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Notizie su Israele 307 - 2 agosto 2005

1. Il Vaticano e lo sterminio degli ebrei
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Isaia 33:1 . Guai a te che devasti e non sei stato devastato, che sei perfido e non t’è stata usata perfidia! Quando avrai finito di devastare sarai devastato; quando avrai finito di essere perfido, ti sarà usata perfidia.
1. IL VATICANO E LO STERMINIO DEGLI EBREI




Un libro che tutti dovrebbero leggere

David I. Kertzer, "I papi contro gli ebrei - Il ruolo del Vaticano nell'ascesa dell'anti- semitismo moderno", ed. BUR, p.365, € 9,00.


Dall'ultima pagina di copertina.

"Dopo aver raccontato la tragica realtà della vita degli ebrei nello Stato Pontificio di Pio IX, Kertzer scaglia un nuovo atto di accusa nei confronti della Chiesa cattolica alla luce delle inedite rivelazioni provenienti dall'apertura degli archivi centrali dell'Inquisizione nel 1998.
    Se il Vaticano non ha mai approvato lo sterminio degli ebrei, le sue dottrine e le sue azioni hanno però contribuito a renderlo possibile. Per dimostrarlo, l'autore ripercorre la storia dei papi nell'età moderna: da Pio VII sotto la Restaurazione, a Pio XII durante la seconda guerra mondiale, osservando da vicino come per oltre due secoli la Chiesa abbia tollerato le conversioni forzate e l'istituzione dei ghetti. E come, negli anni Venti e Trenta, i suoi organi di stampa abbiano continuato ad alimentare dicerie antisemite sugli israeliti avidi e crudeli, dediti ai sacrifici rituali, contribuendo a preparare il terreno dell'abominio hitleriano.
    Kertzer si spinge al di là dei risultati raggiunti dalla commissione vaticana istituita da Giovanni Paolo II e propone un'opera storiografica documentatissima che aiuta a fare chiarezza sul passato per evitare che si ripetano le stesse tragedie."
    
    
Alcuni estratti dal libro.

"Come mostrano le pagine di questo libro, la distinzione [...] fra «antigiudaismo» - di cui alcuni cristiani non nominati e male informati si sono resi disgraziatamente colpevoli in passato - e «antisemitismo», che ha condotto agli orrori dell'Olocausto, non resiste a un dettagliato esame storico.
    La teoria secondo cui la Chiesa promuoveva solo opinioni «religiose» negative sugli ebrei, e non anche un'immagine negativa della loro dannosa influenza in campo sociale, economico, culturale e politico - quest'ultima identificabile con il moderno antisemitismo - è chiaramente smentita dalla documentazione storica. Quando presero forma i movimenti antisemiti moderni, alla fine del diciannovesimo secolo, la Chiesa vi giocò un ruolo di primo piano, mettendo costantemente in guardia la gente contro il crescente pericolo ebraico. Che cos'erano, in fondo, i principali postulati del movimento antisemita moderno, se non avvertimenti come questi: gli ebrei stanno cercando di assumere il controllo del mondo; gli ebrei hanno già allargato i loro voraci tentacoli sui centri vitali di Austria, Germania, Francia, Ungheria, Polonia e Italia; gli ebrei sono rapaci e spietati, e cercano di mettere le mani su tutte le riserve d'oro del mondo, senza preoccuparsi di quanti cristiani mandano in rovina così facendo; gli ebrei sono antipatriottici, un corpo estraneo che minaccia continuamente il benessere del popolo in mezzo a cui vivono; sono necessarie leggi speciali per proteggere la società, limitare i diritti degli ebrei e isolarli. Ciascuno di questi elementi del moderno antisemitismo non solo fu fatto proprio dalla Chiesa, ma anche attivamente divulgato dai suoi organi ufficiali e non. [...] La distinzione fra antigiudaismo e antisemitismo divenne subito un'interpretazione che sollevava la Chiesa da qualsiasi responsabilità nei confronti dell'accaduto. In breve tempo, milioni di persone arrivarono ad assumerla come realtà storica". (pp. 15-16)
    
    
Dopo la sconfitta di Napoleone, gli ebrei dello Stato Pontificio, che durante il periodo francese erano stati emancipati, furono di nuovo rinchiusi dai papi dentro i ghetti. E dopo qualche anno in Europa arrivò il colera.

"Non tutti i mali che il papa si trovava ad affrontare erano di origine umana. Il colera colpì l'Europa del diciannovesimo secolo in ondate successive, portando sofferenza e morte anche a Roma. In seguito a nuove fatali recrudescenze del male, il papa nominò una Commissione per la salute pubblica che lo consigliasse. Tra le zone della città che attrassero l'attenzione dei commissari, c'era il ghetto, all'interno del quale gli ebrei si stipavano in mezzo alla sporcizia, terreno di cultura ideale per malattie di ogni tipo. Con l'approvazione del pontefice, nel 1835 venne formata una Commissione speciale per il ghetto ebraico, tra i cui sei membri si annoveravano tre cardinali, con l'incarico di esaminarne le condizioni e suggerire gli interventi più appropriati.
    Colpita dall'affollamento e dallo squallore del ghetto, la Commissione si decise per un modesto ampliamento. Suggerì inoltre che gli ebrei che si occupavano di vendite all'ingrosso si trasferissero provvisoriamente fuori del ghetto. Per ridurre la minaccia morale insita in una simile proposta, la commissione specificò che i grossisti ebrei avevano facoltà di trasferirsi solo in una determinata zona nelle vicinanze, e che non potevano disporre di passaggi che li collegassero a un'abitazione cristiana. La dispensa sarebbe scaduta di lì a cinque anni.`
    L'anno seguente il papa formò una nuova Commissione per la salute pubblica e sciolse quella che si era occupata del ghetto, ma il primo atto dei nuovi commissari fu di chiedere a uno dei suoi membri, il principe Pietro Odescalchi, di valutare la situazione nel ghetto. Nell'ottobre del 1836, Odescalchi presentò il suo rapporto.
    Dopo aver accettato l'incarico, il principe provvide alla lettura di tutti i documenti stilati dalla Commissione. «Se», scriveva, «per una tale lettura mi si era messa in cuore una viva commiserazione sulla sorte infelice degli abitanti di quella parte di Roma; questa commiserazione, debbo confessarlo, si è a mille doppi nel mio animo accresciuta, allorché nella scorsa settimana mi risolsi ad andar di persona [ ... ] a percorre le strade di quel Recinto, ed a penetrare in alcune di quelle casupole, le quali uscirei dai limiti del vero, se mi ardissi di voler chiamare abitazioni.»
    In un'area in grado di ospitare appena duemila anime, riferì il principe, ne vivevano più di tremilacinquecento. Di questo, milleottocento o forse più, «vi languiscono nello stremo di ogni miseria: che piccole e fetide cammeruccie contengono ove le otto persone ed ove le dodici; che così fatti tuguri sono privi di aria, perché da niun altra parte ricevono la luce se non dalla porta, [ ... ] hanno in mezzo un piccolo focolare da dove quei miseri tolgono il chiarore la notte». Era stato sconvolgente constatare personalmente «quello che co' proprii miei occhi ho veduto, e che sembrerà un impossibile a credersi, cioè che in tre meschine cammere stanno rinchiuse sette famiglie». E mentre la comunità ebraica faceva ciò che poteva per i suoi poveri donando loro denaro, cibo e indumenti, aggiungeva il principe, non poteva fare nulla per ampliare le loro case.
    L'azione intrapresa dalla prima Commissione, riferiva il principe, aveva prodotto solo effetti modesti. I grossisti nel ghetto erano pochi, e i sette che si erano trasferiti in città avevano lasciato libere solo poche stanze. Odescalchi terminava il suo rapporto con l'invito a formare una nuova Commissione per il ghetto, raccomandazione che fu approvata dal governo, il quale provvide a nominarlo presidente della stessa
    I residenti del ghetto inondarono la nuova Commissione con denunce sulle condizioni a dir poco critiche in cui vivevano e con invocazioni di aiuto. Verso la fine dell'agosto 1837, nel bel mezzo di una nuova epidemia di colera, Giuseppe Piperno inviò una di quelle suppliche. Vivo, scrisse, in una sola stanza con mia moglie, i miei quattro figli e una sorella nubile. Passiamo i giorni e le notti stipati l'uno accanto all'altro. Le condizioni sono insopportabili, soprattutto ora, aggiungeva, «segnatamente per essere al presente li quattro figli assaliti da molto tempo da una pertinace diarea, della quale sgravandosi a vicenda infinite volte, specialmente la notte, non si puol' resistere dal fetore per non esservi neppure un luogo comodo ove poter dar luogo agl'escrementi». In simili condizioni, chiedeva Piperno, come potevano sperare di sconfiggere il colera?
    Una lunga supplica inoltrata dalla comunità ebraica di Roma, raggiunse il papa nel bel mezzo dell'epidemia benché si riferisse a un altro problema, uno che da secoli gli ebrei riproponevano ogni anno, ovvero i riti - alcuni sponsorizzati dalla Chiesa e dalle autorità locali, altri nati dall'esuberanza popolare - che caratterizzavano il carnevale. Per la gente di Roma, si trattava di uno dei periodi più significativi dell'anno. Sfortunatamente per gli ebrei, la rituale umiliazione a cui gli abitanti del ghetto erano sottoposti costituiva una delle caratteristiche più tipiche della festività.
    Uno dei primi riferimenti storici di cui disponiamo è una descrizione del carnevale del 1466, quando, per il divertimento dei romani, durante i festeggiamenti voluti da papa Paolo II, gli ebrei erano stati costretti a correre nudi per le strade della città. Un racconto successivo descrive così i giochi: «Corse in ciascuno degli otto giorni del carnevale con cavalli, asini e bufali, vecchi, ragazzi ed ebrei, Prima di correre, gli ebrei venivano abbondantemente nutriti, così da rendere loro la corsa più difficile e al tempo stesso più divertente per gli spettatori. Correvano dall'arco di Domiziano alla chiesa di San Marco, in fondo al corso, tra le grida di incoraggiamento e le risate dei romani, mentre il Santo Padre stava su un balcone riccamente adornato e rideva di cuore». Due secoli dopo, queste pratiche, ritenute indecorose e indegne della Città Santa, furono proibite da Clemente IX. Al loro posto, il pontefice impose agli ebrei una pesante tassa perché contribuissero alle spese per la celebrazione del carnevale.
    Ma altre forme di festeggiamento sopravvissero. Per molti anni i rabbini del ghetto furono costretti a indossare buffe vesti e a percorrere le strade della città, bersagliati da ogni sorta di proiettili.
     Tali celebrazioni non erano proprie della sola Roma. Nella Pisa del diciottesimo secolo, per esempio, era consuetudine per gli studenti, dare la caccia all'ebreo più grasso della città, pesarlo e quindi costringerlo a pagare l'equivalente del suo peso in confetti.
    Nel 1779, Pio VI riportò in vigore alcuni riti carnevaleschi abbandonati negli anni precedenti. Tra questi c'era il rito feudale dell'omaggio, durante il quale i funzionari del ghetto, costretti a indossare indumenti speciali, se ne stavano di fronte a una folla disordinata e presentavano un'offerta ai governatori della città.
    Fu questa pratica la causa di una supplica che gli abitanti del ghetto indirizzarono a Gregorio XVI nel 1836. Gli ebrei sostenevano che certi rituali dovevano essere abbandonati, citavano i pontefici che in precedenza ne avevano ordinato l'abolizione e chiedevano che ora il papa, nella sua misericordia, facesse lo stesso. Il 5 novembre, il papa si incontrò con il segretario di stato per discutere della supplica. Una nota apposta dal segretario sulla copia della petizione e accompagnata dalla sua firma, ci dice quale fu la decisione di Gregorio XVI: «Non trovarsi opportuno di fare alcuna innovazione». I riti annuali continuarono." (pp. 80-83)


Verso la fine del diciannovesimo secolo in Vaticano non c'erano più antisemiti.

"A quest'epoca, verso la fine del secolo, i leader ecclesiastici stavano molto attenti a non farsi accusare di antisemitismo. Dopotutto il messaggio della Chiesa era improntato ad amore e carità e in alcuni influenti ambienti europei l'antisemitismo era considerato un pregiudizio datato e i politici antisemiti demagoghi avventati. In questa luce possiamo capire perché obiezioni e dinieghi costellavano praticamente tutti i contributi che la Chiesa offriva allo sviluppo dell'antisemitismo moderno.
    L'articolo di padre Rondina [su "Civiltà Cattolica"] era caratteristico di questa situazione. Dopo aver avvertito che gli ebrei cospiravano per ridurre in schiavitù tutti i cristiani, si affrettava ad aggiungere: «Noi non scriviamo nell'intento di accendere o fomentare nella patria nostra l'antisemitismo, ma di dare piuttosto agl'Italiani l'allarme, perché si mettano sulle difese contro chi ne osteggia la fede, ne corrompe il costume e ne succhia il sangue, a fine di ammiserirli, dominarli e renderli schiavi» .
    In quegli anni il giornale gesuita continuò a riportare con simpatia notizie sul sorgere del movimento antisemita. Un articolo del 1893, per esempio, parlava di un crescente antisemitismo in Germania dove, benché gli ebrei fossero una piccola minoranza, «la banca, il denaro, è per la maggior parte in man di loro: il che li rende strapotenti». Gli ebrei erano numerosi non solo nelle professioni liberali, ma si erano impadroniti anche della stampa. «Per la qual cosa l'influenza dei giudei sulla pubblica opinione, sulla vita politica e sul lavoro intellettuale, è smisurata e, quel ch'è peggio, dissolvente in sommo grado. Ogni scrittore, in sostanza, disprezza, diffama, si adopera a distruggere o a volgere in ridicolo tutto ciò che abbiamo caro, tutti i nostri principii cristiani e sociali. La cupidigia del guadagno sovrasta a quanto fa il giudeo.»
    Con l'avvicinarsi della fine del secolo e con i disordini antisemitici che diventavano sempre più frequenti, padre Ballerini continuò a ribadire questi argomenti. Nel 1897 avvertiva: «II giudeo dura sempre in ogni luogo ad essere immutabilmente giudeo. La sua nazionalità non è nel suolo ov'è nato, non è nel linguaggio che parla; è nel seme». Perché l'ebreo «è di tutte le cause, di tutte le bandiere, di tutte le dinastie, che gli facilitano l'acquisto dell'oro. Quella è per lui la più favorita delle nazioni, che più gli fornisce il modo di accumularne: onde fa ridere il giudeo, che in Italia, in Francia, in Germania, finge di sdilinquirsi per tenerezza di patria». L'emancipazione degli ebrei aveva prodotto proprio quello che la Chiesa temeva: «II predominio, per via delle due più potenti forze che signoreggiano il mondo, la stampa e la ricchezza». Dalla Polonia attraverso l'Ungheria, l'Austria, la Germania e la Francia gli ebrei avevano cominciato ad attuare il loro piano segreto di dominazione del mondo, «ond'è che, in breve tempo, essi son diventati padroni strapotenti, massimamente in Berlino, in Parigi, in Pest, in Vienna».
    In quegli anni solo «L'Osservatore Romano» era più vicino della «Civiltà Cattolica» al papa e alla gerarchia del Vaticano. Proprietaria ne era la Santa Sede ed era stato fondato a Roma nel 1861. Con l'annessione di Roma all'Italia nel 1870 era diventato in pratica il quotidiano ufficiale del Vaticano. Negli anni Novanta dell'Ottocento il segretario di stato vi scriveva regolarmente articoli non firmati, rendendo così, note le opinioni della Santa Sede sui temi contemporanei. «L'Osservatore Romano» e «La Civiltà Cattolica» erano considerati in tutto il mondo cattolico come l'espressione più chiara delle idee del papa sulle questioni del tempo. (pp. 156-157)


Sotto il pontificato di Benedetto XV si verificò qualcosa di simile a quello che sta accadendo oggi sotto il pontificato del suo immediato successore numerico, Benedetto XVI: dichiarazioni vaticane in difesa degli ebrei condizionate all'ottenimento di determinati interessi per la Santa Sede.

"A dominare il pontificato di Benedetto XV fu il problema della prima guerra mondiale e in particolare il tentativo di cercare un modo per influire sugli accordi di pace alla fine del conflitto. Come poi si vide, la conferenza di pace postbellica sarebbe stata importantissima nel conformare la storia politica del ventesimo secolo. Dal punto di vista del Vaticano il problema cominciò nell'aprile 1915 quando gli Alleati firmarono segretamente il trattato di Londra. In seguito alle insistenze dell'Italia - stato di cui la Santa Sede si ostinava a non riconoscere la legittimità a cinquantaquattro anni dalla sua

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creazione - il trattato conteneva una clausola che escludeva il Vaticano da qualsiasi conferenza di pace.
    Tra gli sforzi del Vaticano per ottenere un posto al tavolo della pace, uno dei più vigorosi comportò una serie di negoziati con le comunità ebraiche di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Nella sua forma iniziale la proposta del Vaticano era stata sollecitata da quanto succedeva in terra polacca sotto il dominio zarista. Ritirandosi in disordine davanti alle truppe tedesche in avanzata, i russi stavano facendo terra bruciata al loro passaggio, uccidendo gli ebrei e saccheggiandone le case. Nella proposta segreta il papa avrebbe denunciato le violenze antiebraiche. gli ebrei di Francia, Inghilterra e Stati Uniti avrebbero dovuto cercare di convincere i rispettivi governi a trovare un posto per la Santa Sede al tavolo delle trattative di pace.
    I negoziati furono aperti da un cattolico francese, François Deloncle, uomo politico e giornalista, insieme con un ebreo francese, Lucien Perquel. Ma i colloqui finirono ben presto nelle sabbie mobili della politica internazionale. Con la Russia che combatteva a fianco degli Alleati occidentali contro la Germania e l'Austria, i governi inglese e francese non avrebbero gradito una denuncia del Vaticano contro l'esercito russo. D'altra parte Deloncle era tra quelli che pensavano che a lunga scadenza la Russia cristiana ortodossa si sarebbe rivelata una minaccia per la società occidentale ben più della Germania e dell'Austria. Era anche l'opinione di molti in Vaticano, tra cui Eugenio Pacelli, il futuro Pio XII, che dal suo posto nel servizio diplomatico vaticano aveva contribuito ad avviare i colloqui con Deloncle.
    Nel maggio 1915 Deloncle e Perquel incontrarono il papa e il mese successivo Deloncle fu ricevuto in udienza privata. Il papa li accolse calorosamente e annunciò la preparazione di un'enciclica in difesa degli ebrei, da rendere pubblica nel primo anniversario dello scoppio della guerra. Ma, aggiunse, perché i suoi sforzi si rivelassero efficaci era importante rafforzare la sua posizione diplomatica. Chiese che le comunità ebraiche usassero la loro influenza presso i rispettivi governi per fare in modo che la Santa Sede ottenesse un posto di potenza neutrale alla conferenza di pace. In seguito il Vaticano avrebbe anche chiesto agli ebrei di aiutarlo a convincere i governi inglese, francese e americano ad appoggiare la creazione di uno stato polacco indipendente dopo la guerra.
    Nonostante l'entusiasmo iniziale i negoziati finirono nel nulla. All'inizio del 1916 le organizzazioni ebraiche francesi e inglesi si erano dichiarate contrarie al piano ed erano preoccupate che invece gli americani vi aderissero. In una lettera datata 28 aprile 1916 David Alexander e Claude Montefiore, presidenti delle due maggiori organizzazioni ebraiche britanniche, scrissero al presidente dell'American Jewish Committee a New York per indurlo a rifiutare la proposta del Vaticano.
    «Non c'è bisogno di dire», scrissero, «che, se le proposte del signor Deloncle si fossero limitate a un intervento umanitario del papa a favore dei nostri fratelli sofferenti, le avremmo accolte senza riserve e con la massima gratitudine; ma, come vedrà, i motivi dell'intervento proposto, come ci ha confessato in tutta franchezza il signor Deloncle, erano tali che nessun cittadino britannico potrebbe, nella situazione attuale dell'Europa, prenderli in considerazione, mentre l'intervento in sé era stato assoggettato a condizioni che, a nostro parere, erano state calcolate per coinvolgere tutta la comunità ebraica in pericoli estremamente seri.»" (pp. 253-255)


L'autore affronta infine il classico problema del coinvolgimento di Pio XII nella persecuzione antiebraica dei nazisti e conclude il libro con l'impressionante resoconto del colloquio intercorso tra il cardinale Maglione e l'ambasciatore tedesco von Weizsäcker subito dopo il rastrellamento a Roma di più di mille ebrei da parte dei nazisti.

"Con tutta l'attenzione dedicata a quello che Pio XII disse o non disse sulla campagna condotta dai nazisti contro gli ebrei - sulla quale la sua influenza era come minimo limitata - è impressionante constatare quanta poca attenzione sia stata invece dedicata a ciò che Pio XI avesse da dire sulle leggi razziali promulgate in Italia nel 1938. Queste leggi erano state concepite, approvate e annunciate nella stessa Roma, dove la sua influenza a meno di un decennio dal riconoscimento da parte del governo italiano della Chiesa romana cattolica come religione ufficiale di stato era sicuramente grande. Dal settembre al novembre 1938 il governo italiano aveva dichiarato indesiderabili gli ebrei, aveva cacciato dalle scuole i bambini ebrei e aveva costretto un gran numero di adulti ebrei a lasciare i loro posti di lavoro. Aveva chiesto ai cattolici di evitare gli ebrei e di trattarli come una fonte d'inquinamento.
    Chiunque sia giunto a questo punto del libro non dovrebbe considerare sorprendente che in risposta a questi provvedimenti contro gli ebrei né il papa né la gerarchia vaticana avessero pronunciato una sola parola di protesta. La spiegazione di questo fatto è semplice: le leggi di Mussolini incorporavano provvedimenti e teorie da tempo sostenuti a spada tratta dalla stessa Chiesa.
    C'era tuttavia un aspetto delle leggi razziali che suscitò la protesta del papa e, anzi, lo irritò visibilmente. Le nuove leggi consideravano ancora ebrei gli ebrei che si erano convertiti al cattolicesimo e di conseguenza vietavano il matrimonio tra cattolici nati nella fede ebraica e cattolici d'origine. Questi matrimoni erano considerati concubinato.
    Contrariamente al silenzio che aveva accompagnato tutti gli articoli di legge destinati agli ebrei, Pio XI obiettò energicamente contro questa clausola. Il 10 ottobre 1938 il rappresentante del governo italiano presso la Santa Sede mandò a Mussolini un rapporto sulle reazioni del Vaticano al secondo gruppo di leggi razziali, i cui testi venivano redatti a quell'epoca. «Le recenti deliberazioni del Gran Consiglio in tema di difesa della razza», scriveva, «non hanno trovato in complesso in Vaticano sfavorevoli accoglienze.» Continuava riferendo che l'unica preoccupazione che i funzionari del Vaticano avevano espresso riguardava il fatto che le nuove leggi concernessero anche il matrimonio, che - secondo il Concordato - avrebbe dovuto essere regolato dalla Chiesa e non dallo stato. L'inviato del governo italiano concludeva: «Da Monsignor Montini, Sostituto per gli Affari Ordinari alla Segreteria di stato, ho avuto conferma di tali impressioni [ ... ] le maggiori per non dire uniche preoccupazioni della Santa Sede [per le nuove leggi razziali] si riferiscono al caso di matrimoni con ebrei convertiti».
    Il papa era talmente contrario a questa clausola che, quando i suoi tentativi di espungere gli articoli sul matrimonio incontrarono opposizione, prese l'insolita iniziativa di scrivere direttamente a Vittorio Emanuele III. La lettera del papa, in cui richiamava l'attenzione del re sulla legge «per la salvaguardia della razza italiana», non menzionava affatto i provvedimenti antiebraici che ne erano il nucleo centrale e tanto meno protestava contro di essi. Chiedeva solo che si facesse qualcosa per le clausole riguardanti il matrimonio di cattolici che erano nati ebrei.
    Nei mesi in cui i nuovi provvedimenti sarebbero entrati in vigore questo stesso atteggiamento fu trasmesso più in generale anche ai fedeli cattolici. A metà novembre «L'Osservatore Romano» pubblicò un articolo sulle leggi razziali dedicato interamente all'obiezione della Chiesa nei confronti delle clausole che impedivano il matrimonio tra cattolici ed ebrei convertiti. Il messaggio era chiaro: la Chiesa non aveva alcuna obiezione riguardo ai bambini ebrei cacciati di scuola, agli scienziati ebrei allontanati dalle istituzioni scientifiche e al licenziamento degli ebrei dalla pubblica amministrazione e dall'insegnamento.
    Quando all'inizio del 1939 Pio XI mori, gli succedette Eugenio Pacelli, suo segretario di stato, che prese il nome di Pio XII. Un anno dopo l'inizio della guerra, l'Italia si schierò con la Germania, dichiarando guerra alla Francia e alla Gran Bretagna. L'Olocausto aveva già intrapreso il suo terribile cammino e le atrocità naziste sarebbero state ben presto rivelate da un flusso di agghiaccianti rapporti giunti in continuazione alla Santa Sede dall'Europa occupata.
    La guerra che Mussolini pensava sarebbe stata breve e gloriosa risultò di tutt'altra natura. Nel 1943 la tendenza era già cambiata e il 10 luglio 1943 le prime divisioni alleate sbarcarono in Sicilia. Due giorni più tardi il governo militare alleato, anche se controllava una parte esigua del territorio italiano, annunciò l'abrogazione di qualsiasi legge discriminasse un popolo sulla base dell'appartenenza religiosa o di razza .
    Il mutamento delle sorti della guerra causò un colpo di stato che due settimane più tardi rovesciò Mussolini e portò a frenetici tentativi da parte degli italiani di negoziare un armistizio con le forze alleate in rapida avanzata dal sud. In mezzo al caos, due settimane dopo la caduta di Mussolini, il 10 agosto 1943 il rappresentante non ufficiale del Vaticano presso il governo italiano, padre Tacchi Venturi, scrisse al segretario di stato della Santa Sede, cardinale Luigi Maglione. Suggeriva di cogliere l'occasione del rovesciamento del vecchio regime per ottenere un cambiamento delle leggi razziali. Ma quello che aveva in mente l'inviato del Vaticano non era il cambiamento delle leggi antiebraiche. Anzi, rispecchiando le preoccupazioni di Pio XI di cinque anni prima, proponeva che il Vaticano prendesse l'iniziativa di espungere solamente le clausole che discriminavano gli ebrei convertiti al cattolicesimo."
    Il 18 agosto il cardinale Maglione rispose con entusiasmo a questa proposta, presumibilmente dopo averne discusso con Pio XII. Disse a padre Tacchi Venturi di fare il possibile per ottenere tre cambiamenti nelle leggi razziali: primo, le famiglie formate da coppie costituite da cattolici di nascita ed ebrei convertiti al cattolicesimo dovevano d'ora in poi essere considerate pienamente «ariane»; secondo, gli individui che si accingevano a diventare cattolici all'epoca in cui le leggi razziali erano entrate in vigore (1938) ed erano stati successivamente battezzati dovevano essere considerati cattolici e non ebrei; terzo, i matrimoni celebrati fin dal 1938 tra cattolici di nascita e cattolici che fossero nati ebrei dovevano essere considerati validi dal punto di vista legale.
    Il 29 agosto padre Tacchi Venturi riferì di nuovo al segretario di stato. Dall'epoca della sua ultima lettera era stato contattato da un gruppo di ebrei italiani, che vivevano nel terrore dell'arrivo delle truppe naziste. Scriveva che lo avevano pregato di tornare completamente «alla legislazione introdotta dai regimi liberali e rimasta in vigore fino al novembre 1938». In breve chiedevano il ripristino delle leggi che garantivano agli ebrei parità di diritti. Ma, come riferiva l'inviato del Vaticano, aveva respinto le loro suppliche. Preparando la sua petizione al nuovo ministero italiano degli Interni, «mi limitai, come dovevo, ai soli tre punti precisati nel venerato foglio di Vostra Eminenza del 18 agosto [ ... ] guardandomi bene dal pure accennare alla totale abrogazione di una legge [nella fattispecie le leggi razziali] la quale secondo i principii e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate, ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma».
    Poco dopo i soldati tedeschi percorrevano la penisola ed entravano a Roma dove, il 16 ottobre, circondarono il ghetto e rastrellarono più di mille ebrei.
    Turbato dalla notizia del rastrellamento, il cardinale Maglione convocò immediatamente l'ambasciatore tedesco Ernst von Weizsäcker. Il cardinale ha lasciato appunti in cui descrive quello storico incontro.
    «Eccellenza», il cardinale pregò von Weizsäcker, «lei ha un animo buono e gentile, cerchi di salvare tutti questi innocenti. E' doloroso per il Santo Padre, doloroso oltre ogni dire che proprio a Roma, sotto gli occhi del Padre Comune, siano fatte soffrire tante persone unicamente perché appartengono ad una stirpe determinata.»
    «Dopo un istante di riflessione l'ambasciatore mi chiese: "Che farebbe la Santa Sede se le cose avessero a continuare?"
    «Risposi: "La Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione».
    «L'ambasciatore osservò: "Sono più di quattro anni che seguo e ammiro l'attitudine della Santa Sede. Essa è riuscita a guidare la barca in mezzo a scogli d'ogni genere e grandezza senza urti e, se pure ha avuto maggiore fiducia negli alleati, ha saputo mantenere un perfetto equilibrio".»
    Se il cardinale Maglione aveva mai avuto l'intenzione di convocare l'ambasciatore tedesco per far giungere la sua protesta contro il rastrellamento degli ebrei di Roma all'alto comando nazista, dovette cambiare rapidamente parere. Von Weizsäcker lo avverti che l'ordine di cattura degli ebrei era giunto «da molto in alto» (cioè dallo stesso HitIer) e suggerì al cardinale di non infastidire l'alto comando nazista costringendolo a riferire le parole di disapprovazione della Santa Sede al suo governo.
    «Risposi», ricordava il cardinale Maglione, «che avevo cercato di intervenire facendo appello ai suoi sentimenti di umanità. Lasciavo al suo giudizio se menzionare o no la nostra conversazione, che era stata molto amichevole.»"
    Il segretario di stato continuava: «Volevo ricordargli che la Santa Sede, come lui stesso aveva notato, è stata tanto prudente per non dare al popolo germanico l'impressione di aver fatto o di voler fare contro la Germania la minima cosa durante una guerra terribile."
    «Dovevo tuttavia dirgli che la Santa Sede non deve essere messa nella necessità di protestare, qualora la Santa Sede fosse obbligata a farlo, si affiderebbe, per le conseguenze, alla divina provvidenza».
    Ma il segretario di stato di Pio XII concluse il suo incontro con l'ambasciatore tedesco di quella triste giornata con un tono rassicurante. «Ripeto», disse il cardinale Maglione, «Sua Eccellenza mi ha detto che cercherà di fare qualcosa a favore di quei poveretti. La ringrazio. Per quanto riguarda il resto, lo lascio al suo giudizio. Se crede più opportuno di non far menzione di questa nostra conversazione, così sia.»
    Due giorni più tardi più di un migliaio degli ebrei rastrellati dai tedeschi fu fatto salire su un treno in partenza per Auschwitz. Solo pochi avrebbero lasciato vivi quel campo." (pp. 302-307)



«La Santa Sede non può accettare di ricevere insegnamenti e direttive da alcun'altra autorità.»
(Navarro Valls, portavoce del Vaticano, luglio 2005).





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