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Notizie su Israele 324 - 8 dicembre 2005 |
1. Un cristallo rosso invece della croce
2. L'approvazione temporanea del mondo 3. I Fratelli Musulmani avanzano in Egitto 4. La presenza ebraica in Libia 5. Un sistema immunitario per computer 6. La reazione dei palestinesi al ritiro d'Israele 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. UN CRISTALLO INVECE DELLA CROCE
Croce rossa, via al nuovo simbolo il cristallo approvato tra polemiche Testo approvato con 98 voti favorevoli, 27 contrari e 9 astensioni L'emblema, senza riferimenti religiosi, apre all'adesione di Israele A maggioranza. Il documento non ha però trovato l'unanimità dei consensi e si è dovuto quindi ricorrere al voto. Una chiara maggioranza - è stato ufficialmente annunciato dalla Svizzera, paese depositario delle convenzioni - ha votato a favore. L'approvazione del protocollo apre ora la strada all'adesione della società nazionale di soccorritori 'Magen-David Adom' (Israele) al movimento internazionale della Croce Rossa. Dissensi. Ma il Cristallo, la cui nascita avrebbe dovuto celebrare l'unità e l'universalità del movimento, è stato approvato in un clima di controversie e scontri sulla questione del Golan che hanno dominato i lavori della conferenza diplomatica. Il testo è stato approvato con 98 voti favorevoli, 27 contrari e 9 astensioni. La Siria, con l'appoggio di numerosi paesi arabi e musulmani, aveva condizionato il suo appoggio al protocollo al previo raggiungimento di un'intesa sull'accesso dei soccorsi umanitari nel Golan occupato da Israele. Cicr. Nonostante tre giorni di intense trattative indirette tra Siria ed Israele, l'intesa non è stata raggiunta. Il presidente del Comitato Internazionale della Croce Rossa (Cicr), Jacob Kallenberger ha espresso grande soddisfazione per l'approvazione del protocollo. Questo passo, ha detto, è molto positivo e costituisce una base per l'universalità del Movimento. Svizzera. Meno serene le prime dichiarazioni rilasciate dalla Siria e dalla Svizzera. Annunciando i risultati della conferenza l'ambasciatore elvetico Didier Pfirter ha detto che il suo paese ha compiuto ogni possibile sforzo pur di evitare di ricorrere al voto ma Damasco, ha riferito il diplomatico senza citarla esplicitamente, ha preso in 'ostaggio' una questione umanitaria per risolvere un conflitto bilaterale. Siria. Anche l'ambasciatore siriano Bashar Jaafari ha avuto parole molto severe per la Svizzera. "E' la prima volta nella storia del diritto umanitario che una convenzione di tale importanza è approvata senza l'unanimità, è veramente un peccato", ha commentato. E ha aggiunto che le rivendicazioni siriane avrebbero potuto trovare una soluzione se la conferenza fosse stata gestita altrimenti. "Si tratta di un fallimento per tutti", ha concluso. Dopo l'approvazione del Protocollo da parte degli stati sarà necessario convocare una conferenza internazionale della Croce Rossa e della Mezza Luna Rossa nel 2006 per emendare gli statuti del movimento. La scelta. La decisione di proporre il cristallo rosso è stata attentamente valutata. Cosciente di muoversi su un terreno minato il comitato internazionale della Croce rossa ha studiato una quarantina di simboli prima di scegliere un quadrato rosso su fondo bianco che si appoggia su una delle sue punte. Le origini. La croce rossa era stata scelta come simbolo fin dalle origine dell'organizzazione, nel 1864. Si trattava della immagine invertita nei colori della bandiera svizzera, segno di neutralità per chi l'aveva concepita. La mezzaluna rossa era sorta, come simbolo prima ancora che come organizzazione strutturata, durante la guerra russo turca del 1876-78, quando l'impero ottomano aveva fatto sapere di non gradire l'intervento di soccorsi sotto l'emblema cristiano. La mezzaluna rossa viene poi riconosciuta ufficialmente nel 1929. Il nuovo simbolo. Il cristallo ora è stato scelto proprio perchè non ha connotazioni religiose e neppure politiche o culturali. E' stato esaminato anche sotto l'aspetto della visibilità e ha superato i test. E' considerato utile anche il fatto che la parola Cristal è uguale in francese e inglese ed ha le stesse iniziali di croce e mezzaluna (croissant). (Repubblica, 8 dicembre 2005) 2. LA TEMPORANEA APPROVAZIONE DEL MONDO Israele: beniamino delle Nazioni Unite? di Daniel Pipes Ogni gesto di disimpegno, di rinuncia o ritiro (come lo si voglia chiamare) vale a Israele l'approvazione temporanea del mondo intero, consenso raffigurato dall'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dopo la firma degli accordi di Oslo, nel settembre 1993, l'Assemblea Generale espresse 155 voti a favore e 3 contrari (ci furono altresì un astenuto e 19 Stati che non esercitarono il diritto di voto) per manifestare "il proprio sostegno senza riserve a quanto era stato finora fatto a favore del processo di pace. Dopo il ritiro dell'esercito israeliano dal Libano, nel maggio 2000, come deciso dal governo Barak, il Segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan encomiò lo Stato ebraico per questi "importanti sviluppi nell'ambito delle relazioni tra Israele e le Nazioni Unite". Ma nel giro di alcuni mesi, questi mielosi toni si inasprirono, dimenticati da tutti eccetto che dagli archivisti, rimpiazzati dalle frottole standard antisioniste, dagli orpelli e dalla politica dei due pesi e due misure. Com'era prevedibile, dopo il ritiro da Gaza effettuato tra l'agosto e il settembre di quest'anno, Ariel Sharon è diventato il beniamino delle Nazioni Unite. Mai prima di oggi i leader mondiali avevano fatto a gara per incontrare un premier israeliano né quest'ultimo aveva mai avuto l'opportunità di promuovere se stesso e il suo paese. Ecco qui di seguito un brano tratto da un articolo pubblicato a metà ottobre dal New York Times in cui si parla di Israele come del nuovo favorito delle Nazioni Unite. «Israele ha di recente proposto un progetto di risoluzione alle Nazioni Unite, esso ha avanzato la sua candidatura per ottenere un seggio biennale in seno al Consiglio di Sicurezza, e il suo Primo ministro è stato cordialmente accolto a parlare davanti all'Assemblea Generale. Per nessuna delle altre 190 nazioni facenti parte dell'organizzazione mondiale, quelli sarebbero stati degli eventi di routine. Ma trattandosi di Israele, questo costituisce il primo caso di risoluzione mai proposta dallo Stato ebraico in seno all'Assemblea Generale dell'ONU e la richiesta di ottenere un seggio al Consiglio di Sicurezza presume che si ponga fine al modo sprezzante con cui questo paese è da sempre trattato in seno alle Nazioni Unite. Quello del 15 settembre è stato il primo discorso tenuto dal premier Ariel Sharon all'ONU. Esso è stato pronunciato in un'aula che echeggiava di denunce nei confronti del suo paese, un'aula in cui sono state approvate una marea di risoluzioni di condanna nei confronti dello Stato ebraico grazie a dei voti asimmetrici e che i delegati arabi evacuano con una certa regolarità ogniqualvolta un rappresentante israeliano si alza per prendere la parola. "Si tratta di misure che solo due anni fa non si pensava minimamente potessero essere prese", ha asserito l'ambasciatore israeliano Dan Gillerman, riferendosi ai nuovi tentativi di farsi accettare. "Sarebbe stato impensabile, rovinoso, per noi, perfino tentare di metterle in atto". Così la mossa di Sharon di slittamento verso l'estrema sinistra dello spettro politico israeliano ha pressoché cancellato decenni di denigrazione personale. Le sue frequentazioni con organizzazioni come Americans for Peace Now, Israeli Policy Forum e con Jacques Chirac hanno spianato la strada per un trionfo alle Nazioni Unite. Ma stavolta il clima di cordialità potrebbe durare oppure no? In un'intervista da me rilasciata a metà settembre, ho previsto che ciò non durerà: «C'è una lunga lista di premier israeliani ricompensati per aver fatto delle concessioni ( ) Egli conterà sul fatto di essere remunerato e dopo essere stato impopolare alle Nazioni Unite sarà festeggiato. Ciò rappresenterà un punto culminante della sua carriera. Il mondo lo definirà come un ottimo passo in avanti e nel giro di un mese o due, o forse tre, il mondo intero dirà: "Che succederà dopo?" C'è poco tempo per festeggiare perché si tratta di un gioco a somma zero. Al quale non è possibile vincere ( ) Posso tranquillamente prevedere che se egli non farà ulteriori passi per ritirare gli israeliani dalla Cisgiordania, il buon umore finirà.» E sorpresa ! come previsto, il buon umore è davvero finito. Il 2 dicembre, l'Assemblea Generale ha deliberato su sei risoluzioni riguardanti Israele e i suoi vicini, e in ognuna di esse l'Assemblea Generale è tornata a redarguire, attaccare e accusare lo Stato ebraico. Ad esempio, con 156 voti a favore e 6 contrari (Australia, Israele, Isole Marshall, Stati Federati della Micronesia, Palau e Stati Uniti), 9 astenuti (Camerun, Canada, Costa Rica, Nauru, Papua Nuova Guinea, Samoa, Tuvalu, Uganda e Vanuatu), l'Assemblea Generale ha approvato una risoluzione che chiedeva il ritiro israeliano dai territori conquistati nel 1967. Con 153 a favore e 7 contrari, essa ha condannato la giurisdizione e l'amministrazione israeliana a Gerusalemme. E così via, per le varie questioni trattate. Il servizio informativo dell'Autorità palestinese ha giustamente asserito che i voti a favore rappresentano "un indiscutibile supporto in seno all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla questione palestinese". Secondo il suddetto servizio va tutto bene e le cose sono tornate alla normalità. A partire dal 1992, gli sventurati leader israeliani hanno perseguito una politica di appeasement nella speranza che "opportune concessioni accordate a nazioni insoddisfatte, le cui rimostranze erano in parte legittime, [riuscirebbero a] eliminare le difficoltà e a promuovere la pace e un clima di cordialità". Ma in un'osservazione sempre di attualità pronunciata nei giorni bui del 1940, Winston Churchill ammoniva che "Colui che esercita la politica dell'appeasement è una persona che nutre un coccodrillo, sperando di essere l'ultimo ad essere mangiato". Il coccodrillo delle Nazioni Unite ha dimostrato di essere sazio per breve tempo di Israele, tornando ad essere sempre più vorace dopo ogni "dolorosa concessione". Gli israeliani comprenderanno mai che le guerre si vincono con le vittorie e non con i ritiri? (FrontPageMagazine.com., 5 dicembre 2005 - dall'archivio di Daniel Pipes) 3. I FRATELLI MUSULMANI AVANZANO IN EGITTO Non hanno nessuna possibilità di arrivare al potere, ma i loro raduni spettacolari mostrano bene quanto siano radicati nella società. I Fratelli Musulmani, divenuti la seconda forza politica d'Egitto, da tempo lavorano tra la gente: offrono aiuto sociale con l'obiettivo si islamizzare la società. Grazie alla loro capillare presenza hanno già quintuplicato i voti che avevano alle elezioni passate, arrivando alla soglia dei 100 deputati. "L'Islam è la soluzione" è il loro slogan, sintesi di una visione fondamentalista che vorrebbe però apparire moderata. "Noi non riconosciamo Israele, ma non lo combatteremo. Non abbiamo nulla a che fare con loro e con gli affari interni dei palestinesi. Ci interessa solo espandere la causa islamica, e i sionisti non hanno posto in Palestina. Li dovremmo ostacolare, ma non con le armi", argomenta Medi Akhef, leader del movimento. I Fratelli Musulmani, che posseggono una vasta ramificazione internazionale, negli anni Settanta hanno rinunciato all'uso della violenza, ma non all'obiettivo di rendere la fede il cardine principale della società e dello stato. Oggi in Egitto il movimento è illegale ma tollerato, e il potere intrattiene con esso ambigue relazioni. Sistematicamente repressi con ondate d'arresti e maxiprocessi - come accaduto dopo l'assassinio del presidente Sadat e più di recente nel 1995 - i Fratelli Musulmani sono stati usati da Mubarak per bilanciare le spinte dei partiti della sinistra, ma sono sempre rimasti fuori dalle stanze dei bottoni. Durante la sua lunga esistenza il movimento ha dato origine a molti gruppi islamici. Il ramo palestinese ha fatto nascere Hamas, che con gli stessi metodi dei Fratelli Musulmani è riuscita a radicarsi nella società dei Territori occupati. In Egitto per i Fratelli Musulmani vota almeno un quarto degli elettori. Poco per vincere, ma abbastanza per far preoccupare chi teme il loro radicalismo religioso. (Euro News, 7 dicembre 2005) 4. LA PRESENZA EBRAICA IN LIBIA Dalle leggi razziali all'annientamento di una comunità di 40.000 persone GIADO - Risale all'Impero romano, la presenza ebraica in Libia. Nel periodo del colonialismo italiano vi abitavano quasi quarantamila persone, appartenenti a tre comunità distinte. Gli ebrei discendenti di quelli che nell'antichità si stabilirono sulla costa e nelle montagne dell'interno; altri arrivati indirettamente dalla Spagna (anni dopo l'espulsione da quel Paese nel 1492 durante l'Inquisizione) e da Gibilterra (con passaporto britannico); ebrei italiani giunti con gli altri italiani e che ebbero un ruolo importante nell'economia e nella gestione burocratica della colonia. Le "leggi razziali" fasciste del 1938 misero gli ebrei con le spalle al muro anche se in un primo momento, il governatore Italo Balbo - soprattutto perché aveva bisogno della loro collaborazione e temeva anche i loro effetti sul prestigio internazionale dell'Italia - evitò di applicarle, se non in minima parte. Con la sua morte, però, e con l'entrata in guerra dell'Italia accanto alla Germania nazista, le leggi furono imposte con rigore anche nella colonia. Con le prime sconfitte subite dall'Asse, l'atteggiamento dei fascisti nei confronti degli ebrei libici, autoctoni, e quelli d'origine italiana, britannica e francese, diventò più severo. Nell'autunno del 1941, i primi arresti e trasferimenti nei campi di concentramento, il più importante dei quali era quello allestito a Giado. Altri campi furono allestiti sempre nel Gebel Nefoussa o nella piana sottostante, a Garian, Jeren e Tigrinna, e tutti gli ebrei maschi d'età compresa tra 18 e 45 anni furono costretti ai lavori forzati. Le sofferenze di questa comunità durarono fino ai primi mesi del 1943, quando la Libia fu finalmente liberata. Le truppe britanniche entrarono a Tripoli a fine gennaio e i campi di concentramento furono smantellati e i loro reclusi rimandati alle loro case. Con la fondazione dello Stato d'Israele, i rapporti tradizionalmente buoni tra musulmani ed ebrei si trasformarono in aperta ostilità. Molti ebrei, dopo alcuni violenti pogrom, lasciarono la Libia per trasferirsi in Palestina prima e in Israele poi, altri furono espulsi ancora |
prima dell'arrivo di Gheddafi al potere. L'ultima ebrea tripolina si è trasferita a Roma un paio d'anni fa, dove è morta. E. S. (Il Messaggero, 7 dicembre 2005) * * * Dove gli italiani non furono "brava gente" di Eric Salerno Nel principale campo di prigionia per gli ebrei libici morirono quasi in seicento all'Olocausto. Oggi il nuovo centro cittadino, con il suo minareto alto e lineare come se fosse un prodotto dell'architettura fascista, bianco e verde, colori dell'Islam e della Giamahiria, sta lentamente avvolgendo i resti della vecchia caserma. Dall'altro lato della strada principale che la fiancheggia, alcune botteghe artigiane, un caffè, tavolini e sedie basse di vimini e un tentativo d'aiuola di fronte agli edifici lunghi e bassi adibiti, più di recente, come scuola per insegnanti. Al centro della vecchia caserma, un complesso più grande, ormai ridotto a calcinacci destinati a essere trasportati altrove. Il filo spinato che circondava il perimetro è scomparso da tempo. Restano ricordi e fantasmi, mi assicura l'anziano libico che mi accompagna. Eidoudi, passo svelto, stretta di mano forte, voce sicura come la memoria, racconta. «All'inizio li portarono dalla Cirenaica, li accusavano di complottare con gli inglesi, poi arrivarono anche altri arabi yehudi ». Arabi ebrei, li chiama. A Sidi Aziza, più vicino a Tripoli, i fascisti allestirono un altro campo dedicato soprattutto agli ebrei tripolini. Lavori forzati e maltrattamenti. Trecento di loro furono deportati nella regione di Tobruk per riparare le difese tedesche e italiane contro l'avanzata degli Alleati. Nell'albo delle vittime dell'Olocausto a Yad Vashem, a Gerusalemme, non ci sono molti nomi di ebrei periti nell'Olocausto in Libia. Ne ho trovati una decina, tra cui quello di tale Morthchi Lachmish, nato a Tobruk, data sconosciuta, morto a Giado all'età di 42 anni, nel 1943. La prima generazione di sopravvissuti non ha lasciato molte testimonianze. Tra gli ebrei libici, in Israele e in Italia, si parla di uno strano «senso di vergogna» per i tormenti subiti, e soltanto ora qualcuno comincia ad aprirsi. «In generale gli italiani non erano antisemiti crudeli - spiega uno di loro - ma i due ufficiali comandanti del campo di Giado lo erano». «Soldati italiani e arabi pattugliavano il campo e chi si avvicinava al reticolato veniva fucilato. Ogni giorno ci davano 120 grammi di pane. E una volta la settimana, l'equivalente di cinque grammi di riso al giorno, tre grammi d'olio, tre di salsa di pomodoro, cinque di zucchero e altrettanto di caffè». E ancora: «Dovevamo lavorare dodici ore di seguito, senza alcun riposo. Era chiaro che con quel ritmo e la poca alimentazione, eravamo destinati tutti a morire». Bastonate, torture, sofferenze di ogni genere, riaffiorano dal fondo della memoria. «Erano pronti a ucciderci tutti», sono le parole di un anziano ebreo. Le truppe italiane avevano avuto l'ordine di massacrare i malati, quasi quattrocento. La notizia dell'avvicinarsi dei britannici bloccò l'operazione, i soldati se ne andarono. Herzl Regginino aveva otto anni all'epoca. Fu tra coloro, quasi tutti ebrei libici con passaporto britannico, che furono spediti a Bergen-Belsen. Parla del giorno in cui venne ucciso suo fratello. Era inverno, la temperatura sotto zero. «I guardiani del campo lo spogliarono nudo e lo bagnarono con secchiate d'acqua. Morì congelato». Brucia Dadosh racconta del suo matrimonio nel campo di Giado, di suo marito e poi della figlia morta a due anni, subito dopo un'iniezione che le era stata praticata da uno dei medici italiani del campo. Le malattie causarono la maggioranza delle vittime. Il tifo, trasmesso dalle pulci, era endemico nei cubicoli, grandi appena un metro per due, assegnati a ogni singola famiglia. Haj Ibrahim Said, 1922, vuole aggiungere qualcosa. E' un altro libico di Giado. Sale in auto per percorrere poche decine di metri. La gola di fronte a noi è un prato di sterpaglie vestite di buste di plastica arrivate col vento, qualche albero basso. E' il cimitero. Quello musulmano e, sulla destra, quello degli ebrei. Non vedo lapidi. Haj Ibrahim mi prende per mano e con la sua indica. «La gente moriva nel campo e gli ebrei venivano sepolti qui. Senza grandi cerimonie. Senza lasciare traccia». (Il Messaggero, 7 dicembre 2005) 5. UN SISTEMA IMMUNITARIO PER COMPUTER Una rete parallela consentirà agli antivirus di precedere i virus Secondo un team di esperti dell'Università di Tel Aviv, in Israele, i virus informatici più pericolosi potrebbero essere sconfitti da un software "immunitario" che si diffonde più in fretta di loro. I ricercatori propongono di istituire una rete di scorciatoie attraverso internet riservate esclusivamente ai programmi antivirus, consentendo loro di proteggere i computer prima ancora che arrivi un virus. Eran Shir e colleghi hanno cominciato a sviluppare questa idea nel 2003, quando il famigerato worm Blaster si diffuse attraverso internet. "Gli antivirus convenzionali - ricorda Shir - non erano in grado di competere con la velocità della sua diffusione". I software antivirus mirano ad arrestare gli attacchi ai computer sani e di ripulire quelli già infetti. Gli sviluppatori lavorano costantemente per individuare nuovi virus e per costruire le 'patch' da distribuire agli utenti, possibilmente prima che vengano raggiunti dal virus. Ma questa strategia fa sì che i virus siano sempre un passo avanti, e che a volte trascorrano giorni fra la diffusione del virus e l'arrivo della patch. "Le compagnie di software - spiega Shir - concepiscono internet soltanto come un sistema di spedizione, mentre il nostro obiettivo è quello di renderlo un vero e proprio sistema immunitario. Vogliamo immunizzare la rete nel suo insieme, e non solo i singoli computer". Per far questo, è necessario distribuire l'immunità usando le stesse tecniche di diffusione dei virus. Shir e colleghi hanno immaginato un sistema nel quale alcuni computer fungono da "esca", in attesa dei virus. Questi computer identificano il virus e inviano la sua "firma" in giro per internet, consentendo a tutti gli altri computer della rete di prendere provvedimenti prima ancora di essere attaccati. Il trucco è quello di assicurarsi che la "firma" antivirale viaggi più rapidamente del virus stesso. "È necessario - spiega Shir - costruire collegamenti che possano essere usati soltanto dagli agenti immunitari". Alcune simulazioni dimostrano che sarebbe sufficiente un numero sorprendentemente piccolo di computer "esca". Lo studio è stato presentato sulla rivista "Nature Physics". (Le Scienze, 5 dicembre 2005) 6. LA REAZIONE DEI PALESTINESI AL RITIRO D'ISRAELE Ritiro, ma non riconoscenza «lo sono per la pace; ma, quando parlo, essi sono per la guerra» (Sl. 120:7). Delle scene cariche di emozione! Tanto i coloni che i soldati, la cui missione era di evacuare le colonie con la forza cadevano nelle braccia gli uni degli altri, e piangevano. L'evacuazione delle colonie israeliane, malgrado il grande sacrificio imposto, si è svolta nell'insieme pacificamente. Tutti (o quasi) si aspettavano un ritiro carico di tensione e di disordini ma, tranne qualche episodio insignificante, tutto si è svolto in modo ordinato e pacifico. Ancora una volta, gli Ebrei abbandonano «in silenzio» i loro beni e si lasciano condurre dalle loro proprie genti. E' certamente un fatto unico nella storia che un popolo, per servire la causa della pace, rinunci ai suoi beni ed al suo paese per vederli passare ai nemici terroristi, un tempo al Sinai, in seguito al Libano ed ora nella striscia di Gaza. Se vi è un popolo che ha contribuito alla pace in azione e verità, dimostrando così che è disposto alla pace, è senza alcun dubbio Israele. In compenso, altre nazioni non sono pronte a rendere ai loro proprietari i territori illegalmente annessi. Israele ha abbandonato alcune delle sue terre, ma nessuno praticamente quasi nessuno ha onorato questo gesto, anzi i commenti dei più sono stati ordinari e scontati, come se fosse la cosa più naturale. Qual è la reazione dei Palestinesi al ritiro d'Israele? Qual è la reazione delle nazioni? Il versetto citato in alto dice: «lo sono per la pace; ma, quando parlo, essi sono per la guerra». Appena dopo pochi giorni dal ritiro di tutti i coloni ebrei dalla striscia di Gaza, che doveva servire a terminare gli attentati terroristici, il mattino del 28 agosto un Palestinese del gruppo islamico Djlhad commetteva un ennesimo attentato suicida in Israele, ferendo 40 persone. Si trattava del terzo attacco dopo l'armistizio di Sharm el-Sheik, concluso da Abbas e Ariel Sharon in febbraio. Malgrado il ritiro dalla striscia di Gaza, i gruppi radicali palestinesi hanno minacciato di fare altri attacchi e hanno trasmesso un video da cui risultava palese che avrebbero continuato la lotta armata per la «liberazione» dei «territori palestinesi». Il mondo intero non dovrebbe esprimersi per condannare severamente gli attentati ed esigere dall'Autonomia palestinese che faccia delle concessioni in questa faccenda? Ma non si è prodotto nulla in questo senso e le poche voci che si alzano sono soffocate dalla massa. Il terrorismo la cui miccia si è accesa sul suolo israeliano ha ora raggiunto il mondo intero ed esplode in numerosi luoghi: a New York, a Londra, a Madrid, al Cairo, a Sharm el-Sheik, o ancora a Beslan e nelle Filippine. Ma il mondo fa l'opposto di ciò che dovrebbe fare: egli «sostiene» il terrorismo. L'America subisce critiche e pressioni per aver messo da parte un dittatore in Iraq e perché cerca di stabilirvi una vera democrazia, Israele non raccoglie altro che critiche ed incomprensioni e si esige da lui che faccia di più per la pace. Il terrorismo, coscientemente oppure no, è continuamente incoraggiato. Viene da porsi una domanda, qualora Israele avesse messo il mondo sotto pressione mediante il terrore, sarebbe trattato allo stesso modo? Ho ricevuto un articolo che tratta il fenomeno «terrorismo»: Il «villaggio globale» è attaccato. In quale misura i gruppi dei terroristi si sono diffusi? La lista dei paesi dove essi operano è lunga: dalle Filippine al Canada (50 gruppi).(1) Anche nazioni come Francia e Germania non sono risparmiate, e questo malgrado i miliardi di dollari di commercio in armi ed altro che hanno con regimi musulmani come l'Iran e l'Iraq (sotto Saddam Hussein). E sebbene l'Inghilterra sia la capitale finanziaria dei gruppi terroristici, Londra non è stata risparmiata. L'Europa, a fianco d'Israele, è divenuta un nuovo bersaglio. Alcuni comunicati dei servizi segreti, dall'altra parte dell'Atlantico, mettono in guardia contro le cellule terroristiche che, attraverso il Messico, introducono clandestinamente armi atomiche negli USA.(2) La costante e la forza motrice di tutto ciò è sempre il fanatismo. La presenza ebraica a Gerusalemme non giustifica la costituzione di gruppi terroristici ad Amburgo o a Toronto. Nello stesso modo, una politica che rassicura non impedirà gli atti terroristici; tutt'al più li ritarderà. Si tratta piuttosto di una specie di capitolazione davanti a coloro che vogliono sottomettere il mondo non musulmano alle dottrine di Maometto, ed essi hanno i mezzi per poterlo fare. Questo, è un dato di fatto che soltanto alcuni dirigenti ammettono pubblicamente. Nel frattempo, delle cellule terroriste (fisse) aspettano l'ordine di attaccare. Alan M. Dershowitz, professore alla facoltà di diritto dell'università di Harvard, fa un curioso paragone con i milioni di tibetani che, benché brutalmente oppressi dai Cinesi da numerosi anni,(3) non commettono attentati suicidi, né dirottano gli aerei o uccidono i civili. Sarà forse questa la ragione per cui, essi non ricevono denaro dalla comunità internazionale? Egli ci ricorda che le nazioni del G8, all'indomani degli attacchi terroristici che hanno colpito Londra il 7 luglio, hanno annunciato che avrebbero assegnato annualmente, per tre anni, all'Autorità palestinese una sovvenzione di tre miliardi di dollari. La forza simbolica di questa relazione non è probabilmente colta da tutti gli Occidentali. Ma la decisione rappresenta un messaggio chiaro e forte per i terroristi combattenti, così come per i terroristi potenziali, vale a dire: «il terrorismo funziona... ». I dirigenti dell'Autorità palestinese hanno avuto grosse responsabilità nel terrorismo internazionale ... Se non vi fosse la loro attività terroristica, lo scopo palestinese sarebbe considerato come un problema dei diritti dell'uomo di secondo piano, da affrontare in modo legale ed equo. Ma poiché la dirigenza palestinese è sempre ricorsa (fin dal 1920) al terrorismo come sua migliore tattica, le sue mire godono di una considerazione mondiale. E' essenziale riconoscere, scrive Dershowitz, «che la principale causa del terrorismo non è l'occupazione, l'umiliazione o la disperazione. Se così fosse, i Tibetani dovrebbero essere i più spietati terroristi dei mondo. La ragione di essere del terrorismo è che esso funziona. E se funziona, è perché la comunità internazionale si è adattata e lo «ricompensa». Per di più, il terrorismo funziona perché troppi dirigenti islamici lo coprono di elogi e quasi nessuno lo condanna. Il terrorismo esisterà finché vi saranno dei potenziali terroristi che crederanno di poter trarre profitto da questa tattica».(4) Leggiamo nel Salmo 122 :5-9: «Qua infatti (a Gerusalemme) furono eretti i troni per il giudizio, i troni della casa di Davide. Pregate per la pace di Gerusalemme! Quelli che ti amano vivano tranquilli. Ci sia pace all'intemo delle tue mura e tranquillità nei tuoi palazzi! Per amore dei miei fratelli e dei miei amici, io dirò: la pace sia dentro di te !) Per amore della casa del Signore, del nostro Dio, io cercherò il tuo bene». Gerusatemme diviene un «trono di giudizio» per i popoli, ed è da Gerusalemme che deve emanare la pace mondiale. Tale è la vera ragione dell'inimicizia delle nazioni nei confronti d'Israele. Quando, come cristiani, noi preghiamo per la pace di Gerusalemme, lo facciamo quale priorità a motivo della «casa di Dio», quindi per Gesù. Malgrado la situazione di questo mondo a proposito della quale non si può che scrollare il capo, noi ci sentiamo in fin dei conti protetti in Colui che mantiene il diritto e che proclamerà e stabilirà il diritto, il Suo. Soltanto il ritorno di Gesù apporterà tutto ciò che manca così dolorosamente alla nostra terra: la giustizia e la pace. N.L. Note (1) Associated Press, 4.7.05 (2) G2Bulletin, 7.05 (3) FrontPageMagazine.com, 8.7.05 (4) Haschiwah, Leira'an Zion (Chiamata di Mezzanotte, novembre 2005) 7. MUSICA E IMMAGINI Yerushalaim Mordehai 8. INDIRIZZI INTERNET Jüdische Geschichte und Kultur Keren Kayemeth Leisrael Italia Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |