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Notizie su Israele 295 - 10 maggio 2005

1. «Gli ebrei evono confidare solo in se stessi»
2. Antisemitismo accademico
3. I sopravvissuti all'Olocausto vivono in povertà
4. I «professionisti d'affari» del Medio Oriente
5. Riflessione ebraica sul retaggio dato da Dio a Israele
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Isaia 44:21-22. «Ricòrdati di queste cose, o Giacobbe, o Israele, perché tu sei mio servo; io ti ho formato, tu sei il mio servo, Israele, tu non sarai da me dimenticato. Io ho fatto sparire le tue trasgressioni come una densa nube, e i tuoi peccati, come una nuvola; torna a me, perché io ti ho riscattato.»
1. «GLI EBREI DEVONO CONFIDARE SOLO IN SE STESSI»




AUSCHWITZ - Il Primo Ministro israeliano Ariel Sharon ha preso parte il 5 maggio scorso alla cerimonia "Marcia dei viventi", nell'ex campo di sterminio di Auschwitz. Con lui erano 30 sopravvissuti all'Olocausto e i loro nipoti, che adesso servono nell'esercito israeliano.
«Pur con tutti gli sforzi per portare avanti il processo di pace, dobbiamo sempre stare in guardia e confidare in noi stessi», ha detto il Premier nel suo discorso di apertura. «Gli ebrei possono confidare solo in sé stessi!»
Da 17 anni si svolge in Polonia, parallelamente al giorno della memoria dell'Olocausto in Israele la «Marcia dei viventi». In questa occasione migliaia di ebrei da tutto il mondo percorrono il cammino che dall'ex campo di concentramento di Birkenau conduce al campo di sterminio di Auschwitz. Nella seconda guerra mondiale 250.000 ebrei hanno percorso questa "marcia della morte". I partecipanti annunciano allora a gran voce: "Am Yisrael chai! - Il popolo Israele vive!"
Sharon ha attaccato gli avversari del piano di ritiro che hanno collegato l'evacuazione degli insediamenti ebraici all'Olocausto: "Chi fa questo paragone, commette un grave errore. La situazione è completamente diversa. Oggi formiamo uno Stato che prende le sue proprie decisioni, e non saremo più obbligati, come nel passato, a fare le cose più brutte.“
Ha sottolineato l'obbligo dei nipoti delle vittime a ricordare l'Olocausto alle future generazioni e a "sottolineare continuamente l'importanza dell'esistenza dello Stato ebraico". Allora il mondo ha taciuto. «Sono sicuro che i capi di governo di questo mondo si ricordano di come il mondo ha taciuto. Non permettete che se lo dimentichinino. Ricordatevi del silenzio del mondo!»
I 30 sopravvissuti all'Olocausto e i loro nipoti che adesso servono nell'esercito israeliano servivano a rappresentare il collegamento tra l'Olocausto e l'odierno Israele. «Di nuovo i sopravvissuti all'Olocausto stanno con noi su questo dannato terreno (Auschwitz). Di nuovo sono attorniati da uomini in uniforme. Ma questa volta non sono soldati delle SS, tedeschi, gente piena dalla voglia di uccidere, ma la generazione dei nipoti dei sopravvissuti, soldati dell'esercito israeliano, l'esercito del libero, sovrano Stato ebraico.»
Sharon ha concluso il suo discorso con queste parole: «La bandiera bianco-azzurra sventola, ardita e fiera. Questa bandiera sarebbe stata assolutamente necessaria qui 60 anni fa.»

(Israelnetz Nachrichten, 6 maggio 2005)





2. ANTISEMITISMO ACCADEMICO




Appello contro l'antisemitismo

Denunciamo il grave episodio di boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane, promosso da un'associazione accademica britannica, ultimo di una serie di episodi di intolleranza che si sono verificati in diverse università europee, fra cui l'Italia. Esprimiamo la nostra solidarietà piena ai colleghi respinti per il solo fatto d'essere israeliani. Facciamo appello alla comunità scientifica perché respinga con forza ogni forma d'antisemitismo vecchio e nuovo.

Le origini politiche e sociali dell'antisemitismo classico sono state largamente studiate. Diversa è la situazione di fronte a un nuovo antisemitismo, che si alimenta della tragedia mediorientale e israelo-palestinese, che ha come sfondo un'ostilità irriducibile nei confronti degli ebrei come stato e nazione.
Non si discute la libera critica delle scelte dei governi dello Stato d'Israele. Tale premessa è necessaria per evitare fraintendimenti. Ad essere in discussione è la forma che spesso assume la critica nei confronti dello Stato d'Israele, i diversi pesi e misure utilizzati per argomentarla, i luoghi comuni che animano la scena del discorso, il gioco perverso dei simboli, con le "vittime" che si trasformano in "carnefici". Per non parlare della falsificazione dei fatti, la demonizzazione di una parte rispetto l'altra, quando invece le parti avrebbero bisogno di essere aiutate a riscoprire la comune tragedia, attraverso la ricerca del dialogo per una soluzione pacifica e politica del conflitto.
Negli anni della guerra fredda il conflitto arabo israeliano ha assunto il carattere di una metafora di scontro tra occidente e comunismo, democrazia e totalitarismo, imperialismo e antimperialismo, colonialismo e anticolonialismo. Il conflitto rischia oggi di essere avvolto nella spirale di uno scontro radicale d'identità e di simboli religiosi, con conseguenze devastanti per l'intero bacino Mediterraneo.

Nel rifiuto di Israele, l'antisemitismo arabo e islamico proietta le angosce di un futuro incerto. Dalla tragedia del conflitto mediorientale si esce con una soluzione politica fondata sul riconoscimento dei rispettivi diritti, riparando i torti, ridando voce alla speranza di una riconciliazione, rifiutando la deriva dell'antisemitismo.

Luzzatto Amos,
Presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
Meghnagi David,
Università Roma Tre

(Morasha, 5 maggio 2005)


* * *

Nuove intolleranze crescono

di Giorgio Israel

Riparte dalle università inglesi (e ha code italiane) il boicottaggio accademico di Israele

La campagna per il boicottaggio di Israele in ambiente universitario prese le mosse in modo imponente nella primavera del 2002. Era un susseguirsi di raccolte di firme di professori universitari che aderivano all’indicazione di evitare contatti con le istituzioni scientifiche e accademiche israeliane e persino con i singoli qualora non avessero preso le distanze dalla politica del loro paese. Mi trovavo a Parigi in quel periodo, invitato da un’Università, e ricordo perfettamente il clima avvelenato, i colleghi che si presentavano in keffiah ai seminari, che ti chiedevano quali iniziative si stavano prendendo nelle università italiane contro Israele, come se fosse ovvio che una persona normale non potesse avere una posizione differente. Ricordo i rapporti divenuti insostenibili, le amicizie rotte, le improvvise preclusioni. A nulla valeva nei confronti dei più fanatici – per fortuna, non pochi compresero e cambiarono idea – sottolineare il carattere assolutamente inedito di una simile iniziativa. Neppure nei confronti delle istituzioni accademiche e scientifiche sovietiche erano mai state compiute scelte simili. E ciò in quanto si riteneva – giustamente – che fosse preferibile lasciare aperte le porte della collaborazione scientifica e culturale, in quanto, attraverso tale canale di dialogo, poteva trasmettersi il germe benefico della democrazia e della libertà. Chi vuole avere memoria ricorda benissimo gli accademici e scienziati sovietici che passeggiavano per i convegni nei paesi occidentali con la medaglietta di Lenin sulla giacca, mentre a casa loro i dissidenti finivano nel Gulag: nessuno mai si sognò di cacciarli via o di decretare un boicottaggio nei loro confronti. Ora, per la prima volta, si decideva di infliggere un simile trattamento a Israele.

Fu un’ondata di mefitica intolleranza che dilagò nelle università di molti paesi: soprattutto in Francia e in Inghilterra e in numerose università statunitensi, per fortuna quasi affatto in Italia.

Nel luglio 2002 si verificò un evento che contribuì a determinare l’inizio di una svolta. Mona Baker, direttrice del Center for Translation of Multicultural Studies presso l’Università di Manchester, cacciò due ricercatori israeliani – Gideon Toury dell’Università di Tel Aviv e Miriam Schlesinger dell’Università Bar Ilan – dal comitato scientifico di due riviste del centro, con la esplicita ed esclusiva motivazione che essi erano israeliani e quindi cittadini di quel paese dannato, e li sostituì con due ricercatori palestinesi. Per giunta, Schlesinger era una nota esponente del movimento pacifista israeliano… Un provvedimento di natura indiscutibilmente razzista che richiama un precedente storico: quando, nel 1938, l’Unione Matematica Italiana sostituì il suo rappresentante nel “board” della rivista tedesca di recensioni matematiche “Zentralblatt für Matematik”, ovvero il celebre scienziato Tullio Levi-Civita, in quanto ebreo, con due matematici ariani, Francesco Severi e Enrico Bompiani. Il carattere evidentemente razzista del provvedimento della Baker non consentiva alibi: coloro che si rifiutarono di dissociarsi dalla sua azione e mantennero la loro firma accanto alla sua nei manifesti di boicottaggio svelarono la loro assoluta malafede e il carattere fazioso – per essere eufemistici – delle iniziative di boicottaggio. Si può dire che da allora la campagna iniziò ad attenuarsi. Tanto che quando, circa un anno fa, fu presentato a varie case editrici in Francia un volumetto dedicato alla vicenda del boicottaggio e redatto da universitari non soltanto francesi, la risposta fu che ormai essa apparteneva al passato e non era più di attualità.

Chi poteva attendersi che, molto tempo dopo, proprio dopo la decisione del governo israeliano di ritirarsi da Gaza e la riapertura di un dialogo con l’Autorità Nazionale Palestinese, il boicottaggio sarebbe ripreso alla grande? Non se lo potevano attendere coloro che credono ancora alla buona fede dei promotori di tali iniziative e a cui il caso Baker non ha insegnato nulla. Non si è detto e scritto che una ripresa del dialogo israelo-palestinese, dopo tanti drammi, era una delicata piantina da preservare con ogni cura dalle intemperie? E non si è detto e scritto da ogni parte che Sharon aveva mostrato un coraggio senza precedenti? Lui è il “De Gaulle della Palestina”, si è detto e scritto. Le persone ingenue avevano quindi ogni ragione per ritenere che questo non era proprio il momento in cui scatenare una nuova campagna di boicottaggio. Ma si sbagliavano. Perché nella loro ingenuità non avevano previsto che mentre la mano destra lodava il “De Gaulle della Palestina”, la mano sinistra compilava il nuovo appello al boicottaggio – o se non si è trattato delle mani della stessa persona, si è trattato di un gioco delle parti tra compari.

Come commentare altrimenti l’incredibile silenzio (o quasi silenzio) con cui è stata accolta la decisione presa a maggioranza un paio di settimane fa dal sindacato dei professori universitari della Gran Bretagna (49000 iscritti) di boicottare le Università di Haifa e Bar Ilan? L’organizzazione britannica ha invitato i suoi aderenti a non stabilire alcun rapporto di collaborazione scientifica con le due istituzioni, fatta eccezione per quei loro dipendenti che mostrino un atteggiamento critico nei confronti della politica del loro paese… Ma quale autorità morale può mai esibire un’organizzazione che non ha fatto neppure stormire una foglia di fronte ai massacri compiuti da dittatori e satrapi del terzo e quarto mondo? Eppure, a fronte di un simile scempio dell’onestà intellettuale e della morale, il mondo accademico internazionale tace o al più borbotta, almeno finora.

Potrebbe essere di consolazione il fatto che in Italia, ancora una volta, il boicottaggio sembra non attecchire. Ma è meglio non rallegrarsi troppo. Perché è proprio qui che abbiamo avuto alcuni sintomi del riemergere dello scellerato fenomeno. Nei mesi scorsi, prima a Pisa, poi a Firenze, gruppi di autonomi dell’estrema sinistra hanno impedito l’intervento del consigliere Shai Cohen e dell’ambasciatore israeliano nell’ambito di seminari universitari. L’aspetto più inquietante di tali episodi è la copertura che è stata data agli atti squadristici da parte di ambienti e organi di stampa dell’estrema sinistra, come Il Manifesto. Giorni fa è accaduto il terzo episodio. A Torino, il consigliere Elazar Cohen dell’Ambasciata d’Israele ha potuto tenere una lezione nell’ambito del corso di Geografia Culturale della prof. Daniela Santus soltanto perché la predetta ha avvertito preventivamente la Questura. Ciò non l’ha salvata da un tentativo di aggressione fisica e da un lancio di razzi da parte di un gruppo di studenti “antisionisti”, appartenenti equamente all’estrema sinistra e all’estrema destra. Ancor più inaudito è il fatto che la docente sia stata costretta ad annunciare al Preside della sua Facoltà di dover rinunciare a proseguire l’attività didattica in aula, per le minacce ricevute, e di essere costretta a far lezione a gruppetti di tre/persone nello studio.

Questi fatti sono avvenuti pochi giorni prima del 25 aprile, che poteva essere la buona occasione per pronunciarsi su un evento di classico squadrismo da “manganello e olio di ricino” e che rientra quindi a pieno titolo nella tematica dell’antifascismo attuale, non di quello d’archivio. Al contrario, buona parte del mondo accademico, politico e giornalistico ha preferito voltare la testa dall’altra parte e dar fiato alle consuete trombe della retorica o delle consunte polemiche sulla “memoria condivisa”, mentre i soliti ambienti di estrema sinistra – ormai egemoni di quella di estrema destra che, sulla questione israeliana, sono divenuti la loro manovalanza – plaudivano neanche tanto a bassa voce alla “resistenza” contro il sionismo.

Ma converrà ritornare all’estero e alla vicenda degli universitari britannici per aggiungere una pennellata finale al quadro, tra il sinistro e il grottesco, della nuova campagna di boicottaggio.

Subito dopo l’inizio di questa campagna, il “Guardian” ha pubblicato (il 20 aprile) un articolo di un docente israeliano, Ilan Pappé, guarda caso “senior lecturer” in scienze politiche di una delle due università boicottate, quella di Haifa. Per dare una prova di quanto nella sua università imperi un clima di terrore illiberale, il nostro che cosa ha fatto? Ha pubblicato un appello al boicottaggio non soltanto della sua università, ma di tutte le istituzioni accademiche e, anzi, dello stato d’Israele “tout court”. “Faccio appello a voi – ha proclamato Pappé – a far parte di un movimento storico e di un momento che può portare a concludere più di un secolo di colonizzazione, occupazione di spossessamento dei Palestinesi”. Secondo Pappé, le “infamie” commesse dall’esercito israeliano sarebbero possibili perché coperte dall’autorità dell’accademia israeliana, e quindi scardinando questa si priverebbe di supporto morale l’esercito. Difatti, l’università sarebbe connessa ai servizi di sicurezza in quanto fornisce i diplomi “postgraduate”… Di conseguenza, gli accademici israeliani, gli uomini di affari, gli artisti e gli industriali hi-tech debbono ricevere il messaggio che occorre pagare un prezzo per il consenso alle politiche governative.

Non fermiamoci ulteriormente su simili deliri che offrono motivazioni sufficienti per interrogarsi sull’adeguatezza scientifica di simili personaggi, peraltro abbastanza isolati. Chiediamoci piuttosto perché si comportano così. La prima risposta richiama la nota e quanto mai efficace caratterizzazione di François Furet del “tratto unico della democrazia moderna nella storia universale”, da cui Israele non è certamente esente: “questa capacità infinita di produrre dei figli e degli uomini che detestano il regime sociale e politico in cui sono nati, odiano l’aria che respirano, mentre vivono di essa e non ne hanno conosciuto un’altra”. Questa caratteristica trova oggi la sua espressione quintessenziale nella vasta internazionale della cultura postmoderna e postcomunista, antioccidentale e alterglobalista che domina gran parte dei campus universitari, dagli Stati Uniti all’Europa, e che non manca di estendere le sue propaggini, sia pure minoritarie, anche in Israele. Ma una siffatta spiegazione, pur fondatissima e che individua i tratti caratterizzanti di questo fenomeno culturale e sociale, non basta a rispondere alla domanda del perché proprio ora e perché tanto rinnovato attivismo da parte di questi “intellettuali” israeliani. La risposta sta precisamente nel “proprio ora”. Proprio ora, perché adesso si profila un possibile percorso di soluzione, intricato e difficile quanto si vuole, ma realistico e che, soprattutto, ha come prima tappa un evento concretissimo: il ritiro da Gaza. E perché questo percorso non è il “loro”, non è quello dei cosiddetti “accordi di Ginevra”, o di analoghe chiacchiere prive di qualsiasi fondamento concreto, ma quanto mai utili ad attirare come una calamita l’interesse, le passioni e le simpatie dell’antisionismo internazionale; ovvero di coloro che, come si constata ancora una volta in questi giorni, non hanno a cuore la pace quanto l’eliminazione dello stato di Israele. Cosa resterebbe da fare ai personaggi alla Pappé, se tutta l’attenzione si incanalasse attorno al ritiro da Gaza e agli sviluppi geopolitici connessi? Chi li intervisterebbe più sui grandi giornali, alle televisioni e alle radio occidentali? Chi si preoccuperebbe più di tanto di tradurre i loro libri, di recensirli e diffonderli? Ecco allora che, di fronte al rischio dell’assoluta irrilevanza, questi personaggi, invece di stimolare il processo iniziato nella direzione da essi ritenuta opportuna, lo ostacolano di fatto, si agitano istericamente e chiedono aiuto ai loro confratelli accademici di ogni continente, cogliendo l’occasione del riemergere della campagna di boicottaggio. È da augurarsi soltanto che il corso degli eventi sanzioni nei fatti questa irrilevanza e dia loro l’opportunità di esibire le loro qualità accademiche, scientifiche o letterarie e non soltanto la capacità di esibirsi sulle tribune mediatiche.

(Il Foglio – 5 aprile 2005)





3. I SOPRAVVISSUTI ALL'OLOCAUSTO VIVONO IN POVERTÀ




GERUSALEMME - Il numero dei sopravvissuti all'Olocausto che vivono in Israele è evidentemente più grande di quello che finora si pensava. Uno studio del "Brookdale Institut" ha contato 327.000 sopravvissuti alla persecuzione nazista, la maggior parte dei quali oggi vive sotto la soglia di povertà.
    Fino ad ora, il numero ufficiale dei sopravvissuti all'Olocausto che adesso vivono in Israele era considerato tra 230.000 e 280.000. Una compagnia di

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assicurazione che nel 2003, in occasione di una richiesta di rimborso danni, eseguì uno studio, calcolò 265.000 sopravvissuti.
    L'indagine di Jenny Brodsky, del "Brookdale Institut", e del realizzatore di indagini di opinione Sergio Della Pergola, dell'Università Ebraica, offre adesso per la prima volta dati attendibili su questa questione. Su incarico del governo, si sono venute a sapere più cose sul numero e la situazione sociale, economica e sanitaria dei sopravvissuti.
    Il 40 per cento dei sopravvissuti vive al di sotto della soglia di povertà o appena sopra. Circa la metà di loro è venuta in Israele solo dopo il 1990.
    Il 25 per cento, stando al rapporto, deve decidere se comprare cibi o altri generi di prima necessità, come medicine. Dal 16 al 20 per cento ha confessato di non poter telefonare ai figli o andarli a trovare. Un terzo di loro si è lamentato che il loro appartamento nei mesi invernali è freddo.
    Questi risultati coincidono con quelli di uno studio eseguito nell'anno 2003 dal fondo svizzero per i sopravvissuti all'Olocauto, secondo il quale il 38 per cento delle vittime dell'Olocausto aveva bisogno di aiuti.
    Lo studio del Brookdale si basa su due fonti. Da una parte, su una inchiesta del 1997 dell'Ufficio Centrale di Statistica. In quell'occasione furono interrogati cittadini al di sopra dei 60 anni. Dall'altra, su un'indagine del 2003 condotta dal "Brookdale Institut" e dal Ministero della Sanità. In quel caso furono esaminati gli effetti della crisi economica sulle condizioni di vita di persone anziane. In entrambe le indagini si cercarono anche le relazioni con l'Olocausto.

(Israelnetz Nachrichten, 6 maggio 2005)





4. I «PROFESSIONISTI D'AFFARI» DEL MEDIO ORIENTE




Hamas contro l'America

di Daniel Pipes

Lo sforzo esercitato dall'amministrazione Bush, volto ad instaurare una rapida democrazia in Medio Oriente, presenta una conseguenza sempre più evidente: se gruppi islamisti come Hamas sono dei vincitori elettorali in fieri, le potenze occidentali dovrebbero smetterla di etichettarli come gruppi terroristici e arrivare piuttosto ad accettarli.

Si è giunti a una simile conclusione partendo da taluni sforzi come quello condotto da Alastair Crooke e dalla sua organizzazione denominata Conflicts Forum; come il tentativo da parte dell'Unione europea di avviare un dialogo con gli islamisti; e grazie a una sorprendente dichiarazione in cui il portavoce della Casa Bianca alludeva ai membri di Hamas chiamandoli "professionisti d'affari".

Prima che questa riabilitazione di Hamas si spinga oltre occorre osservare che l'organizzazione non solo ha ucciso oltre 400 israeliani ma si è anche addestrata a muovere guerra contro gli Stati Uniti.

C'è una giustificazione ideologica della guerra. Nel 2003, Hamas dichiarò che il presidente Bush era "il maggior nemico dell'Islam" e nel 2004 lo definì "il nemico di Allah, il nemico dell'Islam e dei musulmani". Un comunicato stampa del 2004 annunciava: "Hamas ritiene che gli Stati Uniti siano un nemico e un complice del nemico israeliano nell'aggressione contro i palestinesi. L'America si assumerà la responsabilità di essere complice di Israele."

Le cellule logistiche di Hamas si potrebbero presto trasformare in cellule operative. Eli Lake ha rivelato sul New York Sun che all'inizio del 2002 l'FBI aveva arguito che da 50 a 100 agenti addestrati da Hamas e da Hezbollah "si erano già infiltrati negli Stati Uniti" dove lavoravano "alla raccolta di fondi e alla logistica", ma Dennis Lormel, che in passato ha prestato servizio nel contro-terrorismo dell'FBI, osserva che queste cellule "possono diventare operative".

Nel febbraio 2005, Robert Mueller, direttore dell'FBI, ribadì l'esistenza della minaccia. "Sebbene ciò costituirebbe un grosso cambiamento strategico per Hamas, in teoria la rete presente negli Stati Uniti è in grado di facilitare la perpetrazione di atti di terrorismo nel territorio americano". Secondo un alto dirigente del contro-terrorismo governativo, Hamas potrebbe unire le proprie forze a quelle di elementi appartenenti "all'intero braccio armato" di Osama bin Laden per poi "condurre insieme degli attacchi militari" contro gli Stati Uniti. "Essi hanno pianificato delle operazioni da compiere in loco, sono in possesso delle risorse necessarie per sferrare un attacco quando e come vorranno".

Boaz Ganor, esperto di contro-terrorismo, rileva che "formalmente Hamas non prende parte - e non ha nessuna intenzione di farlo - a un attacco terroristico sul suolo americano. Credo che però non sia assurdo pensare che Hamas possa cambiare strategia, e che i suoi membri sarebbero disposti a vagliare una simile opzione".

Hamas è diventata globale. Corre voce che essa sia attiva, che stia organizzando degli attacchi contro le forze americane in Afghanistan, Iraq e Kuwait. Un episodio degno di nota è quello che vede protagonista Ahmed Mustafa Ibrahim Ali, un palestinese legato presumibilmente ad Hamas, che nell'aprile 2004 sparò a tre agenti di custodia americani in un carcere del Kosovo.

La rabbia palestinese potrebbe incitare alla violenza negli Stati Uniti. Ken Piernick, che aveva diretto gli sforzi del contro-terrorismo dell'FBI contro Hamas, ha raccontato al New York Sun: "Con l'andar del tempo, una caustica e molto volubile ostilità che fermenta a Gaza si diffonderà lentamente tra le cellule di Hamas e Hezbollah presenti in America. Negli ultimi due anni, abbiamo già avuto modo di assistere negli Stati Uniti alla retorica incendiaria da parte dei loro fiancheggiatori. Quando ciò accadrà sarà come la bacchetta di vetro che si spezzerà".

Sono già stati scoperti negli Stati Uniti gli agenti operativi di Hamas potenzialmente violenti.
Nel novembre 2003, gli israeliani arrestarono Jamal Akkal, 23 anni, un immigrante canadese di origine palestinese, e un anno dopo egli si dichiarò colpevole di aver progettato di uccidere degli ufficiali israeliani in viaggio negli Stati Uniti come pure dei leader delle comunità ebraiche americane e canadesi.
Nell'agosto 2004, Ismail Selim Elbarasse, finanziere di Hamas di lunga data, venne arrestato per aver filmato i dettagli del Bay Bridge, in Maryland. Il Baltimore Sun riporta che ciò "azionò gli allarmi tra gli agenti investigativi del contro-terrorismo americano". Costoro considerarono l'incidente come un atto di ricognizione del ponte compiuto da Hamas e "come un potenziale legame tra Hamas e al-Qaida". Nei documenti presentati al processo, gli esperti asserirono che le immagini girate da Elbarasse che riprendevano il ponte includevano dei primi piani degli elementi "essenziali per l'integrità strutturale del ponte".
In poche parole, non bisognerebbe trascurare l'ipotesi che Hamas potrebbe attaccare gli Stati Uniti.

Nel giugno 2003 il presidente Bush asserì che "il mondo libero - coloro che amano la libertà e la pace - deve essere intransigente con Hamas" e specificò che "Hamas va smantellata". Quell'approccio dovrebbe rimanere il caposaldo della politica americana.

(New York Sun, 3 maggio 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





5. RIFLESSIONE EBRAICA SUL RETAGGIO DATO DA DIO A ISRAELE




Il nostro retaggio non è una semplice eredità

di Sergio (HaDaR) Tezza (*)

"E te l'ho data in retaggio, Io Sono l'Eterno"..." (Shemoth [Esodo] 6:8) - Queste sono le parole che HaShem l'Eterno usa quando parla a Mosè della Terra su cui ha posto la Sua Mano per darcela. "Morashà", Egli detto a Mosè: "retaggio", patrimonio nazionale.

Morashà è una parola usata solo due volte in tutto il Pentateuco; una volta come notato sopra, e l'altra proprio alla fine del Pentateuco: "Mosè ci ha comandato questa Torà, retaggio [morashà] della Congregazione di Giacobbe." (Devarim [Deuteronomio] 33:4. All'inizio della storia della nostra emancipazione, dopo la discesa nella profondità dell'impurità d'Egitto, una discesa in esilio [diaspora] che fu ordinata da Hashem allo scopo di farci poi risalire come Popolo, HaShem l'Eterno Dice a Mosè che ci ha dato un patrimonio in retaggio. Questo è il primo patrimonio nazionale che ci ha dato in retaggio, dopo averci scelti per i meriti dei nostri Padri, e prima dell'altro retaggio.

Notare che HaShem l'Eterno non dice "eredità" [yerushà, in ebraico], e la differenza non è una differenza minore. Un'eredità, insegnano i nostri saggi di benedetta memoria, può essere data via, spartita, distribuita ad altri, o persino rifiutata. Il che non è così per un retaggio, per un patrimonio nazionale. Un retaggio è qualcosa che non possiamo dar via o rifiutare. Un retaggio è come il patrimonio genetico che ci viene dato dai nostri genitori: è lì per rimanere, che ci piaccia o no. Una volta ereditata l'allergia al latte, se non te ne importa e bevi latte diventi malato.

E così è per il Popolo d'Israele in relazione alla Terra d'Israele e alla Torà d'Israele. Non ci è più data la scelta, abbiamo l'obbligo di accettarle; e se non lo facciamo, ci ammaliamo. Ci ammaliamo con le malattie dell'esilio e delle culture straniere, con l'impurità e l'idolatria, che, come insegna la Torà stessa, è anche idolatria in termini indiretti - servire coloro che servono falsi dei, o inchinarsi di fronte alle loro idee, alla loro cultura e ai loro costumi.

Il nostro grande Maestro, Rabbenu Bachye, uno dei Rishonim [i Primi Maestri, più antichi e di maggiore peso], fa una ghezerà shavà - un'eguaglianza per tramite di un attributo - fra la Terra d'Israele e la Torà d'Israele proprio a causa dell'uso della parola "Morashà" [retaggio, patrimonio nazionale, bagaglio ereditario] che si trova nella Torà vicina ad entrambe. (L'equivalenza per tramite di un attributo, la ghezerà shavà appunto, è una delle tredici regole di esegesi della Torà tramandata da Rabbi Ishmael circa duemila anni fa come tradizione di Mosè dal Sinai, nella celebre Baraithà che recitiamo tutti i giorni nella tefillà [preghiera] del mattino.) Il che dovrebbe già darci la misura del valore che Erets Israel, la Terra d'Israele, dovrebbe avere per un ebreo, per ogni ebreo. A fortiori, ancor di più per un ebreo osservante.

Vediamo, tuttavia, che a causa delle nostre molte mancanze, non è così; non solo per gli ebrei che osservano poco, ma anche per altri che in altri termini si potrebbero definire scrupolosamente osservanti. Quanti tra loro vivono completamente nell'oblio delle Mitswoth [comandamenti] relative alla Terra? Quanti non la perseguono come perseguono la Torà?

Il grande Saggio e Poseq [Decisore Halakhico] Rabbi Shelomò Issachar Teichtal, ZTU"QL, HI"D, scrive nel suo capolavoro Em HaBanim Semechà - scritto mentre si nascondeva dai nazisti, i"s, nel bel mezzo della fornace della Shoah in Budapest nel 1943 - che noi pecchiamo contro D-io perché non perseguiamo Erets Israel, la Terra d'Israele, come perseguiamo la Torà.

Nella sua dolorosa ricerca di una spiegazione a ciò che stava accadendo a lui stesso e alla sua famiglia, agli ebrei europei, molti dei quali erano ebrei molto osservanti, Rabbi Teichtel - e lui aveva pieno diritto di farlo poiché era lì! - pone la domanda molto dolorosa del perché il Signore permetteva a tutto ciò di accadere; perché stavamo vivendo un tale orribile Hester Panim [nascondere la Faccia, girarsi dall'altra parte] del Signore in relazione al Suo Popolo. Le sue conclusioni sono sorprendenti per uno che era quello che oggi sarebbe definito un "ultra-ortodosso", e certamente non un Sionista. Egli dice che eravamo puniti a causa del nostro rifiuto di perseguire Erets Israel, di cercarla e di attaccarci ad essa.

Ancora una volta stavamo ripetendo il peccato dell'80% del Popolo d'Israele in Egitto che non volevano partire, che stavano bene in galuth, nella diaspora, in esilio. La gran maggioranza, secondo i nostri saggi, non lasciò l'Egitto, ma perì nella Piaga delle Tenebre; una piaga che, infatti, durò molto di più delle altre per permettere agli ebrei di seppellire i loro morti e non essere svergognati dagli egiziani, e non dar loro ragioni di paragonare la punizione degli ebrei con la loro.

Ripetevamo ancora una volta anche il peccato delle spie. Il Gaon di Vilna, come riportato in Qol HaTur, capitolo 5, dice:

"Il peccato delle spie.. si aggira per il Popolo d'Israele in ogni generazione... Quanto è grande il potere della sitra achra [forze oscure] che riesce a nascondere dagli occhi dei nostri padri i pericoli delle klipoth [impurità]; dagli occhi d’Abramo la klipah della galuth [diaspora, esilio]... e ai tempi del Messia, la sitra achra attacca anche i guardiani della Torà con paraocchi... Molti dei peccatori del gran peccato di "e disprezzarono la terra desiderabile", e anche tanti guardiani della Torà, non sapranno o capiranno che anch'essi sono prigionieri del peccato delle spie attraverso molte idee fasulle e vuote pretese; e coprono le loro idee con l'idea già provata fallace che la Mitswà dell'insediamento della Terra non si applica ai giorni nostri, un'opinione che è già stata smantellata dai giganti di questo mondo, Rishonim e Acharonim [saggi antichi e moderni]..."

Anche oggi c'è gente che è pronta a dar via il nostro patrimonio ereditario ad altri in cambio di qualche centesimo o di una pacca sulle spalle dati da qualche potenza straniera. La loro punizione sarà enorme, e dobbiamo pregare di non rimanere tutti travolti da tale punizione, giacché Am Israel arevim ze le-ze, i Figli d'Israele sono responsabili l'uno per l'altro.

I Nostri Saggi di Benedetta Memoria dicono che solo in Erets Israel risiede la Shekhinà, la Presenza Divina. Lo Zohar giunge al punto di dire che Erets Israel ha l'attributo della Shekhinà. La Shekhinà ha l'attributo di "madre".

Secondo la mia modesta opinione, ciò può spiegare perché il Quinto dei Dieci Comandamenti, "Onora Tuo Padre e Tua Madre", si trova fra le Mitswoth ben adam LaMaqom [comandamenti tra l’uomo e D-io] e non tra quelle tra l'uomo e il suo prossimo. Il senso letterale del comandamento è certamente di onorare il proprio padre e la propria madre e, come c’insegnano i Saggi, onoriamo in tal modo D-io, di cui padre e madre sono gli emissari, i Suoi strumenti nella nostra nascita.

Tuttavia, penso che il significato profondo del comandamento è un altro: dobbiamo onorare HaShem, il Nostro Padre, e la nostra madre, Erets Israel, la Terra d'Israele che ha la qualità della Shekhinà. Ecco perché "Onora Tuo Padre e Tua Madre" è una Mitswà ben adam LaMaqom, un comandamento tra l'uomo e D-io.
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(*) L'autore definisce sé stesso come un "colono", "fanatico", "religioso" di Qiryat Arba

(Morasha, 15 aprile 2005)






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