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Notizie su Israele 305- 20 luglio 2005

1. Volevano convincerlo ad immolarsi per l'Islam
2. Il numero degli ebrei in Israele e nel mondo
3. Festival estivo ebraico a Budapest
4. Razzismo e antisemitismo nell'Italia fascista
5. Semi che germogliano nell'Italia di oggi
6. Considerazioni sulla questione ebraica
7. Gli ebrei in Europa non rimarranno soli
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Deuteronomio 30:1-3. «Quando tutte queste cose che io ho messe davanti a te, la benedizione e la maledizione, si saranno realizzate per te e tu le ricorderai nel tuo cuore dovunque il Signore, il tuo Dio, ti avrà sospinto in mezzo alle nazioni e ti convertirai al Signore tuo Dio, e ubbidirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il tuo cuore e con tutta l’anima tua, secondo tutto ciò che oggi io ti comando, il Signore, il tuo Dio, farà ritornare i tuoi dalla schiavitù, avrà pietà di te e ti raccoglierà di nuovo fra tutti i popoli, fra i quali il Signore, il tuo Dio, ti avrà disperso.»
1. VOLEVANO CONVINCERLO AD IMMOLARSI PER L'ISLAM




«Volevano fare di me un kamikaze. Dicevano: così andrai in paradiso»

Il racconto di un giovane musulmano, invitato da alcuni estremisti, quando aveva solo 14 anni, ad «immolarsi» in nome della Jihad.

di Luciano Gulli

«Le loro parole, quel certo modo di argomentare che avevano, pacato e convincente, mi aveva oggettivamente suggestionato. Ma quando mi resi conto che volevano fare di me un kamikaze ebbi un vuoto allo stomaco». Muhanuned Yusuf ha oggi 18 anni, ma l'incontro con quei due uomini barbuti, avvenuto quattro anni fa, se lo ricorda come fosse accaduto ieri. «Mi dicevano: andrai dritto in Paradiso. Tutti i dispiaceri, le angustie della vita terrena spariranno in un lampo. E tu sarai circondato da 70 vergini che ti ospiteranno in ambienti ricoperti di perle e diamanti, dove neppure gli angeli avranno accesso». Muhammed (il nome naturalmente è falso, per evidenti ragioni di sicurezza) alla fine declinò l'invito, e ora è qui a raccontare la sua storia al Daily Mirror.
    Come tutti i quattordicenni, Muhammed era un ragazzino un po' naìf e un po' idealista. La morte improvvisa del padre lo aveva gettato nello sconforto, riavvicinandolo alla fede. «Avevo cominciato a frequentare la moschea (un luogo di culto a nord di Londra, ndr) regolarmente, andando a tutte e cinque le preghiere della giornata a partire da quella delle 6. Insomma mi conoscevano bene. Fu dopo una conferenza, alla quale avevano preso parte molti fratelli provenienti da ogni parte del Paese che fui avvicinato da due uomini barbuti. Si presentarono solo col loro nome, dicendo che non erano di Londra. Io non capivo perché erano così interessati a me, ma al momento non me lo chiesi. Erano due fratelli, come gli altri. Nei giorni seguenti li rividi alla moschea. Io pregavo, recitavo i miei versetti del Corano, e loro mi guardavano. Qualcuno mi raccontò perfino che si erano informati, su di me e sui miei familiari, ma ancora non capivo».
    Il momento clou avvenne qualche tempo dopo, in un appartamento dove si era svolta una riunione. «Dopo che tutti se ne erano andati - continua il racconto del ragazzo, che secondo il Mirror è già stato portato all'attenzione degli inquirenti - i due mi si avvicinarono, chiedendomi se non ero arrabbiato per il modo in cui l'Occidente perseguitava la Ummah, la nazione islamica. Poi misero su delle cassette video, in cui si vedevano combattenti ceceni ammazzati a sangue freddo dai soldati russi. Vedi cosa stanno facendo ai tuoi fratelli e alle tue sorelle, mi incalzavano, mentre sul video scorrevano altre immagini di palestinesi e iracheni uccisi».
    Oggi, rievocando quell'incontro, Muhammed capisce di essere stato vicino a compiere un passo falso. «Ero giovane, malleabile, e il dolore per la perdita di mio padre mi aveva psicologicamente indebolito. E’ su questo stato d'animo che i due puntavano. Avevo mai pensato al suicidio? chiedevano. Non mi sarebbe piaciuto porre fine a un'esistenza di pena e di dolore? E se la mia morte fosse stata offerta alla causa dell'Islam? Pensa alla gratitudine che te ne verrà per l'eternità. Pensa che presto potresti rivedere tuo padre». La storia si chiude qui, con Muhammed che dice: no grazie. «Mio padre mi aveva insegnato il valore della preghiera e ad apprezzare la vita. Non avrei potuto mai ammazzare il mio prossimo». Quanti, come Muhammed, sono invece caduti nella rete delle sirene barbute?

(Il Giornale, 15 luglio 2005)





2. IL NUMERO DEGLI EBREI IN ISRAELE E NEL MONDO




Nel 2006 la popolazione ebraica in Israele sarà superiore a quella ebraica negli Stati Uniti
    
di Amiram Barkat
    
Per la prima volta dalla fondazione dello Stato, nel corso del prossimo anno, la popolazione ebraica che vive in Israele supererà quella ebraica che vive negli Stati Uniti, ciò risulta da un rapporto presentato ieri alla Knesset dalla commissione per l'immigrazione e l'assorbimento.
    Il rapporto del 2005, approntato dall'Istituto per la politica di pianificazione della popolazione ebraica (JPPPI), prevede che Israele rappresenterà la quota maggioritaria della popolazione ebraica nel mondo: entro il 2020, la popolazione ebraica israeliana crescerà di circa un milione di unità, mentre il numero di ebrei nella Diaspora si contrarrà di circa mezzo milione, per cui la popolazione ebraica mondiale aumenterà dagli attuali 13 milioni a 13 milioni e mezzo.
Il rapporto del JPPPI, che sarà presentato alla prossima seduta del Governo, indica che le comunità nella Diaspora sono in continuo calo, a causa dei bassi tassi di natalità e del progressivo aumento dei matrimoni misti, che rappresentano più del 50%. Gli autori del rapporto non prevedono poderosi flussi migratori verso Israele nell'immediato futuro e osservano che il 90% della popolazione ebraica diasporica vive in paesi sviluppati e fruisce di un tenore di vita analogo se non superiore a quello d'Israele.
    Alla seduta di ieri alla Knesset, il presidente del consiglio d'amministrazione del JPPPI,  Dennis Ross, ha detto che il mondo ebraico mondiale deve aiutare gli ebrei in Israele a gestire alla meglio la crisi del ritiro dalla Striscia di Gaza. Ross ha dichiarato che gli ebrei della Diaspora hanno un ruolo importante nel trasmettere un messaggio di non-violenza e di unità.
    Il presidente fondatore del JPPPI, professor Yehezkel Dror, ha detto che il terrorismo mondiale avrà delle ripercussioni negative sulle comunità ebraiche diasporiche in quanto farà sì che molti ebrei avranno paura di frequentare le locali attività comunitarie.
    Il JPPPI è un think tank creato a Gerusalemme tre anni fa dall'Agenzia Ebraica, in collaborazione con donatori ebrei e istituzioni negli Stati Uniti. Il rapporto è stato preparato da un gruppo di ricercatori e studiosi, per lo più israeliani, tra cui Mordechai Altschuler, David Dery, Sergio Della Pergola, Shmuel Trigano, Shevach Weiss ed Avi Gil.
    Gli autori del rapporto sollecitano il governo ad intraprendere una serie di misure per contrastare il progressivo calo numerico degli ebrei nel mondo. Tra le altre misure, propongono di introdurre una politica di conversione più accomodante e di favorire quelle comunità che si considerano di discendenza ebraica, come i Bnei Menashe in India. Inoltre, esortano ad aumentare adeguatamente gli sforzi per integrare le famiglie di matrimoni misti nelle attività comunitarie ebraiche.
    Il rapporto invita ad attuare delle riforme nell'educazione ebraica nella Diaspora dando vita a libere scuole private e introducendo nuovi contenuti nei programmi di studio, per sottolineare la centralità di Israele nella vita ebraica.
    Al fine di aumentare "la coesione all'interno del popolo ebraico", il rapporto raccomanda vivamente di realizzare degli enti pan-ebraici che fungano da forum per il coordinamento di una politica a favore di Israele e delle comunità ebraiche nella Diaspora. Gli autori propongono inoltre di stabilire un forum mondiale di attivisti ebrei, sotto i 35 anni, onde far fronte all'invecchiamento dell'attuale leadership delle organizzazioni ebraiche internazionali.
    Il vice ministro in carica per gli affari della Diaspora, deputato Michael Melchior, ha dichiarato che non c'è niente di nuovo nei dati che evidenziano una progressiva contrazione della popolazione ebraica nel mondo. I programmi del tipo Birthright Israel, ha detto, che fanno venire gli adolescenti ebrei in visita in Israele, si sono dimostrati efficaci nel combattere l'assimilazione, ma, purtroppo, il loro successo è limitato per la mancanza di fondi.
    "Molto si può fare in questo settore con investimenti finanziari relativamente contenuti, invece di far ascoltare a più riprese dati statistici ormai noti. Il governo deve decidere una volta per tutte se considera la continuazione dell'esistenza delle comunità ebraiche nel mondo come un affare di importanza nazionale" ha dichiarato Melchior.
    
(Ha'aretz, 12 luglio 2005 - da Keren Hayesod)





3. FESTIVAL ESTIVO EBRAICO A BUDAPEST




L’importanza della comunità ebraica nella vita sociale e culturale di Budapest è notevole. Per rendersene conto basta avventurarsi nel quartiere ebraico della capitale, che ha saputo miracolosamente preservare l’identità culturale della comunità e oggi, con i suoi edifici ottocenteschi, le sue botteghe e cortili nascosti, è anche luogo ideale per un viaggio nella storia e nella tradizione.
Passeggiando per le vie di Budapest è impossibile non notare uno degli edifici più grandiosi della città, la Sinagoga di Dohany utca, in stile moresco-bizantino, con piastrelle decorate e torri sormontate da cupole a cipolle dorate: è considerata la più grande Sinagoga d’Europa, la seconda al mondo, in grado di accogliere fino a tremila fedeli.
Nel giardino della Sinagoga un salice piangente in argento ricorda gli ebrei ungheresi morti durante la seconda guerra mondiale; su ogni foglia è inciso il nome di una famiglia sterminata dai nazisti. Proprio per le radici profonde di questa comunità nella cultura e storia ungherese il Festival ebraico è ormai un appuntamento tradizionale a Budapest: organizzato dal 1998, riscuote crescente interesse e partecipazione di pubblico ungherese e internazionale.
Quest’anno, dal 28 agosto al 4 settembre, tutti i teatri, le sale cinematografiche, le piazze e i musei della capitale festeggiano la cultura ebraica con una grande kermesse multiartistica, prova evidente che culture diverse possono intrecciarsi e rafforzarsi. Obiettivo di questa manifestazione è presentare la cultura ebraica, molto viva ancor oggi, soprattutto mediante il linguaggio da tutti comprensibile della musica e della danza, nonché far conoscere a un più ampio pubblico la musica tradizionale klezmer e il canto tradizionale, che proprio grazie a questa iniziativa stanno vivendo una loro rinascita. Gli eventi comprendono anche mostre, concerti, spettacoli teatrali, settimana del libro ebraico, settimana del cinema d'Israele e settimana gastronomica.
Rosangela Castelli

(Marketpress.info, 15 luglio 2005)





4. RAZZISMO E ANTISEMITISMO NELL'ITALIA FASCISTA




L’anniversario. 1938, anno cruciale e terribile per l’ebraismo europeo

di G. Troian

I) 14 luglio 1938

Quello che impropriamente e in maniera fuorviante è conosciuto come ‘Manifesto degli scienziati razzisti’ venne pubblicato senza firme sul “Giornale d’Italia” del 14 luglio 1938 col titolo ‘Il fascismo e i problemi della razza’, segnando in tal modo l’inizio ufficiale della politica antisemita del regime fascista. Il 1938 è dunque anche in Italia “l’anno cruciale e terribile per l’ebraismo europeo” (E. Mendelsohn). La comunità ebraica arrivò “disarmata” (come ha scritto Amos Luzzato), a questa svolta. Se da più parti si è affermato che l’antisemitismo non fu affatto centrale nella dottrina fascista precedente, anche in virtù di una coesistenza pacifica della comunità ebraica con la restante popolazione e le dimensioni ridotte della popolazione ebraica stessa (nel 1938 erano 47.000, cioè poco meno dell’1,1 per mille dell’intera popolazione italiana) per cui “la frequenza dei matrimoni misti, le similarità culturali […] tra cattolici ed ebrei in Italia, e l’assenza di episodi di violenza popolare antisemita avevano consentito agli ebrei un’esistenza relativamente serena in Italia” (cfr. Ruth Ben-Ghiat, ‘La cultura fascista’, Il Mulino 2000, p. 236. Vedi anche Giorgio Candeloro, ‘Storia dell’Italia moderna. Il fascismo e le sue guerre’, Feltrinelli 1981, vol.IX, pp. 447-448), ciò non toglie che il pregiudizio antisemita rimase ben vivo durante il periodo fascista. L’ebraismo era posto infatti in posizione subalterna rispetto al cattolicesimo riconosciuto quale “religione dominante” e ciò “finiva per avallare la crescita del pregiudizio e dell’ostilità nei confronti degli ebrei, a partire dai primi episodi di violenza verificatisi a Tripoli (1923) e a Padova (1926)” (cfr. Riccardo Bonavita, Gianluca Gabrielli, Rossella Ropa, ‘Razzismo fascista’, in Id, ‘L’offesa della razza. Razzismo e antisemitismo dell’Italia fascista’, Patron 2005, p. 27). Inoltre un patrimonio razzista era presente anche nella cultura italiana già prima del 1938: tanto in ambito “scientifico” nell’antropologia, nella demografia, nell’eugenetica (o meglio, come si diceva allora, eugenica) e nella medicina (cfr. Roberto Maiocchi, ‘Scienza italiana e razzismo fascista’, La Nuova Italia 1999), quanto in ambito popolare nella narrativa di Cappuccio, Chelazzi, Vergano e molti altri (cfr. Riccardo Bonavita, ‘L’invenzione dell’odio. Metamorfosi dell’antisemitismo nella letteratura colta e di massa del periodo fascista’, in ‘La menzogna della razza’, Grafis 1994, pp. 41-52; sempre di R. Bonavita si veda il più recente ‘Grammatica e storia di un’alterità. Stereotipi antiebraici cristiani nella narrativa italiana 1827-1938’, in ‘Les racines chrètiennes de l’antisemitisme politique (fin XIX-XX siecle)’, Ecole française de Rome, 2003, pp. 89-119).
In seguito alla conquista dell’Etiopia (1936) la volontà di tutelare l’integrità della stirpe contro il meticciato (con l’adozione di una legislazione razzista) contribuì infine al rafforzamento di precise istanze razziste entro il cui ambito dunque le due linee, il razzismo coloniale e l’antisemitismo, si fusero.

II) La progressione
In gennaio la stampa scatenò una violenta campagna antisemita. In circa tre mesi tutti i giornali si allinearono (compresi i maggiori, tra i quali “Il resto del Carlino” e “La Stampa”), promuovendo “nefandezze da sciacalli” (Ernesta Bittanti-Battisti). In febbraio Mussolini convocò Guido Landra (“oscuro” assistente di Sergio Sergi presso la cattedra di antropologia all’università di Roma) affidandogli il compito di organizzatore della campagna razziale. In giugno Mussolini gli espose il proprio pensiero concernente le razze e gli impose di formare un Ufficio Studi sulla razza. Nello stesso mese fu proibito ai docenti universitari e ai ricercatori di origine ebraica di partecipare ai convegni internazionali: “Mussolini di suo pugno cancellò i nomi degli ebrei” (cfr. Renzo De Felice, ‘Storia degli ebrei sotto il fascismo’, Einaudi 1993, p. 268). Il mese seguente venne dunque pubblicato sulla stampa il testo ‘Il fascismo e i problemi della razza’.
Galeazzo Ciano riporta sul diario per la giornata del 14 luglio: “Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del “Giornale d’Italia” di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida della Cultura popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui” (cfr. Galeazzo Ciano, ‘Diario’ 1937-1943, Rizzoli 1998, p. 158).
Venne formato quindi un comitato di dieci studiosi che si resero disponibili a porre il proprio nome per dare veste ufficiale al documento: Lino Businco, Lidio Cipriani, Arturo Donaggio, Leone Franzì, Guido Landra, Nicola Pende, Marcello Ricci, Franco Savorgnan, Sabato Visco, Edoardo Zavattari (sedicenti esperti – per Enzo Collotti solo “pseudoscienziati” - nei campi della patologia, della neuropsichiatria, della fisiologia, della zoologia, della pediatria e naturalmente dell’antropologia. Alcuni di questi, dopo la guerra, verranno reintegrati nell’insegnamento: cfr. A. Luzzatto, ‘Autocoscienza e identità ebraica’, in Corrado Vivanti (a cura di), ‘Gli ebrei in Italia’, Einaudi 1997, p. 1840). Il 5 agosto 1938 ‘Il Manifesto della razza’ venne ripubblicato sulla neonata rivista quindicinale “Difesa della razza” con questi firmatari (tutti i redattori della rivista, Landra, Cipriani, Franzì, Ricci, Businico, sono presenti anche nella rosa degli “scienziati” indicata prima). La rivista era diretta da “Telesio Interlandi, già direttore del ‘Tevere’ e del ‘Quadrivio’, segnalatisi per antisemitismo e scarsità di cultura, assistito da Giorgio Almirante, con Guido Landra a fare da esperto scientifico” (cfr. Roberto Maiocchi, ‘Scienza e fascismo’, Carocci 2004, p. 195). Fu un fogliaccio, prosegue Maiocchi, nonché “strumento di una propaganda vile e vergognosa”.
Il 17 luglio venne quindi istituita la Direzione generale per la Demografia e la Razza (Demorazza), che cominciò a censire la popolazione ebraica in Italia.

III) Il contenuto
Il Manifesto è suddiviso in 10 punti contraddistinti dai seguenti titoli:
1. Le razze umane esistono
2. Esistono grandi razze e piccole razze
3. Il concetto di razza è concetto puramente biologico
4. La popolazione dell’Italia attuale è nella sua maggioranza ariana e la sua civiltà è ariana
5. E’ una leggenda l’apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici
6. Esiste ormai una pura “razza italiana”
7. E’ tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti
8. E’ necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d’Europa (occidentali) da una parte gli Orientali e gli Africani dall’altra
9. Gli ebrei non appartengono alla razza italiana
10.I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.
Il paragrafo dedicato agli ebrei, “particolarmente superficiale e contraddittorio” (Candeloro) afferma: “Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra patria nulla in generale è rimasto. Anche l’occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all’infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli italiani”.
In un comunicato successivo del Pnf (Partito nazionale fascista) si avvertì che a questa formulazione dottrinaria (per Renzo De Felice “una delle cose più meschine e gravi del periodo fascista”) sarebbe seguita una precisa azione politica, aggiungendo – evidentemente come istigazione - che gli ebrei hanno sempre costituito in ogni nazione lo stato maggiore dell’antifascismo.
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APPENDICE
Il documento “Il Fascismo e i problemi della razza” è reperibile oggi in Michele Sarfatti, La Shoah in Italia. Le persecuzioni degli ebrei sotto il fascismo, Einaudi 2005, pp. 131-133; in Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi 1999, pp. 555-556.

(estense.com, 16 luglio 2005 - segnalato da Morasha.it)

prosegue ->
5. SEMI CHE GERMOGLIANO NELL'ITALIA DI OGGI




«Vignette antisemite alla festa del Prc».
Polemica a Milano


La comunità ebraica: iconografia nazista

di Gian Guido Vecchi

MILANO — Ignari del diluvio che si sarebbe scatenato di lì a poco su Milano, si sono dati appuntamento per bere una birra all'aria aperta. MazdaPalace, lunedì, ultima serata della Festa di Liberazione, e gli amici che ti guardano un po' imbarazzati, «ci siamo seduti nel posto sbagliato, scusaci». Così Yasha Reibman, portavoce della comunità ebraica milanese, s'è guardato attorno e ha visto il «muro» preparato dai giovani di Rifondazione comunista sulla cancellata del palazzetto: assi di legno a simulare la barriera di Sharon, solidarietà alla Palestina, scritte del tipo make peace not wall! e insomma niente di insolito, non fosse per le vignette che decoravano la parete, «quelle vignette impressionanti».
Reibman non ha il tono polemico, semmai un po' scosso, «il soldato israeliano che solleva il palestinese con una ruspa o l'altro che posa un mattone sul muro hanno il naso adunco, l'aria malvagia: sono raffigurati secondo i più classici stereotipi antisemiti. Io non accuso nessuno. Ma ciò che colpisce chi come me continua a dire da anni "stiamo attenti, si fomenta l'antisemitismo", è che i giovani comunisti, se va bene, non se ne avvedono. Per questo dico: rendetevene conto. Qui si sta passando il segno, i semi che vi avevamo segnalato germogliano e oggi state riproponendo le stesse immagini che c'erano sulla Difesa della razza nei giornali nazisti». Alcune vignette hanno scritte in arabo, «probabile vengano dai giornali di quelle dittature che fomentano il fondamentalismo contro Israele e gli ebrei usando gli stessi cliché che l'Europa ha esportato e oggi vede tornare indietro». Su un volantino dei giovani comunisti compare pure un cartina sullo sfondo della bandiera palestinese «e tutta l'area, sia lo Stato d'Israele sia i territori palestinesi, è ricoperta dalla kefiah: tutto è Palestina, Israele è cancellato. Dov'è la differenza con la politica della jihad?».
L'anno scorso Reibman si era trovato d'accordo con Fausto Bertinotti nel proporre un seminario congiunto sul sionismo, «aveva detto cose importanti, condiviso la proposta, lo stesso spirito che a Milano ha portato a dialogare la comunità ebraica e il Leoncavallo». Finora non si è mai fatto.
Augusto Rocchi, segretario milanese di Rifondazione, è stupito: «Davvero non so, può darsi che i giovani abbiano ritagliato articoli di giornali arabi contro il muro, ma di certo non c'era nessun proposito antisemita. Da tempo c'è stata una evoluzione importante: nessuna confusione tra le politiche del governo israeliano e il popolo. All'inizio, su quel muro, c'era anche una bandiera di Israele, perché pensiamo debbano convivere due Stati e due popoli, senza muri. Qualcuno protestava, ma poi ha capito...». E il seminario sul sionismo? «Io ci terrei molto che avvenisse presto e che si cominciasse ad organizzarlo a Milano, invito la comunità ebraica a vederci già a settembre per studiare insieme le forme di un confronto e di un dialogo».

(Corriere della Sera, 20 luglio 2005)





6. CONSIDERAZIONI SULLA QUESTIONE EBRAICA




Gli ebrei oggi, tra vincitori e vittime

di Giorgio Gomel

Hannab Arendt riteneva che la condizione del paria fosse tipica degli ebrei dell'Europa occidentale dopo l'emancipazione. I paria consapevoli diceva sono «quegli spiriti coraggiosi che hanno tentato di fare dell'emancipazione ciò che in effetti avrebbe dovuto essere: l'ammissione degli ebrei in quanto ebrei nei ranghi dell'umanità, piuttosto che il permesso di scimmiottare i gentili o un'occasione per assumere il ruolo del parvenu». Tra le grandi figure di ebreo paria la Arendt ci ricorda Heine, Lazare, Kafka, Benjamin. L'ebreo che insorge contro la propria marginalità ed oppressione e combatte per sovvertire l'ordine sociale e culturale del tempo, alleandosi con altri oppressi. Basti ricordare, sul piano più politico, l'apporto di ebrei agli ideali e movimenti rivoluzionari del secolo scorso. La figura dell'ebreo paria ha dominato la cultura ebraica e dell'occidente nel Novecento.
    Oggi, vi è una rottura radicale con quel paradigma. Gli ebrei della diaspora - che dal punto di vista geografico è solo più occidentale, europea e americana, e socialmente fa parte dei ceti medio alti - e quelli di Israele appartengono al mondo dei «vincitori». E' una condizione transitoria, forse precaria e reversibile, ma oggi indubitabile. Nella diaspora, gli ebrei, che siano osservanti o meno, fedeli alla tradizione ebraica o ansiosi di assimilarsi, appartengono infatti per lo più agli strati borghesi della società; sono istruiti, inseriti nel processo di globalizzazione. Tendono a conformarsi ad interessi di classe, valori e modelli di comportamento conservatori. Si è perduta, in larga parte, la carica iconoclasta dell'ebreo campione della rivoluzione politica e anche dell'eterodossia culturale.
    Il caso di Israele è più complesso e anche contraddittorio. Esso è Oriente ed Occidente, forte della sua supremazia militare e della protezione offerta dall'America, ma anche debole per il senso angoscioso di insicurezza fisica e psicologica che il perdurare della guerra e la violenza terroristica incutono nel paese, impedendo la normalità del vivere quotidiano di una nazione intera. Una nazione che dispone di un'enorme potenza bellica, ma con un sottofondo di fragilità e di solitudine: una nazione di rifugiati ed immigrati, figlia di una storia di persecuzioni ed esilio il cui diritto all'esistenza è stato per anni rigettato dal mondo arabo, la cui esistenza come Stato pienamente accettato e pacificamente integrato nel Medio Oriente è ancora in forse.
    Gli interrogativi che questa condizione di «vincitori» suggerisce sono due. Il primo concerne la nostra capacità di elaborare questa condizione e di assumere la responsabilità della forza. Soprattutto in Israele, dove l'esistenza ebraica ha assunto la forma di Stato nazione sotto un governo «ebraico», cioè un governo di ebrei che persegue gli interessi di uno Stato retto da una maggioranza di ebrei, con cui, peraltro, coesistono una vasta minoranza araba e strati recenti di immigrati non ebrei. Ma anche nella diaspora, in quelle realtà quali gli Usa, la Francia, la Russia, la Gran Bretagna, dove le comunità ebraiche contano nella società civile e nel processo politico interno. Il secondo interrogativo riguarda il come risolvere l'antinomia tra la nostra condizione oggettiva dalla parte dei «vincitori» e la nostra esperienza soggettiva ed autorappresentazione di vinti e vittime, tra un impulso a stare a «destra» e un retaggio etico ideale emotivo di «sinistra» se queste categorie semplificatrici sono lecite.
    A mio avviso, noi ebrei dovremmo usare la forza, tutta la forza di cui disponiamo, politica (e anche militare), culturale, educativa contro gli antisemiti, contro coloro che disconoscono il nostro diritto ad esistere, come individui, comunità, popolo. All'antisemitismo ci dobbiamo opporre in quanto ebrei, consci di tutto il carico identitario racchiuso in questa appartenenza, seguendo in questo l'insegnamento della Arendt. Dopo la Shoà e con il diritto di Israele ad esistere tuttora in forse, un'enfasi sulla difesa particolaristica dei nostri interessi mi sembra più che giustificata. Ma entro certi limiti. E' vano ed autodistruttivo per il futuro degli ebrei ricercare, infatti, la protezione di alleati impropri, opportunistici e provvisori, che è quanto i «neocon» americani ed alcuni imitatori nostrani ebrei e non ebrei ci propongono: una «santa alleanza» tra ebrei di destra, destra politica e cattolici (o cristiani) integralisti, in nome della difesa acritica delle azioni di Israele e della comune ostilità all'islam.
    Ritengo che sia più efficace per difendere gli ebrei e il loro futuro richiamarci ai valori universalistici, della dignità dello straniero, della difesa dei diritti dei più deboli. Tra gli insegnamenti da trarre dalla Shoà, così come dalla lunga storia degli ebrei, vi è la coscienza dell'interesse oggettivo degli ebrei nel lottare contro forme di discriminazione, quand'anche non colpiscano direttamente o immediatamente gli ebrei, e nel vivere in società multiculturali, in cui le differenti identità siano rispettate, legittimate a convivere, viste come un beneficio per tutti. La storia del popolo ebraico ne è una riprova concreta giacché molte volte forme di razzismo, di esclusione sociale o di discriminazione religiosa si sono poi riflesse in odio antiebraico.

(confronti, luglio-agosto 2005)

COMMENTO - E' strano che chi sostiene posizioni come quelle qui espresse non si accorga che oggi sono proprio i sostenitori dei cosiddetti «valori universalistici» quelli che vedono nella particolarità dello Stato d'Israele un ostacolo da rimuovere. M.C.





7. GLI EBREI IN EUROPA NON RIMARRANNO SOLI




Nuovi alleati contro l'antisemitismo

da un articolo di Michael Freund

Negli ultimi anni le strade in Europa sono diventate sempre più pericolose per gli ebrei. Da Ginevra a Roma e da Berlino a Madrid, il vecchio odio generato dall'antisemitismo torna a mostrare il suo orrendo volto, instillando nei cuori di molti la paura di quello che potrà portare il futuro.
    Il produttore cinematografico ebreo Leon de Winter forse ha riassunto nel migliore dei modi questo sentimento lo scorso ottobre, quando nel "Suddeutsche Zeitung" ha scritto: «L'antico veleno dell'antisemitismo è tornato in vita... Resterò uno straniero su questo continente... Temo che ancora una volta in Europa faranno qualcosa contro gli ebrei.»
    Purtroppo ci sono sufficienti dati statistici che confermano questo sentimento. Un recente rapporto pubblicato da "Stephen Roth Institute for the Study of Contemporary Anti-Semitism and Racism" in Tel Aviv arriva alla conclusione che il 2004 è stato "l'anno più violento negli ultimi 15 anni" per quel che riguarda gli incidenti antisemiti, sottolineando che "gli attacchi fisici agli ebrei costituiscono la caratteristica più rilevante".
    In Francia, per esempio, il numero degli attacchi antisemiti è cresciuto di oltre il 60 percento rispetto al 2003. Questi includono aggressioni fisiche di ebrei, attentati con bombe contro istituzioni ebraiche e profanazioni di cimiteri ebraici.
    E non si pensi che il problema sia limitato a Parigi. Secondo il "Jewish Community Security Trust", il gruppo addetto al monitoraggio degli attacchi contro l'ebraismo britannico, l'anno scorso ha registrato un aumento di antisemitismo del 42% rispetto al 2003.
    Molti osservatori hanno cominciato a perdere le speranze, perché si accorgono che l'Europa, nonostante gli sforzi dedicati per anni a combattere l'odio antiebraico, rimane incorreggibilmente ferma ai pregiudizi del passato.
    Come si esprime il Rabbino Capo britannico Jonathan Sacks: «Dopo più di mezzo secolo di educazione Olocausto... che cosa si potrebbe fare di più? Che cosa dovremmo e che cosa dobbiamo fare di più per combattere l'antisemitismo?»
    La risposta, io credo, sta nell'avvalersi di una delle maggiori e non utilizzate risorse di filosemitismo attualmente presente in Europa e continuamente crescente di numero: i cristiani credenti-biblici (Bible-believing Christians).
    Sì, proprio così, questi cristiani possono avere ed hanno un importante ruolo da giocare nel contrastare la crescente intolleranza verso gli ebrei nella maggior parte dell'Europa, per motivi sia morali che religiosi.
    Nel corso degli ultimi due millenni, gli ebrei hanno dovuto subire indicibili atti di crudeltà in nome del cristianesimo. Massacri, espulsioni, conversioni forzate e confische di proprietà si sono ripetute per secoli, rendendo instabile e pericolosa la vita degli ebrei in Europa.
    Che cosa ci potrebbe essere di più appropriato del fatto che i cristiani europei oggi si alzino e cerchino di correggere anche in piccola misura gli orrori del passato? Inoltre, dal punto di vista biblico ci sono molte ragioni per fare questo. Dio infatti disse ad Abramo: «Benedirò chi ti benedirà e maledirò chi ti maledirà» (Genesi 12). Scegliendo di mettersi dalla parte del popolo ebraico contro coloro che vogliono colpirli i cristiani agiscono in accordo con il volere divino.
    In effetti, una delle più interessanti iniziative lanciate negli ultimi anni è dedicata precisamente a questo obiettivo: mettere insieme gruppi cristiani e singole persone per esercitare un'influenza pro-Israele e lottare contro la crescente minaccia costituita dall'antisemitismo e dall'antisionismo.
    Si chiama "European Coalition for Israel" (ECI) ed è costituita da quattro partner: "Bridges for Peace", "Christian Friends of Israel", "Christians for Israel" e "International Christian Embassy in Jerusalem".
    Con base in Bruxelles, la coalizione intraprende una serie di attività per promuovere più strette relazioni tra l'Unione Europea e lo Stato ebraico, tra cui la diffusione di una newsletter mensile, l'organizzazione di conferenze e seminari nelle capitali europee e incontri con membri del Parlamento Europeo.
    Qualche mese fa l'ex membro del Parlamento Europeo Rijk Van Dam è diventato direttore della coalizione, e ha lavorato parecchio per elevare l'immagine di Israele in un continente ostile.
    «Combattere l'antisemitismo è l'obiettivo principale della nostra coalizione», mi ha detto Van Dam. «E penso che l'antisionismo sia molto vicino all'antisemitismo», ha aggiunto.
    Un incidente che l'ha stimolato è avvenuto l'anno scorso. Stava camminando in una strada nel cuore di una delle più grandi città europee. A un certo momento ha notato un edificio strettamente sorvegliato dalla polizia, con speciali precauzioni per proteggerlo da attacchi terroristici. Guardando meglio, si è accorto che l'obiettivo di possibili attacchi non era né un'ambasciata straniera né una residenza diplomatica, ma una scuola materna per bambini ebrei.
    «Oggi dunque, nel centro dell'Europa, un asilo ebraico deve stare dietro un alto muro di cemento, come in un bunker. E' impressionante», ha detto.
    Riconoscendo che la disponibilità di cristiani credenti-biblici ad assumere un ruolo attivo nella politica europea è un fatto abbastanza nuovo, Van Dam ha detto che questo è particolarmente necessario in questi tempi minacciosi.
    «Nel passato molte cose orribili sono state fatte al popolo ebraico nel nome della cristianità e di questo vogliamo pentirci», ha detto. «Soprattutto è importante che noi, come cristiani, prendiamo posizione contro la crescente marea di antisemitismo e facciamo sentire alta la nostra voce.»
    Anche se l'opporsi all'ostilità profondamente radicata dell'Europa verso gli ebrei rappresenta una sfida e un compito tutt'altro che facili, gruppi come la "European Coalition for Israel" possono contribuire a cambiare le cose.
    Per la prima volta gli ebrei in Europa possono non avere paura di restare soli a dover affrontare l'antisemitismo locale. Se, come si spera, il lavoro della coalizione porterà frutto, gli ebrei possono prevedere di aver al loro fianco migliaia di cristiani pro-Israele.
    
(Jerusalem Post, 6 luglio 2005)


COMMENTO - Come "cristiani credenti-biblici" siamo addolorati e umiliati che il nome di Cristo sia stato usato nel passato in modo aberrante per giustificare e legittimare crimini di ogni tipo contro gli ebrei. Vogliamo precisare però che il nostro impegno per Israele e per gli ebrei non proviene da complessi di colpa o dal desiderio di riscattare malefatte del passato, ma è un frutto dell'amore di Dio che «è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato» (Romani 5:5). Il pentimento è una cosa personale e va esercitato in primo luogo verso Dio e secondariamente verso il prossimo offeso. Siamo pronti a pentirci dei nostri peccati personali, ma non sentiamo la necessità di pentirci di ciò che non abbiamo mai fatto. Lasciamo alle istituzioni ecclesiastiche che si vantano di avere una continuità storica secolare il compito di formulare tardive richieste di perdono che consentono oggi alle medesime istituzioni di conformarsi meglio alla situazione del presente per poter mantenere, in altra forma, lo stesso atteggiamento che portò agli orrendi crimini del passato. E' indubitabile che sul piano storico la contrapposizione che si presenta è quella tra cristiani-carnefici e ebrei-vittime, ma sul piano spirituale non accettiamo questa contrapposizione. Il motivo è semplice: i «cristiani» che a suo tempo martoriarono gli ebrei, inflissero tormenti simili anche a dei non-ebrei chiamati «eretici». E tutto fa pensare che, trasportati a quei tempi, noi "cristiani credenti-biblici" saremmo stati messi dalla stessa parte degli ebrei. Con convinzioni teologiche diverse, forse, ma sotto lo stesso boia. Si dovrebbe capire allora perché, nel nostro caso, i motivi storici che ci spingono a sentirci vicini agli ebrei sono del tutto diversi da quelli a cui si accenna nell'articolo. I nostri amici ebrei giustamente si lamentano quando si sentono messi tutti insieme in un unico indistinto calderone dall'aspetto poco gradevole. Sarebbe bene che non facessero la stessa cosa con i cristiani. Morale: se degli ebrei incontrano dei cristiani che hanno un atteggiamento ben disposto verso di loro, non pensino subito in cuor loro di trovarsi davanti a una specie di papa Paolo IV (grande inquisitore e costruttore del ghetto di Roma) pentito, che vuole far dimenticare i suoi misfatti. Se come "cristiani credenti-biblici" amiamo Israele e gli ebrei, non è per senso di colpa, ma perché «l'amore di Cristo ci costringe» (2 Corinzi 5:14). M.C.





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