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Notizie su Israele 301 - 23 giugno 2005 |
1. L'ultimo fallito attentato suicida 2. Un quadro dell'economia palestinese 3. Israele diventa una meta turistica cinese 4. Un programma israeliano per favorire l'alià 5. Un libro sulla presenza degli ebrei a Taranto 6. E' ancora valido l'ideale sionista? 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. L'ULTIMO FALLITO ATTENTATO SUICIDA
Avrebbe fatto strage dei medici che le avevano salvato la vita
Il tentativo di attentato suicida sventato in tempo dagli agenti di sicurezza israeliani sottolinea un comunicato del ministero degli esteri israeliano appare particolarmente inquietante per alcune sue caratteristiche. - La donna attentatrice stava entrando in Israele utilizzando un permesso medico speciale che aveva ricevuto perché potesse recarsi allospedale israeliano di Beersheba per seguire una serie di terapie in seguito a ustioni che aveva subito alcuni mesi fa in un incidente di cucina. Allora, tra il dicembre 2004 e il gennaio 2005, la vita della donna era stata salvata dagli stessi medici e paramedici israeliani che ora ella si proponeva di uccidere. - Il tentativo di attentato di lunedì non è che il più recente di una serie di attentati terroristici realizzati sfruttando la flessibilità in materia umanitaria che esercitano le autorità israeliane nonostante le concretissime minacce alla sicurezza cui devono fare fronte. Eppure, pur conoscendo questa tragica realtà, molte organizzazioni per i diritti umani non esitano a condannare Israele per le sue procedure di sicurezza ai posti di blocco, come ad esempio la necessità di perquisire anche le ambulanze. - Il tentativo di attentato ad opera di una giovane donna di Gaza dimostra ancora una volta nel modo più evidente il cinico e criminale abuso da parte dei gruppi terroristici degli elementi più deboli della società palestinese, come le donne e i bambini. - Israele aveva passato allAutorità Palestinese specifiche informazioni di intelligence riguardanti le intenzioni dei terroristi di inviare questa attentatrice. Ma lAutorità Palestinese non ha fatto nulla per impedire lattentato. Ciò dimostra ancora una volta lincapacità o la non volontà dellAutorità Palestinese di fermare il terrorismo e smantellarne le strutture armate, cosa che peraltro si è impegnata a fare più volte e pubblicamente, sia davanti a Israele che davanti alla comunità internazionale. Se questo attentato avesse avuto successo, sarebbero state infrante tutte le speranze di mantenere la calma necessaria per far avanzare il processo di pace alla vigilia del disimpegno israeliano dalla striscia di Gaza. (israele.net, MFA, 22.06.05) 2. UN QUADRO DELL'ECONOMIA PALESTINESE Palestina: le rovine della «rivolta» I territori della Cisgiordania e della striscia di Gaza scontano gli effetti di quattro anni di intifada. Tra l'aumento del livello di povertà, il declino generale dell'economia e le disfunzioni strutturali di un sistema in rovina si pone la necessità-dipendenza dagli aiuti esterni. di Andrea Magistrelli La situazione economica dei territori controllati dall'Autorità Palestinese e le possibilità di sviluppo futuro non possono che dipendere dall'evolversi della situazione politica regionale nel rapporto con Israele. Ciononostante, accanto ai risvolti dettati dalla specificità di politiche spesso altalenanti, sussistono diverse linee guida che permettono una visione di più ampio respiro sull'evolversi dello scenario economico. Quattro anni di caduta libera Dall'inizio della seconda intifada scoppiata nel settembre del 2000 i parametri riguardanti gli aspetti macroeconomici dei territori palestinesi hanno subito una pesante flessione in negativo. Il biennio 2000-2002 ha fatto registrare una recessione tra le più imponenti della storia moderna: la diminuzione del prodotto interno lordo pro capite ha subito una diminuzione di circa il 40% rispetto al periodo precedente, la disoccupazione è salita al 41% mentre il limite della soglia di povertà ha interessato più della metà della popolazione. Una performance così negativa è certamente da attribuirsi alle conseguenze correlate al conflitto in atto, in particolare la limitazione del transito di beni e persone imposta dalla necessità di sicurezza ha fatto sì che la rete degli scambi si sfaldasse e i costi legati alla produzione e al commercio aumentassero vertiginosamente. Dopo il dissesto subito nella fase iniziale, il 2003 ha visto una relativa stabilizzazione dell'economia palestinese; lungi dall'invertire la tendenza negativa rispetto al 1999, i parametri si sono attestati su valori tali da delineare una frenata del processo di recessione. Alla relativa stasi che ha caratterizzato questo periodo è però corrisposto un inasprimento del clima di violenza con ripercussioni negative sulla già pressante limitazione al traffico commerciale, inoltre, considerando i parametri di crescita della popolazione, si è presentato il problema della necessità di assorbire nuovi lavoratori in un mercato del lavoro bloccato dall'impressionante tasso di disoccupazione. Se dal punto di vista economico la situazione si presentava critica, altrettanto il settore dei servizi alla popolazione soffriva della mancanza di risorse disponibili; pur garantendo l'assistenza negli ambiti fondamentali come salute, educazione e forniture energetiche, l'Autorità Palestinese ha dovuto far fronte alla situazione ricorrendo sempre più abbondantemente all'assistenza fornita dagli aiuti internazionali, attestandosi in una condizione di effettiva dipendenza dall'azione dei paesi donors. La difficoltà nel reperimento di dati attendibili sull'andamento congiunturale dovuta all'instabilità dell'area fa sì che gli indicatori economici riguardanti il 2004 e il primo trimestre del 2005 siano calcolati sulle previsioni della Banca Mondiale contenute nel rapporto «La crisi economica palestinese. Una valutazione» dell'ottobre scorso. Prospettando uno scenario di mantenimento dello status quo rispetto alle premesse del 2003, l'economia della Cisgiordania e della striscia di Gaza conferma la recessione in atto; gli ambiti di maggior crisi sembrano essere la netta diminuzione del PIL pro capite (-3,3%), l'aumento del tasso di povertà - tornato ad interessare il 50% della popolazione - e della disoccupazione (28%). Ovviamente tale condizione può compromettere ulteriormente le possibilità di ripresa dal punto di vista socio-politico: l'estrema povertà, le distruzioni materiali delle abitazioni e degli impianti produttivi, le restrizioni alla libera circolazione e la sempre più remota ipotesi di ottenere un lavoro fomentano un malcontento che mina le prospettive di stabilizzazione dell'area. Interventi integrati e sostegno esterno La possibilità di invertire la tendenza in atto implica necessariamente l'intervento sui fattori che maggiormente impediscono lo sviluppo dell'economia, primo fra tutti la limitazione del transito di beni e persone sia a livello interno sia transfrontaliero. Parte di questo compito sembra poter essere svolto dal piano di disimpegno e ritiro dai territori, ciononostante, i benefici di questa politica si presenterebbero verosimilmente nella riduzione delle barriere interne ai territori, senza interessare l'apertura oltre confine. L'economia dei territori palestinesi necessita di un alto grado di integrazione sia all'interno dei territori stessi, sia nei confronti di Israele: negli ultimi anni circa il 90% dell'export palestinese si è diretto verso Israele o comunque attraverso esso. In questo quadro, appare inverosimile poter sostenere lo sviluppo di un'economia in piena recessione togliendo esclusivamente le barriere che limitano il transito di persone e beni all'interno dei territori senza regolarizzare il transito transfrontaliero. Fondamentale sarebbe dunque lo sviluppo di un clima di collaborazione con gli imprenditori israeliani. Tutto questo deve però necessariamente essere inserito in uno scenario di relativa sicurezza tale da non compromettere l'instaurarsi dei rapporti e lo sviluppo di collaborazioni protratte nel tempo. Le previsioni fino al 2006 presentano però uno scenario relativamente immutato, rispetto a quello dello status quo attuale, qualora gli interventi si limitassero esclusivamente all'abolizione del «regime di chiusura» vigente nei territori. Gli indicatori macroeconomici registrerebbero sì un'inversione di tendenza, ma non tale da poter assicurare il cammino verso la crescita e lo sviluppo di un'economia in rovina. Si pone dunque la necessità di una riforma strutturale dell'assetto economico regionale, a partire dalla costruzione di infrastrutture adeguate a favorire la ripresa economica. I progetti di più ampio respiro riguardano, oltre ovviamente alla sistemazione di una rete stradale adeguata, la costruzione di un porto commerciale a Gaza, essenziale per la crescita della competitività dell'economia palestinese, e possibilmente una via d'accesso privilegiata che colleghi questo alla Cisgiordania, considerando come presupposto imprescindibile il mantenimento di un livello di sicurezza accettabile. La presenza delle infrastrutture porterebbe, nella migliore delle ipotesi, allo sviluppo di un'economia più orientata verso la produzione e l'export: la possibilità è quella di sostituire il flusso di lavoratori palestinesi diretti in Israele con l'esportazione di beni prodotti sul territorio e destinati anche a paesi terzi. Verosimilmente uno spostamento così marcato degli equilibri economici regionali necessiterebbe di una stretta partnership tra le imprese israeliane e palestinesi, grazie alla quale i beni parzialmente o totalmente prodotti in Palestina troverebbero accesso al mercato estero attraverso le imprese israeliane, assicurando in questo modo un rapporto di cooperazione proficuo per entrambi gli attori coinvolti. Le analisi riguardanti le prospettive future e la fattibilità di un progetto così ambizioso hanno portato a riconoscere l'indiscutibile necessità della presenza di aiuti esterni per poter orientare verso la crescita l'economia palestinese. L'apporto offerto dai paesi donatori è risultato essere indispensabile negli anni, basti pensare che tra il 2001 e il 2003 si è attestato sulla media di 950 milioni di dollari l'anno, somma tale da costituire il 30% del PIL. Nel 2003 si è registrata una flessione delle entrate (883 milioni di dollari, una cifra comunque considerevole per gli standard internazionali) dovuta principalmente alla mancanza di riscontri diretti sull'utilizzo dei fondi da parte dei paesi contribuenti. Gli ambiti verso i quali gli aiuti internazionali sono stati devoluti hanno riguardato il supporto al budget, le emergenze e gli aiuti allo sviluppo, composti in maniera differente dipendentemente dalle necessità del momento. Buona parte di questi aiuti è stata utilizzata per il potenziamento delle infrastrutture e dei servizi, ma anche la lotta alla povertà ha avuto particolare rilevanza nell'allocazione delle risorse. Alla quasi dipendenza maturata dall'Autorità Palestinese nei confronti dei donors spesso non corrisponde però lo sviluppo atteso, mentre si registra altresì una distribuzione degli aiuti non in grado di raggiungere buona parte della popolazione che di essi ha bisogno. Gli obiettivi prospettati dai paesi contribuenti si snodano tra progetti a breve termine per la stabilizzazione economica, a interventi volti a ridurre il livello di povertà a lungo termine; punto di incontro tra queste prerogative sembra poter essere la creazione di nuovi posti di lavoro sul territorio. Aspetto problematico della questione è la mancanza di riscontri effettivi in questa direzione: l'UNCTAD avverte che la confluenza della maggior parte degli aiuti verso l'aspetto di emergenza umanitaria piuttosto che verso lo sviluppo corre il rischio di determinare dipendenze a lungo termine, vanificando così buona parte dei progetti e delle previsioni. Conclusioni Se da una parte le prospettive future non lasciano spazio a illusioni circa la ripresa dell'economia palestinese senza il supporto di riforme strutturali e aiuti esterni, dall'altra la realtà attuale si scontra con la necessità di una sicurezza ancora troppo labile e con la mancanza di riscontri evidenti sui progressi in atto. Per loro stessa natura, gli aiuti internazionali sono soggetti alle fluttuazioni imposte dallo spostamento degli equilibri geopolitici e al riconoscimento della loro effettiva applicazione. Le difficoltà incontrate, dovute in gran parte alle restrizioni imposte per la necessità di sicurezza, distolgono la comunità internazionale dal perseverare negli interventi umanitari, di emergenza e di sviluppo. Le prospettive per la ripresa sembrano giocarsi sul fragile equilibrio tra necessità di sicurezza e possibilità di interventi in un ambiente libero da eccessive limitazioni. Ancora una volta l'aspetto economico della questione non può che correlarsi agli sviluppi politici, e all'auspicio di una stabilità duratura indispensabile per la regione. (Equilibri.net, 17 giugno 2005) 3. ISRAELE DIVENTA UNA META TURISTICA CINESE Il ministro degli Affari Esteri cinese Li Zhaoxing, che si trova attualmente in visita in Israele, ha dichiarato in un incontro con il vice-primo ministro e ministro degli Affari Esteri Silvan Shalom che le relazioni tra la Cina, paese in sviluppo, e lo Stato d'Israele rispondono agli interessi dei due paesi. Li Zhaoxing ha dichiarato che la Cina è disposta a intensificare il dialogo con Israele sulle grandi questioni internazionali e ad aumentare gli scambi commerciali, agricoli, culturali e turistici. Il suo augurio è che il volume del commercio tra i due paesi del 2004 possa raddoppiare da qui al 2008. Ha anche annunciato che Israele ormai figura sulla lista dei paesi aperti ai turisti cinesi. Silvan Shalom ha affermato da parte sua che la Cina è un partner importante per Israele. Il governo israeliano resta fedele alla sua politica di una sola Cina e spera di rafforzare i suoi scambi con la Cina in tutti i settori. Si augura che la cooperazione e la reciproca comprensione tra i due paesi possano approfondirsi sempre di più. Israele inoltre ha deciso di abolire i visti diplomatici e commerciali ufficiali con la Cina. (Parlons Chinois!, 22 giugno 2005) 4. UN PROGRAMMA ISRAELIANO PER FAVORIRE L'ALIA' "Massà" - L'obiettivo : 20.000 Giovani All'anno Recentemente è stato inaugurato il nuovo e ambizioso programma dell'Agenzia Ebraica e del Governo d'Israele che conta di portare dalla Diaspora in Israele un giovane ebreo su cinque, per un periodo che va dai sei mesi ad un anno. L'esperienza insegna che il 25-30% dei giovani di programmi analoghi, a conti fatti, fa l'alià. di Natasha Mosgovia In questi ultimi anni, da quando il bacino di immigrazione dai paesi oppressi si è praticamente esaurito, in Israele si è giunti alla conclusione che se non ci si dà da fare per attuare programmi di alià, tra qualche decina di anni, il flusso migratorio si arresterà inesorabilmente. Ed ecco alcune buone ragioni che dovrebbero destare preoccupazione: negli ultimi trent'anni, la popolazione mondiale è aumentata di oltre il 70%, mentre quella ebraica è cresciuta soltanto del 2%; nella maggior parte delle comunità della Diaspora, il tasso di assimilazione e di matrimoni misti continua a crescere (nell'Europa dell'Est raggiunge addirittura il 75%). La critica virulenta dei mass media contro Israele e il nuovo antiebraismo, che si manifesta nelle comunità islamiche dell'Occidente, hanno demoralizzato gli ebrei che vivono nella Diaspora. Quasi ogni fenomeno ci penalizza: persino i cambiamenti nei modelli familiari determinano una contrazione numerica delle comunità (ad esempio, i nuclei familiari con un solo genitore evitano, di solito, di prendere parte attiva alla vita comunitaria). E se ciò non bastasse, vivere ebraicamente implica un tenore di vita molto elevato e per molti ebrei, che hanno difficoltà economiche, viene considerato un vero e proprio lusso. 75% di assimilazione Queste previsioni pessimistiche hanno favorito la realizzazione del programma "Massà" (in ebraico, viaggio), che rappresenta, nella sua estensione, il più grande progetto nazionale che intende mettere in contatto i giovani delle comunità ebraiche diasporiche con lo Stato di Israele. L'obiettivo è ardito: secondo il programma, un giovane ebreo su cinque che vive nella Diaspora (cioè 20.000 giovani all'anno) trascorrerà in Israele da sei mesi ad un anno o studiando o lavorando o facendo volontariato, ma, soprattutto, avrà modo di conoscere il paese. Oltre ai volontari, a quantità non indifferenti di sposi e spose "di provenienza estera", a decine di migliaia di ragazzi giovani e pieni di energie, che indubbiamente ci faranno divertire, il programma vuole anche essere un investimento economico conveniente: |
per ogni shekel investito dall'Agenzia Ebraica e dal Governo d'Israele (che si dividono le spese), se ne prevedono tre di rimborso. Nel dicembre 2004, infatti, il Governo, all'unanimità, ha approvato lo stanziamento di un budget speciale per questo progetto, che è così diventato operativo. "Oggi, l'unico modo per avvicinare i giovani delle future generazioni ad Israele è quello di fargli conoscere il paese, senza obbligarli a fare l'alià" dichiara il dottor Ilan Ezrahi, Direttore Generale di "Massà", una società operativa che è stata appositamnte creata per attuare il progetto. "Da parte nostra, si tratta di una combinazione vincente; da un lato, offre al nuovo arrivato la possibilità di conoscere a fondo il paese, di fare qualcosa di autentico, di vivere nella comunità, di crescere individualmente; dall'altro, il non sentirsi obbligato moralmente a rimanere qui, non lo condiziona a fare scelte irreversibili. L'idea di fondo è quella di creare un movimento di massa con un potenziale strategico annuale di migliaia di giovani. L'esperienza insegna che il 25-30% dei giovani fa, a un certo punto, l'alià, mentre gli altri diventano leader all'interno delle comunità ebraiche d'origine". Il reclutamento dei giovani per il programma "Massà" verrà fatto attraverso i rappresentanti dell'Agenzia Ebraica nel mondo e le ambasciate d'Israele, oltre a coloro che prendono parte al progetto, ai sostenitori dell'iniziativa e alla Campagna dei Centri nelle varie lingue. "Nella fase attuale, spiega Ezrahi, per rendere più avvincente il programma "Massà", stiamo cercando delle personalità ebraiche note che sostengano l'iniziativa con il loro prestigio". Il Sionismo nella Diaspora è ancora un po' ingenuo. Non temete che l'impatto con la complessa realtà israeliana abbia riscontri negativi? Ezrahi: "E' vero che tra i nuovi arrivati c'è della delusione, ma questo è comprensibile, perchè l'immigrazione è sempre un fenomeno complesso. Però, qui, noi ci rivolgiamo a ragazzi dai 18 ai 30 anni. Persone giovani, flessibili, che arrivano senza oneri familiari. Se dopo un anno in Israele decidono di restare, aumenta anche la probabilità di una loro riuscita integrazione. Inoltre, oggi l'ottica sionistica sostiene che la propaganda è inefficace; è molto meglio presentare la realtà in Israele come tale". Per una parte dei partecipanti al programma "Massà" si tratta di una storia d'amore, nel vero senso della parola. Yoav Kaufman, 31 anni, giunto in Israele nel quadro del WUJS, uno dei programmi del "Massà" rivolto ai giovani laureati, si è innamorato di Tali, la sua madrichà, e la coppia si sposerà a settembre. "Ottima domanda. Che cosa può invogliare un giovane, nel fiore degli anni, a fare i bagagli e ad andare a vivere per un anno in un altro paese, senza sapere se la cosa gli serve a qualcosa" dice Kaufman "A Seattle, ero proprietario di un'azienda, però avevo la sensazione che la mia vita non fosse completa. Volevo farmi una famiglia e volevo vivere in un paese in cui sentirmi come a casa mia. Ero già stato in Israele nel 1992, me ne ero innamorato e avevo sempre cercato un'opportunità per tornarci. Ho avuto una gran fortuna a partecipare a questo programma, che mi ha fatto incontrare con ragazzi di tutto il mondo. Ma, soprattutto, ho conosciuto la mia futura sposa. Dopo meno di un anno in Israele avrò una famiglia e adesso, fra una settimana, quando avrò concluso il periodo di permanenza previsto, comincerò a lavorare qui". I fratelli Marcelo (21 anni) e Dan (24 anni) Goldfarb sono nati in Brasile da madre israeliana, che, lasciando Israele, si era ripromessa di non tornarci più. I due, però, dopo aver visitato il paese col programma "Massà" hanno deciso di restarci. E la mamma, non avendo altre scelte, si è unita a loro. Ben Russel (19 anni) ha deciso di rinviare di un anno i suoi studi nella prestigiosa università di Cambridge per venire in Israele e frequentare uno speciale programma di formazione riservato agli adolescenti provenienti dai movimenti giovanili ebraici diasporici. Quando è arrivato in Israele nel settembre 2004, lo hanno mandato nell'insediamento di Bidiya, in Galilea, e qui ha cominciato il suo percorso di volontariato con quasi tutte le minoranze etniche d'Israele. All'inizio, ha insegnato inglese ai Drusi. Quindi, ha lavorato nel Centro di Assorbimento per nuovi immigranti dall'Etiopia e qui ha dato una mano a ristrutturare alloggi e ad assistere olim etiopi. Allo stesso tempo, ha lavorato con le popolazioni indigenti della regione. Dopo qualche mese, è stato mandato a Carmiel, per lavorare con le popolazioni beduine, arabe e circasse. Oggi studia e fa volontariato al Maghen David Adom (la Croce Rossa Israeliana). "E' l'esperienza più importante ed emozionante che abbia mai provato nella mia vita" sostiene Ben "ho cercato di capire che cosa significhi essere israeliano e, in più, che cosa significhi essere non ebreo in Israele. In questi sei mesi ho vissuto a fianco delle minoranze di Israele, mai ho appreso così tanto in così poco tempo. Non mi pento di alcun minuto trascorso qui e adesso penso seriamente di fare l'alià". "Un cambiamento nell'immagine di Israele" In questi ultimi due mesi, nel quadro del programma "Massà", sono arrivati in Israele complessivamente 5.500 giovani da tutto il mondo. Il nuovo programma è stato inaugurato con una cerimonia ufficiale a Beit Govrin, alla presenza del Primo Ministro, Ariel Sharon, del Presidente dell'Agenzia Ebraica, Sali Meridor, del Governatore della Banca d'Israele, Stanley Fischer e di migliaia di ragazzi arrivati recentemente in Israele. "Se riusciremo a realizzare gli obiettivi che ci siamo posti, avverrà un vero e radicale cambiamento nell'immagine del popolo ebraico" ha dichiarato il Segretario del Governo, Israel Maimon, preposto a tale programma. (Keren Hayesod, 12 giugno 2005 - adattato da Yediot Aharonot) 5. UN LIBRO SULLA PRESENZA DEGLI EBREI A TARANTO La Taranto degli Ebrei una città sconosciuta di Giuseppe Mazzarino Piero Cassano è un eminente personaggio tarantino legatissimo alla sua città per quanto ormai viva prevalentemente nella capitale. Un legame che è tradizione di famiglia: suo padre, Angelo Raffaele Cassano, storico presidente dell'Ept, fu uno dei padri del Convegno internazionale di studi sulla Magna Grecia oltreché animatore della vita culturale ed artistica della città. E anche Piero ha portato un suo importante contributo alla cultura storica ed archeologica tarantina, ideando un importantissimo premio, intitolato alla Fondazione Galeone, per opere storiche inerenti il territorio jonico. Il premio 2004 è andato ad un'opera di grande interesse, non solo di grande rigore scientifico, di Cesare Colafemmina, che investiga la poco nota e poco studiata presenza ebraica in Taranto, dalla distruzione del Tempio con l'inizio della diaspora fino alla definitiva cacciata dei Giudei dal vicereame napoletano decretata da Carlo V nel 1541, "Gli Ebrei a Taranto. Fonti documentarie", finalmente apparso come LII volume della collana di documenti e monografie della Società di Storia Patria per la Puglia, sotto gli auspici di Cosimo D'Angela. Cinque secoli di storia, anche se le prime testimonianze materiali (epigrafi tombali) datano soltanto a partire dal IV secolo. Ma che colonie ebraiche si fossero stanziate prestissimo in Taranto è asseverato dal Sefer Josefon, un'opera «che riscrive la storia di Israele, intrecciandola con quella romana e universale», risalente alla metà del X secolo, attribuita a Giuseppe Flavio ed interpolata nella prima metà dell'XI secolo. Non a fini di falsificazione, ma perché lo Josefon, ricorda Colafemmina, «era considerato un'opera "aperta", che i copisti arricchivano con rielaborazioni e aggiunte». Da quest'opera si apprende, conformemente a quanto le comunità ebraiche stesse si erano tramandate, che 5000 Ebrei catturati nella Città Santa furono «distribuiti» da Tito in Taranto, Otranto ed altre città della Puglia. Come che sia, alcune lapidi superstiti, ed altre delle quali restano purtroppo solo trascrizioni, testimoniano già nel IV secolo l'esistenza di ben radicate comunità ebraiche con un loro sepolcreto. Le prime lapidi sono bilingui, in Greco ed Ebraico; altre, più tarde, in Latino ed Ebraico; quasi tutte recano inciso o graffito il candelabro a sette bracci, la menorah, che è fra i maggiori simboli dell'ebraismo; alcune lo shofar, strumento liturgico ricavato dal corno d'ariete. Questi nostri lontani antenati (o ospiti dei nostri antenati, essendo stato il popolo ebraico sempre alquanto endogamico) si chiamavano Elia figlio di Iacob, Daudato (in Ebraico Natanael) figlio di Azaria e di Susanna, Anatolio figlio di Giusto, Samuele figlio di Silano, Ezechiele, Rachele, Shabbatai figlio di Leone, Giacobbe, Erpidia, Donnolo... E a proposito di Donnolo: il giorno 4 luglio 925 (secondo il calendario cristiano), 9 Tamuz dell'anno 4.685 della creazione del mondo per gli Ebrei, mettendo mano al suo Libro sapiente, commento al Sefer Yesirah, Shabbetai bar Avraham, detto Donnolo il Medico, famoso intellettuale dell'epoca, rievoca la distruzione di Oria ad opera dei Musulmani, quando lui stesso, dodicenne, fu preso prigioniero e riscattato in Taranto coi danari dei genitori. E ancora, apprendiamo che Taranto fu nuovamente sede nel XV secolo (come lo era stata fra X e XIII) di importantissimi scriptoria ebraici, che editarono importanti testi di medicina come di esegesi biblica, di mistica, di etica. Una città, insomma, ch'era tutt'altro che un oscuro villaggio popolato di semi-abbrutiti scampati alle varie, cicliche distruzioni... (La Gazzetta del Mezzogiorno, 19 giugno 2005) 6. E' ANCORA VALIDO L'IDEALE SIONISTA? Il nuovo fiato del sionismo: l'illuminazione mistica di Schlomoh Brodowicz Chi fu il primo illuminato del sionismo? Questione delicata quanto mai, perché la risposta dipende dall'idea che si ha del legame che il popolo ebraico intrattiene con la sua terra, così intrisa di sangue, sudore e lacrime. Questione tanto più delicata perché sulla sua scia si è tentati di chiedersi chi sarà l'ultimo illuminato. E la seconda risposta potrebbe perfino suggerire la prima. Il buon senso storico afferma che il primo a intravedere l'idea folle di una sovranità ebraica sulla terra ancestrale fu Theodor Herzl. Chiaramente, gli ebrei ortodossi in massima parte degnano soltanto di un condiscendente disprezzo questo ebreo assimilato che alcuni considerano un profeta, mentre affermava che la lingua del futuro Stato ebraico avrebbe dovuto essere il tedesco perché «l'ebraico è così povero che non si potrebbe usarlo per acquistare un biglietto del treno». [E mentre ancora scriveva "Lo Stato ebraico", il 5 luglio 1895 Herzl annotò nel suo diario: «Del resto, se volessi essere qualcosa, vorrei essere un prussiano di antica nobiltà». ndt]. Non è detto che abbiano ragione, questi ortodossi, perché qualunque sia stato il suo bagaglio ebraico e la sua visione, bisogna riconoscere che se quelli che hanno fede nella Torah dispiegassero per lei tanti sforzi quanti ne ha spesi Herzl - morto a 44 anni di esaurimento e tisi - per il suo proprio credo, il Messia forse si sarebbe già annunciato. Chissà... Il buon senso religioso afferma invece che il primo illuminato che ha aspirato con tutta la sua anima al paese d'Israele - che non era a un tiro di schioppo - fu Abramo, perché aveva abbandonato tutto per dirigersi verso quella terra che un D-o - che era l'unico al mondo ad aver identificato (si parla di un illuminato...) - doveva indicargli. Sì, ma era soltanto quello l'unico fermento da cui è sbocciata la vocazione ebraica per la terra santa? Personalmente ne vedo un'altro. Nell'episodio in cui Abramo sollecita Efron il "Chetita" a concedergli la grotta di Macpela per seppellire Sarah, si trova questa curiosa espressione: «Io sono un cittadino straniero in mezzo a voi». Il commentario di Rachi evidenzia questa ambiguità e spiega: «Delle due l'una: o voi accettate, e io ve la pagherò come uno straniero deve fare; o voi non accettate, e allora io mi comporterò come cittadino e la prenderò con la forza perché D-o me l'ha accordata». Torneremo su questo. Il buon senso storico dettò a Herzl, a Pinsker, ad A'had Aham e a molti altri dopo di loro che davanti all'ostilità dei popoli, davanti alla loro ostinazione a considerare gli ebrei come un irriducibile sciame di sanguisughe mefitiche, bisognava che questi prendessero in mano il loro destino edificando uno stato. In altre parole, dopo diciannove secoli di esistenza religiosa che non sembrava dovesse essere coronata un giorno da alcun destino glorioso, bisognava inaugurare un'esistenza politica, sola garante della restaurazione della dignità ebraica. Il progetto era folle, ma non stupido. E il cataclisma che seguì rese il progetto ancora meno folle e ancora meno stupido, anche se la sfida rimaneva titanica. Bisognava arrivare a possedere un paese in cui, secondo la colorita espressione del compianto Herbert Pagani, «uno sporco ebreo è soltanto un ebreo che non si lava». Quando gli ebrei avrebbero avuto un paese, avrebbero anche ottenuto un posto in quello che si è convenuto chiamare «il concerto delle nazioni». Non sarebbe più stato possibile prendere un ebreo nel mondo senza che un'entità ebraica legalmente riconosciuta davanti alle nazioni battesse i pugni sul tavolo. Al di là di tutte le opinioni e divisioni, bisogna inchinarsi con deferenza davanti a tutti coloro che dalla loro convinzione sincera sono stati spinti a sacrificare la loro vita affinché una scommessa così folle si materializzasse in una realtà storica. Soltanto questo: se il buon senso storico è buon senso, gli avvenimenti annunciano che per il popolo ebraico, il buon senso storico determinista non è tutto il buon senso. Dopo un mezzo secolo, si direbbe che all'ideale sionista dei padri fondatori non siano stati risparmiati gli oltraggi del tempo. Sembra che la scommessa di mantenere davanti alle nazioni la legittimità di una realizzazione, per molti aspetti miracolosa, sia più difficile di quel che sia stato un tempo farla scaturire dal nulla. I figli di coloro che hanno consacrato la loro vita a far fiorire la storia del loro popolo rivedono al ribasso le pretese di un pionierismo ormai desueto in un paese «come tutti gli altri». E - perdonatemi questa domanda sacrilega - dov'è che il buon senso storico ha fermato la sua corsa, visto che in Israele si assassinano più ebrei che in qualsiasi altro paese? Non è stato forse quello spaventoso pogrom di Pessach a Kinichev nel 1903, le cui foto - le prime del genere - sollevarono orrore nel mondo intero, a spingere molti cuori ebrei a decidere di farla finita con l'esilio? Ma se la stessa cosa può avvenire oggi a Netanya, dove va a finire il buon senso storico? Per contrasto - vi torniamo sopra - il sionismo di Abramo faceva poco conto del buon senso storico. Bisogna pensare che ne avesse già intravisto i limiti. E i figli di coloro che attraverso le generazioni si sono fidati di più della promessa fatta da D-o che di un pezzo di carta dettato alle nazioni in un accesso di contrizione tanto fugace quanto sospetto, sono quelli che oggi hanno deciso di non abbassare la guardia. Questi «illuminati mistici» dall'anima deviata da «rabbini fanatici» - ho scelto la terminologia più accessibile dal grande pubblico... - hanno almeno il democratico diritto di non considerare la loro esistenza ebraica in contraddizione con il loro patrimonio. La lucidità testarda che attingono dalla storia ebraica li avverte che la dialettica talmudica ha tenuto a galla per millenni un'identità ebraica attaccata sotto tutte le latitudini, mentre all'identità politica del buon senso storico manca il fiato per spegnere meno di sessanta candeline. Contrariamente alle immagini esagerate che offre di loro l'iconografia benpensante, non oppongono la civilizzazione moderna alla vocazione biblica, non preferiscono il pallottoliere al Pentium, e la maggior parte di loro sa che l'acqua calda è già stata inventata. Soltanto, non hanno scelto di far fiorire la loro vocazione ebraica sulla terra dei loro avi al solo fine di forgiarsi una dignità politica, tanto più che se avessero voluto dissolvere la loro identità nel successo sociale, nelle biotecnologie, nelle belle spiagge e nei locali alla moda, la problematica identitaria poteva essere risolta nei luoghi che hanno lasciato. E a minor prezzo. La conclusione discende senza appello: quelli che si aggrappano a Gush Katif possono degnamente continuare a evocare Abramo tre volte al giorno; mentre quelli che accettano di sottomettersi alla strategia della salsiccia farebbero bene a staccare il ritratto di Theodor Herzl da sopra la loro testa. Quella illuminazione lì sembra ormai superata. (Guysen Israël News, 27 febbraio 2005) MUSICA E IMMAGINI Wish I Was a Rich Man INDIRIZZI INTERNET Yedidim of Israel Messianischer Hilfsdienst Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |