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Notizie su Israele 304 - 15 luglio 2005

1. «Venite in Israele, questa estate!»
2. Un sondaggio dell'Anti-Defamation League
3. Effetto lacerante nella società israeliana
4. La macchina dell'autoillusione
5. L'area del Tempio e le menzogne musulmane
6. Scuse palestinesi per l'incitamento all'odio
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 55:6-8. Cercate il Signore, mentre lo si può trovare; invocatelo, mentre è vicino. Lasci l’empio la sua via e l’uomo iniquo i suoi pensieri; si converta egli al Signore che avrà pietà di lui, al nostro Dio che non si stanca di perdonare. «Infatti i miei pensieri non sono i vostri pensieri, né le vostre vie sono le mie vie», dice il Signore.
1. «VENITE IN ISRAELE, QUESTA ESTATE!»




Philippe Sarfati


«La mia carne non vale più di quella
dei miei fratelli israeliani»


di Philippe Sarfati



Sono in Francia. I miei figli sono in Israele, uno nell'esercito, l'altro abita a Netanya. Come al solito, il mio computer è acceso su www.guysen.com. Un messaggio appare sullo schermo:

«18.45 ATTENTATO A NETANYA: Un'esplosione è avvenuta nel centro commerciale della città.»

Il mio cuore smette di battere.
Sono pietrificato.
Mi precipito al telefono e comincio a cercare di telefonare. Devo sentire la voce dei miei figli.
Le linee telefoniche sono già sovraccariche. Dopo lunghi minuti di paura e di angoscia riesco alla fine a raggiungere il mio Benjamin. Il grande è da qualche parte sulla «via Filadelfia» dalla parte della striscia di Gaza, non una cosa da essere proprio rassicurati...
Come internauta, navigo sui siti israeliani, i siti francofoni, ascolto Galey Tsahal (una stazione della radio israeliana), vado a consultare i forum di certi siti comunitari per vedere se hanno più informazioni di me.
E lì la sorpresa... triste e deprecabile sorpresa. Su una «chat» comunitaria leggo dei messaggi di persone che cominciano a chiedersi se è possibile annullare il viaggio in Israele che avevano previsto per questa estate e, colmo del cinismo, si chiedono a quanto ammonteranno le spese di disdetta...
I discorsi erano di questo tipo: «Quest'estate in Israele salterà da tutte le parti, tra i problemi del "ritiro" e i terroristi palestinesi, non saremo sicuri»...
Alla lettura di queste frasi il mio cuore si è riempito di orrore e di vergogna...

Poche righe per inviare un messaggio alle comunità francofone.
Quest'anno, ancora più degli altri anni, bisogna venire a sostenere Israele; quest'anno, ancora più di tutti gli altri anni, abbiamo l'obbligo di essere solidali con questo Stato così caro ai nostri cuori.
A quelli che hanno paura di morire in un attentato, rispondo: voi avreste potuto essere a Londra qualche giorno fa, a Madrid qualche mese fa, a Bali in una discoteca, a New York in una torre, a Parigi mentre visitate le boutiques di rue de Rennes, e fermerò qui questa triste enumerazione, sarebbe troppo lunga e troppo dolorosa per tutti noi.
E quando dico «tutti noi», penso a tutti i democratici del mondo, ebrei e non ebrei, a tutti coloro che non pensano «terrore», a tutti quelli che rifiutano il terrorismo, a tutti quelli che rigettano la morte, a tutti quelli che pensano che NESSUNA causa al mondo, quale che sia, può giustificare un tale orrore, una tale abominazione, una tale barbarie.
Israele è un paese miracoloso, Israele è un paese formidabile, Israele è un paese dove molti di noi hanno dei legami, dei familiari, degli amici.
Noi dobbiamo visitare i nostri fratelli israeliani quest'anno.
A tutti coloro che non hanno famiglie o amici in Israele: venite lo stesso, Israele è un paese meraviglioso, non abbiate paura dei terroristi, in ogni caso non siamo più sicuri da nessun'altra parte.
I barbari bussano dappertutto nel mondo, in Europa, in Asia, nei paesi del Magreb, negli Stati Uniti. In breve, dovunque andiamo diventiamo il bersaglio di macellai, di bruti sanguinari, di terroristi assetati di sangue.
Conclusione: in Israele ci sono forti possibilità di essere più sicuri che in altri paesi del globo.
Ieri sera alla televisione francese, su certe catene di informazioni, i giornalisti ci parlavano in continuazione di «terroristi» quando si riferivano agli attentati di Londra e di «attivisti palestinesi» quando si riferivano all'attentato di Netanya. A priori, per quei giornalisti la parola «terrorismo» non ha lo stesso significato quando i morti sono israeliani...

Ve l'ho scritto nel titolo: La mia carne non vale più di quella dei miei fratelli israeliani. Quest'anno anch'io, come decine di migliaia di altre persone, partirò per Israele. Venite anche voi, venite numerosi! Soprattutto, non annullate il vostro viaggio! E a quelli che hanno scelto un'altra destinazione invece che Israele: ANNULLATELA!!!
E venite in Israele quest'estate.
Per la bellezza di questo paese.
Per amore di questo paese, per amore della democrazia o molto semplicemente per amore dell'umanità.
    
(Guysen Israël News, 12 luglio 2005)





2. UN SONDAGGIO DELL'ANTI-DEFAMATION LEAGUE




Ebrei: in Europa c’è ancora ostilità

Gli Ebrei hanno troppo potere nel mondo economico e parlano ancora troppo della Shoà. E’ quanto pensa una buona parte degli europei riguardo ai concittadini di religione ebraica.
    Soprattutto la pensa così metà degli Ungheresi e dei Polacchi. Mentre cinque italiani su dieci, invece, sono convinti che gli Ebrei abbiano un atteggiamento di maggiore lealtà verso Israele che nei confronti dell'Italia.
Sono questi alcuni dei risultati emersi da un sondaggio condotto tra aprile e maggio di quest'anno dall'Anti-Defamation League (Adl) in 12 Paesi europei (Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Germania, Olanda, Spagna, Svizzera, Gran Bretagna, Ungheria e Polonia). Seimila in totale gli intervistati (500 per Paese), ai quali è stato chiesto di esprimere un parere su una serie di affermazioni in parte corrispondenti a vecchi stereotipi sugli Ebrei.
    Rispetto ad un'analoga ricerca dell'anno scorso, l'Adl - che dal 1913 combatte qualunque forma di antisemitismo e di pregiudizio razziale - rivela che in alcuni casi si osserva un intensificarsi di atteggiamenti anti-semiti in Europa. In particolare, il 43% degli Europei - con una larga maggioranza di Italiani, Tedeschi, Polacchi e Spagnoli - ritiene 'probabilmente vero' che gli Ebrei siano più fedeli allo Stato di Israele che al loro Paese. Quanto al fatto che gli Ebrei siano troppo potenti nel mondo degli affari (la classica 'fandonia anti-ebraica', secondo l'Adl), a crederlo sono ancora il 30% degli intervistati, con un'alta percentuale di ungheresi (55%). Inoltre, per il 32% dei seimila cittadini europei interpellati, gli Ebrei hanno un potere eccessivo nei mercati finanziari internazionali. Molto alte le percentuali di coloro che ritengono 'probabilmente vera' anche un'altra questione considerate essenziale per verificare la consistenza di atteggiamenti anti-semiti: è infatti complessivamente il 42% dell'Europa (con punte del 52% in Polonia, 49% in Italia e 48% in Germania e Svizzera) a ritenere che gli Ebrei parlino ancora troppo di ciò che è accaduto loro durante l'Olocausto. Decisamente minore ma significativa, invece, la percentuale (20% complessivamente; 39% solo in Polonia) delle persone che ritengono che il popolo ebraico sia responsabile della morte di Cristo.
    "I risultati di questo sondaggio - afferma Abraham H. Foxman, Direttore nazionale dell'Adl - dimostrano che i singoli governi, l'Unione Europea e l'Osce, che hanno condannato l'antisemitismo ed hanno cercato di arginarlo, si trovano oggi di fronte alla sfida di trovare una formula che possa finalmente spezzare i vecchi stereotipi duri a morire." "Il fatto che migliaia di Europei - aggiunge Foxman - accettino ancora un'ampia varietà di stereotipi anti-semiti legittima e incita lo stesso anti-semitismo. E questo dato, unito ad una atmosfera in cui la violenza verso gli Ebrei è ancora prevalente, è per noi fonte di grande preoccupazione."
    Per quanto riguarda gli italiani il 55% di loro è convinto che gli ebrei siano più fedeli a Israele che all’Italia. Il 33% degli Italiani ritiene che gli Ebrei abbiano troppo potere nel mondo finanziario. Nel 2004 era il 29% a pensarlo. Il 20%, inoltre, ritiene che sia quasi impossibile competere con le persone ebree inserite nel mondo degli affari. Il 49% crede che gli Ebrei parlino ancora troppo di ciò che hanno vissuto durante l'Olocausto. L'anno scorso, si registrava sulla stessa questione una minor convinzione (44%). Infine il 14% degli Italiani concorda con il fatto che gli Ebrei siano responsabili della morte di Cristo.

(Il Giornale, 11 luglio 2005)





3. EFFETTO LACERANTE NELLA SOCIETA' ISRAELIANA




Israele: il disimpegno dai territori tra resistenze e nuove minacce

Il Primo Ministro Ariel Sharon affronta la sfida portata avanti da alcuni gruppi di coloni che si oppongono al suo piano di ritiro dai territori occupati attraverso una violenta opposizione e l’invito alla disobbedienza civile e militare. Si paventa una seria minaccia per la democrazia israeliana man mano che il fronte contrario al disimpegno si allarga.

di Enrico Frisone


Il disimpegno israeliano

Israele sta portando avanti il progetto di passare il controllo di più di 300 miglia quadrati in Cisgiordania all’Autorità Palestinese durante l’estate. Questa decisione rappresenta il più importante e significativo ritiro israeliano sul piano politico e demografico dal 1982, allorché venne trasferito il controllo della penisola del Sinai all’Egitto. Il piano, da completarsi entro la fine dell’anno, prevede l’esclusione della presenza militare israeliana nell’area di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, il cosiddetto “corridoio Philadelphia”, pur mantenendo il controllo aereo e la possibilità di operazioni navali nel mare antistante la zona. In merito alla Cisgiordania, Israele evacuerà gli insediamenti di Ganim, Kadim, Homesh e Sanur e tutte le installazioni militari permanenti ivi dislocate, continuando però ad essere presente nelle restanti zone d’insediamento. Il progetto sottolinea come l’innalzamento della barriera in via di costruzione proseguirà senza sosta e Gerusalemme si riserva il diritto all’auto-difesa, includendo in questa la possibilità di misure di reazione, ma anche preventive, nei territori evacuati.

L’evacuazione di tutti i 21 insediamenti a Gaza provocherà lo spostamento di circa 8000 israeliani che hanno vissuto in queste comunità per anni ormai e farà sì che quasi un milione e mezzo di palestinesi non siano più soggetti alla giurisdizione israeliana. Allo stesso tempo, il ritiro dai quattro insediamenti settentrionali in Cisgiordania creerà una regione contigua molto ampia, pari quasi a tre volte la grandezza di Gaza, a completa sovranità palestinese e libera da presenza israeliana. In questo caso, circa 430.000 palestinesi non saranno più sottoposti al controllo della sicurezza di Gerusalemme. La decisione di ritirarsi da questi territori configura il primo esempio di abbandono di insediamenti al di fuori del contesto di un trattato di pace che fosse stato approvato e firmato da entrambe le parti. L’intento del governo di Gerusalemme è dunque di assumere completamente l’iniziativa, portando avanti la propria visione del problema ed anticipando qualunque mossa da parte di attori esterni, tanto più che ogni iniziativa diplomatica, anche recente, si è risolta con un fallimento. Le proposte contenute nella Road Map, sostenuta da Stati Uniti, Unione Europea, ONU e Russia, sono attualmente congelate, in attesa di un vigoroso ritorno al dialogo. Secondo Sharon, il ritiro ha il chiaro intento di migliorare la sicurezza interna e proteggere la maggioranza ebraica del paese anche dalla minaccia dei trend demografici, vista la rapida crescita numerica della popolazione palestinese. Il tasso di crescita ebraica è, infatti, solo dell’1% annuo, a fronte di tasso della popolazione arabo-musulmana quasi triplo nei confini d’Israele, ma addirittura quadruplo nella Striscia di Gaza. Il pericolo di un eccessivo sbilanciamento demografico a favore dei palestinesi, che potrebbe anche mettere in forse l’esistenza dell’entità ebraico-sionista israeliana, spinge sempre più verso iniziative concrete che limitino in qualche modo un tale sviluppo.


Le conseguenze e gli effetti dell’evacuazione

Il ritiro unilaterale presenta specifiche incognite per la sicurezza d’Israele. Infatti, se pure le forze difensive israeliane saranno sollevate dall’oneroso incarico di dover difendere sporadiche ed isolate comunità ebraiche in territori che possono essere definiti ostili, la loro assenza da Gaza potrebbe permettere a gruppi terroristici di disporre liberamente di spazi, da cui coordinare eventuali azioni ed attacchi. Tanto più che Hamas ed altri gruppi palestinesi, stanno cercando di promuovere con forza la percezione secondo cui il governo israeliano starebbe procedendo al ritiro poiché costrettovi: la politica del terrore e della “libanizzazione” di Gaza avrebbe avuto successo in definitiva. Mahmoud al-Zahar, uno dei maggiori leader di Hamas a Gaza, risulta il più assiduo nel sottolineare pubblicamente lo stretto collegamento che esisterebbe tra intifada, lotta armata e sacrifici di Hamas da una parte, ed il piano d’evacuazione israeliano dall’altra. Il tentativo psicologico di rafforzare nel mondo arabo la “percezione post-libanese”, secondo cui la società e lo stato israeliano sarebbero sulla difensiva, se non addirittura in via di sconfitta, rappresenta per Gerusalemme uno degli elementi più delicati da affrontare riguardo l’intero progetto. Per il successo dell’operazione, Sharon ha pertanto bisogno dell’effettiva cooperazione dell’Autorità Palestinese, ma anche del governo egiziano, soprattutto per bloccare il traffico di armi attraverso il loro confine e per fare in modo che venga immediatamente colmato il vuoto di autorità che si creerà. Un illimitato ed incontrollato trasferimento di rifornimenti lungo questo canale si tramuterebbe in un vertiginoso aumento dell’insicurezza israeliana, vanificando i propositi dell’intera operazione.
Va comunque sottolineato come la leadership palestinese abbia più volte dichiarato come non procederà a concessioni politiche a favore d’Israele per il semplice fatto di aver rimosso insediamenti che, in base al diritto internazionale, riteneva da sempre illegittimi. E gli stessi Stati Uniti hanno evidenziato come il ritiro unilaterale non possa in alcun modo rimpiazzare o sostituire i progressi nell’applicazione della Road Map che l’intera comunità internazionale reclama.


L’opposizione al ritiro

Il sostegno politico dimostrato dalla società israeliana nei mesi scorsi nei confronti del disimpegno, non è riuscito tuttavia a mascherare la sofferenza con cui si accettava una siffatta soluzione, percepita comunque come assai dolorosa. Due sondaggi hanno chiaramente mostrato come a metà del mese di giugno il sostegno all’operazione decisa da Sharon fosse crollato al 50%, mentre solo un mese prima, raggiungeva un livello di due terzi della popolazione israeliana. Allo stesso tempo, l’opposizione saliva di molto, raggiungendo il 38%. Migliaia di persone che erano state incoraggiate in passato a stabilirsi in tali territori, sia da governi a guida laburista, che da compagini capeggiate dal Likud, e sono ora invitate a lasciare le aree interessate. Non appaiono al momento del tutto efficaci le proposte che il governo ha avanzato per incentivare il trasferimento e demotivare la resistenza: le terre offerte ai coloni, a nord della città israeliana di Ashkelon e presso le dune di Nitsanim, pur risultando molto vantaggiose ed attraenti per via della vicinanza al mare, non hanno annullato le proteste. Né sono servite le compensazioni in denaro, tra i 200.000 ed i 300.000 dollari, per eliminare le resistenze. A complicare la situazione è intervenuto nei mesi scorsi l’arrivo di nuovi coloni, i quali si sono insediati in località disabitate o abbandonate presso la spiaggia di Gaza, con il chiaro intento di incoraggiare altri a fare altrettanto, rendendo l’evacuazione governativa ancora più complicata. Temendo che altre strutture vuote potessero essere occupate, l’esercito israeliano è prontamente intervenuto con demolizioni ed abbattimenti di case ed edifici. Come ampiamente annunciato e previsto, le resistenze all’intero piano si stanno rivelando assai tenaci, soprattutto dalla maggioranza del movimento dei coloni, i quali sono però divisi riguardo le tattiche da utilizzare. Finora gli sforzi anti-disimpegno sono stati caratterizzati da blocchi stradali, sigilli di colla sulle porte e nelle serrature di edifici pubblici, chiodi lungo le vie di comunicazione ed altri piccoli atti di sabotaggio, ma ci sono segnali secondo cui si stia verificando un’escalation nelle strategie. Riscuotono sempre maggiore seguito le posizioni estremiste che tendono a radicalizzare il confronto politico, alimentando la tensione e

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dividendo la società civile. Crescono anche le preoccupazioni nei confronti degli elementi della destra eversiva israeliana, il cui potenziale, in passato sottovalutato e ritenuto pressoché inoffensivo, desta ora timori per una possibile azione di forza. Il servizio di sicurezza interno, lo Shin Bet, segnala da diversi mesi ormai come sia assai elevata la minaccia di un gesto spettacolare da parte d’elementi estremisti ultra-ortodossi. Elementi che in passato hanno già dimostrato di essere in grado di realizzare i propri arditi propositi, come in occasione dell’uccisione del premier laburista Yitzhak Rabin, avvenuta per mano di un giovane radicale zelota. Il nazionalismo religioso si sta dunque evolvendo verso delle posizioni militanti che lasciano presagire una lunga battaglia riguardo gli insediamenti ebraici nei Territori.


Conclusioni

La decisione del premier Sharon di rinunciare alla striscia di Gaza e di sgomberare i circa ottomila coloni che vi abitano sta avendo un effetto lacerante all’interno della società israeliana. Si confrontano, infatti, due opposte concezioni, che divergono non soltanto per quanto riguarda il processo di pace ed il rapporto con i palestinesi, ma anche sulla natura stessa dello stato israeliano, schiacciato tra spinte laiciste occidentalizzanti e pressioni religiose ortodosse. Le modalità con cui il ritiro si svolgerà e la durezza con cui il governo Sharon intenderà portare avanti il suo progetto, indicheranno con chiarezza quale concezione prevarrà nell’immediato. In ogni caso, in Israele si prefigura un periodo di crescenti tensioni e potenziali conflitti interni.

(Equilibri.net, 13 luglio 2005)





4. LA MACCHINA DELL'AUTOILLUSIONE




Semaforo verde per gli attacchi terroristici a venire
    
di Sever Plotzker
    
"Le nazioni islamiche ed arabe gioiscono ed esultano, in quanto è arrivato il tempo della vendetta contro il governo britannico sionista e crociato". Con queste testuali parole si apre la rivendicazione di Al Qaida  per gli attentati terroristici compiuti a Londra  il 7 luglio.
    Tuttavia, nonostante l'esplicita ammissione dell'organizzazione terroristica, e nonostante la strage provocata dalle cariche esplosive, fatte scoppiare in nome dell'Islam e per la causa dell'Islam, l'opinione pubblica cosiddetta "illuminata" del Regno Unito ha compiuto, in queste ultime 24 ore, degli enormi sforzi per negare, offuscare e occultare il collegamento tra gli attacchi e il fondamentalismo islamico.
    L'affermazione infondata di un alto ufficiale di polizia secondo cui "le parole Islam e terrorismo non vanno insieme" è stata ripetuta fino alla nausea. Il quotidiano londinese, "The Guardian", ha pubblicato un articolo del giornalista musulmano Faust Boni, che ha scritto: "Il furore causato dalla decisione di Tony Blair di unirsi a Bush nella sua guerra in Iraq ha scaraventato in prima linea l'intera Gran Bretagna". E David Clark, un deputato veterano del Partito Laborista, prevede: "non riusciremo a vincere la guerra contro il terrorismo se non saremo più accorti ad ascoltare le lamentele arabe … infatti, non prestiamo sufficiente attenzione ai diritti dei palestinesi." Articoli, commenti e titoli di simile fattura hanno inondato i media londinesi.
    Questo spirito maligno ha raggiunto anche l'ufficio del Primo Ministro britannico Tony Blair, attualmente il più importante statista mondiale, che ha dichiarato in un'intervista alla BBC: "Il mondo deve andare alla radice delle cause del terrorismo." E quali sono queste cause? Secondo Blair, comprendono problematiche come la povertà … e il conflitto medio-orientale."
    Con tutto il rispetto dovutogli, il capo dello Stato britannico è in errore, così come lo sono quegli opinionisti che da tempo puntano il dito accusatore non solo contro i terroristi, ma anche contro il presidente Bush, contro Israele, contro lo stesso Occidente "opulento", assolvendo in tal modo da ogni colpa coloro che perpetrano queste azioni criminali.
    Questo tentativo di seppellire la realtà sotto un tumulo di parole vuote non aiuta molto. Gli assiomi che elenco sono evidenti a un qualsiasi pensatore che analizza il fenomeno del terrorismo nel XXI secolo. Primo, si tratta qui di terrorismo musulmano – non di terrorismo anarchico, sionista o conservatore di destra. E' un terrorismo perpetrato da fondamentalisti islamici, che hanno intrapreso una jihad universale contro gli infedeli, ebrei, cristiani crociati e musulmani moderati.
    Secondo, si tratta di un terrorismo messo in atto da musulmani facoltosi e bene istruiti  e non già da gente intrappolata nei meandri della miseria e dell'ignoranza. Molti paesi islamici nuotano nei miliardi di petro-dollari riscossi con la vendita del prezioso olio nero. I terroristi che hanno programmato e attuato gli attacchi di New York e di Madrid erano ben sistemati, bilingui e familiari con le moderne tecnologie. Questo profilo socio-economico può anche essere applicato ai leader di Hamas e di Hezbollah. Non esiste una pur minima connessione tra povertà e terrorismo.
    Terzo, i militanti della jihad hanno scatenato la loro guerra terroristica contro l'Occidente per quello che esso rappresenta, e non tanto per "favorire" una qualche soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi, o per convincere gli USA a ritirare i propri militari dall'Iraq. Il solo e unico loro obiettivo è quello di scuotere le fondamenta dell'odiata e disprezzata cultura occidentale, mettendone in mostra tutta la sua debolezza. Distruggere con il solo intento di distruggere. E' pertanto evidente che il marchio del terrorismo Al Quaida non cesserebbe e, anzi, si rafforzerebbe se gli USA reagissero a simili attacchi evacuando le loro truppe dal territorio iracheno, o se Israele si ritirasse entro i confini del 1967. I militanti della jihad si rapportano ad un'ideologia che arriva molto più lontano – essi tendono a stabilire un nuovo ordine mondiale secondo i dogmi dell'Islam fondamentalista.
Quarto, esiste solo un modo per combattere il terrorismo – combatterlo. Colpirlo. Eliminarlo senza pietà. La guerra contro il terrorismo deve essere totale, dal momento che il terrorismo è totale, fino al raggiungimento della vittoria finale e della resa del nemico. Qualsiasi compromesso con il terrorismo islamico, qualsiasi tentativo di capirlo, o, in altre parole, di perdonarlo, anche parzialmente, significa precipitare in basso, lungo una viscida china, come metteva in guardia Churchill, nel giugno 1940, quando si rifiutò di negoziare con Hitler.
    A pochi giorni dalla strage di massa e con le vittime che non sono ancora state del tutto identificate, la macchina dell'auto-illusione in tutta la Gran Bretagna e l'Europa sta sbandando pericolosamente a tutta velocità. Gli assassini hanno già messo in moto il ciclo di biasimo verso tutti gli altri, preparando in tal mondo il terreno per gli attacchi a venire.
    
(Yedioth Aharonot, 10 luglio 2005 - da Keren Hayesod )  





5. L'AREA DEL TEMPIO E LE MENZOGNE MUSULMANE




Eredità culturale mondiale nella discarica
    
Gli archeologi amano le discariche. Più sono vecchie meglio è, poiché dove le persone gettavano i loro rifiuti, si trovano anche schegge di pettini, monete e utensili usati.
    
Ma la discarica della valle di Kidron non rallegra il cuore dell'archeologo Gabriel Barkay dell'università di Bar-Ilan. «I Palestinesi conducono un'intifada culturale. Così come negano l'Olocausto e mettono in dubbio il diritto all'esistenza del popolo ebraico, rimuovono ogni traccia di presenza ebraica, ovunque possono», dice lo scienziato, trattenendo la rabbia. Non è una persona altrimenti interessata alla politica. Il procedimento delle autorità musulmane sul Monte del Tempio di Gerusalemme a novembre 1999 ha tuttavia ferito chiunque abbia un minimo di sensibilità culturale. Dopo che il presidente Clinton ebbe proposto di dare ai musulmani la sovranità delle opere «sopra terra» mentre agli ebrei di quelle «sottoterra», i musulmani avrebbero trasformato le «stalle di Salomone» nell'angolo sudorientale del Monte del Tempio nella «più grande moschea sotterranea del mondo». Senza consultarsi con le autorità per la tutela archeologica, il Presidente dei Ministri Ehud Barak ha rilasciato l'autorizzazione a costruire un'«uscita di sicurezza», poiché le «stalle» si potevano raggiungere solo tramite una ripida scala. Con le scavatrici, in un'azione notturna e nella nebbia, sono stati caricati circa trecento camion con macerie storiche. «Anche se l'angolo sudorientale del Monte del Tempio fu distrutto dai Romani e da allora percorso da musulmani, crociati e osmani, per gli archeologi è decisivo conoscere il contesto storico dei vari reperti», ha detto Barkay. «Sarei stato più contento che quelle macerie storiche fossero rimaste lì fino al ritorno del Messia o fino al momento di uno scavo archeologico compiuto in giorni migliori.» Senza autorizzazione edilizia e sorveglianza da parte di personale specializzato, i musulmani, invece di un'«uscita di sicurezza», avrebbero costruito un «ingresso monumentale» per la loro nuova moschea e distrutto «senza scrupoli costrutti dei crociati e degli osmani».
    Con finanziamenti ottenuti in beneficenza, un'autorizzazione dell'università Bar-Ilan e l'aiuto di volontari, Barkay, cinque anni dopo, ha cominciato a caricare sui camion una parte delle macerie del Monte del Tempio e le ha trasportate in un terreno libero accanto all'Hotel «Palace». I detriti sono stati setacciati: grosse pietre e resti di colonne, pietre più piccole come quelle dei mosaici con foglia d'oro, terra con reperti in miniatura. Da settimane, 20 volontari prendono la terra e la setacciano finemente. Tutto viene lavato con un getto d'acqua. «Questo è asfalto moderno», dice Barkay sprezzante, mentre noi prendiamo qualcosa di annerito. Il pezzo di vetro di una bottiglietta romana di profumo leggermente ossidata, viene identificato dall'esperto archeologo come un resto di bottiglia di cola.
    In una cassetta marrone di legno, Barkay conserva reperti «sensazionali» di tre millenni. Mette in esposizione delle frecce per una foto. Oltre alle punte di freccia dei crociati e una punta di era ellenistica, si trova anche lo «scito» dei babilonesi sotto re Nabucodonosor (6 sec. a.C.), ormai verde per l'ossidazione. «Questa invenzione, derivante dal territorio dell'odierno Iraq, era diabolica. Se si cercava di estrarre la freccia dal corpo, essa strappava la carne», dice Barkay. Un reporter israeliano commenta fantasiosamente: «Erano i proiettili dumdum di epoca biblica». Una pietra apparentemente insignificante riporta antiche lettere ebraiche: «Aijn» e «He». Barkay parla per esperienza: «La testura e il tipo di scrittura sono sicuramente dell'epoca del re Salomone». Una scheggia punteggiata di fori entusiasma Barkay. «AI tempo del re Erode e di Gesù, i vasi venivano perforati per renderli inservibili all'uso profano al di fuori del tempio». Lo stesso si fa oggi per invalidare documenti e carte di credito. Una piccola testa di capra di argilla ha due buchi fra le orecchie «per inserire corna di altro materiale». Barkay cita il profeta biblico Isaia: «I profeti tuonavano contro tali immagini di idoli».
    Anche le monete ritrovate forniscono una prova di ciò che le autorità musulmane volevano nascondere. La prima moneta del tempo della rivolta ebraica contro i Romani porta l'iscrizione «Libertà per Sion». Datata terzo secolo a.C. è una moneta asmonea con stella a cinque punte e scritta in ebraico «Gerusalemme». Un'altra moneta è dedicata a «Ioanan, sommo sacerdote e comunità ebraica». «Non sono monete rare. Le conosciamo perché ritrovate in altri scavi», dice Barkay ed espone sul coperchio della sua cassa di legno un amuleto cristiano dell'era delle Crociate, una croce dei massoni, che si consideravano «seguaci dell'architetto Salomone», e persino una moneta d'oro con l'effigie di Napoleone III. «Sotto il regno di Napoleone venne permesso ai non musulmani di visitare il Monte del Tempio», dice Barkay. I reperti non lo hanno sorpreso. «Tutta la collezione è sensazionale: conferma l'esistenza del tempio di Salomone, di Erode e le altre nostre conoscenze sulla storia del Monte del Tempio.»
    Il Monte del Tempio di Gerusalemme era già santo ai Gebusei. Il figlio di Davide, Salomone, costruì lì il primo tempio. Il re Nabucodonosor lo distrusse e portò gli israeliti nell'esilio babilonese. In seguito, il tempio venne ricostruito e ampliato da Erode. Gesù insegnò nel tempio e rovesciò lì i tavoli dei cambiavalute. Il tempio venne distrutto dai Romani nel 70 d.C., e sulle rovine erodiane dal 6 secolo fu costruito il Duomo della Roccia e la moschea di Al Aksa. Oggi le autorità musulmane negano qualsiasi esistenza di un tempio biblico, mettendo così in dubbio la Bibbia e Gesù. Il Monte del Tempio, santo a tutte le tre religioni monoteiste, è l'arca più significativa dell'eredità culturale mondiale. La distruzione, motivata politicamente, ha causato danni irreparabili al territorio, in cui non sono mai stati autorizzati scavi archeologici.
    
(Chiamata di Mezzanotte, n. 7/8 2005)





6. SCUSE PALESTINESI PER L'INCITAMENTO ALL'ODIO




BRUXELLES - L'Autonomia Palestinese si è pubblicamente scusata del fatto che nei libri di scuola palestinesi compaiano delle citazioni dello scritto antisemita "I protocolli dei savi di Sion", ha detto un portavoce del ministero dell'istruzione belga.
    Una settimana fa il "Jerusalem Post" aveva scritto che gli scolari palestinesi vengono messi a contatto fin da piccoli con incitamenti anti-israeliani. In un libro di testo, il falso antisemita del 19° secolo viene presentato come una componente essenziale della storia sionista.
    L'Autorità Palestinese ha promesso di cancellare questi passaggi nei prossimi libri, ha detto un portavoce del ministero dell'istruzione belga in un'intervista telefonica con il "Jerusalem Post". «Il ministro dell'istruzione palestinese, Naim Abu al-Humos, ha dichiarato che è stato un errore e che sarà subito corretto», ha detto il belga. «Loro si scusano e dicono che vogliono farci sapere da dove proviene l'errore.» Nella prossima edizione del libro l'errore sarà eliminato.
    Il governo belga sostiene il libro di scuola dal 2000, ma vuole interrompere l'aiuto già da quest'anno. «Se in futuro dovremo di nuovo sostenere dei testi scolastici palestinesi, lo faremo soltanto dopo un esauriente controllo del lavoro», fa sapere Bruxelles. All'inizio partecipavano al sostegno anche Italia, Finlandia e Olanda; quest'anno nei ringraziamenti del libro si parla soltanto di "nazioni arabe" e del Belgio.
    Un rappresentante dell'ufficio del Primo Ministro Ariel Sharon ha detto: «Il riferimento ai "Protocolli dei savi di Sion" e il fatto che Israele non compare sulla carta geografica, fanno capire che l'Autorità Palestinese deve intraprendere qualcosa". L'incidente è un altro esempio dei passi che la "Road Map" richiede e a cui i palestinesi non si sono ancora adeguati.
    L'articolo nel "Jerusalem Post" parlava anche di bambini palestinesi che vengono intervistati nella televisione palestinese. Loro negavano a Israele ogni diritto all'esistenza e dicevano di essere pronti a dare la loro vita per la distruzione di Israele. «Gli ebrei sono venuti e ci hanno portato via la Palestina», ha detto un ragazzo, «cioè per esempio Tel Aviv, Giaffa, Haifa, Akko e Ramle. Tutte queste città appartengono alla Palestina.»
    
(Israelnetz Nachrichten, 14 luglio 2005)





MUSICA E IMMAGINI




Yechi




INDIRIZZI INTERNET




Teach Kids Peace

Tel Aviv Rally




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