneur Zalman di Liadi, discepolo del grande Dov Baer, diretto successore del Baal Shem Tov, fondatore dell’hassidismo. Il gruppo di Rabbi Shneur Zalman di Liadi prese il nome di Chabad, una sigla formata dalle iniziali di Choqma, Binah e Da’at, (sapienza, intelligenza e conoscenza in ebraico, tre delle emanazioni divine secondo la cabala) e che dà il tono intellettuale che subito distinse questa corrente del movimento hassidim.
    Successivamente essi vennero designati anche con il nome di Lubavitcher, dalla città bielorussa di Lubavitch, che divenne il centro del gruppo.
    Fin dall’inizio Rabbi Zalman, e poi i suoi successori alla guida dei Lubavitcher, ebbero un fortissimo senso della missione e promossero istituzioni scolastiche per educare i giovani alla fede. Zalman venne perseguitato dai mitnagedim, i rabbini opponenti dei hassidim, e venne da loro denunciato alla polizia zarista, finendo in carcere nel 1798. Durante l’invasione di Napoleone in Russia, Zalman, contrariamente a molti altri gruppi hassidici, ritenne che un’eventuale vittoria di Napoleone sarebbe stata disastrosa per il giudaismo e appoggiò l’armata russa, accompagnando nella fuga l’esercito russo sconfitto.
    Alla fine dell’Ottocento, con Isaac Josef Schneersohn, il sesto Rebbe, il gruppo dei Lubavitcher venne investito dalla bufera che colpì la comunità ebraica in tutto il mondo: l’illusione di risolvere la questione ebraica attraverso l’assimilazione alla società borghese liberale europea, e poi il sionismo, la rivoluzione russa, le due guerre mondiali e la tragedia dell’olocausto.
    Questi grandi sconvolgimenti senza precedenti vennero interpretati dai Lubavitcher, secondo l’insegnamento della cabala, come “i travagli del parto” che preparano l’apparizione del Messia. Nel 1944 Issac Josef, dopo una serie di viaggi avventurosi per evitare di essere imprigionato dai nazisti, decise di trasferirsi a Brooklyn. La discesa del Rebbe in America, l’“emisfero inferiore” non toccato dalla Torah, regno della secolarizzazione, simile all’heideggeriana “notte del mondo”, venne visto dai messianisti come uno dei grandi segni che precedono la manifestazione del Messia. Secondo la tradizione, infatti, il Messia discenderà nel mondo delle tenebre, l’Egitto cabalistico, per riscattare i figli perduti di Israele. Ecco il senso della coraggiosa yeridah (discesa) di Issac Josef nel “mondo del peccato” per promuovere dal di dentro una rinascita dell’ebraismo ortodosso proprio là dove la comunità ebraica è più minacciata dall’assimilazione.
    Menahem Mendel Schneersohn venne allevato dal suocero Isaac Josef come futuro rebbe e istruito sugli scritti Chabad esoterici e non pubblicati. Alla morte di Issac Josef, nel 1950, divenne settimo Rebbe Lubavitcher. Profondo studioso del Talmud e della cabala, aveva però studiato anche filosofia e ingegneria alla Sorbona di Parigi. Univa così nella sua persona la conoscenza della tradizione a quella della scienza e della filosofia moderna. Con lui, situato nel quartier generale di Brooklyn, al centro dell’emisfero delle tenebre, la rete di istituzioni scolastiche e la spinta missionaria dei Lubavitcher si estende in pochi anni a tutto il mondo, anche questo un segno messianico: si calcola che attualmente vi siano oltre duemilaseicento istituzioni Chabad nel mondo, mentre circa tremilasettecento famiglie, rispondendo all’invito del Rebbe, sono emigrate come missionari in diverse nazioni.
    Il crollo improvviso e “miracoloso” dell’Unione Sovietica – visto come la vittoria su Gog e Magog – è interpretato come un altro segno messianico che si compie con Menahem Mendel. Subito dopo comincia il ritorno in Israele di milioni di ebrei russi, favorito e sostenuto dai Lubavitcher. Infine la sua morte, nel 1994, preceduta da una lunga e dolorosa sofferenza, e la mancanza di eredi dopo una successione ininterrotta di oltre duecento anni, sono gli ultimi segni che lo confermarono come Messia. Oggi il “Rebbe” è chiamato spesso “boreinu”, cioè “nostro creatore”, oppure “Dio rivestito di un corpo fisico” o anche “l’essenza divina sussistente in un corpo”. Formulazioni vicine alla terminologia della “Lettera agli Ebrei” di san Paolo, che definisce Gesù “l’impronta dell’essenza divina”. Poiché il Rebbe è “elokus bilevush gashmi” (Dio in forma fisica), anche questa una formulazione molto vicina al concetto d’incarnazione, i messianisti pregano in direzione della foto del Rebbe che adorna numerose istituzioni Lubavitcher. In quasi tutte le liturgie sinagogali dei Lubavitcher si prega rivolgendosi al “Rebbe” come messia: “Vive il nostro Signore ed il nostro maestro ed il nostro Rabbi, Re Messia nei secoli dei secoli, Amen”. E si conclude cantando, in attesa della sua resurrezione: “Ed egli ci redimerà”.
    Come è possibile che uno dei gruppi ebraici più fedeli alla tradizione sia approdato improvvisamente a formulazioni che sembrano vicine al cristianesimo? Per capirlo bisogna fare un passo indietro: una delle conseguenze più importanti verificatasi dopo la venuta di Gesù fu la messa ‘sottotraccia’ delle tradizioni messianiche.
    Aryeh Kaplan, un rabbino americano studioso della cabala, spiega (“Jewish Meditation”, Random House) che per evitare il pericolo che le dottrine messianiche attraessero nuovamente gli ebrei, esse “vennero nascoste alle masse e fatte parte di un insegnamento segreto. Dopo la distruzione del secondo tempio la dirigenza giudaica [della grande assemblea] prese una decisione molto difficile […] la disciplina del “carro di Ezechiele” (cioè le dottrine sulla venuta del messia) doveva essere ridotta a dottrina segreta […], insegnata solo a singoli studenti e che abbiano dato prova di saggezza”. Il Talmud prescrive infatti che questa dottrina debba essere insegnata bisbigliando, e solo a studenti che abbiano almeno quarant’anni di età e che abbiano dimostrato certe qualità morali e, perfino, fisiognomiche.
    La polemica con i messianisti ha invece costretto il rabbino David Berger a discutere proprio quelle fonti sul Messia della tradizione ebraica esoterica o segreta, spesso solo manoscritte o stampate in ebraico medievale non vocalizzato, e quindi di difficile accesso anche agli studiosi. “Una della mie riserve nello scrivere questo libro – scrive Berger in “The Rebbe, the Messiah, and the scandal of Orthodox indifference” – nasceva dalla riluttanza di far conoscere […] certe fonti rabbiniche che i Messianisti citano per sostenere la loro dottrina: temevo che alcuni lettori, non ben ancorati alla millenaria tradizione del giudaismo, potessero perdere l’ancora e concludere che la fede nella Seconda Venuta del Rebbe (cioè in un Messia morto e risorto) sia […] una opzione accettabile nel giudaismo. Per questo ho nascosto la mia risposta [a queste fonti] in una nota a piè di pagina, molto breve, quasi criptica...”.
    Le tradizioni sulla venuta del Messia sono come un mare sotterraneo che solamente i grandi studiosi del Talmud e della Cabala conoscono: grazie a questa discussione improvvisamente si è aperta una finestra attraverso cui possiamo gettare uno sguardo.
Al centro del dibattito vi sono due testi e i loro commenti lungo i secoli: Zaccaria 12 (“ed essi guarderanno a colui che hanno trafitto”) e Isaia 53, il famoso passo sul “servo sofferente”: “Disprezzato e rifiutato dagli uomini, uomo dei dolori […] è stato trafitto per le nostre trasgressioni, schiacciato per le nostre iniquità; il castigo per cui abbiamo la pace è caduto su di lui, e per le sue lividure noi siamo stati guariti. Noi tutti come pecore eravamo erranti, ognuno di noi seguiva la propria via […] Maltrattato e umiliato, non aperse bocca. Come un agnello condotto al macello, come pecora muta davanti ai suoi tosatori non aperse bocca […] chi riflettè che era strappato dalla terra dei viventi e colpito per le trasgressioni del mio popolo? […] Offrendo la sua vita in sacrificio per il peccato, egli vedrà una progenie, prolungherà i suoi giorni…”.
Questo passo, che sembra descrivere la missione di Gesù Cristo, la sua passione, e la sua conclusione gloriosa, nel Nuovo Testamento è il passo messianico più importante e viene citato sette volte esplicitamente e almeno altrettante volte implicitamente. La sorpresa è che anche per i Lubavitcher è proprio quello usato per accreditare la messianicità del Rebbe (il termine “trafitto” in ebraico può infatti essere tradotto anche con “colpito da malattia”). Secondo l’apologetica giudaica tradizionale invece, questo passo non avrebbe alcun riferimento al Messia ma si riferirebbe alle sofferenze del popolo ebreo. Riprendendo gli argomenti tradizionali della polemica, Berger scrive: “Il fatto che alcuni rabbini del Talmud abbiano interpretato il capitolo 53 di Isaia messianicamente è di interesse per lo storico ma non significa affatto che gli ebrei debbano adottare questa interpretazione...”.
    Eppure per gli ebrei ortodossi “i rabbini del Talmud” sono la più alta autorità; e inoltre, nel passo in questione, le sofferenze del “servo di Jahvè ” sono imputate proprio alle ”trasgressioni del mio popolo”. Ma Berger – e lo ripete quasi ad ogni pagina del suo libro – è assillato perché il Messianismo Lubavitcher scardina i due principali “dogmi” anticristiani stabiliti dalla apologetica ebraica anticristiana, avallando l’idea di un Messia morto e risorto e l’idea che la venuta del Messia non inauguri ipso facto i tempi messianici: “Se trattiamo i messianisti come buoni ebrei […] concediamo la vittoria al Cristianesimo nei punti cruciali di un dibattito millenario”. Perciò dedica ben tre capitoli del suo libro per attaccare i messianisti e per confutare le fonti da loro citate. Il risultato alla fine è che i dubbi aumentano e sembra dare ragione ai messianisti. David Singer, dell’American Jewish Commitee, commenta sulla rivista “First Things”: “Quanto più Berger cerca di confutare le fonti citate dai messianisti (a sostegno di un messia morto e risorto), tanto più è evidente che sta cercando di nasconderle”. Infatti la discussione sulle fonti dimostra che anche secondo il Talmud, Isaia 53 è proprio il passo messianico “par excellence”. Nel trattato Sahedrin 98, citando Isaia 53, il messia è colui che porta i peccati del popolo e che ritorna dalla morte (“il sapiente lebbroso”). Zaccaria 12 poi viene commentato nel trattato Talmudico Sukkah 52, dando luogo alla tradizione del Messia “figlio di Giuseppe”, che nella sua prima venuta verrà ucciso e che poi tornerà nella gloria come messia “figlio di Davide”.
    I commenti talmudici a Isaia 53 e Zaccaria 12 hanno dato origine lungo i secoli ad una ramificazione enorme di testi paralleli e di commenti, cominciando dallo Zohar (il testo fondante per la Cabala), fino ai grandi commentatori: Rashi, Ramban, Ben Yehoyada, Abarbanel, Maharal, Maharash, Rav Saadia Gaon, Rabbi Yochanan, Sedei Chemed e altri ancora. Tutti sono concordi: il Messia risorgerà dalla morte, oppure verrà rapito in cielo dove trascorrerà un tempo prima di tornare nella gloria, oppure sarà trasportato nel “giardino del’Eden”: per tutti il Messia non sarà solo un Messia politico, ma sarà soprattutto il vincitore della morte, vera nemica dell’uomo. Unica eccezione tra i grandi della tradizione sembrerebbe Rambam, ossia Maimonide, discepolo dei filosofi arabi atei e sostenitore di una lettura razionalistica della scrittura e della fede ebraica, che tende a mettere in sordina la resurrezione dai morti e che riduce il Messia a un re terreno che porterà una pace politica.
    Dalla lettura delle fonti della tradizione biblica, talmudica e cabalistica, emerge questo quadro: il Messia “figlio di Giuseppe” nascerà da un discendente di Davide; si manifesterà nella “Galilea dei gentili” e riporterà molti ebrei alla fede; si rivolgerà anche ai pagani che lo ascolteranno e lo seguiranno; dopo avere inaugurato la predicazione del regno verrà “trafitto” caricandosi i peccati del popolo; poi risorgerà dalla morte; infine ascenderà al cielo, e i tempi messianici verranno stabiliti definitivamente solo in un secondo momento, quando ritornerà nella gloria. Questo dibattito getta una luce nuova sui rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, dimostrando che molti aspetti di Gesù e del cristianesimo, che secondo alcuni erano frutto di contaminazioni ellenizzanti o comunque estranee alla tradizione ebraica, sono invece profondamente radicati nella tradizione di Israele. Ma soprattutto, in un’epoca di “pensiero debole” e in un mondo che vede nella omologazione o nell’assimilazione l’ideale supremo, i Lubavitcher sono testimoni viventi che la fede nel Messia – venuto o venturo – è il centro della fede giudeo-cristiana.

(Il Foglio Quotidiano, 22 gennaio - da Morasha.it)
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Ved. gli articoli di Notizie su Israele 179, 181, 182, 183.





2. PREPARATIVI PER LA CELEBRAZIONE DELLA PASQUA EBRAICA




Pesach dell'anno ebraico 5765

Gli Ebrei di Trani si preparano a celebrare la Pesach dell'anno ebraico 5765, la Pasqua ebraica.

Il calendario di Pesach è il seguente:
21 aprile (12 Nissan): digiuno dei Primogeniti. Bedikath Chametz a sera.
22 aprile (13 Nissan): 11,40 bruciatura del Chametz. Neadliakh alle 19,20.
23 aprile (14 Nissan): vigilia di Pesach (motzae Shabbat alle 20,24 e Seder lePesach)
24 e 25 aprile (15-16 Nissan): Pesach (moed)
30 aprile 1 maggio (21-22 Nissan) ultimi due giorni di Pesach (moed).

Pesach, quando la superbia del faraone e il pane degli ebrei non lievitarono piu'. 

3000 anni fa l’Egitto di Faraone ebbe come vicerè nientemeno che l’ebreo Giuseppe figlio di Giacobbe. Allorchè una terribile carestia si abbattè sulla terra di Canaan, Giuseppe chiamò in Egitto suo padre e i suoi fratelli. Un giorno salì al trono un Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe e che, temendo il numerosissimo popolo israelita come una minaccia nel proprio Paese, li ridusse in schiavitù. Gli Ebrei furono costretti a impastare e cuocere mattoni per costruire superbi obelischi e palazzi.

Venne un uomo giusto, educato presso la casa reale chiamato Mosè, il quale scoprì di essere Ebreo e fu scelto per liberare il suo popolo. Mosè era un uomo restio alla sua missione, per di più era balbuziente; ma accettò il suo destino ed ebbe il coraggio di sfidare il potere di Faraone.

Numerose sciagure si abbatterono sul popolo egiziano perché Faraone si convincesse a liberare dalla schiavitù gli Israeliti; ma Faraone, arrogante e duro di cuore, resisteva. Finchè la sera di luna piena del primo plenilunio di primavera accadde qualcosa di sconvolgente. L’angelo della morte attraversò l'Egitto e uccise tutti i primogeniti egiziani. L’angelo risparmiò i primogeniti degli Ebrei poiché Mosè diede loro ordine di intingere gli stipiti delle loro case con sangue di agnello; alla vista di ciò, l’angelo sarebbe andato oltre, in ebraico pésach (da cui Pasqua).

Faraone capitolò; Mosè e il suo popolo poterono tornare nella Terra Promessa, la terra d’Israele. Quella notte era diversa da tutte le altre, tanto diversa che il pane dovette essere fatto in fretta da non aver il tempo che lievitasse. La libertà non poteva aspettare.

L’uccisione dei primogeniti egiziani fu il segnale della svolta epocale del popolo ebraico, del loro riscatto. Quella sera Israele insegnò al mondo cosa significhi essere un popolo libero, aver diritto alla propria terra e riconoscere unicamente la Torah, la Legge e l’insegnamento dell’unico Dio. Tuttavia l’uccisione di uomini e fanciulli egiziani colpevoli soltanto di essere primogeniti non fu qualcosa di cui poter andar fieri; ecco perchè ancora oggi, alla vigilia di Pèsach (la Pasqua ebraica), i primogeniti ebrei digiunano perchè ricordino che uomini innocenti morirono per la loro salvezza, che il

prosegue ->
Dio d’Israele fece una dolorosa scelta e che la morte è un fatto tragico per l’uomo, chiunque esso sia.

Un gesto di umiltà dunque, che contraddistingue gli 8 giorni della festa di Pèsach. A cominciare dalla matzàh, il pane non lievitato di cui gli Ebrei debbono cibarsi per tutti i giorni di Pèsach. Pane senza chamètz ovvero cotto senza che faccia in tempo a fermentare. Senza chamètz deve essere tutta l’alimentazione ebraica durante Pèsach; perciò al bando grano, orzo, farro, avena, segale e loro derivati, se non sono stati cotti sotto stretta sorveglianza rabbinica. L’ordine è tassativo: “chiunque mangerà del chamètz sarà escluso dalla comunità di Israele” (Es. 12,15). Il chamètz va cercato, trovato e bruciato. I cibi contenenti chamètz possono essere distrutti o venduti.

Privarsi del chamètz significa anche purificarsi di tutto quanto possa lievitare nell’uomo; orgoglio, egoismo, sentimenti che tendono inevitabilmente a far gonfiare l'uomo, che deve estirpare dal suo animo e dalla sua vita materiale il chamètz, inteso simbolicamente come fermento del male.

Quest’anno Pèsach cade la sera del 23 aprile in quanto l’anno ebraico in corso, il 5765, è un anno embolismico ossia ha un mese in più, necessario a sincronizzare l’anno lunare di 354 giorni con le stagioni dell’anno solare di 365. Pertanto ogni due-tre anni viene aggiunto un tredicesimo mese che precede il mese di Nisan in cui cade Pèsach.

Il Sèder (lett. ordine) di Pèsach, la cena delle prime due sere di Pasqua, è costellata da cibi e atti simbolici che scorrono sulla tavola imbandita delle case ebraiche. Ci sono 3 matzòth (una delle quali, chiamata afikòmen, è oggetto di un sapiente gioco tra il capotavola e i bambini seduti a tavola), il maròr (le erbe amare, ricordo della schiavitù egiziana), il charòset (impasto di frutti, mandorle e vino rosso che ricorda la malta dei mattoni con i quali gli Ebrei costruivano piramidi e statue in Egitto), il carpàs (una foglia di lattuga con accanto una ciotola di acqua salata o aceto), il vino da consumarsi in abbondanza (sino a 4 calici ripieni per ognuno dei commensali), l’uovo sodo (simbolo di lutto per la distruzione del Tempio di Gerusalemme), il tutto scandito dalla lettura della Aggadàh (il racconto della Pasqua, ricco di citazioni bibliche e della tradizione rabbinica).

Infine, il zerò'a, una zampa arrostita di agnello, il simbolo più triste. Perché l’ebreo non consuma più l’agnello pasquale dal giorno in cui il Santuario di Gerusalemme fu distrutto dai Romani nell’anno 70 dell’era volgare, distruzione che diede termine al corbàn (il sacrificio quotidiano che si consumava nel Santuario). Unica eccezione, Roma; lì l’agnello viene tuttora mangiato a Pèsach in seguito a una eccezionale deroga che sin dai tempi più antichi fu concessa alla più importante comunità ebraica dell’Impero romano.

Il Sèder di Pesach ha qualcosa di magico; è una festa ebraica ma è rivolta anche ai non ebrei, perché possano contemplare il miracolo della libertà riservato al popolo di Israele. Perciò le porte di casa degli Ebrei rimangono aperte alla sera di Pèsach. Eppure a tavola c’è un posto imbandito al quale non siede nessuno; quella sedia è per Elia, il profeta che secondo il racconto biblico fu rapito da un carro celeste e che la sera di Pèsach, all’insaputa dei padroni di casa, potrebbe entrare nella casa di ogni Ebreo, magari sotto le spoglie di un povero passante. Sarebbe un segno atteso della venuta del Messia.

Quest’anno il Pèsach degli Ebrei di Trani sarà invece offuscato da un velo di tristezza. Nonostante le buone intenzioni e le numerose promesse, la Sinagoga Scolanova non è ancora riaperta al culto. Qualcosa si sta muovendo in questi giorni a livello istituzionale, l'Assemblea Rabbinica Italiana sta seguendo da vicino i lavori di Trani; speriamo che possa realizzarsi il diritto degli Ebrei di Trani di tornare a riunirsi e a pregare nella Sinagoga dalla quale furono cacciati nel 1541. In questo momento nel quale tanti Ebrei pugliesi hanno ritrovato l’entusiasmo della loro fede, è importante che essi possano tornare a pregare nella città del Mabit, il Maestro Mosè da Trani.

A sancire questo momento particolare, il prossimo 6 aprile verrà a Trani il Rabbino Shalom Bahbout, primo fautore della rinascita dell’ebraismo tranese e membro della Consulta Rabbinica dell'Unione delle Comunità ebraiche italiane. Terrà una lezione su Pèsach e le relative norme rituali presso la Sinagoga Scolanova alle ore 18,00.

Tutti gli Ebrei di Puglia sono invitati; i non ebrei sono i benvenuti.

Francesco Lotoro
Pianista, portavoce della Comunità ebraica di Trani

(Traniweb, 1 aprile 2005)





3. LA VILLE LUMIÈRE PREOCCUPA ISRAELE




PARIGI - È ormai emergenza per il razzismo e soprattutto per l'antisemitismo in Francia: il 2004, secondo dati di una commissione indipendente, è stato un anno nero, con il raddoppio delle violenze razziste e delle minacce alle persone. Discriminazione anche nelle assunzioni, con sempre più richieste di “veri francesi”. Preoccupazione è stata espressa immediatamente dal governo israeliano per questa recrudescenza di razzismo che colpisce ebrei soprattutto, ma non solo: maghrebini, musulmani, neri sono le categorie vittime di questa tendenza che nel 2004 ha subito una vera e propria impennata. Soltanto fra il 2003 e il 2004, la Commissione nazionale consultiva dei diritti dell'uomo (Cncdh) ha rilevato un aumento da 833 a 1.565 atti e minacce a sfondo razzista o antisemita. Le violenze contro persone e beni hanno superato il record del 2002 (sono state 369), le minacce e intimidazioni denunciate sono state il triplo dell'anno scorso. La stessa commissione, organismo indipendente, parla di “situazione pericolosamente degradata”. “Le manifestazioni di antisemitismo, di razzismo e di xenofobia - si legge nelle conclusioni del rapporto - hanno raggiunto un livello mai toccato” nel paese dei diritti dell'uomo. Tenendo conto delle dimensioni delle varie comunità (i musulmani sono calcolati in poco meno di 6 milioni, gli ebrei sono l'1 per cento della popolazione), l'offensiva si è scatenata soprattutto nei riguardi della comunità israelitica, con 970 atti recensiti contro i 601 del 2003. L'aumento è del 61,4 per cento rispetto al 2003 e i soli atti antisemiti rappresentano il 62 per cento di tutti gli atti razzisti.

(Avanti!, 29 marzo 2005)





4. IL FILM «LA CADUTA» OGGETTO DI DISCUSSIONE IN ISRAELE




Israele, referendum per vedere film su Hitler

di Davide Frattini

GERUSALEMME - Come primo esperimento hanno pensato di farne una proiezione a porte chiuse. Ed è finita in una litigata. I pochi dirigenti della società Lev Cinema che hanno potuto visionare in una saletta privata di Tel Aviv «La caduta», il film sugli ultimi dodici giorni della vita di Adolf Hitler, si sono divisi tra chi considerava le immagini intollerabili (uno di loro ha minacciato di boicottare la distribuzione) e chi invece sosteneva che gli israeliani avessero il diritto di vedere la pellicola. O almeno di scegliere di non andare a vederla. Così la catena di sale cinematografiche e il distributore Shani Films hanno deciso di indire un referendum perché sia il pubblico a decretare se mostrare La caduta in Israele.

A votare saranno i 40 mila abbonati della Lev (una sorta di club amici del cinema) che verranno avvertiti con una email sul giorno delle proiezioni a Tel Aviv e Gerusalemme. «Vogliamo evitare - ha spiegato la portavoce Dorit Hordi al Jerusalem Post - che il film possa offendere i sopravvissuti all’Olocausto. Persone che magari non andranno mai a vederlo, ma che potrebbero essere ferite dal fatto che la locandina sia esposta vicino a casa loro». Il voto popolare potrebbe trasformarsi nella censura preventiva in un Paese che fa valutare le pellicole dalla Commissione per il controllo degli spettacoli, ma che alla fine non ha bloccato kolossal controversi come «L’ultima tentazione di Cristo», diretto da Martin Scorsese.

Il film tedesco, tra i candidati all’Oscar come miglior opera straniera, è basato sulle memorie di Traudl Junge, la segretaria del Führer che lasciò il bunker solo dopo il suo suicidio, e sulle testimonianze di alcuni protagonisti di quegli ultimi giorni rielaborate dallo storico Joachim Fest. Nelle due ore e mezza, l’Olocausto rimane sullo sfondo. C’è solo un passaggio in cui Hitler si vanta «di aver ripulito le aree del Reich dalla presenza degli ebrei». In Germania, dopo l’uscita in 400 cinema nel settembre dell’anno scorso, aveva suscitato polemiche perché per la prima volta veniva mostrata una dimensione intima del dittatore nazista, con l’altalena dei suoi umori rappresentata sullo schermo da Bruno Ganz. «Questo è Hitler, Ganz è perfetto e lo fa emergere spaventoso e terribile - aveva commentato Fest -. Non c’è dubbio che, quando lo si vede, soprattutto con tali ampiezza e precisione di dettagli, il sangue ribolla. Ma questo significa solo che l’operazione è riuscita».

I giornali tedeschi si erano divisi. «Il film di Oliver Hirschbiegels - aveva scritto entusiasta la Bild Zeitung - racconta l’eterno fantasma della nostra storia: Hitler, essere umano confuso, mostro rabbioso, folle assassino». «Ma è giusto produrre un’opera - si era chiesta la Stuttgart Zeitung - con tanti dettagli sul dittatore, responsabile di milioni di crimini così efferati?» Se la giuria popolare israeliana voterà contro la distribuzione, il pubblico e i critici non arriveranno a scontrarsi sul valore della pellicola. Ma la discussione si è comunque già aperta e secondo qualcuno la società cinematografica ha ottenuto il suo scopo: far parlare del film ancora prima dell’uscita.

«Per me è stato difficile da sopportare - racconta Katriel Schory, che guida il Fondo israeliano per il cinema e che ha visto La Caduta al Festival di Berlino -. Hitler non può venire ritratto come una persona normale. Credo che la scelta della Lev Cinema sia comunque un esempio di democrazia. Dimostra la loro sensibilità verso il pubblico». Altri critici israeliani considerano la mossa una campagna di marketing per creare attenzione attorno al film. «Qualcuno può considerare la nostra decisione come semplici pubbliche relazioni - risponde la regista Nurit Shani, proprietaria della catena, che ha sostenuto storie molto discusse, giudicate anti-israeliane come «Terra promessa» di Amos Gitai - Non è così. Sono i media a essere cinici e a vedere ovunque trucchi e strategie».

(Corriere della Sera, 31 marzo 2005)





5. LA DURA VITA DEGLI ULTRÀ DELL’AJAX




Non sono ebrei, si sentono ebrei

Se vedete un ultrà bardato da capo a piedi di stelle di Davide e bandiere d’Israele, sappiate che non è un tifoso del Maccabi Tel-Aviv, ma dell’Ajax, storica squadra calcistica di Amsterdam, che con il popolo ebraico ha poco o niente a che fare. Almeno in teoria, perché i tifosi dell’Ajax si dicono in tutto e per tutto «ebrei», anche se non sono figli di madre ebrea e nessun rabbino li ha convertiti. I più pittoreschi, «ebrei e fieri di esserlo», si sono fatti tatuare una stella di Davide sul braccio, evidentemente ignari del fatto che l’ebraismo vieta esplicitamente i tatuaggi, considerati un retaggio del paganesimo.
    La storia comincia negli anni Settanta, più di mezzo secolo dopo che l’Ajax fu fondato. Come spesso succede negli stadi di tutt’Europa, gli hooligan di una squadra avversaria, simpatizzanti di estrema destra, cominciarono a lanciare slogan filo-nazisti e antisemiti ai tifosi dell’Ajax. Sentendosi chiamare «ebrei», invece di offendersi, i sostenitori dell’Ajax decisero di raccogliere l’identità ebraica “imposta” dai loro avversari e di farne un motivo d’orgoglio. E da allora, come i rivoluzionari sans-culotte, che furono ben contenti di riciclare l’insulto da parte dei nobili («siete senza coulotte», i pantaloni al ginocchio) in un simbolo della loro identità di classe, anche l’Ajax accettò di buon grado l’appellativo «joden» e decise di sentirsi ebreo, anche se tra i suoi 400 membri ci sono ben pochi di fede israelita.
Il risultato è piuttosto pittoresco: i chioschi che vendono gadget dell’Ajax traboccano di scritte in ebraico, Menorot (candelabri a sette braccia), stendardi israeliani, e di varianti sul tema. Tra i souvenir più gettonati, la bandiera dell’Ajax, in cui l’eroe greco Aiace (da cui la squadra prende il nome) è incoronato da una stella di David. Fino a poco tempo fa, si poteva scaricare dal sito ufficiale della squadra un’ampia selezione di canzoni ebraiche e israeliane. Fino a poco tempo fa, si diceva, perché nel frattempo sono sorti diversi problemi. La sovraesposizione dell’identità ebraica dell’Ajax ha istigato la tifoseria dei loro avversari a ricorrere ancora di più agli slogan antisemiti. La scorsa settimana, durante una delle sfide storicamente più attese, la tifoseria dell’Eindhoven ha fatto il saluto nazista e lanciato slogan come: «gli ebrei alle camera a gas!» e «Hamas, Hamas!».
    Forse è per questo che il presidente della squadra, John Jaakke, a gennaio ha richiamato all’ordine i tifosi, invitandoli a lasciar perdere questa storia dell’identità ebraica. Inoltre, quei tifosi dell’Ajax che ebrei sono di nascita hanno più volte protestato, sostenendo che l’abuso di simboli ebraici nella tifoseria li mette a disagio. Anche Uri Cornel, che oltre a essere ebreo ha fatto parte del management dell’Ajax durante gli anni Novanta, ha più volte protestato sull’utilizzo di riferimenti all’ebraismo nel tifo sportivo: «alcuni pensano che i tifosi dell’Ajax si sentano veramente ebrei, ma è solo un’altra trovata hooligan». Intanto, però, gli “hooligan” non ne vogliono sapere di abbandonare le stelle di Davide. Il presidente Jaakke ha proposto un compromesso: sostituiamo almeno la parola «Joden», ebrei, con «Goden», dei. In fondo, si giustifica il presidente, Aiace era un dio.
    
(Il Riformista, 30 marzo 2005)





6. E' FINITO IL MONOPOLIO ORTODOSSO SULLE CONVERSIONI




«Il giorno più triste della storia dello Stato»

Undici giudici dell'Alta Corte di Giustizia hanno deciso giovedì mattina [31 marzo] di mettere fine al monopolio rabbinico e ortodosso sulle conversioni.
    Mentre gli occhi continuavano ad essere puntati sulla scena politica e sul futuro del governo Sharon e del suo piano di ritiro, questa decisione ha fatto l'effetto d'una bomba, giovedì mattina.
    Sette giudici su undici hanno decretato che le conversioni "riformate" realizzate all'estero saranno dichiarate accettabili nel quadro della legge del ritorno. I "convertiti" dalle organizzazioni conservatrici e riformate avranno dunque diritto allo statuto di ebreo in Israele. Il tribunale non ha deliberato su questo tipo di "conversioni" effettuate in Israele.
    L'ebraismo ortodosso è rimasto costernato dalla decisione della Corte di Giustizia.
    Per il leader del partito Sharr, Elie Ishai, si tratta del giorno "più triste della storia dello Stato". Ironicamente ha chiesto se i giudici hanno intenzione di riconoscere tra poco le conversioni effettuate per SMS, e afferma: «I giudici tentano di creare un popolo d'Israele che non è ebreo».
    Il deputato Benny Elon ha deplorato il fatto che da questo momento «chiunque desideri essere ebreo e cittadino d'Israele può diventarlo».
    Zevulun Orle dal canto suo ha ricordato che si tratta «di un nuovo anello della catena di decreti della Corte Suprema che vanno contro la religione ebraica e mettono in pericolo l'identità ebraica dello Stato d'Israele».
    Da parte sua la sinistra israeliana non cessa di effondersi in elogi su questa decisione.
    Per il ministro degli Interni Ophir Pinès (laburista), si tratta di niente di meno che una «decisione storica».
    Yossi Beilin (Yahad) ha dichiarato che questo decreto «mette fine al monopolio ortodosso sulle conversioni». Etty Livni (Shinui), ha detto da parte sua che «l'ebraismo riformato ha ritrovato il posto che gli spetta all'interno dell'ebraismo».
    Roni Barizon, quanto a lui, deplora il fatto che questa decisione sia valida soltanto per le conversioni effettuate all'estero. Ma, dichiara, «non è grave, gli israeliani hanno l'abitudine di fare un viaggio a Cipro per sposarsi».
    
(Arouts 7, 31 marzo 2005)





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