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Notizie su Israele 349 - 5 maggio 2006

1. Il papa ha detto male
2. Il papa ha detto bene
3. Il papa ha detto benissimo
4. Il papa non ha detto tutto
5. Il papa ha corretto il tiro
6. Il papa ha sempre ragione
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Geremia 31:31-32. «Ecco, i giorni vengono», dice il SIGNORE, «in cui io farò un nuovo patto con la casa d'Israele e con la casa di Giuda; non come il patto che feci con i loro padri il giorno che li presi per mano per condurli fuori dal paese d'Egitto: patto che essi violarono, sebbene io fossi loro signore», dice il SIGNORE.
1. IL PAPA HA DETTO MALE




Quel Papa troppo tedesco

di Giovanni De Luna

Si è trattato di un gesto la cui portata simbolica non può essere sottovalutata. Eppure, nel suo discorso ad Auschwitz, Benedetto XVI è rimasto significativamente impigliato in due «nodi» su cui si è soffermato il dibattito storiografico di questi anni: le responsabilità del popolo tedesco nello sterminio degli ebrei e il rapporto tra la Shoah e il presunto disegno hitleriano di attaccare le radici cristiane della nostra civiltà. Rispetto al primo, l'affermazione del Papa tesa a circoscrivere le colpe a «un gruppo di criminali» che «usò e abusò» del popolo tedesco, rendendolo «strumento della loro smania di distruzione e di dominio», entra in rotta di collisione con tutta l'impressionante mole di ricerche storiche che hanno invece insistito sulla «normalità del male»; è un filone al cui interno (sulla scia di Hannah Arendt) l'enormità della Shoah è racchiusa proprio nella «normalità» dei carnefici, fedeli servitori dello Stato e delle sue regole.
    Le «rotelle» che garantirono il funzionamento della macchina dello sterminio furono infatti «uomini come noi». L'«orrore estremo» venne sì pianificato da menti perverse, ma la sua esecuzione fu opera di onesti padri di famiglia che accettarono di commettere ogni sorta di nefandezze a patto di essere sgravati da qualsiasi responsabilità. Sono stati soprattutto Christopher Browning e, da un altro punto di vista, Daniel Goldhagen a insistere sugli «uomini comuni» come protagonisti dello sterminio. La pervasività del nazismo e il consenso delle masse plaudenti che ne assecondarono i disegni criminali costituisce una pagina dolorosa della memoria collettiva dei tedeschi di oggi. Il Papa ha offerto a tutti una comoda scappatoia assolutoria, troppo facile, però, per essere davvero praticata.
    Ancora maggiori perplessità suscita poi la sua seconda affermazione sui «nazisti che volevano distruggere il popolo ebraico per strappare la radice su cui si fonda il cristianesimo». Il progetto di sterminio si sviluppò in realtà lungo una direzione che francamente fa apparire il cristianesimo un bersaglio trascurabile, quasi inesistente. Quel progetto, irrinunciabile e totalitario, rivelò soprattutto l'essenza compiutamente biopolitica del nazismo (la vita traducibile immediatamente in politica e, viceversa, la politica segnata da una caratterizzazione intrinsecamente biologica); il regime di Hitler spinse la «biologizzazione» della politica a estremi mai raggiunti in precedenza, e il popolo tedesco diventò una sorta di corpo organico, da curare e proteggere, amputandone violentemente le parti infette, quelle «spiritualmente già morte»: la soppressione del nemico, in particolare degli ebrei, era necessaria per garantire la vita del popolo, lo Stato con lo sterminio di massa garantiva il benessere e la felicità dei suoi sudditi. Sia nell'eutanasia praticata su larga scala sui malati di mente, sia soprattutto ad Auschwitz e dintorni, questa forma di esercizio del potere fece del nazionalsocialismo la sintesi perfetta tra politica, Politik (la lotta contro i nemici interni e esterni dello Stato fino alla loro morte e all'annientamento) e polizia, Polizei (la cura per la vita dei cittadini in tutte le sue estensioni). Come ha scritto Giorgio Agamben, «la polizia diventa politica e la cura della vita coincide con la lotta contro il nemico».
    Le radici cristiane dell'ebraismo erano in questo senso ininfluenti; si trattava di un percorso lungo il quale, quando il corpo biologico degli individui arrivava a coincidere con la loro natura politica, la vita e la morte diventavano concetti scientifici e politici allo stesso tempo e il medico e il sovrano si scambiavano le parti. «Io, la dottoressa Ella Lingens-Reinerl, ero là in piedi e guardavo il crematorio, quando Klein mi si avvicinò. Io gli dissi: "Mi chiedo, dottor Klein, come lei possa fare questa cosa. Non le viene mai in mente il giuramento ippocratico?". Egli mi rispose: "Il mio giuramento ippocratico mi dice di asportare dal corpo umano un'appendice incancrenita. Gli ebrei sono l'appendice incancrenita dell'umanità. Ecco perché io li elimino"». A questo dialogo, riportato nel suo classico studio sui medici nazisti, Robert Jay Lifton aggiungeva: «potremmo dire che il medico sulla rampa rappresentava una sorta di punto omega, un mitico guardiano sulla soglia tra il mondo dei vivi e quello dei morti, una sintesi perfetta della visione nazista della terapia attraverso l'omicidio di massa».

(La Stampa, 30 maggio 2006)





2. IL PAPA HA DETTO BENE




Un gran discorso

di Giorgio Israel

C'è qualcosa di superficiale e di esagerato se, dopo un discorso meritevole di una riflessione distaccata e seria, come quello di Benedetto XVI ad Auschwitz, inizia una corsa alla dichiarazione sdegnata e all'invettiva. Per ragioni di coerenza occorrerebbe tenersene fuori, se non fosse che certi argomenti sgangherati – e quindi pericolosi – meritano una risposta. Sono felice di sapere che una persona autorevole e rappresentativa come Marek Edelman abbia detto che "è stato un discorso di grande forza sentimentale ed emotiva", aggiungendo: "Il Papa è venuto ad Auschwitz, e là sulla terra ancora bagnata dal sangue dei morti ha detto che Dio allora non era là. Che cosa doveva dire di più?". Sono felice di saperlo perché il discorso di Benedetto XVI a me è piaciuto e, come a Edelman, è parso "una eccezionale sequenza di emozioni per la Memoria di oggi".
    Sono passati pochi decenni da quando autorevolissime voci della chiesa auspicavano come una "liberazione" la morte di tutti i giudei e interpretavano Auschwitz come "conseguenza dell'orribile delitto che perseguita il popolo deicida ovunque e in ogni tempo". Oggi la massima autorità della Chiesa dice che i nazisti "con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana". Misuro questa distanza e sono colpito e commosso dallo straordinario passo avanti che è stato compiuto. Si è detto che il Papa ha parlato troppo del silenzio di Dio e poco delle colpe degli uomini. Dai Salmi citati dal Papa al Libro di Giobbe, il tema del silenzio di Dio percorre tutto l'Antico Testamento e le riflessioni del pensiero religioso ebraico. "Non ti farai idoli davanti alla Mia faccia", dice il secondo comandamento; e un midrash lo interpreta nel senso: "Quale che sia il volto che Io ti presento, per quanto esso possa essere per te incomprensibile e anche terribile, tu non dovrai rinnegare la fede in Me". Mille riflessioni sono state e possono essere sviluppate su questo tema. Perché mai esse escluderebbero il tema delle colpe degli uomini?
    Abbiamo letto sull'Unità che il Papa si è reso colpevole di revisionismo per non aver menzionato le responsabilità collettive del popolo tedesco. Si tratta di una critica priva di fondamento sotto il profilo morale e storiografico. Dal punto di vista morale, rendere un intero popolo responsabile di una colpa collettiva è un'aberrazione in cui soprattutto gli ebrei – vittime del mito del deicidio – non possono cadere. Essi debbono essere fedeli al precetto del Deuteronomio secondo cui nessuno può essere punito se non per il proprio delitto. Durante la cena della Pasqua ebraica è d'uso leggere un "rituale della rimembranza" della Shoah, in cui si parla di coloro che furono sterminati "da un tiranno malvagio" e dagli "esecutori del suo perfido progetto". Sembrano le parole del Papa. Per quanto estesa sia la responsabilità, essa resta soggettiva e non può essere estesa al concetto di responsabilità collettiva di un "popolo" – concetto eminentemente razzista. Nessuno può responsabilmente parlare di responsabilità collettiva del popolo italiano per il fascismo, o dei popoli sovietici per i crimini dello stalinismo. L'entità del coinvolgimento della popolazione tedesca nella Shoah – così come di altre popolazioni in altri crimini di massa – è una questione eminentemente storiografica che deve essere mantenuta su questo terreno e non può essere usata come una mazza per condanne morali. Porre la questione nei termini: "O dici che tutti erano responsabili oppure sei corresponsabile morale", è un ricatto inaccettabile che uccide ogni possibilità di libera riflessione. E' assolutamente sconcertante che l'attacco a pretese interpretazioni riduttive dell'adesione del popolo tedesco al nazifascismo venga da pulpiti che per decenni hanno propinato una storiografia secondo cui il fascismo in Italia era opera di pochi mascalzoni che erano riusciti a irreggimentare un intero popolo che vibrava di sentimenti antifascisti repressi dal tallone dei tribunali speciali. Il peso di questa storiografia è tale che ancor oggi viene demonizzato come "revisionista" Renzo De Felice, per aver messo in luce l'entità dell'adesione degli italiani al fascismo. E ci tocca leggere uno scritto di Furio Colombo – evidentemente ignaro di quanto in Germania sia stato approfondito il tema delle colpe del nazismo, senza reticenza e in modo persino spietato, come qui non ci siamo neppure lontanamente sognati di fare, viste le recenti vergognose reazioni al libro "I redenti" di Mirella Serri, perché ha osato ricordare i trascorsi antisemiti di alcuni mostri sacri dell'intellettualità italiana – che si permette di parlare di "molti cittadini tedeschi" che avrebbero trovato "una scorciatoia per non convivere con un passato vergognoso", magari "parlando più di Stalin che di Hitler". Di certo, Colombo di Stalin ha poca voglia di parlare, visto che riesuma una logora retorica su chi ha abbattuto i cancelli di Auschwitz, come se il merito tecnico di essere arrivati per primi contasse di più del trattamento criminale che Stalin riservò agli ebrei resistenti.
    E' comprensibile l'attenzione spasmodica con cui, da parte ebraica, si analizza ogni affermazione concernente la Shoah. Ma essa non giustifica un atteggiamento che, anziché guardare al senso generale di certe affermazioni, indugia su dissezioni meticolose e persino cavillose (Quante volte è stata pronunziata la parola Shoah? Perché non è stato pronunziato il nome di Hitler?). Del tutto inaccettabile è poi pretendere che quando si parla di Shoah sia vietato persino accennare a ogni altro crimine di massa: in tal caso, spesso non è più l'ebreo che parla ma l'inconsolabile vedova del comunismo.

(Il Foglio, 30 maggio 2006)





3. IL PAPA HA DETTO BENISSIMO




Il Papa e il rabbino

di Marina Valensise

ROMA. Semplice e potente, il discorso di Benedetto XVI ha colpito Benedetto Carucci Viterbi. Il rabbino romano che insegna esegesi biblica al Collegio rabbinico e da tre anni tiene corsi di introduzione all'Ebraismo alla Pontificia università gregoriana, è severo nel giudizio. Ne ha fatto una lettura circostanziata, l'ha trovato "interessante, complesso, di spessore notevole". Alla fine, però, dopo varie glosse e interrogativi talmudici, ha dovuto ammettere: "Sul piano teologico, contiene un'affermazione forte, che pone fine a duemila anni di antisemitismo cristiano".
    Cos'altro dice infatti il Papa di Roma quando, nel cuore del suo discorso di Auschwitz, cita le parole del Salmo e parla di "quei criminali violenti", che "con l'annientamento di questo popolo ebraico, intendevano uccidere quel Dio che chiamò Abramo, che parlando sul Sinai stabilì i criteri orientativi dell'umanità che restano validi in eterno?".
    Risponde rav Carucci leggendo il discorso di Ratzinger passo passo: "Il Papa riconosce che il popolo ebraico è una testimonianza del Dio che ha parlato all'uomo. E nel far questo, porta alle estreme conseguenze lo sterminio nazista, come un paganesimo esasperato, negazione del piano del divino. La negazione di Israele, insomma, è una negazione di Dio, che induce l'uomo a ergersi ad arbitro assoluto e di fatto ad arbitro dominatore. La vera morte di Dio dunque per lui non è alle spalle del nazismo, ma di fronte al nazismo. Il nazismo uccide Dio, il Papa sta dicendo che il nazismo uccide Dio attraverso il tentativo di distruzione del popolo di Israele. E' un'altissima dichiarazione di rispetto e riconoscimento. Mette fine a una guerra durata duemila anni". Di fronte a simili considerazioni, le divergenze e il contenzioso teologico passano in secondo piano.
    Certo, per Carucci, il fatto che il successore di Pietro, rappresentante di Cristo in terra, abbia citato solo ed esclusivamente l'Antico Testamento, resta un motivo di riflessione, prossimo alla perplessità. A cominciare dal silenzio di Dio, un tema costitutivo nella tradizione biblico-rabbinica. "Il primo riferimento, spiega Carucci, è un testo della Bibbia che dice 'chi è come te fra gli dei': si trova nella cantica del Mare, che gli ebrei cantano dopo aver traversato il Mar Rosso, quando escono dall'Egitto per andare nella Terra promessa. Quel verso, incongruente visto che per l'ebraismo non ci sono altri dei, ha subìto una rielaborazione dovuta al gioco di una quasi omografia tra le due parole, tant'è che la tradizione talmudica legge: 'chi è come te tra i muti'. Per noi è sinonimo di grandezza. Dio viene definito come colui che si contiene, al punto da non esprimersi, da restare ammutolito di fronte alla sofferenza del popolo". Vuol dire che Dio, che per l'Antico Testamento è innanzitutto legge, dovere, ferocia e severità, abbandona il suo popolo? "No – risponde Carucci – Vuol dire che Dio fa forza su se stesso e preferisce restare ammutolito, per non intervenire nelle vicende degli uomini, lasciando a essi piena responsabilità di fronte alla sofferenza, in quanto costitutiva dell'uomo nel mondo è una sostanziale libertà, che ovviamente ha un prezzo". E' questo per Carucci il nocciolo della questione del silenzio di Dio. "E' vero che nelle fonti biblico- ebraiche citate dal Papa, e nella letteratura rabbinica che le rielabora, questo tema compare, come pure quello del nascondimento del volto di Dio, ma ciò per gli ebrei interpella innanzitutto la responsabilità umana, non quella divina.
    Il silenzio di Dio, in altri termini, comporta l'assoluta responsabilità dell'uomo". Volevano strappare le nostre radici comuni "Dov'era Dio in quei giorni?" si è domandato il Papa davanti alle lapidi di Auschwitz. "Perché Egli ha taciuto? Come poté tollerare questo eccesso di distruzione, questo trionfo del male?". E ha citato il Salmo 44, il lamento dell'Israele sofferente, quasi a suffragare l'intento di riconciliazione, ricacciando la responsabilità del male nell'orbita del paganesimo. "Quando il Papa dice che con la distruzione di Israele volevano strappare anche la radice su cui si basa la fede cristiana è un fatto rilevante, che potrebbe essere interpretato in modo duplice: sostituendola con la fede fatta da sé, la fede nel dominio dell'uomo, del forte, mentre il silenzio di Dio che per la tradizione ebraica è un atto di forza che Dio fa su se stesso, quando decide di non mostrarsi, viene interpretata come assenza di Dio, come sopraffazione dell'uomo di Israele e di altre genti. Tant'è vero che i nazisti dicevano 'Gott mit Uns'".
    Infine, altro aspetto incomprensibile per noi cristiani, la contabilità del rancore, il rendiconto degli atti di Dio che gli ebrei da pari a pari esigono da lui: "E' presente nella Bibbia, e si continua sin nella letteratura hassidica. Il Papa però si ferma sulla soglia quando dice non possiamo giudicare, 'Non possiamo scrutare il segreto di Dio'. Nella tradizione rabbinica invece, la giustizia del giusto consiste proprio nel chiedere conto a Dio della sua giustizia. 'Forse che il giudice di tutta la terra non farà giustizia? 'Sarebbe un modo di autoprofanarti' dice Abramo rivolgendosi a Dio alla vigilia della distruzione di Sodoma, quando basterebbero dieci giusti per risparmiarne tutti gli abitanti. Il baratro di Auschwitz non ha avuto di fronte uomini giusti a sufficienza per fare lo stesso. Nessuno vuole imputare responsabilità collettive, resta però la domanda sul silenzio umano di fronte al silenzio di Dio. Ma esiste anche un altro versante in cui, dopo Auschwitz, si è mantenuta sino all'estremo limite la fede in Dio".

(Il Foglio, 31 maggio 2006)





4. IL PAPA NON HA DETTO TUTTO




Quelle gravi omissioni su Chiesa e nazismo

di Emanule Ottolenghi

Ci sono tre modi di leggere il discorso del papa ad Auschwitz. Uno, quello più ovvio e sul quale tanto già si è detto, è quello politico. A livello politico, il discorso del papa delude. Ci sono molti riferimenti storici che sanno di revisionismo, quale il tentativo di esonerare il popolo tedesco attribuendo la colpa del Nazismo a una "cricca di criminali" che avrebbe preso il potere "mediante promesse bugiarde" e altre illusioni, ma anche con "la forza del terrore e dell'intimidazione". I tedeschi sarebbero stati insomma vittime, non complici, della macchina dello sterminio nazista che portò non solo alla morte di sei milioni di ebrei e di altri cinque milioni di zingari, gay, dissidenti e handicappati nei campi della morte e di concentramento, ma a decine di milioni di soldati e civili in tutta l'Europa. E' una teoria che può star bene all'Europa Unita, dove il Nazismo è diventato un capitolo buio di storia di cui tutti gli europei sarebbero stati vittime, e che non distingue più tra vittime, carnefici, complici materiali e morali, esecutori e coadiuvanti. Ma è una teoria storicamente inesatta oltre che moralmente evasiva e che a un papa che fa del rigore morale e della lotta al relativismo uno dei suoi vessilli, francamente calza male.
    Il secondo è quello dei rapporti tra ebraismo e cristianesimo, all'interno del quale esiste un importante elemento teologico. In questo senso, ci sono spunti importanti e profondi nel discorso che vanno riconosciuti. Benedetto XVI ricorre al termine ebraico, Shoah, per definire l'Olocausto, e ricorda la

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centralità della sofferenza ebraica di quell'esperienza con parole accorate. Nel ricordarla, egli riafferma la validità del Patto tra Dio e popolo ebraico, sottolineando come è nella validità di quel patto, piuttosto che nella sua supercessione, che il Cristianesimo trova le sue radici. Questo è senza dubbio un risvolto importante del discorso del pontefice, perché rafforza il principio del dialogo ecumenico con gli ebrei non ai fini di conversione, ma ai fini di un'eguaglianza tra le due fedi che si allontana dalla dottrina della supercessione - l'idea che la Chiesa rappresenta il Nuovo Israele e che gli ebrei hanno perso, per non aver visto in Gesù il Re Messia, il loro ruolo di popolo scelto da Dio e detentori di un patto con la divinità. A questa dottrina, va ricordato, si riconduce il rifiuto teologico da parte della Chiesa di riconoscere il Sionismo e successivamente lo stato d'Israele. Se da un punto di vista politico questa posizione si è evoluta fino allo stabilimento di relazioni diplomatiche con Israele nel 1994, l'affermazione teologica di questa posizione ha potenzialmente conseguenze politiche importanti. Infine, Il papa ha citato principalmente quelle parti della Bibbia che sono condivise da ebrei e cristiani, e ha parlato del silenzio di Dio, un concetto dibattuto con sofferenza anche all'interno del mondo ebraico, senza togliere nulla alla terribile responsabilità degli uomini.
    Accanto a questi sviluppi ce ne sono altri però che ricadono nell'ambiguità espressa sul terreno politico e che non possono essere sottovalutati. Intanto il papa non pronuncia una sola volta la parola antisemitismo nel suo discorso. Possibile che soltanto a causa di una cricca di criminali che si impadronirono del potere con la menzogna e l'intimidazione siano morti tanti milioni di ebrei ad Auschwitz? Non sarebbe stato opportuno, quando il papa dice che «il passato non è mai soltanto passato», aggiungendo che «esso riguarda noi e ci indica le vie da non prendere e quelle da prendere», ricordare che fu l'effetto cumulativo di anni di propaganda dell'odio, essa stessa alimentata e aiutata da secoli di pregiudizio, a creare il terreno fertile per lo sterminio? E che quindi se la Germania fu trascinata nel baratro da una cricca di criminali, lo sterminio non poté avvenire senza l'attiva partecipazione e la complicità delle popolazioni e degli apparati burocratici dei paesi alleati o occupati dalla Germania?
    E se davvero invece tutto avvenne per mano di pochi criminali, perché allora tacere sul fatto che il suo predecessore al soglio di Pietro, Pio XII, tacque per sei lunghi anni sulla mostruosità del Nazismo, anche quando i suoi crudeli aguzzini fecero marciare gli ebrei diretti ai forni sotto le sue finestre romane? Se così tanti morirono a causa di così pochi, perché il papa tacque, quando un gesto e una parola del pontefice, oggi come ieri, smuovono le coscienze e le cancellerie?
    E se proprio occorreva ricordare, come è giusto farlo, che tra i molti tedeschi che tacquero, nel generale silenzio indifferente o complice o impaurito, pochi coraggiosi si rifiutarono di esser complici, era davvero necessario citare tra i tanti proprio Edith Stein, ebrea convertita al cristianesimo che morì ad Auschwitz non perché suora ma perché secondo la follia razziale nazista anche una conversione così completa e irreversibile come quella di un ebreo che si fa sacerdote cristiano non rimuoveva quella donna dal popolo ebraico? Edith Stein è stata beatificata, e per il mondo ebraico l'eccessiva attenzione della Chiesa sulla sua tragica vicenda è un indizio - assieme a tanti altri - di un tentativo della Chiesa di universalizzare l'esperienza dell'Olocausto, finendo con il trasformarla nell'equivalente moderno del Calvario e cristianizzando infine un episodio della storia che fu principalmente nel senso di martirio, ebraico.
    I discorsi di un pontefice vanno letti, non solo per quello che contengono, ma anche per quello che omettono. E queste due omissioni sono pesanti. Dimostrano come un'occasione ulteriore di dialogo sia stata perduta, sacrificata ad altre considerazioni. Una forse, su tutte, va capita: il papa dopotutto riafferma le radici cristiane dell'Europa (pur pagando un doveroso tributo alle radici ebraiche delle radici cristiane, in chiave ecumenica) e la supremazia della legge morale divina sul relativismo cui egli attribuisce odio, violenza e decadimento morale nel mondo moderno. Questi sono due temi attuali, cari al papa e centrali alla sua missione, votata a ristabilire la Chiesa come baluardo di valori contro l'avanzata di un multiculturalismo scristianizzante in Europa. Ma sull'altare di questi due obiettivi, Benedetto XVI ha scelto di lasciarsi sfuggire un'ulteriore opportunità di chiudere i conti col passato della Chiesa in quella buia parentesi della storia e di aprire una nuova pagina nei rapporti con l'ebraismo. E così facendo, se uno ripensa all'ambiguità del suo discorso in materia storica, conferma che questo discorso rappresenta in generale un passo indietro e un'occasione perduta.

(Il Riformista, 31 maggio 2006)





5. IL PAPA HA CORRETTO IL TIRO




Auschwitz tragedia ebraica

di Marco Tosatti

Benedetto XVI prende atto - con sorpresa, secondo fonti affidabili - delle polemiche nate dopo la sua visita ad Auschwitz, e fa un passo; non per correggere i punti più discussi del suo testo, ma per completarli, con sottolineature che, nelle intenzioni, vorrebbero placare alcune sensibilità ebraiche. Naturalmente non si tratta di un gesto casuale; è il frutto di una riflessione sulle reazioni, che ha coinvolto il Pontefice e i suoi più stretti collaboratori. E non solo. Papa Ratzinger vorrebbe recarsi in Terrasanta l'anno prossimo. Un'intenzione a lungo coltivata; fra l'altro, polemiche su Auschwitz a parte, è noto l'interesse teologico, e l'apprezzamento che Joseph Ratzinger ha per il mondo ebraico, testimoniato sin dai primissimi passi del suo pontificato: per la prima volta nella storia il rabbino capo di Roma è stato invitato alla cerimonia di inaugurazione della sua missione da Papa.
    Quindi un viaggio nei luoghi dell'Antico e del Nuovo Testamento è fra le sue priorità; e Shimon Peres, in visita qualche mese fa in Vaticano, lo ha annunciato pubblicamente per la prima metà del 2007. La Chiesa locale, che vive i problemi quotidiani e l'esasperazione della gente (il Muro, la stretta economica, e tutte le altre difficoltà) non è altrettanto favorevole. In questa tensione si è inserita l'ondata di polemiche seguita al viaggio del Papa ad Auschwitz.
    «Proprio in quel luogo tristemente noto in tutto il mondo ho voluto sostare prima di far ritorno a Roma - ha detto ieri Benedetto XVI -. Nel campo di Auschwitz-Birkenau, come in altri simili campi, Hitler fece sterminare oltre sei milioni di ebrei. Ad Auschwitz-Birkenau morirono anche circa 150.000 polacchi e decine di migliaia di uomini e donne di altre nazionalità». In queste prime righe sono presenti già due elementi che vanno a «integrare» o «completare», ma non «correggere», secondo quanto ci è stato detto nei Palazzi Apostolici, il testo pronunciato, in italiano, domenica pomeriggio in quel luogo di orrore. La citazione delle cifre è importante. Domenica pomeriggio Benedetto XVI aveva fatto memoria delle lapidi che ricordano le vittime del lager; in particolare aveva ricordato ebrei, polacchi, Sinti e Rom, e russi. In una certa misura aveva posto sullo stesso piano tutti gli sventurati popoli protagonisti dell'eccidio.
    Ieri, invece, ha numericamente confermato l'eccezionalità del tributo di sangue ebraico, rispetto alle altre nazionalità; e sa bene quanto l'«unicità» della Shoah sia difesa a spada tratta da una larga parte dell'ebraismo mondiale. «Di fronte all'orrore di Auschwitz non c'è altra risposta che la Croce di Cristo: l'Amore sceso fino in fondo all'abisso del male, per salvare l'uomo alla radice, dove la sua libertà può ribellarsi a Dio», ha continuato il Pontefice; e ha continuato così: «Non dimentichi l'odierna umanità Auschwitz e le altre "fabbriche di morte" nelle quali il regime nazista ha tentato di eliminare Dio per prendere il suo posto! Non ceda alla tentazione dell'odio razziale, che è all'origine delle peggiori forme di antisemitismo»!
    L'assenza del termine «antisemitismo» nelle parole pronunciate in Polonia da papa Ratzinger era stata notata; e la sua inclusione nel discorso di ieri appare come un segno di sensibilità verso la battaglia che il mondo ebraico conduce ovunque per richiamare l'attenzione su forme nascenti di odio razziale. Così come l'invito agli uomini di oggi a non dimenticare Auschwitz, diventato il luogo simbolo del male supremo, è certamente in consonanza con il comune sentire della comunità ebraica.
    Ma il Vaticano è rimasto sorpreso. E ieri il cardinale Walter Kasper, presidente del Pontificio consiglio per l'unità dei cristiani, ha detto che «le critiche rivolte al discorso di Papa Benedetto XVI ad Auschwitz sono assolutamente ingiuste». Kasper è considerato un uomo del dialogo; e la sua reazione assume perciò un valore particolare. «Un Papa tedesco che va ad Auschwitz - ha detto - è un cammino molto molto difficile. Chi ha visto il suo volto in quel momento capisce cosa voglio dire. Fare un discorso in quel luogo per lui era molto difficile, ma non poteva tacere. Perciò è essenziale ciò che ha detto, non ciò che non ha detto».

(La Stampa, 1 giugno 2006)





6. IL PAPA HA SEMPRE RAGIONE




La Cattedra di San Pietro sta al centro del mondo

«Il papa è andato a Gerusalemme. Il papa è entrato nella sinagoga di Roma. Il papa è andato ad Auschwitz. Il papa ha detto questo. Il papa ha detto quest'altro. Questo però il papa non l'ha detto. Ma ha fatto bene il papa a dire quest'altro. No, questo il papa non doveva dirlo.» Strano che nessuno dica: «Ma a noi, che ci importa di quello che ha detto il papa?» Ma - obietterà qualcuno - il papa è una figura di rilevanza mondiale, e chi vuole essere realisticamente attento a quello che avviene nel mondo non può non fare i conti con la realtà della Chiesa Cattolica Romana (CCR), di cui il papa è la massima autorità. Giusto, ma la domanda è questa: si fanno veramente i conti con la realtà della CCR limitandosi a commentare quello che dice il papa? Il commentatore laico dei discorsi del papa è paragonabile a un non credente che ha assistito a una messa cattolica e crede di poter valutare quello che ha visto commentando le parole dette dal prete nell'omelia. E' destinato a non capire niente, perché non tiene conto del fatto che nel cattolicesimo la cosa più importante non è la parola, ma il gesto simbolico-sacramentale. Nell'omelia il prete può dire le più elevate verità o le più marchiane sciocchezze senza che il valore del rito ne risenta minimamente. Se si vuole davvero fare i conti con quello che una messa significa, anche sul piano sociale, bisogna decidersi a prendere posizione su quello che pretendono di essere i gesti compiuti dal prete sull'altare. Una posizione chiara in merito è quella contenuta nel catechismo riformato di Heidelberg (1563): "La messa essenzialmente non è altro che la negazione dell'unico sacrificio e delle sofferenze di Gesù Cristo e una esecrabile idolatria".
    Limitarsi a fare l'analisi logico-semantica delle parole del papa senza porsi altre domande significa entrare nel numero di quei commentatori che analizzano tutto, criticano tutto, giudicano tutto e non capiscono niente. Un papa che visita un luogo come Auschwitz compie un atto cultuale di elevato valore simbolico che ha la pretesa esprimere, nell'autoconsapevolezza della CCR, il rapporto dell'umanità con Dio. Quando, per esempio, ad Auschwitz Ratzinger ha esclamato: "Dov'era Dio in quei giorni?", molti forse si sono sorpresi di una simile inquietante domanda, che sembrerebbe più appropriata sulla bocca di un incredulo. Ma la cosa si spiega se si pensa che la CCR si considera al centro dell'umanità e il papa si considera al centro della CCR. Anni fa, a un gruppo di giovani cattolici del dissenso che volevano ribellarsi al loro vescovo in nome della libertà di coscienza il prelato rispose bruscamente: "La vostra coscienza sono io". E dal suo punto di vista aveva ragione, perché secondo la dottrina cattolica il corretto rapporto dell'uomo con Dio passa attraverso la comunione del fedele con il suo vescovo, il quale a sua volta è in rapporto con il papa, che a sua volta è in rapporto con Dio. Il papa dunque si considera la coscienza dell'umanità, il canale attraverso il quale si esprime, anche in modo tortuoso e sofferto, il rapporto degli uomini con Dio. Elevando ad Auschwitz la terribile domanda: "Dov'era Dio?", il papa si è fatto portavoce presso l'Onnipotente del grido di dolore degli ebrei e di tutta l'umanità. Il papa si considera il vicario di Cristo, e Cristo sulla croce non ha forse gridato, con le parole del Salmo 22: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?". E se quelle parole non erano blasfeme, tanto meno lo sono, sempre secondo la CCR, le parole del papa. Nessuno potrà più gridare in faccia ai cristiani: "Dov'era Dio ad Auschwitz?", perché il papa stesso ha rivolto quella domanda a Dio, e così si è impadronito anche del dolore degli ebrei.
    Inopportuna invece è la domanda: "Dov'era il papa?", perché il papa, in quanto coscienza dell'umanità, potrebbe rispondere: "Ero dove eri tu. Non puoi liberarti della tua cattiva coscienza accusando il papa".
    Che cosa ha fatto allora il papa andando ad Auschwitz? Ha riaffermato la centralità della Cattedra di San Pietro in una vicenda che continua ad occupare l'attenzione degli uomini. Questo ha voluto ribadire Ratzinger con il suo gesto, e gli innumerevoli commenti alle sue parole sono serviti soltanto a sottolineare questo fatto. Che ci siano state anche forti critiche alle sue dichiarazioni non diminuisce in nulla la portata dell'avvenimento, così come l'omelia del prete non determina il valore della messa: il papa sa benissimo che non tutti possono capire e condividere ciò di cui lui, anima del mondo in particolarissimo rapporto con Dio, è consapevole. Ed è anche per questo che dà sempre sfogo multimediale alla sua angoscia per l'indifferenza umana alle sue sofferte raccomandazioni. Ma l'importante comunque è che la sua divina cattedra resti al centro dell'interesse dell'umanità.
    L'intima natura della CCR è di essere veramente "cattolica", cioè universale, inglobante il tutto. La CCR può tollerare e sopportare quasi ogni cosa, ma non di essere emarginata, considerata irrilevante. Se si osserva la sua storia, si riconoscerà facilmente che la sua preoccupazione è sempre stata quella di mantenere o riconquistare il centro del mondo, perché questo considera essere il posto che le spetta di diritto. Le parole usate dai papi nelle loro allocuzioni devono dunque essere adeguate al raggiungimento di questo obiettivo "cattolico", universale: cioè devono contenere un po' di tutto. Tutte le corde del discorso devono essere toccate, quale in modo più forte, quale in modo più debole, in modo che le diversità di interpretazione possano essere spiegate come valutazioni diverse dell'intensità di vibrazione di tale o tal altra corda, e il continuo dibattito dei commentatori possa da una parte mantenere vivo l'interesse per la fonte delle dichiarazioni e dall'altra impedire che si attribuisca alla CCR una posizione troppo netta e precisa, con fastidiose richieste di coerenza, difficili da soddisfare. E questo è avvenuto anche in occasione della visita papale ad Auschwitz. Parole ambigue il primo giorno, pezze correttive qualche giorno dopo, naturalmente senza mai smentire nulla, conformemente al principio che un dogma, anche se imbarazzante, non si sconfessa mai: se necessario se ne aggiunge un altro e si fa scendere nella penombra il primo, mantenendone comunque la validità e tenendolo buono per un'altra occasione. Non si deve dimenticare che è parte integrante della dottrina cattolica il dogma dell'infallibilità papale. E anche se la si considera limitata ai casi in cui il papa parla "ex cathedra Petri", questo conferma che nell'autocoscienza cattolica la Cattedra di San Pietro è fonte di purissima verità. Come potrebbe allora il soglio pontificio non essere al centro dell'attenzione del mondo? Come potrebbero esserci avvenimenti di importanza mondiale che non inducano gli uomini a volgere i loro sguardi verso colui che siede al centro dell'umanità per chiedersi: che penserà? che dirà? che farà? Nel tentativo di capire, interpretare, commentare parole che cambiano continuamente di tonalità secondo il mutare delle stagioni, gli uomini saranno obbligati a correre sempre dietro al papa, senza naturalmente sperare mai di poterlo raggiungere, né tanto meno di poterlo in qualche modo influenzare.
    Per quanto riguarda il rapporto della CCR con Israele e con il popolo ebraico in generale, gli amici ebrei che hanno illusioni ecumeniche farebbero bene a ricredersi. I laici "illuminati", ebrei e non ebrei, purtroppo si rifiutano di prendere in seria considerazione questioni "teologiche" e ritengono che gli atteggiamenti pragmatici siano i soli realistici. Ma non è vero, il pragmatismo può essere addirittura fatale nei rapporti con la CCR e con l'Islam, la cui stessa esistenza è di natura intimamente teologica. Ed è una teologia che li pone entrambi in una contrapposizione strutturale e vitale con Israele. Non è una questione di atteggiamento, ma di identità. Una reale, fondamentale modifica su questo tema significherebbe per loro l'annientamento di sé. E non sembra proprio che una simile autodissoluzione stia per avvenire.
    
Marcello Cicchese






7. MUSICA E IMMAGINI




Hora Mamtera




8. INDIRIZZI INTERNET




International Rights and Redress Campaign

ICT - Terrorism & Counter-Terrorism




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