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Notizie su Israele 348 - 25 maggio 2006

1. La questione iraniana
2. Sderot: effetti dei razzi Qassam
3. «Quella vignetta è razzista e revisionista»
4. La pace cattolico-palestinese di monsignor Sabbah
5. Fatwa a pagamento attraverso «il telefono islamico»
6. Il comune denominatore dei pogrom
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Ezechiele 18:29. La casa d’Israele dice: “La via del Signore non è retta”. "Sono proprio le mie vie quelle che non sono rette, casa d’Israele? Non sono piuttosto le vie vostre quelle che non sono rette?”
1. LA QUESTIONE IRANIANA




«Soltanto un attacco contro l'Iran risolverà il problema»

di Yael Ancri

Effi Eitam
Il deputato israeliano Effi Eitam ha confidato al giornalista Aaron Klein del giornale on-line WND che Israele e la comunità internazionale dovrebbero prendere in considerazione un attacco strategico immediato contro le installazioni nucleari dell'Iran per far cessare le sue attività di arricchimento dell'uranio.
    Il generale di riserva ha tenuto a sottolineare che lo Stato d'Israele dovrebbe attaccare lui stesso l'Iran se la comunità internazionale, alla testa della quale si trovano le Nazioni Unite, non si decidesse ad arrestare il programma nucleare di Teheran nel prossimo anno.
    Ha denunciato inoltre la politica del Primo Ministro Ehud Olmert «la cui amministrazione è incapace di concepire una strategia logica riguardo all'Iran.» Da parte sua ritiene che Israele deve immediatamente rendere pubblica una politica di dissuasione che permetta di assicurare «la distruzione totale» dell'Iran se quest'ultimo avesse l'idea di attaccare lo Stato ebraico.
    «Attualmente l'Iran è in una posizione di debolezza, poiché i suoi siti strategici sono conosciuti e possono essere distrutti in modo relativamente facile e senza alcun rischio. Questo permetterebbe di guadagnare molto tempo. Se l'Iran viene attaccato adesso, l'intero suo processo nucleare sarà ritardato di parecchi anni», ha spiegato Eitam.
    Ha aggiunto inoltre che Israele potrebbe essere costretto ad agire da solo contro l'Iran: «Con o senza l'aiuto di una coalizione mondiale, Israele dovrà ben agire una volta o l'altra, quando sarà perfettamente certo che il programma nucleare dell'Iran ha raggiunto un punto di non ritorno. Sono preoccupato dalle risposte degli iraniani alla comunità internazionale. Il loro unico scopo è di guadagnare tempo, mentre camuffano la vera natura dei loro programmi.»
    L'ex ministro ha precisato che per punto di non ritorno intende «il momento in cui l'Iran avrà abbastanza uranio per costruire una bomba. Molte fonti indicano che questo non accadrà fra molto tempo. Da sei mesi a un anno, non di più. E' chiaro che l'Iran ha già cominciato ad arricchire dell'uranio e non dovrebbe tardare a disporre della tecnologia necessaria per la produzione di armi.»
    Effi Eitam considera l'Iran come «un problema internazionale e non come un semplice problema israeliano. La condotta dell'Iran minaccia tutto il mondo libero. E' una sorgente di male e non soltanto un nemico come si considera di solito. E' un male che non scenderà ad alcun compromesso. E' preferibile abbatterlo subito. Se il mondo non agisce, allora sarà Israele che dovrà farlo.»
    Teheran ha rigettato recentemente una proposta dell'Unione Europea di cessare le sue attività di arricchimento dell'uranio in cambio di vantaggi economici e della costruzione di un reattore funzionante ad acqua.
    «Con la diplomazia e gli accordi non avrete mai la certezza, a meno che gli iraniani non accettino di smantellare le loro installazioni nucleari sotto un'intensa sorveglianza internazionale. Questo è molto improbabile dopo tanti anni di negligenza [da parte degli Stati Uniti, d'Israele e dell'Europa]. Non c'è altra soluzione che la distruzione fisica delle attrezzature dell'Iran», ha affermato Eitam, riferendosi ai continui rifiuti degli iraniani di cooperare con la comunità internazionale.

(Arouts 7, 22 maggio 2006)





2. SDEROT: EFFETTI DEI RAZZI QASSAM




Centinaia di genitori e figli necessitano di terapia psicologica

Metà delle famiglie con bambini piccoli soffre di Sindrome Post-Traumatica.

Adattato dal Ruti Sinai - Ha'aretz

Quando Tahal Maman, quattro anni, torna a casa dall'asilo, si accuccia sotto il tavolo della cucina e lì rimane. L'anno scorso, quando Tahal ha cominciato a comportarsi così, sua madre Ofra ha pensato che si trattasse di un gioco. Tuttavia, dopo averla incoraggiata a parlarne, Ofra si è resa conto che questo era il modo escogitato dalla figlia per controllare lo stress causato dall'allarme sicurezza all'ombra del quale è vissuta per la maggior parte della sua giovane vita: i razzi Qassam che cadono su Sderot, il rumore dell'artiglieria israeliana che fa fuoco su Gaza e i boom supersonici prodotti dagli aerei dell'Aereonautica Militare israeliana.
    La famiglia Maman non costituisce un caso isolato. Un recente sondaggio, condotto a Sderot su un campione di 120 famiglie con bambini piccoli, ha evidenziato che il 50% dei genitori e/o dei bambini soffre di SPT (Sindrome Post-Traumatica). Molti di loro riceveranno presto sostegno psicologico in quanto esso è parte di un progetto che adotta cure messe a punto a New York per assistere le vittime del trauma dell'11 settembre.
Tahal Mamam trasalisce al minimo rumore, così come fa suo fratello maggiore, che di anni ne ha sette: dallo squillo di un campanello allo sbattere di una porta. Quando parte la sirena dell'allarme "Alba Rossa" ("Red Dawn"), il segnale che un Qassam è in avvicinamento, i bambini si bloccano immediatamente. Se accade di notte, corrono nel letto della madre. Lei stessa non ha dormito bene negli ultimi quattro anni: nel timore della prossima raffica di colpi, è sempre sul chi vive. Quando è al lavoro – insegna economia e geografia nella locale scuola superiore – è in ansia per gli studenti, oltre che per i figli. Quando i razzi cadono, alcuni studenti svengono. "È difficile svolgere regolarmente lezione", dice. La tensione sale ogni volta che le Forze di Difesa Israeliane (FDI) entrano in azione. Gli studenti sono sempre pronti a balzare fuori dai loro banchi e allinearsi contro i muri della classe, come è stato loro insegnato di fare.
La famiglia Maman abita in un appartamento con giardino in un edificio di cinque piani, sul tetto del quale si trova un sistema di ricezione che riconosce il lancio di un razzo Qassam e lo segnala al sistema d'allarme. Nel giardino c'è un capanno dove l'esercito custodisce l'equipaggiamento del sistema d'allarme. La postazione da cui le FDI fanno fuoco sulla città di Beit Hanun nella striscia di Gaza è visibile dalla loro finestra. Negli ultimi mesi il tasso di ansia della famiglia è aumentato. Le due sorelle di Ofra e le loro famiglie sono state evacuate da Gush Katif e Tahal Maman teme che anche la sua casa verrà portata via. Secondo Ofra, suo marito vive la situazione con relativa indifferenza: è cresciuto a Kiryat Shmona e sostiene di non aver paura dei razzi Qassam, ma è preoccupato per i suoi bambini. Come se non bastasse, il terzo figlio di appena un anno ha problemi di salute e negli ultimi mesi è stato sottoposto a due operazioni.
Nonostante ciò, i Maman non sono pronti a lasciare Sderot. Ofra è nata qui ed ama la città. Ma vorrebbe diminuire lo stress, la tensione costante e l'ansia che prova di continuo e che non può non trasmettere ai figli. "Vorrei tornare a vivere una vita più sana, come era prima, e smettere di essere spaventata tutto il tempo, tutti i giorni e tutte le notti", dice.
Nel corso dei prossimi due anni, il programma di cure seguito dalla famiglia Maman verrà esteso ad altre trecento famiglie con bamibini dai due ai quattro anni. Il 35% delle 120 famiglie intervistate fino ad oggi sostiene che i figli non sono disposti a dormire da soli.
La terapia viene offerta dai Servizi Psicologici del Locale Consiglio dello Shaar Hanegev. Include numerosi programmi diversificati – sessioni tra genitori e figli con uno psicologo, terapia di gruppo per genitori e laboratori per genitori e dipendenti di asili e centri di assistenza diurna, al fine di rendere la comunità più forte.
Il progetto, che costerà mezzo milione di dollari nel corso di due anni, è sponsorizzato dalla Fondazione Picower di New York, la quale sponsorizza anche un progetto per i bambini vittime del trauma dell'11 settembre. La terapia che viene sperimentata a Sderot, e che prevede il trattamento di madri e figli insieme, è stata messa a punto a New York dal dottor Claude Shem Tov dell'ospedale Mount Sinai dopo il disastro delle Torri Gemelle.
Uno degli aspetti più interessanti della ricerca che accompagna il progetto di Sderot è lo sviluppo di strumenti per diagnosticare e curare psicotraumi in bambini molto piccoli, un campo che è ancora agli inizi. "Diagnosticare psicotraumi in bambini di due anni è una vera sfida", dice il dottor Ruth Patt-Hornchik del Centro Psicotraumi e direttore di questa ricerca, la quale sostiene – tra l'altro –che la cura è essenziale per garantire un sano sviluppo della persona.
Il dottor Hornchik spiega anche che prendere in cura i genitori è altrettanto importante. Gli studi indicano che lo stress dei genitori può ripercuotersi sui figli ancor più dell' evento traumatico in sé. Aggiunge che è comunque importante identificare quanti soffrono di stress traumatico, in quanto molti non sono neppure consapevoli di soffrire di qualcosa che può essere curato.
"Vivere con un genitore post-traumatico può essere molto difficile per un bambino", dice Osnat Duplette, assistente ricercatore del dottor Hornchik. "Questi genitori cessano di essere tali, non sono più in grado di prestare attenzione ai figli e dimenticano come si fa anche solo a godersi il tempo trascorso insieme ai propri bambini".
"Per la maggior parte di queste famiglie, questa è la prima volta che qualcuno si siede e le ascolta", dice Dalia Yosef, che guida la squadra di intervistatori. "A Sderot esiste una domanda enorme in questo senso e i servizi locali non sono sufficientemente equipaggiati per dare risposte adeguate. Sino ad ora, la gente doveva prendere appuntamento a Tel Aviv per ogni più piccolo problema e quindi aspettare sei mesi".
Secondo il dottor Patt-Hornchik, se il modello di Sderot darà buona prova di sé, questo programma potrebbe essere usato anche per la cura di quanti sono stati fatti evacuare da Gush Katif, così come per gruppi di genitori e bambini palestinesi. I risultati della ricerca verranno resi noti in una conferenza internazionale sulla forza della comunità di fronte a un trauma.

(Keren Hayesod, 19 maggio 2006)





3. «QUELLA VIGNETTA È RAZZISTA E REVISIONISTA»




La satira antisemita di ‘Liberazione’

di Elena Lattes

Ancora vignette, ancora offese e proteste; ma questa volta ad essere presi in giro non sono il terrorismo o la religione musulmana, questa volta sono stati chiamati in causa i campi di sterminio nazisti.
Sminuito e satirizzato il genocidio di ebrei, zingari e altre minoranze in nome della causa palestinese. Proprio come aveva chiesto Ahmadinejad all'indomani della pubblicazione delle vignette su Maometto e il terrorismo.

Ad essere offesi, certo sono soprattutto gli ebrei, vittime principali della furia nazista e ora paragonati, da Liberazione, attraverso lo Stato che più li rappresenta, ai loro carnefici.

Esagerare sulle disgrazie palestinesi, però, può risultare diffamante anche nei confronti di tutte quelle popolazioni che di fame muoiono davvero; dalle favelas sudamericane, alle campagne cinesi, passando per l'Africa, per l'India e tanti altri posti dove i bambini hanno la pancia gonfia e la pelle rinsecchita.

Ma, alcuni, Sansonetti [direttore di "Liberazione"] in primis, obietta: "è una legittima critica alla politica di uno Stato". Niente di più falso e fuorviante.
Nessuno nega il diritto di critica, che anzi è uno strumento ben accetto e utilizzato dagli stessi cittadini israeliani.
Ma un conto è criticare alcune scelte, tutt'altro è dire che lo Stato di Israele è uno stato nazista, indipendentemente dalla coalizione al governo.

Con quella vignetta si trasmettono alcuni degli stereotipi più pericolosi: l'identificazione tra Stato di Israele, la cui cittadinanza è composta da un 20% di non ebrei, e il popolo massacrato e dimezzato 60 anni fa, tra le cui fila ci sono anche molti pacifisti e tanti antisionisti.

Con quella vignetta si dice ai propri lettori che quel regime (democratico) costituisce un pericolo per i palestinesi, ma anche per l'umanità (come lo fu il nazismo) ed è quindi degno di essere combattuto, bombardato, smantellato.
Si negano, com'è stato già fatto in passato, le responsabilità della dirigenza palestinese, prima causa di impoverimento della propria popolazione, si negano quasi 60 anni di storia durante la quale quella dirigenza ha sempre costantemente e coerentemente rifiutato qualsiasi compromesso o accordo di pace.

Si negano i diritti degli israeliani a difendersi, a vivere senza l'incubo del terrorismo, perché qualunque opzione adotti lo Stato viene subito immediatamente definita persecutoria, razzista, in questo caso nazista, senza lasciare spazio ad altre opinioni, alla dialettica, a quello spirito critico che si dice di voler difendere.

Sansonetti dice anche che questa è una vignetta e basta, che non è antisemita, alludendo che non ci si dovrebbe sentire offesi.
Ma il diritto di satira è inviolabile? Sembrerebbe di no, visto che lo stesso giornale nel caso delle vignette antislamiche giustamente difese in maniera inequivocabile la sensibilità dei musulmani.

Che differenza c’è allora tra i due episodi? Perché un gruppo meriterebbe più rispetto di un altro? Perché forse è più numeroso?
O perché è più potente? Perché minaccia distruzioni con armi non convenzionali? O perché hanno quelle risorse, il petrolio, il gas, ecc. di cui le nostre società non possono fare a meno?
O non è forse una forma di razzismo, privilegiare la propria attenzione nei confronti di qualcuno anche a costo di diffamare, insultare, demonizzare qualcun altro?

Quella vignetta è razzista e revisionista, può portare a pensare che la Shoà sia stata una vicenda drammatica, sì, ma come tante altre, di qualche centinaio di morti.
Non uno sterminio voluto e premeditato di 6 milioni di persone innocenti.

Quella vignetta è antisemita perché bisogna smetterla di considerare antisemite solo le camere a gas o i forni crematori. Bisogna sapere e ricordare che prima di arrivare al genocidio, i nazisti, ispirati da secoli di antisemitismo e di persecuzioni antiebraiche, hanno cominciato proprio con la diffamazione e la demonizzazione.
Diffamazioni che portano, come abbiamo visto purtroppo anche recentemente, ai roghi. E poi alle aggressioni fisiche. E poi alle eliminazioni, agli assassini, alle stragi.

Come inizio, Ahmadinejad può ritenersi soddisfatto, il suo primo desiderio è stato esaudito.

(Nuova Agenzia Radicale, 19 maggio 2006)





4. LA PACE CATTOLICO-PALESTINESE DI MONSIGNOR SABBAH




Patriarca di Gerusalemme: Hamas occasione di pace, basta ostracismo

di Mauro W. Giannini

Basta ostracismo verso Hamas. Lo chiede il patriarca cattolico di Gerusalemme fornendo una prospettiva inedita sia come lettura dei fatti sia per la provenienza dell'autorevole parere. Secondo il patriarca di Gerusalemme, con la vittoria di Hamas "c'e' una probabilita' di pace.

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L'Occidente deve prendere sul serio questa possibilita' di pace, cessare di boicottare Hamas".
    Secondo Mons. Michel Sabbah, cinque mesi dopo la vittoria di Hamas i Cristiani di terra santa non temono una crescente islamizzazione, anche se chiedono il rispetto della liberta' religiosa. Due settimane fa, in una scuola di Gaza, il prelato ha ricevuto il Primo Ministro, Ismaël Haniyeh, che ha dato tutta l'assicurazione per quanto riguarda il futuro delle attivita' cristiane. A giudizio del monsignore, "e' in Medio Oriente che puo' essere regolato il conflitto fra i Musulmani ed i Cristiani nel Medio Oriente. I timori, le tensiono, gli errori esistono, ma sta a noi controllarli", commenta Sabbah ricordando che la coabitazione dura da tredici secoli, con i momenti facili ed altri piu' difficili.
    Il prelato spiega che dall'11 settembre, il radicalismo islamico e' cambiato per l'Occidente, non per chi in Medio Oriente vive, dato che, pur non essendo ignari della minaccia immensa che pesa sull'umanita', tale minaccia non e' limitata all'Islam radicale ma ha radici nell'oppressione, in un assetto mondiale che privilegia "soltanto l'interesse nazionale, la sicurezza nazionale che e' usata con detrimento per la persona e per la dignita' umana". Peraltro, sottolinea, non c'e' alleanza fra Hamas e Bin Laden e Hamas non fa parte del terrorismo mondiale, ma "al contrario, se resta isolato, boicottato, finira' per unirvisi".
    Sabbah ricorda che "prima della seconda intifada e la salita di Hamas, l'80% dei Palestinesi erano per la non-violenza. E la domanda che ancora mi tormenta e' sapere perchè Israele ha rifiutato di discutere con questo 80% di non-violenti... e perche' Israele continua a costruire il muro che genera solo rabbia, esso stesso fonte di violenze". Il muro e' stato anche dichiarato illegale dalla Corte dell'ONU de L'Aja, perche' lesivo dei diritti dei Palestinesi, tanto che la Corte Suprema israeliana ha imposto modifiche al tracciato.
    "Ariel Sharon - ha detto il monsignore - ha creduto di poter schiacciare i Palestinesi. Durante cinque anni, ha ucciso molti Palestinesi, ha demolito migliaia di case, distrutto l'agricoltura e le proprieta'. Allora si è reso conto che non era avanzato di un millimetro, che la gente palestinese esisteva ancora e desiderava difendere la sua liberta', se necessario con l'azione violenta". Allora, riassume il prelato, Sharon ha deciso il ritiro unilaterale da Gaza, e fondato un partito che incarnasse questa nuova visione. Ehud Olmert ha ereditato tutto questo, ma, si chiede il prelato cattolico, "avra' la forza di portare a compimento questo processo?".
    L'illustre parere giunge in un momento delicato, sia politicamente che economicamente. A seguito della vittoria di Hamas alle elezioni e della conseguente formazione di un governo da cui Al Fatah ha voluto star fuori, gli USA e Israele hanno infatti bloccato i fondi all'ANP quando Ismail Haniyeh, esponente di Hamas, e' stato nominato primo ministro ed incaricato di formare il governo, mentre l'Unione Europea sta ancora discutendo su come operare, mentre il movimento palestinese resta iscritto nell'elenco UE dei gruppi terroristici dell'UE.
    Il presidente dell'ANP Abu Mazen ha reiteratamente chiesto lo sblocco dei fondi - sostenuto dal segretario generale della Lega Araba Amr Moussa e dal re di Giordania Abdallah. Anche la Banca Mondiale ha sottolineato che la grave recessione nei territori costringe piu' del 40% della popolazione a vivere sotto il livello di poverta', con 2 dollari al giorno procapite, mentre un Palestinese su quattro e' disoccupato e sono precari i servizi essenziali. Gli esperti sottolineano che questa situazione mette a rischio la stabilita' nella zona.
    Durante la visita di Abu Mazen al parlamento europeo si e' appreso di un possibile suo incontro la settimana prossima con il ministro degli esteri di Israele Livni al prossimo vertice economico regionale di Sharm el-Sheikh, in Egitto, dove sara' presente anche Israele.

(Osservatorio sulla legalità, 20 maggio 2006)

COMMENTO - «Hamas non fa parte del terrorismo mondiale», sostiene il prelato cattolico-palestinese. Vuol forse dire che, essendo un terrorismo puramente locale, cioè diretto "soltanto" contro Israele, è pienamente legittimo e quindi degno di essere sostenuto dalla comunità internazionale?





5. FATWA A PAGAMENTO ATTRAVERSO «IL TELEFONO ISLAMICO»




Il «business della fatwa», ultima frontiera dell'Islam

Il sito web della tv satellitare <http://www.alarabiya.net/english.htm> Al Arabiyah pubblica una lunga intervista ad uno dei personaggi di punta di un fenomeno che vede diffondersi nel mondo islamico provocando una vera e propria concorrenza tra vari sceicchi che sono definiti «nuovi predicatori», con la loro «costante presenza sulle satellitari arabe» e sulle «video cassette», in vendita sul mercato.

«Siamo oggetto di un attacco disonesto». Esordice così Kahlid Al Jundi, «il più popolare in Egitto e nel mondo tra i nuovi predicatori», che risponde su Al Arabiyah, alle accuse di avere trasformato la fede in un mercato chiamato «business della fatwa», con tanto di «tariffa» per le indicazioni che vengono fornite ai fedeli attraverso i fili del telefono. «Gli ulema che emettono la fatwa via telefono, devono pur dare da mangiare ai loro figli. Oppure credete che pagano il macello benedicendolo», risponde convinto Al Jundi che conta tra i suoi «collaboratori», ben «25 ulema specializzati in vari settori della fede islamica esclusivamente laureati dall'Università di Al Azhar». «anzi», prosegue Al Jundi, «la fatwa telefonica, fa risparmiare allo stato congestione del trafficco, energia e tempo» che i richiedenti della fatwa provocherebbe recandosi personalmente «alla casa della fatwa».

Sta di fatto che il «nuovo predicatore», come lui stesso afferma da «imam di moschea di un popolare quartiere del Cairo» è «propietario di un bell' appartamento» in uno dei quartieri di lusso della capitale, e possiede tre automobili ma «non ho la mercedes come dicono le malelingue, che comunque comprerò presto». Al Jundi si difende: «La ricchezza legittima non è peccato nella shariah», e non lo è neanchè «la concorrenza tra sceicchi nell' emettere le fatwa per telefono», purchè sia «onesta».

(La Stampa, 23 maggio 2006)





6. IL COMUNE DENOMINATORE DEI POGROM




ll "transfer"

Gli arabi correvano per le strade come impazziti. Ad ogni vicolo si univano nuovi arrivati ed il fiume dei facinorosi fluiva per le strade brandendo coltelli, bastoni, pietre. Gli occhi iniettati di sangue, gli spiriti esasperati, urlavano, con odio e passione, l'antico ma attualissimo ritornello, sempre lo stesso: "Morte agli ebrei!".
La scena era sempre la stessa. Identica. Identica in tutto e per tutto a quelle viste nel sud della Francia, durante il processo Dreyfus; in Germania, in Austria; a quelle vissute in Polonia e anche in Russia, dove i Cosacchi anziché a piedi caricavano a cavallo gli abitanti dei piccoli villaggi coperti dalla neve; a Roma nel Medio Evo, in Spagna, in Portogallo, ovunque in Europa.
Come anche a Baghdad, come ad Aleppo, non più di vent'anni prima.
Il pogrom era ed è sempre, comunque, lo stesso fenomeno. Un bisogno bestiale, alimentato dagli istinti più gretti e vili, che spinge masse di persone altrimenti ritenute normali verso un unico traguardo: uccidere gli ebrei, uomini, donne bambini, preferibilmente accoltellarli e linciarli, come fa una torma di cani quando si avventa sulla volpe, ognuno bramandone un pezzo per bagnarsi col sangue della vittima. L'odio per l'ebreo è l'unico comune denominatore del pogrom.
Perché cosa mai avranno in comune gli evoluti abitanti di Monaco di Baviera degli anni Trenta con i cattolici contadini analfabeti della Polonia del secolo prima, e questi con i retrogradi abitanti del Sudan degli anni Sessanta? Nulla, se non l'odio indiscriminato per l'ebreo.
E tale odio è riservato a chiunque si dichiari o venga soltanto ritenuto tale, non quindi per l'aspetto esteriore come il vestiario o una condotta particolarmente incompatibile con l'ambiente circostante. È significativo l'acceso ed incontrollabile antisemitismo del primo Novecento di gran parte del popolino spagnolo, che odiava l'ebreo ma non aveva mai avuto l'opportunità di incontrarne neanche uno, anche per una sola volta.
In quel mattino di sole del cinque giugno, la folla finalmente aveva individuato alcuni ebrei che non erano riusciti a raggiungere un qualunque riparo e li faceva a pezzi a coltellate. Inebriata dal sangue caldo ed eccitata sempre di più, scorribandava alla ricerca di nuove vittime. L'intera comunità ebraica fuggiva a piedi, madri che cercavano di portare in braccio bambini, giovani che tentavano di accompagnare i vecchi genitori che casualmente si erano attardati per strada, giovani commesse che fuggite dal negozio in cui lavoravano correvano per entrare in una casa qualunque, purché fosse casa di ebrei o di cristiani italiani, e chi non riusciva nell'intento veniva sbranato dalla folla.

Tripoli, Libia,1967.
Illusi dai bollettini della radio egiziana, secondo i quali Israele stava per essere cancellata dalla carta geografica - poche ore ancora, aveva dichiarato Nasser - gli arabi libici avevano deciso di farla finita coi propri "israeliani", proprio come gli eserciti giordani, siriani ed egiziani stavano facendo al fronte. Nel loro immaginario, probabilmente, l'avanzata araba, inarrestabile, era accompagnata da eccidi di massa, stupri collettivi e linciaggi della popolazione israeliana. Non era forse questo il messaggio che la propaganda nasseriana aveva trasmesso in tanti anni di trasmissioni radiofoniche? Gli arabi libici, nell'uccidere la propria popolazione ebraica, erano fortemente convinti di partecipare alla guerra dei loro cugini. Ma quale il nesso fra Israele in guerra e gli ebrei libici? Nessuno, se non il comune denominatore ebraico. Gli ebrei libici si erano ristanziati in quel paese circa milletrecento anni prima, provenendo da Alessandria, muovendosi ad ovest sulle piste del commercio e fermandosi per lo più nell'antica Oea romana, abbandonando il movimento migratorio e trasformandosi in popolazione artigiana e commerciante.

Prima ancora della venuta degli arabi.
Ma gli ebrei erano in Libia già dai tempi del primo Tempio di Gerusalemme, e la comunità era numerosa ai tempi del secondo Tempio. Poi emigrarono in massa ai tempi di Rabbi Akiva, di ritorno in Israele, per sparire gradualmente alla fine del primo millennio.
In altre parole, gli ebrei ci erano sempre stati, a Tripoli.
Questa piccola popolazione peraltro viveva in "armonia" con gli arabi - in armonia come gli ebrei avevano vissuto ovunque in armonia per duemila anni sotto popolazioni che a malapena li sopportavano. Continuamente vessati, ma non torturati o messi a morte e quindi in definitiva, sulla base del concetto di "vita ebraica" prima del moderno stato di Israele ,"abbastanza bene".

Una prima giornata di eccidi.
In seguito, con la consapevolezza che in Israele le cose stavano andando esattamente all'opposto di quanto previsto, che cioè era Israele che stava avanzando in tutte le direzioni contro gli eserciti arabi ormai in rotta, l'odio per gli ebrei, se così si può dire, aumentava ancor più.
La comunità ebraica era rinchiusa nelle case, praticamente in stato di assedio, con sporadici massacri, come il caso di due intere famiglie prelevate dalla "polizia", messe a morte e seppellite nella calce viva ed altri episodi del genere.
L'aspetto interessante in questo stato di cose era comunque il comportamento di molti arabi che erano stati le persone di fiducia di alcune famiglie ebraiche. Erano loro a capeggiare le folle alla ricerca di protettori, erano loro che, al corrente dei piccoli segreti, quali l'indirizzo della casa in campagna o della seconda abitazione, tentavano di stanare gli assediati per metterli a morte. Comunque, dopo pochi giorni, l'intero atteggiamento della popolazione araba mutò completamente: passato il momento del pogrom, i cosidetti "fidati" miravano ad impossessarsi dei beni dei loro precedenti datori di lavoro. Convinti che per gli ebrei era comunque finita, erano sicuri che avrebbero potuto mettere le mani sulle loro attività economiche e sulle loro ricchezze.
Muftah, preso sotto l'ala protettrice di mio padre all'età di sei anni, Muftah che tutto sapeva di noi, Muftah che mi portava a fare lunghe passeggiate sul lungomare quando, bambino, ero stato affetto da una malattia ai bronchi, Muftah che godeva di un tenore di vita di gran lunga superiore a quello degli altri operai delle nostre aziende, Muftah che aveva acquistato la casa con prestiti di cui mio padre non si sarebbe mai permesso di chiederne la restituzione, Muftah quindi era quello che aveva organizzato gruppi di nostri operai alla ricerca dei componenti della nostra famiglia per farli a pezzi. Questo, in breve, era lo spirito che animava le folle arabe nei giorni successivi al grande pogrom.
Il governo libico, sotto la guida del saggio sovrano Idris, dopo aver ammassato parte della popolazione ebraica in campi di raccolta, ammettendo di non poter difendere i propri cittadini ebrei, permise di avviare un ponte aereo con cui l'intera comunità ebraica fu in meno di un mese trasferita a Roma, permettendo ad ogni persona di portare con sé, oltre a qualche valigia, anche ben cinquanta sterline. All'aeroporto, in partenza, comunque, i gioielli e gli oggetti di valore venivano confiscati.
In tutta la storia di duemila anni di persecuzioni ebraiche, questo fu un dei pochissimi casi in cui un paese riuscì, in un sol colpo, a liberarsi per sempre di tutta la sua popolazione ebraica.
Forse solo la Spagna di Isabella riuscì nello stesso intento, ma solo formalmente, poiché si trascinò per secoli i nuovi cristiani che giunsero alle vette di tutte le gerarchie, ora finalmente accessibili, e i marrani, di cui non riuscirono mai a liberarsi.

Nell'Ottocento, in Europa, una delle pene più terribili che venivano comminate, oltre alla pena capitale e all'ergastolo, consisteva nell'esilio a vita ed il sequestro di tutti i beni. Le comunità ebraiche di Tripoli e Bengasi, Libia, furono condannate, collettivamente, a questa pena, ree di aver voluto professare la propria religione e mantenere le proprie tradizioni.
L'esilio fu avviato dal benevolo e tollerante Idris ed il sequestro totale fu sancito da Gheddafi, un paio d'anni più tardi, quando rovesciò la monarchia, sigillando una volta per sempre il "transfer" di una intera comunità.
Il ritornello più stupido che gli ebrei libici avevano amato ripetere, in tempi non molto lontani, era che "fintanto che fosse vissuto questo buon re, nulla avrebbero avuto da temere"

Dani Mimun

(Mosaico - Comunità ebraica di Milano, 8 maggio 2006)





MUSICA E IMMAGINI




David, Melekh Yisrael




INDIRIZZI INTERNET




Israel Guide

Mamash Edizioni Ebraiche




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