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Notizie su Israele 308 - 11 agosto 2005

1. L'obiettivo che gli israeliani sperano di raggiungere
2. Le intenzioni dei palestinesi
3. La rabbia dei coloni
4. Gaza, diario del ritiro
5. I coloni pronti a resistere
6. La storia di Simintov, scampato ai sovietici e ai talebani
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ezechiele 36:22-23. Perciò, di’ alla casa d’Israele: "Così parla DIO, il Signore: Io agisco così, non a causa di voi, o casa d’Israele, ma per amore del mio nome santo, che voi avete profanato fra le nazioni dove siete andati. Io santificherò il mio gran nome che è stato profanato fra le nazioni, in mezzo alle quali voi l’avete profanato; e le nazioni conosceranno che io sono il SIGNORE, dice il Signore, DIO, quando io mi santificherò in voi, sotto i loro occhi."
1. L'OBIETTIVO CHE GLI ISRAELIANI SPERANO DI RAGGIUNGERE




Dolorose concessioni in nome della pace


Serra a Gush Katif
La pace, obiettivo fondamentale della tradizione ebraica, è da sempre l’obiettivo politico esplicito dello Stato di Israele. Israele ha cercato a lungo di arrivare alla pace con i suoi vicini arabi e in particolare con i palestinesi. La grande sfida nel fare la pace risiede nel fatto che si tratta di un processo che si auspica non si concluda semplicemente con la cessazione delle ostilità tra ex nemici, bensì con l’inizio di un nuovo rapporto di coesistenza. L’obiettivo ultimo di Israele è stabilire relazioni di buon vicinato con il futuro stato palestinese.
Sullo sfondo di più di quattro anni di stragi terroristiche, Israele ha avviato il suo piano di disimpegno dalla striscia di Gaza e parte della Cisgiordania settentrionale allo scopo sia di migliorare la propria sicurezza, sia di rimettere in moto il processo di pace con i palestinesi. Affinché abbia la possibilità di funzionare, il piano richiede un considerevole sacrificio da parte di circa 1.700 famiglie, per un totale di circa 8.000 persone, che dovranno lasciare le case e le attività che si erano costruite nell’arco di vari decenni.
Nell’immediato, sono questi israeliani delle colonie che dovranno pagare gran parte del prezzo per la pace. Erano stati incoraggiati dai precedenti governi israeliani ad insediarsi su terre aride e trascurate per trasformarle in case, giardini e fattorie con lo stesso spirito pionieristico che a suo tempo contribuì a creare le basi dello Stato di Israele. Ora viene chiesto loro di abbandonare queste realizzazioni in nome di un bene più grande.
Molti di loro, arrivati nella striscia di Gaza come giovani coppie, devono ora affrontare il trauma di lasciare le proprie case insieme a figli e nipoti per i quali la striscia di Gaza è stata terra natale e unico luogo di residenza in tutta la loro vita.

Di seguito si riporta una sintetica descrizione dei 25 villaggi coinvolti dal Piano di Disimpegno israeliano al solo scopo di ricordare a che cosa gli israeliani stanno rinunciando in nome della pace.


Striscia di Gaza

I villaggi del Blocco Katif (Gush Katif)

Bedolah
Moshav (villaggio cooperativo) fondato nel 1986 nell’ambito del movimento dei moshav religiosi Hapoel Hamizrahi e del movimento giovanile nazional-religioso Bnei Akiva, oggi Bedolah conta 33 famiglie per una popolazione totale di circa 220 persone. La maggior parte dei membri si dedica alla coltivazione in serra di peperoni, pomodori e altri ortaggi per il mercato locale e per l’esportazione. Negli ultimi anni nel moshav si sono stabiliti alcuni neo-immigrati dalla Francia aggiungendo un ulteriore elemento di varietà culturale.

Bnei Atzmon
Fondato nel 1978 in seguito agli Accordi di pace di Camp David fra Israele ed Egitto, Bnei Atzmon è un moshav religioso misto collettivo/privatizzato, composto da 70 famiglie per un totale di più di 500 persone. Il villaggio dispone di un sistema educativo ben sviluppato che serve 550 allievi dall’asilo nido alla scuola superiore. Bnei Atzmon possiede più di 5.000 dunam (1.250 acri) di campi coltivati, 12 dunam (3 acri) di allevamenti, un caseificio, un’azienda edilizia e un vivaio agrario considerato uno dei più avanzati di tutta la regione.

Gadid
Fondato nel 1982 da un gruppo di 22 famiglie del Bnei Akiva (movimento giovanile nazional-religioso), Gadid conta oggi circa 60 famiglie, più altre 15 famiglie francesi che risiedono in un centro di assorbimento per neo-immigrati. A differenza degli altri insediamenti agricoli nella striscia di Gaza, le serre originali di Gadid vennero costruite accanto alle abitazioni. Con la crescita dell’agglomerato, altre serre vennero aggiunte al di fuori dell’area residenziale, comprese quelle gestite dalla famiglia Berbie che produce erbe medicinali. Circa il 60% delle erbe esportate da Israele viene da Gush Katif.

Gan Or
Affiliato al movimento di moshav religiosi Hapoel Hamizrahi, Gan Or venne fondato nel 1983 da un gruppo di laureati appartenenti al Bnei Akiva e al movimento hesder yeshiva (giovani che combinano servizio militare e studi religiosi in seminari yeshiva). La maggior parte delle 50 famiglie si guadagna da vivere coltivando ortaggi nelle serre, gli altri si dedicano alle libere professioni. Il villaggio, che di recente ha completato la costruzione di una sinagoga e di un adiacente salone per eventi comunitari, ospita anche il college femminile Tohar che offre studi religiosi e corsi alla Open University e al campus universitario della università Bar-Ilan nella vicina città israeliana di Ashkelon.

Ganei Tal
Questo moshav religioso venne fondato nel 1979 da un gruppo di laureati appartenenti al Bnei Akiva. La maggior parte delle 65 famiglie lavora nelle serre coltivando prodotti agricoli fra cui fiori, verdure, sementi, piante da casa e da giardino, piante aromatiche. Ganei Tal vanta anche un’ampia varietà di attività culturali.

Katif
Dieci veterani del movimento Bnei Akiva e delle Forze di Difesa israeliane fondarono Katif nel 1985 dopo un periodo di apprendistato agricolo nel vicino moshav Bnei Darom. Oggi il moshav conta più di 60 famiglie per una popolazione totale di circa 330 persone, tra cui 220 bambini. Oltre alle altre sue numerose istituzioni educative, i membri fondarono la Yeshiva Katif per gli Studi sull’Ambiente Marino e Desertico, che combina studi ecologici e religiosi. Katif gestisce un caseificio, fabbriche tessili e per apparecchiature da serra, mentre le sue serre producono ortaggi per l’esportazione.

Kerem Atzmona
Fondato nel 2001 da cinque famiglie in un frutteto abbandonato tra i villaggi di Bnei Atzmon e Morag, Kerem Atzmona conta oggi circa 15 famiglie per una popolazione totale di circa 60 persone. I suoi membri lavorano nell’istruzione e nelle professioni.

Kfar Yam
Questa minuscola comunità che sulla spiaggia occidentale di Neve Dekalim venne fondata nel 1983 da due famiglie in una postazione diroccata dell’esercito egiziano. La sua popolazione è cresciuta con una terza famiglia nel 1985 e una quarta nel 1996. E’ classificato come “insediamento di individui”.

Morag
Il più meridionale dei villaggi del Blocco Katif, Morag iniziò nel 1972 come un avamposto Nahal (corpo misto militare/agricolo-civile) per diventare nel 1983 un moshav religioso affiliato al movimento Hapoel Hamizrahi. La maggior parte delle sue 29 famiglie lavora nell’agricoltura coltivando pomodori, ortaggi, piante aromatiche e altri prodotti di serra. Nonostante i continui attacchi terroristici, a Morag si sono aggiunte di recente altre sette famiglie ed è stata completata la costruzione di una struttura centrale adibita a sinagoga.

Netzer Hazani
Originariamente creato nel 1973 come avamposto Nahal, Netzer Hazani venne rifondato come moshav civile nel 1997 da 12 famiglie religiose. Oggi la maggior parte delle sue 70 famiglie si guadagna da vivere con vivai ittici e con l’agricoltura nelle serre, dove si coltivano ortaggi e un’ampia varietà di piante aromatiche destinate all’esportazione.

Neve Dekalim
Questo villaggio comunitario religioso con circa 500 famiglie, per una popolazione totale di 2.600 persone, è il più grande della striscia di Gaza e funziona come centro amministrativo e di servizi per gli altri villaggi della zona. A Neve Dekalim si trovano gli uffici del Consiglio locale, dei servizi religiosi e sanitari, un centro commerciale e industriale, un’ampia varietà di istituzioni religiose educative e di movimenti giovanili, attività culturali, un centro comunitario e la biblioteca regionale.

Pe’at Sadeh
Fondato come insediamento temporaneo nel 1989, Pe’at Sadeh si è trasferito nel 1993 nella sua attuale localizzazione su una collina di fronte al mare. Le sue 20 famiglie comprendono 110 abitanti, 70 dei quali bambini. Gli abitanti di questo villaggio comunitario rappresentano una mescolanza di laici, tradizionalisti e religiosi osservanti. Per lo più si dedicano all’agricoltura, il resto nelle professioni.

Rafiah Yam
Villaggio comunitario misto laico/religioso fondato in una località provvisoria nel 1984 da giovani coppie provenienti da varie parti di Israele, si è spostato nel 1991 nella sua attuale localizzazione. La maggior parte delle sue 25 famiglie (per un totale di circa 100 persone) si guadagna da vivere con la più progredita agricoltura in serra, ma produce anche abiti per le maggiori case di moda israeliane.

Shirat Hayam
Fondato nel 2000 come risposta all’attentato terrorista contro lo scuola-bus della vicina Kfar Darom, il villaggio sorto sul litorale conta 16 famiglie con 26 bambini. Per lo più gli abitanti si dedicano all’agricoltura, altri alle professioni.

Slav
Fondato dapprima nel 1980 come un avamposto Nahal, Slav iniziò a funzionare nel 1982, dopo il ritiro dal Sinai, come un campo di transito per gruppi di coloni e come sede del college Midreshet Hadarom. Oggi solo tre famiglie vivono in una parte del villaggio, mentre il resto serve come postazione della polizia di frontiera.

Tel Katifa
Fondato nel 1992, pochi mesi prima della firma degli Accordi di Oslo, il villaggio conta 15 famiglie, per lo più dedite all’agricoltura con l’obiettivo di svilupparsi come una località turistica balneare che può vantare anche uno specchio d'acqua naturale.


Striscia di Gaza settentrionale e centrale

Dugit
Fondato nel 1990, Dugit è un villaggio comunitario costiero e conta circa 20 famiglie (70 persone) che si guadagnano da vivere con l’allevamento ittico e il turismo. Dopo aver vissuto in caravan sin dalla fondazione, diverse famiglie hanno successivamente ricevuto il permesso di costruire case permanenti.

Elei Sinai
Fondato nel 1983, in parte da coloni costretti ad abbandonare il Sinai in forza del trattato di pace con l’Egitto, Elei Sinai è un villaggio comunitario laico che conta circa 85 famiglie con una popolazione totale di circa 350 persone. La maggior parte degli abitanti lavora nella vicina città israeliana di Ashkelon, a una quindicina di chilometri di distanza.

Nisanit
Il più grande villaggio israeliano della striscia di Gaza settentrionale, Nisanit conta circa 300 famiglie per una popolazione totale di circa 1.300 persone. Fondato originariamente nel 1980 come un avamposto Nahal, divenne villaggio comunale civile nel 1993. Comunità laica, i suoi abitanti sono per lo più professionisti che lavorano nella vicina Ashkelon.

Kfar Darom
Storico moshav religioso, affonda le sue origini a più di 70 anni fa quando un uomo chiamato Tuvia Miller acquistò circa 260 dunam (65 acri) per farne un frutteto. Le sue proprietà vennero distrutte durante i moti arabi del 1936-39, ma nel 1946 il Fondo Nazionale Ebraico acquistò i terreni di Miller e vi si stabilì un gruppo di kibbutznik religiosi. Durante la guerra d’indipendenza d’Israele, il kibbutz Kfar Darom resistette contro l’esercito egiziano invasore per quasi tre mesi, finché nell’estate 1948 le Forze di Difesa israeliane ordinarono ai difensori di abbandonarlo. Dopo la guerra dei sei giorni del 1967, Kfar Darom venne ricreato come un insediamento misto militare/civile dal corpo Nahal delle Forze di Difesa israeliane, per poi diventare totalmente civile come villaggio religioso nel 1989. Oggi Kfar Darom conta circa 65 famiglie per una popolazione totale di circa 400 persone. Il suo Istituto per la Torah e la Terra si dedica alla ricerca di nuove soluzioni ai problemi particolari che sorgono dall’incontro fra agricoltura moderna e regole religiose tradizionali. Gli abitanti sono impiegati soprattutto nell’agricoltura, nell’istruzione e nelle professioni. La sua area industriale ospita un impianto regionale di imballaggi. Fra le sue strutture educative figura il Centro per lo Sviluppo dell’Infanzia.

Netzarim
Fondato nel 1972 come un avamposto Nahal da un gruppo del movimento giovanile sionista di sinistra Hashomer Hatzair, Netzarim è diventato nel 1984 un villaggio civile religioso. Diversi anni più tardi i suoi membri decisero di trasformare il kibbutz in un villaggio comunitario. Le sue 60 famiglie (circa 400 persone) gestiscono un’economia ben sviluppata che comprende agricoltura di serra (pomodori per l’esportazione, mango, ortaggi), allevamenti di pollame e una cava. Alcuni membri lavorano negli altri villaggi israeliani della zona. A causa della precaria situazione dal punto di vista della sicurezza (Netzarim è un villaggio isolato nel cuore della striscia di Gaza), i bambini studiano a Bnei Atzmon. Tuttavia, tre anni fa all’interno di Netzarim è stata creata una hesder yeshiva con 20 studenti/soldati.


Cisgiordania settentrionale

Ganim
Nelle intenzioni Ganim avrebbe dovuto far parte di una serie di villaggi collegati fra loro attraverso la Samaria (Cisgiordania settentrionale).

Homesh
Villaggio comunitario misto laico/religioso, Ganim nacque nel 1978 come avamposto Nahal per poi diventare nel 1988 interamente civile con circa 30 famiglie. Collocato sulla sommità della collina più elevata della zona, gode di una vista panoramica su tutto il circondario e nelle intenzioni avrebbe dovuto svolgere un ruolo importante per la sicurezza.

Kadim
Villaggio comunitario laico fondato inizialmente nel 1983 come un avamposto Nahal, già l’anno successivo divenne villaggio civile con l’arrivo di 25 famiglie. Era progettato per arrivare ad ospitare fino a 200 famiglie.

Sa-Nur
Inizialmente creato nel 1977 dal nucleo centrale Dotan, questo villaggio comunitario religioso acquisì il nome attuale nel 1987 dopo essere stato sin dal 1984 una sorta di colonia per artisti. Oggi conta 15 famiglie ed era progettato per ospitarne fino a 80.

Complessivamente lo sgombero dei villaggi ebraici israeliani dalla striscia di Gaza e di parte della Cisgiordania settentrionale significa che:
– devono essere chiusi 42 centri assistenziali day-care, 36 asili, sette scuole elementari e tre scuole superiori;
– 5.000 scolari devono inserirsi in altre scuole;
– devono essere smantellate 38 sinagoghe;
– 166 aziende agricole israeliane devono essere chiuse, con la perdita di posti di lavoro anche per 5.000 palestinesi;
– 48 sepolture del cimitero ebraico di Gush Katif devono essere riesumate e trasferite in Israele, comprese quelle di sei abitanti uccisi da terroristi.

"Come si può vedere – conclude il ministero degli esteri israeliano – Israele sostiene con i fatti i propri impegni verbali ed è pronto a pagare un prezzo doloroso in nome della pace”.

(MFA, 28 luglio 2005 - da israele.net)





2. LE INTENZIONI DEI PALESTINESI




"Oggi Gaza, domani Gerusalemme"

di Daniel Pipes

Coloro che criticano Israele hanno ragione? L’antisemitismo dei palestinesi, la loro industria del suicidio e le azioni terroristiche sono frutto “dell’occupazione” della Cisgiordania e di Gaza? Ed è vero che questi orrori avranno fine solo in seguito al ritiro dai Territori dell’esercito e dei civili israeliani?
    La risposta non tarderà ad arrivare. A partire dal prossimo 15 agosto, il governo israeliano sfratterà circa 8.000 israeliani residenti a Gaza e consegnerà le loro terre all’Autorità palestinese. Oltre a costituire un singolare evento della storia moderna (nessuna altra democrazia ha sradicato forzatamente migliaia di propri cittadini che professano una certa religione dalle loro legittime abitazioni) ciò rappresenta altresì un insolito esperimento dal vivo di scienza sociale.
    Ci troviamo al cospetto di una linea di demarcazione ermeneutica. Se coloro che criticano Israele hanno ragione, il ritiro da Gaza non farà altro che migliorare gli atteggiamenti dei palestinesi nei confronti dello Stato ebraico, arrivando a porre fine all’istigazione della violenza e sancendo un forte calo degli attentati terroristici cui farà seguito l’apertura di nuovi negoziati e un accordo globale. Dopotutto, la logica vuole che se “l’occupazione” rappresenta il problema, una volta che essa cesserà, anche se in modo parziale, si arriverà a una soluzione.
    Ma io preconizzo un esito ben differente. Visto che circa l’80% dei palestinesi continua a non voler riconoscere la reale esistenza di Israele, i segnali di debolezza mostrati dallo Stato ebraico, come l’imminente ritiro da Gaza, provocheranno piuttosto un’intensificarsi dell’irredentismo palestinese. Acquisendo il loro nuovo dono senza mostrare un briciolo di gratitudine, i palestinesi concentreranno la loro attenzione su quei territori che gli israeliani non hanno evacuato. (Questo è quanto accadde dopo che l’esercito israeliano abbandonò il Libano.) Il ritiro non sarà fonte di cortesia ma di una nuova euforia di rigetto, di una maggior frenesia di rabbia antisionista, e di una recrudescenza della violenza anti-israeliana.
    Gli stessi palestinesi lo dicono apertamente. Ahmed al-Bahar uno dei leader di Hamas a Gaza asserisce che: “Dopo oltre quattro anni di Intifada, mai prima di oggi Israele si è trovato in uno stato di retrocessione e di debolezza. Gli eroici attacchi di Hamas hanno smascherato la debolezza e la volubilità dell’impotente establishment di sicurezza sionista. Il ritiro segna la fine del sogno sionista ed è indice del declino morale e psicologico dello Stato ebraico. Noi riteniamo che la resistenza sia l’unico mezzo in grado di esercitare pressioni sugli ebrei”.
    Sami Abu Zuhri, un portavoce di Hamas, sostiene altresì che il ritiro è “dovuto alle operazioni di resistenza palestinesi (…) e noi continueremo a opporre resistenza”.
    Altri personaggi sono ancora più precisi. Nel corso di una manifestazione popolare svoltasi a Gaza City lo scorso giovedì, circa 10.000 palestinesi si sono messi a ballare, cantare e a scandire lo slogan: “Oggi a Gaza, domani a Gerusalemme”. Domenica, Jamal Abu Samhadaneh, leader dei Comitati per la Resistenza Popolare di Gaza, ha annunciato quanto segue: “Trasferiremo le nostre cellule in Cisgiordania” ed ha ammonito che “Il ritiro non sarà completo senza la Cisgiordania e Gerusalemme”. Ahmed Qurei dell’Autorità palestinese asserisce altresì: “La nostra marcia si fermerà solo a Gerusalemme”.
    Le intenzioni palestinesi preoccupano perfino la sinistra israeliana. Danny Rubinstein, esperto di questioni arabe per Ha’aretz, osserva che il premier Ariel Sharon ha deciso di lasciare Gaza solo dopo un intensificarsi della carneficina anti-israeliana. “Anche se quegli attacchi non ebbero luogo perché Sharon escogitò l’idea del disimpegno, i palestinesi sono sicuri che sia il caso di perpetrarli e ciò rafforza l’opinione da loro nutrita che Israele capisce solo il linguaggio degli attacchi terroristici e della violenza”.
    Israel National News ha raccolto altri commenti della sinistra:
    • Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia e leader del Partito Yahad/Meretz: “Esiste un reale pericolo che in seguito all’attuazione del piano

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di disimpegno, in Cisgiordania si intensificheranno gli episodi di violenza, diretti a ottenere la stessa cosa raggiunta a Gaza”.
    • L’ex ministro degli Esteri Shlomo Ben-Ami, membro del Partito laburista: “Un ritiro unilaterale perpetua l’immagine di Israele, che lo ritrae come un paese che sotto pressione fugge via (…) Fatah e Hamas pensano di doversi preparare alla terza Intifada – stavolta in Cisgiordania”.
    • Ami Ayalon, ex capo del Servizio di sicurezza: “Il ritiro senza ottenere nulla in cambio è soggetto ad essere interpretato da parte di alcuni palestinesi come una resa. (…) C’è un grosso rischio che subito dopo l’attuazione del piano di disimpegno vi sarà una recrudescenza della violenza”.
    • Eitan Ben-Eliyahu, ex comandante dell’aeronautica militare: “Non c’è il rischio che il ritiro garantirà una stabilità a lungo termine. Il piano di disimpegno così come è può solo condurre a una recrudescenza del terrorismo”.
    Prevedo che gli eventi proveranno che le critiche a Israele sono totalmente infondate ma coloro che le hanno mosse non impareranno nessuna lezione. Senza lasciarsi toccare dai fatti, costoro chiederanno ulteriori ritiri israeliani. Il danno auto-inflittosi da Israele sta preparando la via ad altri disastri.

(New York Sun, 9 agosto 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes)





3. LA RABBIA DEI COLONI




Hana, la madre invalida che sfida Sharon

Menomata per un proiettile che le spararono gli arabi in un insediamento della Striscia di Gaza è diventata il simbolo di chi si oppone al ritiro.

di Gian Micalessin

KFAR DAROM (Gaza) - «Chi mi spingerà fuori di qua si ricorderà per tutta la vita di averlo fatto. Il soldato che mi trascinerà via da questa casa non potrà mai perdonarsi di aver sloggiato un'invalida, di aver costretto lei e i suoi figli ad abitare in un prefabbricato. Chi ci guarderà negli occhi quel giorno non dimenticherà il nostro sguardo, non scorderà la nostra sofferenza e un giorno maledirà chi l'ha costretto a farlo. Non ci sarà violenza, non ci saranno atti ostili, sarà la nostra unica risposta a chi ebreo ha condannato alla deportazione altri ebrei». Neppure oggi, a cinque giorni dalla fine di tutti i suoi sogni, è facile dimenticare lo sguardo di Hana, un balenio nerastro in un volto slavato coperto da un velo bianco. Sotto, immagini la testa rasata imposta dalla legge ortodossa alle donne sposate. Di Hana sembrano muoversi solo quegli occhi neri, mentre il suo corpo immobile sulla carrozzina t'annega in un diluvio di racconti e parole.
    Hodiya le sta accanto, le tiene la mano. Quel giorno di quattro anni fa aveva due anni, compiuti da poco. Hana Barat, 40 anni oggi, la teneva sulle gambe. Papà Eliezer guidava. Loro li aspettavano alle porte dell'insediamento, al cancello di Kfar Darom. Hana sentì gli spari, guardò suo marito sgommare in un inferno di fuoco, senti la pallottola uscirle dalla spalla, vide Hodiya sanguinare. Voleva prenderla, coprirla, proteggerla, ma il suo corpo non le rispondeva. Quando Eliezer fermò la macchina, Hodiya piangeva ancora. Hana disse «non sento più le gambe». Hodiya guarì in due giorni.
    «Vai tesoro, mostra la maglietta ai signori». Hodiya scompare di là, torna con una canottierina ingrigita, screziata di macchie rugginose. Hana l'afferra, la mostra. «Le ho detto di non buttarla mai via, di conservare il sangue di quel giorno, di ricordarsi sempre che Kfar Darom è stato bagnato anche dal suo sangue». Hodiya osserva quel grumo della propria vita , l'accarezza a testa bassa. Dietro, sul lungo tavolo della sala da pranzo, dodici ragazze, dodici volti adolescenti. Mani strette alle tempie, occhi reclinati sui libri sacri. Nell'aria, a ogni silenzio di Hana, un salmodiare lento, esile come un sussurro. I salmi delle geremiadi, le lamentazioni per la distruzione del sacro tempio caduto per due volte sempre nel nono giorno del mese di Av.
    Ma quest'agosto dalle colonie alla città santa il pianto per le sconfitte del passato si mescola alla sofferenza per il «tradimento» di Sharon, molto sentito in Israele se si pensa che la maggioranza degli elettori del Likud gli preferisce ormai quel Bibi Netanyahu che di ritiro da Gaza non vuol sentir parlare. Da qui, prima linea del disimpegno, fino al «sancta sanctorum» della tradizione ebraica, rabbini e militanti della destra religiosa lanciano l'estrema esortazione al Signore. «Per non farci cacciare dobbiamo farlo tutti assieme - ripete convinta Hana - solo così il Signore, forse ci ascolterà». Pregano le altre tre figlie di Hana, pregano le loro cugine e quelle delle quattro famiglie riunitesi per attendere tutti assieme l'inevitabile cacciata. Pregano e salmodiano, ondeggiando in una riverenza ancestrale, i settantamila fedeli assiepati al Muro del Pianto.
    A guidare questa supplica di massa sono arrivati nella Gerusalemme antica l'ex capo rabbino Avraham Shapira e Ovadia Yosef, leader spirituale degli ultraortodossi dello Shas. Davanti hanno una catena di uomini barbuti e palandrane nere, di riccioli e kippa. Su quella distesa di vesti lugubri, strabordate oltre le mura antiche fino all'asfalto della moderna Gerusalemme, spiccano bandiere e fasce arancione diventate colore e simbolo della lotta al ritiro imposto dal governo. Un unico grande abbraccio politico e religioso unisce la città santa e la casa di Hana nella piccola Kfar Darom. Lì dentro Hana un anno fa ha avuto il suo ottavo figlio. Il primo da quando è rimasta bloccata su quella carrozzina. Hodiya le posa sulle ginocchia quel batuffolo di carne rosa e capelli biondi, corre via, torna con in braccio il tubo di piombo e le alette dell'ultima granata di mortaio piovuta davanti a casa. Sembra una sceneggiata macabra di vita e morte, l'insano folle gioco di una famiglia autocondannatasi a sopravvivere nel cuore di un conflitto per compiacersi nella propria sofferenza. Ma i cinquecento della piccola Kfar Darom la pensano tutti come Hana. E i mille intrusi infiltratisi notte dopo notte per dar loro man forte ai «forti» di Kfar Darom hanno fatto di Hana un simbolo.
    Hana ti mostra il suo ultimo bimbo, il figlio del proprio strazio: «È nato lo stesso giorno in cui la Knesset approvò il disimpegno, l'ho chiamato Amichai Yisrael, significa “il popolo d'Israele vive”. Amichai è nato dal mio corpo ferito e sarà il simbolo della nostra resistenza ad ogni ferita».

(Il Giornale, 11 agosto 2005)





4. GAZA, DIARIO DEL RITIRO




Fra gli 8500 del villaggio Gush Katif, anche il «re dei gerani».

di Francesco Cerri

COLONIA DI GANEI TAL - «Sì, me ne andrò, non c'è alternativa»: mastica amaro Assaf Assif, 54 anni, colono del Gush Katif da più di 20, il «re dei gerani» e il "colono italiano" del Gush Katif, uno dei tanti coloni che stanno preparando l'addio a quella che fino a oggi hanno considerato la loro terra. Gli operai thailandesi e palestinesi stanno smontando le ultime serre, le ultime macchine. Tutto viene caricato sui camion che partono verso nord.
    Della grande azienda agricola che Assaf ha creato nel 1982 a Ganei Tal, la piccola colonia di ebrei religiosi moderati quasi all'ingresso del Gush Katif (il gruppo di insediamenti ebraici del sud della striscia di Gaza) non rimane più quasi nulla. Assaf ora fa parte del gruppo di coloni "realisti", che così si definiscono in opposizione con gli "idealisti": i primi hanno deciso di negoziare con il governo e di partire prima del fatidico ultimo termine del 17 agosto, i secondi vogliono resistere a oltranza, ma senza violenza. Stando alle cifre diffuse ieri dal governo, i "realisti" ora sono una maggioranza fra gli 8500 coloni del Gush Katif. Per l'esattezza 1018 famiglie su 1700, il 60% circa, hanno firmato i formulari di richiesta degli indennizzi previsti dalle autorità per chi accetta di partire.
    Il 15 agosto è formalmente la data d'inizio dello sgombero delle colonie deciso dal premier Ariel Sharon. Chi rimane all'interno del Gush Katif in teoria viola la legge. Ma le autorità hanno concesso 48 ore supplementari ai coloni per andarsene. «Partirò all'ultimo minuto, il 17 agosto, forse resistendo un po'. Certo non posso pensare di raccontare un giorno ai miei nipotini che sono andato via senza fare niente» spiega Assaf in un italiano fluido. Per gli 8500 "settlers" della Striscia di Gaza è il "colono italiano". Da giovane ha vissuto a Roma, lavorava con i movimenti giovanili ebraici.
    Oggi è il «re dei gerani» del Gush Katif e ai clienti italiani vende buona parte dei quasi 20 milioni di gerani che ogni anno esporta verso l'Europa. Una azienda che ha creato dal nulla nel 1982, dopo avere perso da soldato una gamba al servizio del paese, su una mina nel Sinai. «Qui allora era il deserto - ricorda - i palestinesi non volevano abitarci, la chiamavano la malaterra, la terra maledetta: è sabbia, si riteneva non si potesse coltivare nulla. Noi abbiamo trovato l'acqua, a 30 metri di profondità». La storia di Assaf è quella di molti altri coloni, incitati a trasferirsi sulla "nuova frontiera" di Israele da 30 anni da tutti i governi di sinistra o di destra. Una vita di lavoro duro, una azienda costruita anno dopo anno, con la paura per i figli, i colpi di mortaio sparati dai vicini villaggi palestinesi. Come quasi tutti i coloni di Gush Katif, coperta di serre, in un incantevole paesaggio di dune, palme e mare, Assaf produce fiori.
    Il "settler" è anche scampato per un soffio a un attentato. Nel 2001 uno dei suoi 40 operai palestinesi di allora aveva infilato sotto il sedile della sua auto una bomba, miracolosamente non esplosa. Ma ora Assaf accetta di partire, di ricominciare da capo. Ha trasferito l'azienda a sud di Ashkelon, a un tiro di schioppo praticamente dal confine nord della Striscia di Gaza. Sul colono, che all'inizio voleva resistere ad ogni costo, ha avuto il sopravvento il capitano d'impresa, ora trascinato dai ritmi della nuova azienda: «Dobbiamo essere pronti alla fine del mese, le esportazioni iniziano in settembre/ottobre». Come quella di Assaf, la maggior parte delle 65 famiglie di coloni di Ganei Tal ha deciso di seguire la strada del realismo.
    «C'è un accordo generale a Ganei Tal, ci sposteremo tutti insieme e ricreeremo il villaggio nelle terre di un kibbutz del sud di Israele, a Afez Raim», spiega il "colono italiano". «Per due o tre mesi staremo in un campo di vacanze che c'è lì, poi ci trasferiremo in un complesso di case prefabbricate, e fra 5 anni avremo di nuovo il nostro villaggio». «Per tutti noi, il più importante è che la comunità resti unita». Da parte dei coloni idealisti, dice, non c'è astio: «No, non ci considerano dei traditori, capiscono». La tolleranza, spiega, e il rispetto degli altri sono i valori fondanti della comunità dei "coloni buoni" del Gush Katif, che fra poche settimane non esisterà più.

(La Provincia di Sondrio, 9 agosto 2005)





5. I COLONI PRONTI A RESISTERE




I coloni religiosi di Kfar Darom determinati a resistere all'evacuazione forzata

I coloni religiosi di Kfar Darom, i pionieri degli insediamenti ebraici nella Striscia di Gaza, sono determinati a resistere all'evacuazione forzata. Tra una settimana inizierà il ritiro israeliano dalla Striscia, e il portavoce di Kfar Darom, Asher Mivtzari, ricorda che si tratta dell'unico dei 21 insediamenti della regione che si basa sulla Torah, la legge religiosa ebraica. Mivtzari sottolinea il carattere sacrale del sito biblico di Kfar Darom, "che anche per gli arabi rappresenta il simbolo del ritorno degli ebrei a Eretz Israel", le cui frontiere bibliche includono la Striscia di Gaza e la Cisgiordania.
Dopo essere stati cacciati nel 1929, nel corso di una rivolta araba in Palestina, allora sotto mandato britannico, gli ebrei tornarono a Kfar Darom nel 1946. Nel 1948 il villaggio si oppose con tenacia all'esercito egiziano, in una dura battaglia che gli valse il soprannome di "invincibile". La comunità è quindi risorta dalle sabbie nel 1970, aprendo la via agli altri coloni che hanno dato vita agli altri insediamenti. Kfar Darom si trova nel cuore della località palestinese di Dei el Balah. I residenti della colonia sono particolarmente fieri per essere riusciti a sviluppare una agricoltura prospera su colline di sabbia. Anche per questo motivo intendono ignorare l'ordine di evacuazione, e proseguire nel loro lavoro come se nulla fosse.
Vicino a Kfar Darom hanno piazzato le tende alcuni simpatizzanti dei coloni,
giunti da altre parti di Israele per manifestare il loro sostegno.
    Nitza Kahan è giunta da Gerusalemme con nove dei suoi dieci figli. Come gli altri simpatizzanti, si dice convinta che il ritiro sarà solo temporaneo: "Le altre volte in cui gli ebrei sono stati cacciati, poi sono tornati. Questa non è una speranza, ma una certezza, perché noi sappiamo che torneremo a Kfar Darom se il villaggio sarà smantellato".

(Vita.it, 10 agosto 2005)

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Gush Katif che diventerà Alamo. «Un ebreo non caccerà un ebreo»

GAZA - La lunga fila di automobili avanza lentamente, tra i clacson e qualche gesto sconveniente di guidatori impazienti. Da alcune settimane, scene come queste sono diventate moneta corrente per gli abitanti del dipartimento Eshkol, zona parallela alla Striscia di Gaza situata in territorio israeliano. La tranquilla vita di questa regione è stata sconvolta dalle grandi manovre avviate dall'esercito e dalla polizia in vista dello smantellamento degli insediamenti israeliani di Gaza che avrà inizio lunedì. La zona è stata chiusa, con posti di blocco; i residenti hanno permessi speciali per circolarvi e gli «estranei» devono procurarsi un invito per poter entrarvi.
All'interno di Gush Katif, agglomerato di insediamenti ebraici situati tra le città palestinesi di Gaza e di Rafah, si ha l'impressione però che gli sforzi della polizia e dell'esercito siano vani. Nella piazza centrale di Neveh Dekalim, c'è un impressionante andirivieni. Decine di giovani e giovanissimi vestiti di arancione, il colore scelto dai coloni come simbolo della lotta, le ragazze con gonne lunghe, i ragazzi con la calotta sulla testa, hanno invaso i giardinetti. Sulle loro magliette c'è una scritta indirizzata ai soldati: «Un ebreo non caccia via un altro ebreo». Alcuni dormono nei sacchi a pelo, altri girano tra i negozietti.
    «Noi non abitiamo qua», riconoscono malvolentieri. «Siamo venuti a sostenere i nostri fratelli nella loro lotta», aggiungono. Tutti sono pronti a «resistere a coloro che verrano ad allontanarci». Sono loro, secondo l'opinione di molti coloni, i più pericolosi perchè ciecamente convinti delle ragione della loro causa.
    A Neveh Dekalim vivono 600 famiglie di ebrei osservanti noti per le loro posizioni estremiste. Circa un centinaio ha già firmato un accordo con il governo per la loro sistemazioni dopo il ritiro. Ma la maggioranza non ha l'intenzione di abbandonare il luogo. «Nessuno andrà via fino a lunedì», dice Hagai Huberman, giornalista e scrittore. «All'arrivo dei soldati c'è chi s'opporrà con la forza e c'è chi si farà portare fino all'autobus per dimostrare che non è stato obbligato a partire». «La gente sta accumulando cibo e acqua, da lunedì non potranno uscire più da Gush Katif visto che chi esce non può più tornarvi» dice Huberman. E aggiunge: «Vogliamo credere a un miracolo e che questi insediamenti non verrano smantellati». A Neveh Dekalim la fede è più forte della realtà. Marta Teitelbaum

(Brescia Oggi, 11 agosto 2005)





6. LA STORIA DI SIMINTOV SCAMPATO AI SOVIETICI E AI TALEBANI




Così sopravvive l’ultimo ebreo rimasto a Kabul

di Gianni Verdoliva

Zablon Simintov nella sinagoga di Kabul dove vive da solo dallo scorso gennaio
Zablon Simintov resiste. A 44 anni, lui, l’ultimo ebreo di Kabul, continua a vivere nella piccola, e unica, sinagoga della città. «Questa è l’ultima casa degli ebrei» ha dichiarato al «Washington Post» dopo la morte di Ishaq Levin lo scorso gennaio. Levin, ottuagenario, era il solo correligionario di Simintov in tutto l’Afghanistan. Insieme costituivano una presenza simbolica. Quel che resta di un ricco passato. Secondo gli storici, infatti, la presenza ebraica risalirebbe all’esodo degli ebrei da Babilonia. Se nell’ultimo secolo erano la città di Herat e la capitale Kabul, a ospitare importanti presenze ebraiche, comunità più piccole esistevano a Merv, Balkh e Ghur. Stimati ad alcune decine di migliaia all’inizio del Novecento, gli ebrei afgani hanno una lunga storia. Gli scavi hanno riportato alla luce sinagoghe che datano secoli nella città di Herat, ma poco si conosce sul destino degli ebrei afgani nel medioevo. All’epoca la comunità più florida era nella città di Ghur. Della quale poco rimase in seguito all’invasione dei mongoli nel tredicesimo secolo, che costrinsero gli ebrei locali a fuggire o a convertirsi all’Islam. L’altra grande comunità, quella di Herat, ha invece vissuto il periodo d’oro tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, con l’arrivo di molti ebrei persiani in fuga dalle conversioni forzate. Minoranza religiosa, insieme ai sikh e agli induisti, gli ebrei afgani, molti dei quali commercianti di cotone e di stoffa, avevano adottato i costumi e le usanze della restante parte della popolazione. Con alcune differenze. Come i turbanti neri, indossati dagli uomini ebrei, simbolo di lutto per la distruzione del tempio di Gerusalemme secondo alcuni o segno distintivo imposto, secondo altri. Perché, malgrado momenti di serena convivenza con la maggioranza musulmana, gli ebrei afgani erano soggetti a campagne denigratorie che toglievano loro le libertà fondamentali. Dopo l’assassinio del re Nadit Shah nel 1933 infatti, agli ebrei venne imposta una tassa speciale oltre alla proibizione di uscire dalle città. Concentrati in alcune zone di cui rimane il ricordo nel nome, come nel caso di majalla-yi musahiya, una zona di Herat, che era conosciuta come «il quartiere degli ebrei», gli ebrei afgani hanno cominciato a emigrare a partire dagli anni 50. Un reporter di Associated Press, raccontava nel 1980, immediatamente dopo l’invasione sovietica, la cerimonia di circoncisione di un bambino nella sinagoga di Kabul. Da allora sono rimasti solo in due, alle prese con i talebani che li hanno spesso chiusi in carcere, picchiandoli e torturandoli, per costringerli, senza successo, a convertirsi all’Islam. Rifugiati nella sinagoga, costruita 40 anni fa e ormai in decadenza, Levin e Simentov hanno resistito, miracolosamente. I due uomini hanno vissuto per anni nell’edificio senza però parlarsi. Una triste storia di reciproche accuse e calunnie li ha messi inesorabilmente uno contro l’altro. Al punto da celebrare Hanukhà, la festa delle candele, ognuno per conto suo, come riportava l’anno scorso il «Jewish Telegraphic Agency». Una discordia profonda, alimentata dalle reciproche accuse di aver venduto ai talebani la vecchia thorà della sinagoga, risalente a 400 anni, ha creato un muro invalicabile tra i due. Dopo la morte di Levin, Simentov, conosciuto nel quartiere come «il rabbino», ha trovato un nuovo compagno, un giovane musulmano guardia del cimitero ebraico di Kabul. E resta. Per cercare di recuperare la thorà presa dai talebani. La sua, forse ultima, missione.

(Il Mattino. 3O luglio 2005)





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