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Notizie su Israele 291 - 12 aprile 2005

1. La causa primaria della decadenza del mondo arabo
2. Velenosi materiali antisemiti e «indignazione»
3. Un'atmosfera di sicurezza e tranquillità
4. BAt Ye'Or, l'egiziana che denunciò il jihad culturale
5. Istigazioni antiebraiche nei testi scolastici palestinesi
6. Bonhoeffer e la Chiesa confessante
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 17:5-6. Così parla il Signore: «Maledetto l’uomo che confida nell’uomo e fa della carne il suo braccio, e il cui cuore si allontana dal Signore! Egli è come una tamerice nel deserto: quando giunge il bene, egli non lo vede; abita in luoghi aridi, nel deserto, in terra salata, senza abitanti.»
1. LA CAUSA PRIMARIA DELLA DECADENZA DEL MONDO ARABO




Il coraggio di re Abdallah di Giordania

di Martin Pillitteri

Dopo due anni dalla sua formazione, il governo giordano guidato dal primo ministro Faisal al-Fayez, è stato sciolto e mandato a casa dal Re Adballah. A formare un nuovo esecutivo è stato scelto un accademico, Adnan Badran. In una lettera scritta personalmente dal re giordano, questi spiega di aver scelto
Re Adballah
Badran per la sua onestà e per il suo spirito riformista. “In una regione con così tanti conflitti e difficoltà”, sostiene il Re, “ci vuole del tempo prima che i frutti delle riforme maturino però bisogna essere decisi e risoluti”.
    Secondo la stampa araba, il rais giordano è molto frustrato dalla spirale stagnante del suo paese. Le riforme sociali ed economiche annunciate da tempo non sono mai iniziate.
    Sempre la stampa araba, ha citato come in un recente incontro a Washington del re con l’entourage di Bush, Abdallah sarebbe stato pressato e incoraggiato nel prendere iniziative forti e incisive, necessarie al paese e all’intera regione. Un giornale libanese ha anche scritto che gli Usa avrebbero minacciato di interrompere gli aiuti economici alla Giordania qualora non venissero prese iniziative per uscire dall’impasse stagnante nella quale il paese è entrato. Il re è passato dalle parole ai fatti. Via il premier, via i ministri, e spazio ai veri riformisti.
    Anche Mubarak si trova in una situazione del genere. Gli americani gli hanno più volte espresso il loro disappunto in merito alla lentezza delle riforme in Egitto. Il presidente egiziano barcamenandosi di qua e di là e con qualche scatto di reni, si è un po’ messo in una luce migliore, ma è una luce adatta alle riforme cosmetiche, ovvero passettini che non sono altro che trucchi per mascherare la tragica realtà egiziana e per accontentare un po’ tutti. Abdallah di Giordania ha fatto di più. Ha avuto infatti il coraggio di ammettere pubblicamente quella che è forse la causa primaria della decadenza del mondo arabo: il fondamentalismo fomentato dall’antisemitismo.
    Dopo la ramanzina della Rice, Abdallah ha parlato a Washington in occasione di un forum davanti a una platea dei rappresentati delle comunità ebraiche, dicendo cose sacrosante sulla spirale antisemita dell’integralismo islamico e che se non ci si dà una regolata nel fomentare il fondamentalismo, tutti, compresi i musulmani moderati, ne pagheremo le conseguenze. “Bisogna che il mondo arabo”, ha detto il re, “accetti Israele come legittimo vicino di casa con tutti i diritti e doveri che ne conseguono”. La nomina del nuovo ambasciatore Giordano in Israele è arrivata pochi giorni dopo.

(L’Opinione.it, 11 aprile 2005)





2. VELENOSI MATERIALI ANTISEMITI E «INDIGNAZIONE»




Cosa insegnano le scuole islamiche?

di Daniel Pipes

“Sono indignata!” è quanto ha asserito Aisha Sherazi, preside della scuola islamica Abrahar di Ottawa, a nome dell’amministrazione e del consiglio scolastico, dopo aver appreso la notizia che la scorsa settimana due insegnanti hanno incitato all’odio contro gli ebrei.

Una reazione “indignata” è quella mostrata da Mumtaz Akhtar, presidente del Consiglio della Comunità musulmana di Ottawa, alla notizia da prima pagina riguardante la scuola Abrahar.

Ma probabilmente sono state le uniche due persone al mondo ad essersi “indignate” per il comportamento antisemita e filoislamista tenuto dagli insegnanti di una scuola islamica. Il fatto è che da indagini condotte in seno alle scuole islamiche risulta ripetutamente una simile visione islamica radicale. Qui di seguito alcuni esempi:

New York City. Un’indagine condotta nel 2003 dal New York Daily ha scoperto che i testi utilizzati nelle scuole islamiche della città “abbondano di imprecisioni che inducono al biasimo di ebrei e cristiani e ridondano di dichiarazioni in merito alla supremazia dell’Islam”.

Los Angeles. Nel 2001, la Omar Ibn Khattab Foundation fece dono di 300 Corani (dal titolo The Meaning of the Holy Quran) al distretto scolastico della città, testi che nel giro di alcuni mesi dovettero essere rimossi dalle biblioteche scolastiche a causa dei commenti antisemiti. Una nota in calce così recita: “Nella loro arroganza, gli ebrei hanno asserito che tutta la saggezza e la conoscenza di Allah erano racchiuse nei loro cuori… Quanto affermato non è solo arroganza ma anche blasfemia”.

Ajax, in Ontario, 50 km ad est di Toronto. L’Institute of Islamic Learning è un’emulazione canadese delle estremiste madrassah Deobandi del Pakistan. Esso si occupa esclusivamente di questioni religiose, consta di studenti che imparano a memoria il Corano, pretende la totale segregazione dall’ambiente canadese ed esige un’assoluta separazione dei sessi. Gli ex alunni protestano contro una sorta di venerazione da parte della scuola nei confronti del suo capo, Abdul Majid Khan, e lamentano il fatto che essa “ha distorto la religione per utilizzarla a proprio beneficio”.

Vi sono inoltre 4 importanti scuole islamiche nell’area di Washington, D.C. :

• La Muslim Community School di Potomac, in Maryland, instilla nei suoi studenti un senso di disaffezione dal loro stesso paese. Nel 2001, Miriam, che frequentava la settima classe, raccontò a un reporter del Washington Post che “essere americani significa solo essere nati in questo paese”. Ibrahim, dell’ottava classe, dichiarò “essere un americano non significa nulla per me”.

• Un libro di testo adottato alla Islamic Saudi Academy (ISA) di Alexandria, in Virginia, nel 2004, scritto e pubblicato dal Ministero dell’Istruzione saudita, insegna agli alunni delle prime classi che “ogni religione, all’infuori dell’Islam, è falsa, inclusa quella degli ebrei [e dei] cristiani”. Ahmed Omar Abu Ali, un ex studente dell’ISA diplomatosi a pieni voti, è stato di recente accusato di aver macchinato l’assassinio del presidente Bush.

• Nel 2004, il governo americano revocò i visti di sedici persone affiliate all’Institute for Islamic and Arabic Sciences in America (IIASA) di Fairfax, in Virginia. Il Washington Post così scrisse: “Questa decisione ha fatto seguito alle accuse che l’istituto, un campus satellite della al-Imam Muhammad Ibn Saud Islamic University di Riad, operava a sostegno di un certo Islam che i critici definiscono intollerante di altri ceppi religiosi come il cristianesimo e il giudaismo”. Inoltre, lo IIASA è oggetto di indagini per legami con il terrorismo.

• Nel 2002, la Graduate School of Islamic Social Sciences di Ashburn, in Virginia, raffigurata come una “presunta” istituzione scolastica in un affidavit che giustificava un’appropriazione di denaro da parte della scuola, subì il sequestro dei documenti finanziari per sospetti legami con il terrorismo.

Nelle istituzioni islamiche presenti in Nord-America non vi sono scuole che fanno eccezione. Un recente studio condotto dalla Freedom House ha riscontrato un problema parallelo nei velenosi materiali antisemiti e anticristiani rinvenuti nelle moschee americane. Le più importanti organizzazioni musulmane d’America, specie il Council on American-Islamic Relations (CAIR), vomitano antisemitismo e danno ospitalità a un neonazista. La stessa cosa accade in Canada, dove il leader del Congresso islamico canadese (CIC), Mohamed Elmasry, ha pubblicamente appoggiato l’idea di uccidere tutti gli israeliani al di sopra dei diciotto anni.

Finché i leader musulmani non si dichiareranno del tutto “indignati”, come il capitano Renault del film Casablanca, ogniqualvolta trapela una notizia di supremazia islamista, questo cancro continuerà a progredire inesorabile. Le scuole islamiche, le moschee e le altre organizzazioni musulmane come il CAIR e il CIC continueranno a giocare al gatto e al topo fino a quando ciò funzionerà.

Non funzionerà più solo quando verrà esercitata su di esse la pressione esterna di politici, giornalisti, ricercatori, musulmani moderati e di altri ancora. Costoro devono asserire espressamente e ripetutamente l’inammissibilità del veleno islamista. Solo allora la fraudolenta reazione “indignata” di oggi finirà per diventare sincera.

(New York Sun, 29 marzo 2005, archivio di Daniel Pipes)





3. UNA «ATMOSFERA DI SICUREZZA E TRANQUILLITÀ»




L’Autorità nazionale palestinese ha in progetto
di ripristinare le esecuzioni


di Y. Yehoshua*

Introduzione

Da quando è stata fondata l’Autorità palestinese, decine di cittadini sono stati giudicati colpevoli di tradimento dai tribunali civili, militari e della sicurezza di stato, per reati come il fornire informazioni a paesi stranieri, l’omicidio e lo stupro. Molti dei civili giudicati colpevoli sono stati condannati a morte mediante fucilazione. Tuttavia, ad oggi, solo alcune di queste sentenze sono state eseguite.

Secondo la Legge palestinese di base, che funge da costituzione provvisoria, “la sentenza di morte non verrà eseguita da alcun tribunale senza il benestare del presidente dell’Autorità nazionale palestinese”. Durante il suo governo, il precedente presidente Yasser Arafat approvò un numero limitato di esecuzioni; oggi, i casi di condanna a morte attendono il benestare dell’attuale presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen).


L’approvazione delle esecuzioni nel contesto del programma di riforme della Anp

Diversi importanti dirigenti palestinesi hanno di recente annunciato l’intenzione dell’Autorità di eseguire le condanne a morte pendenti. Il governatore di Gaza Nord, Sakhr Bsiso, ha reso noto che ultimamente Abu Mazen ha approvato un certo numero di condanne a morte. Come ha spiegato il ministro della Giustizia palestinese Farid al Jallad, “la Anp eseguirà la condanna a morte di alcuni palestinesi accusati di collaborazionismo e di aver passato informazioni a Israele”. Saeb al-Qidwa, direttore del sistema giudiziario militare, ha persino annunciato che “le sentenze verranno eseguite dagli apparati di sicurezza, sotto la supervisione degli apparati giudiziari civili e militari”.

Va sottolineato che, come hanno spiegato il ministro della Giustizia Farid al Jallad e il Mufti della Anp Ikrima al-Sabri, i condannati a morte e soprattutto coloro che sono stati giudicati dai tribunali militari con procedura abbreviata e dai tribunali della sicurezza di stato aboliti nel luglio del 2003, possono rivolgersi al gabinetto palestinese per richiedere un nuovo processo. Secondo al Jallad, il ministero della Giustizia palestinese ha già ricevuto due di queste istanze.

Le fazioni palestinesi e le famiglie delle vittime dei crimini stanno facendo pressione sulla Anp perché le sentenze vengano eseguite. Per esempio, il 5 febbraio 2005, un gruppo di circa un centinaio di uomini armati ha fatto irruzione durante una sessione del Consiglio legislativo palestinese a Gaza, cacciando il personale di polizia e impadronendosi dell’edificio. In base alle indagini condotte sull’incidente dal Centro per i diritti umani Al-Mezan, gli uomini armati rappresentavano un gruppo di famiglie che avevano perso parenti nel corso di incidenti violenti all’interno della Anp e avevano fatto irruzione nell’edificio per fare pressione sull’Autorità affinché eseguisse la condanna a morte degli assassini dei loro familiari. Secondo i risultati delle indagini, il gruppo ha lasciato l’edificio dopo un breve incontro tra Abu Mazen e i capi delle famiglie.

L’Unione degli ulema palestinesi ha esortato Abu Mazen ad approvare rapidamente le esecuzioni, “in modo da evitare spargimenti di sangue, tenere a freno la situazione sociale interna e agire per garantire la sicurezza e la stabilità del regime”.

L’intenzione di Abu Mazen di eseguire le condanne viene percepita come un tentativo di far applicare la legge. Recentemente si sono verificati numerosi casi di vendetta da parte di famiglie di vittime assassinate, perché le condanne a morte non venivano eseguite e alcuni dei criminali erano persino liberi di andarsene in giro anziché essere rinchiusi in prigione.


Membro di Fatah e dell’OLP: le esecuzioni ristabiliscono una “atmosfera di sicurezza e tranquillità”

Autorevoli dirigenti palestinesi hanno fatto notare che le condanne a morte devono essere eseguite, nell’ambito dell’attuazione delle riforme, e che si tratterebbe di una misura che ha lo scopo di porre fine all’anarchia e di dare ai palestinesi un senso di sicurezza. Abbas Zaki, membro del Comitato centrale di Fatah e del Consiglio legislativo palestinese, ha dichiarato che l’approvazione da parte di Abu Mazen delle esecuzioni “fa parte di un lungo elenco di provvedimenti da attuare nel contesto del programma di riforma e sviluppo con l’obiettivo di riportare un’atmosfera di sicurezza e tranquillità fra i cittadini e di offrire loro e alle loro proprietà la necessaria protezione “. Ha aggiunto: “Occorre affrontare il problema senza ulteriori indugi … Inoltre, l’esecuzione delle condanne sarebbe una dimostrazione del grado di coesione interna, della sincera intenzione da parte di tutti di procedere verso le riforme e di tentare di ristabilire il rispetto della legge, del sistema giudiziario e della loro indipendenza”.

Il direttore del Sistema giudiziario militare, Saeb al Qidwa, ha detto ai giornalisti a Gaza che l’esecuzione delle condanne a morte “aiuterebbe a instaurare un senso di sicurezza … L’anarchia presente oggi richiede una soluzione radicale”.

Il commentatore politico Talal Awkal ha spiegato che la mossa di Abu Mazen di far eseguire le condanne pendenti dimostra che egli è “seriamente intenzionato a procedere in base alle riforme interne, in particolare riguardo alla giustizia … L’obiettivo dietro questa mossa è rafforzare il sistema giudiziario, scoraggiare coloro che si arrogano il diritto di farsi giustizia da soli e dimostrare che l’Autorità palestinese è decisa coi suoi provvedimenti a ristabilire l’ordine e porre fine all’anarchia”.


Esecuzioni approvate dopo il consenso del mufti della Anp

Prima di approvare l’esecuzione delle condanne a morte, Abu Mazen si è consultato con il Mufti della Anp Sceicco Ikrima al-Sabri. Secondo Abbas Zaki, Abu Mazen ha consegnato a Sabri e alle autorità religiose ufficiali le pratiche relative a 51 uomini condannati, “dando loro disposizione di studiare i casi e di esprimere un giudizio su di essi nel più breve tempo possibile, visto che non è ragionevole differire o ritardare ulteriormente la decisione su questioni del genere”.

Secondo il direttore del Sistema giudiziario militare Saeb al Qidwa, sinora Sabri ha approvato circa 15 esecuzioni; tuttavia, una fonte vicina al Mufti ha detto alla TV Al Jazeera che Sabri ne ha approvate solo cinque. Sakhr Bsiso ha affermato che una volta ricevuta l’approvazione del Mufti, Abu Mazen ha ratificato numerose esecuzioni.

Ikrima Sabri ha dichiarato al quotidiano palestinese Al-Hayat Al-Jadida di considerare la consegna dei casi da parte di Abu Mazen come il riflesso di “un desiderio della leadership palestinese di chiedere il parere della Sharia islamica per rafforzare la propria posizione legale, per evitare di punire gente innocente e perché sia fatta giustizia … La Sharia islamica considera l’uccisione di un uomo come l’uccisione dell’intera società, come stabilito nel verso del capitolo Al Maida [capitolo 5]: ‘Chiunque uccida un essere umano, salvo che come punizione per un omicidio o per corruzione morale nella terra, sarà giudicato come se avesse ucciso tutta l’umanità; e chiunque salvi una vita, sarà visto come se avesse salvato l’umanità intera’; e come disse Allah [Corano 2:179], “nella [legge della] ritorsione, per te c’è la vita”. Ciò significa che Allah ribadisce che l’esecuzione della condanna a morte di un criminale, che ha commesso un omicidio premeditato, ha per scopo di proteggere la società e impedire che la gente si arroghi il diritto di farsi giustizia da sola”.


Le organizzazioni per i diritti umani sono contrarie alle esecuzioni

Le organizzazioni palestinesi per i diritti umani sono contrarie alla pena di morte, sostenendo persino che alcuni dei processi degli uomini condannati non sono stati affatto equi. Il Centro palestinese per i diritti umani a Gaza ha dichiarato che la pena di morte “è una delle punizioni più odiose e occorre agire affinché venga abolita in tutto il mondo e in particolare in Palestina, perché in contrasto con il diritto alla vita … Abolire questa forma di punizione

prosegue ->
non significa dimostrare indulgenza nei confronti di coloro che sono accusati di gravi crimini, compresi i collaborazionisti, ma piuttosto vuol dire che dobbiamo pensare a forme di punizione che servano da deterrente e allo stesso tempo preservino la nostra umanità”.

Ha spiegato Yasser Alawna, coordinatore della Commissione indipendente palestinese per i diritti dei cittadini (PJCCR), con sede nella parte settentrionale della West Bank: “Personalmente sono contrario all’esecuzione delle condanne a morte, soprattutto perché abbiamo documenti che dimostrano che in diversi casi sono state giustiziate persone, rivelatesi poi innocenti, sulla base di una sentenza emessa per placare l’opinione pubblica locale … La pena di morte danneggerà l’immagine dell’Autorità soprattutto perché, come stabilito dalla sua Legge di base, essa è vincolata dal diritto e dalle norme internazionali a tutela dei diritti umani”.

Secondo Alawna, “dobbiamo usare tutti i procedimenti [legali] possibili per garantire un processo equo e corretto a tutti gli accusati, dando loro il diritto di tutelarsi, di nominare degli avvocati difensori, di presentare il proprio caso prima all’accusa, di monitorare le indagini che li riguardano e anche di appellarsi. La cosa più importante è che vengano processati da tribunali civili, non militari …”.

Hussein Abu Hanoud, direttore del dipartimento giudiziario della Commissione indipendente palestinese per i diritti dei cittadini, ha spiegato che, come le altre organizzazioni in difesa dei diritti umani, anche la sua chiede l’abolizione della pena di morte e ha criticato i tribunali di stato che, afferma, “non garantiscono un giusto processo a coloro che sono stati condannati a morte”.

Il 17 febbraio il Gruppo palestinese di monitoraggio dei diritti umani ha diffuso un comunicato stampa in inglese dove si legge: “Lunedì 14 febbraio 2005, Sakher Bseso, il governatore di Gaza, ha annunciato che il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha trasferito 51 casi civili e militari di persone condannate a morte al Mufti di Gerusalemme, Sceicco Akermah [Ikrima] Sabri. Il presidente Abbas ha affidato allo Sceicco Sabri la responsabilità di decidere se far eseguire le condanne o meno.

Secondo le nostre statistiche, dalla fondazione nel 1994 dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) sono stati condannati a morte 68 palestinesi. Di queste 68 condanne, ne sono state eseguite sei e altre 4 persone sono state uccise da fuoco palestinese.

Il Gruppo ritiene che il fatto che Abu Mazen consideri ancora aperti 51 casi che dovrebbero essere già chiusi, crea una situazione poco chiara. I 68 palestinesi erano già stati condannati a morte all’epoca del precedente presidente Yasser Arafat. Abu Mazen ci deve una spiegazione della sua decisione. Sta infrangendo la legge palestinese che stabilisce la pena di morte per questi casi? Oppure pensa che, condannandoli a morte, Yasser Arafat abbia preso una decisione ingiusta?

Dalla fondazione della Anp nel 1994, 221 palestinesi sono stati uccisi da fuoco palestinese e altri sono morti pugnalati o in seguito a percosse. Oltre a questi, 100 palestinesi sono stati uccisi per la strada perché sospettati di collaborazionismo. Il Gruppo chiede ad Abu Mazen se intende assumere una posizione in tutti questi casi ed esige che egli prenda seri provvedimenti contro ogni forma di violenza, commessa da palestinesi, per garantire la sicurezza e la tutela del popolo. Il futuro della nazione sarebbe sempre minacciato se non si prendessero immediatamente provvedimenti contro la violenza”.

Il Mufti Ikrima Sabri ha criticato le proteste delle organizzazioni per i diritti umani contro le esecuzioni dicendo: “Il silenzio o il perdono per i crimini di omicidio causeranno liti, scarsa moderazione e [atti di] vendetta. Pertanto è fuori luogo l’opposizione di quelle che sono note come organizzazioni per i diritti umani, soprattutto alla luce del fatto che cosi si incoraggia la diffusione del crimine”. E ha aggiunto che queste associazioni “dovrebbero piuttosto occuparsi degli atti disumani compiuti dall’occupazione contro i palestinesi, come le donne costrette a partorire ai posti di blocco, la demolizione di case, l’uccisione di bambini e l’abbattimento di alberi … Qual è la posizione dei [gruppi per i] diritti umani di fronte a questi crimini?”.

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*Y. Yehoshua è direttore delle ricerche di MEMRI

(MEMRI, 2 aprile 2005)





4. BAT YE’OR, L’EGIZIANA CHE DENUNCIÒ IL JIHAD CULTURALE




Perché l’Europa legge la sua storia alla luce dell’Islam

di Anna Momigliano

Non è l’Impero la causa dell’antiamericanismo e dell’antisionismo. Per l’autrice di “Eurabia”, il vecchio continente ha una retro-prospettiva “coranica” che respinge le radici giudaico-cristiane.

In Egitto Bat Ye’or è nata e cresciuta come una “dhimma”, una “protetta” secondo la legge coranica che vede ebrei e cristiani come una minoranza da tutelare, a metà strada tra musulmani e infedeli. E sulla condizione, in pratica non molto tutelata, dei “dhimm” nei paesi arabi, è considerata da decenni una dei massimi esperti nel mondo. Dopo avere vissuto, sulla sua pelle il trattamento nei confronti delle minoranze religiose del regime egiziano (che dopo la sconfitta del 1956 ha costretto molti ebrei, lei compresa, a lasciare il paese), ha usato spesso il termine «dhimm» per riferirsi alla condizione “servile” dei paesi europei che intraprendono una politica internazionale filo araba. Del suo ultimo libro, appena uscito negli Stati Uniti, si sta già discutendo sulla stampa italiana: il titolo, Eurabia, si riferisce appunto all’alleanza che, secondo l’autrice, sarebbe nata tra l’Europa e i paesi arabi negli anni Cinquanta, dopo la guerra in Algeria, per poi consolidarsi durante la crisi energetica degli anni Settanta. «Un’alleanza - spiega al Riformista Bat Ye’or, in questi giorni in Italia - che ha dato vita a una struttura di lavoro a porte chiuse, un network complesso che sorveglia le relazioni tra Europa e paesi arabi su diversi piani: politica, economica e culturale, volta a unire Europa e Medio Oriente in un’unica entità geo-economica e geo-strategica, l’Eurabia, da contrapporsi agli Stati Uniti».
    Una lettura del dialogo euro-islamico e della posizione comunitaria nei confronti dell’Islam e Medio Oriente in odore di «conspiracy theory», eppure quella di Eurabia è una tesi che sta attirando l’attenzione di media e studiosi in Europa e Stati Uniti. Un punto particolarmente originale della tesi di Bat Ye’or è l’analisi dello sviluppo dell’antiamericanismo in Europa, fenomeno che la scrittrice interpreta come una reazione a un sistema di valori nato nel vecchio continente e trapiantato nel nuovo. Diversamente da quanto si pensa comunemente, spiega Bat Ye’or al Riformista, l’antiamericanismo di matrice europea non si baserebbe tanto su un’invidia nei confronti da parte delle potenze europee in declino nei confronti del ruolo privilegiato che la storia contemporanea ha conferito agli Stati Uniti: «l’America è un paese profondamente radicato nella cultura giudaico-cristiana, e ai valori a essi connessi, che è esattamente quello che l’Eurabia vuole sradicare e sostituire con una cultura coranica». Com’è possibile che l’Europa voglia sradicare la cultura giudaico-cristiana? «Naturalmente non tutta la Comunità europea voleva seguire questo cammino, ma alcuni paesi hanno accettato che jihad culturale venisse portata avanti nel continente, e la crisi energetica ha fornito un ottimo pretesto per dare all’Europa una prospettiva islamica della Storia. Così si è giunti a una situazione in cui l’Europa non è più in grado di giudicare autonomamente, con i propri strumenti, il proprio passato, ma secondo una prospettiva araba. Così questo jihad culturale e pacifico che ha cancellato dalla memoria storica mille anni di jihad violento e genocida. Questo approccio, inoltre, non significa solo rinunciare alle proprie origini giudaico-cristiane, ma anche ai valori laici dell’Illuminismo». Il risvolto culturale dell’alleanza euro-islamica, spiega Bat Ye’or, non è altro che l’altro lato della medaglia di un’alleanza economica: «gli arabi volevano avere influenza culturale sul continente, avere professori musulmani nelle università e costruire moschee; per gli europei invece la preoccupazione principale era il rifornimento di petrolio e tutelare i propri interessi industriali sul territorio mediorientale. Ma c’era anche una volontà, culturalmente radicata, di contrastare gli Stati Uniti. L’odio verso gli States, durante gli anni della guerra, era parte della struttura nazista e fascista, cosa che non va affatto sottovalutata, dal momento che le dittature nazi-fasciste a un certo punto controllavano metà dell’Europa. Inoltre lo stesso odio è altrettanto radicato nella cultura comunista. Di conseguenza, l’antiamericanismo costituisce un collante ideale per unire il continente europeo, e come tale è stato sfruttato». Lo stesso discorso vale per l’odio contro gli ebrei. «Nell’antisemitismo confluiscono radici culturali e un’agenda politica: è chiaro che l’antisemitismo sia anche profondamente radicato nella cultura europea, nell’odio secolare nei confronti degli ebrei che ha portato al genocidio, del resto è ovvio che se quest’odio non fosse abbastanza radicato nella cultura europea il genocidio non ci sarebbe mai stato. Eppure l’alleanza euro-asiatica ha creato una cultura nuova, che è fondamentalmente antiamericana e antisemita, dominata dal culto della causa palestinese. Non solo: questa alleanza è basata sul rigetto di Israele, è nata per essa. L’obiettivo principale di Eurabia è quello di creare una cultura unica che unifichi i paesi arabi al continente».

(Il Riformista, 16 marzo 2005)





5. ISTIGAZIONI ANTIEBRAICHE NEI TESTI SCOLASTICI PALESTINESI




RAMALLAH - Un nuovo libro di testo scolastico dell'Autorità Palestinese (AP) presenta l'istigatorio testo "Protocolli dei savi di Sion" come "decisioni segrete del primo Congresso sionistico". Su questo fatto ha attirato l'attenzione il Ministro per la Diaspora e Gerusalemme, Natan Sharansky.
    Si tratta di un libro di testo di storia contemporanea che è uscito nel 2004 e da quell'anno è usato nella decima classe. Per la prima volta i "Protocolli dei savi di Sion", un falso antisemitico della fina del diciannovesimo secolo, viene presentato come "fatto storico", ha detto Sharansky.
    "La presentazione dei Protocolli in questa forma menzognera è particolarmente grave perché quasi nello stesso tempo nuove copie sono apparse in Siria e in Egitto", ha aggiunto il ministro israeliano. "Negli ultimi mesi sono state diffuse in tutto il mondo attraverso librerie e pagine internet.
    
Lettera a Sharon
    In una lettera al Primo Ministro Ariel Sharon, Sharansky scrive: "Non c'è alcun dubbio: queste informazioni testimoniano che la direzione palestinese non sta facendo nessun adeguato sforzo per far cessare l'istigazioine e l'atmosfera di inimicizia tra i due popoli. Si tratta inoltre di una continuazione e addirittura di un inasprimento dell'istigazione dell'AP. La linea antisemitica, che negli anni scorsi era chiaramente riconoscibile, è stata rafforzata. Un reale avanzamento del processo di pace non è possibile fino a che continua l'istigazione nei libri di testo, soprattutto quando viene accentuata proprio nei nuovi libri che vengono adottati nei programmi scolastici". Questo ha dichiarato il ministro, stando al rapporto fatto dall'agenzia di notizie "Arutz Sheva".

Israele non è riconosciuto
    Sharansky ha preso le sue informazioni dal "Center for Monitoring the Impact of Peace" (CMIP) in New York. Questo centro esamina, tra l'altro, i libri scolastici negli stati arabi e in Israele che hanno un contenuto di istigazione contro altri popoli. Lì si è scoperto anche che più di 160 testi scolastici palestinesi non riconoscono Israele come stato indipendente. In quei testi Israele non si trova nemmeno sulle carte geografiche.

(Israelnetz Nachrichten, 11 aprile 2005)





6. BONHOEFFER E LA CHIESA CONFESSANTE




Da diverse parti in questi giorni è stata ricordata la figura di Dietrich Bonhoeffer, il pastore luterano impiccato dai nazisti il 9 aprile 1945. Certamente Bonhoeffer è da iscriversi fra le non molte figure del mondo cristiano tedesco che seppero riconoscere per tempo la natura perversa del regime hitleriano. Purtroppo però anche lui non può essere incluso tra gli amici degli ebrei. Dopo il boicottaggio ai negozi ebrei dell'aprile 1933, Bonhoeffer fece la seguente dichiarazione:

«Nella Chiesa di Cristo non abbiamo mai perso di vista l'idea che il "popolo eletto", che crocifisse il Salvatore del mondo, debba scontare la malvagità di tale azione con una storia irta di sofferenze» (S. Friedländer, La Germania Nazista e gli Ebrei, Garzanti, p.53).

Anche nella famosa «Confessione di Barmen» del maggio 1934, ispirata in buona parte dal teologo Karl Barth, la «Chiesa Confessante» si oppose pubblicamente al «paragrafo ariano» soprattutto perché tra i pubblici ufficiali di provenienza non ariana che avrebbero dovuto essere messi a riposo comparivano anche i pastori ebrei convertiti delle chiese protestanti di Stato, e questo era visto come un'indebita ingerenza dell'autorità statale nelle questioni ecclesiastiche. Vale la pena di riportare un brano del libro di Friedländer.

«Il paragrafo ariano venne applicato soltanto a ventinove pastori su ottomila; di questi, undici vennero esclusi dall'elenco perché avevano combattuto nella prima guerra mondiale. Fino alla fine degli anni trenta il paragrafo non venne mai applicato a livello centrale; la sua messa in atto dipese dalle autorità ecclesiastiche locali e dai funzionari locali della Gestapo. Dal punto di vista delle chiese, il vero dibattito era incentrato su questioni di principio e di dogma, il che escludeva gli ebrei non convertiti. Allorché, nel maggio del 1934, si svolse a Barmen il primo congresso nazionale della Chiesa confessante, non si udì una parola sulle persecuzioni, e questa volta non furono menzionati neanche gli ebrei convertiti.»

Quindi, la condanna dell'ideologia nazista, che pure fu chiara e coraggiosa, restò una condanna ideologica: allo Stato non fu riconosciuto il diritto di intromettersi in questioni che riguardavano Dio, la salvezza e la chiesa. Fu condannata l'ideologia, non la politica. Non a caso il conflitto che per diversi mesi occupò l'attenzione pubblica col nome di "Kirchenstreit" fu visto soprattutto come un contrasto interno alle istituzioni dello stato, e non come una reale, concreta lotta di opposizione al regime in quanto tale. Per il suo carattere di conflitto istituzionale, la lotta non coinvolse le chiese evangeliche libere, che pure ebbero le loro indiscutibili colpe morali. Si può quasi dire che quel contrasto fu la riedizione in forma moderna della medioevale contrapposizione tra Papato e Impero. Nel 1933 il papato vero e proprio si accordò immediatamente con l'impero, mentre una parte degli ecclesiastici di stampo luterano rivendicò la propria ecclesiastica autonomia. Forse è per questo che l'opposizione della Chiesa confessante al nazismo, oltre ad essere ampiamente celebrata dalle chiese protestanti storiche, è oggetto di grande considerazione anche da parte dei cattolici. Sperano sempre di poter dire che anche loro, sia pure in modi diversi, hanno fatto una qualche forma di opposizione alla follia hitleriana.
    Purtroppo invece bisogna riconoscere che in campo cristiano gli oppositori al regime nazista per motivi di coscienza e di giustizia furono molto pochi. Quasi tutti i pastori della chiesa confessante andarono poi a combattere nell'esercito tedesco; e della persecuzione degli ebrei in quanto tali non sembra che fossero molti a preoccuparsene. Quanto a Bonhoeffer, che pure a un certo momento si distanziò dalla Chiesa confessante, perfino il suo amico, parente e biografo Eberhard Bethge fu costretto ad ammettere che nei suoi scritti era presente un certo «antiebraismo teologico». «Antiebraismo teologico» che del resto non era difficile trovare neppure negli altri membri della Chiesa confessante.
    Si rammemori pure Bonhoeffer, se si vuole, ma purtroppo bisogna dire che agli ebrei la sua figura non può provocare sentimenti di particolare gratitudine. M.C.
    
(Notizie su Israele, 12 aprile 2005)





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