<- precedente seguente -> pagina iniziale arretrati indice



Notizie su Israele 363 - 12 ottobre 2006

1. Intervista alla famiglia di un caduto in Israele
2. Ebrei in Iraq
3. Il Trofeo della Memoria
4. Rischia di chiudere la sinagoga di Yangon
5. Cristiani evangelici, importante sostegno al turismo
6. Lingue biforcute
7. Libri
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 52:7. Quanto sono belli, sui monti, i piedi del messaggero di buone notizie, che annunzia la pace, che è araldo di notizie liete, che annunzia la salvezza, che dice a Sion: «Il tuo Dio regna!»
1. INTERVISTA ALLA FAMIGLIA DI UN CADUTO IN ISRAELE




Colloquio non facile

di Aviel Schneider

A diciannove anni Janiv è caduto nell'ultima guerra. Soltanto un anno dopo il compimento dei suoi studi di liceo era andato al fronte a combattere con i suoi compagni. Nel colloquio con israel heute [mensile evangelico in lingua tedesca stampato a Gerusalemme, ndr] i suoi genitori, Asher e Caroline Baron, parlano di quel tremendo pomeriggio in cui tre ufficiali dell'esercito scesero dalla macchina davanti alla loro casa. Da allora, nella vita della famiglia niente è più come prima, né per i genitori di Janiv, né per Eitan (23 anni) e la sorella Hadas (18 anni). La piccola località Makkabim, nelle vicinanze di Modi', tra Gerusalemme e Tel Aviv, si è stretta intorno alla famiglia. Il padre lavora nell'Istituto Weizmann, la madre è maestra d'asilo. Questo è il destino di solo una delle tante famiglie, perché nella guerra del Libano sono caduti 120 soldati israeliani.

La famiglia Baron (da sinistra): Papà Asher, sua madre, la figlia Hadas, il fratello Eitan, mamma Caroline e Janiv.

israel heute: Anzitutto vogliamo esprimervi le nostre sincere condoglianze! Asher, parlaci di Janiv.
    Asher Baron: Il 12 luglio c'era stato un massiccio attacco di razzi su Israele. Per questo alcune forze di sicurezza furono spostate dal confine nord e due soldati, Eldad Regev e Ehud Goldwasser, furono rapiti dagli Hezbollah. Janiv si trovava nelle vicinanze con il suo gruppo di carri armati e udì via radio la richiesta di aiuto. Nonostante il nutrito lancio di razzi, l'unità corazzata di mio figlio tentò di salvare i compagni. Poi, era esattamente mezzogiorno, il carro armato di Janiv è passato su una mina. Tutto l'equipaggio è perito.

israel heute: Quando vi è stata comunicata la notizia?
     Eitan Baron: Lo stesso giorno, alle due del pomeriggio, mia madre aspettava un tecnico del riscaldamento. In quel momento bussarono alla porta, ma invece del tecnico erano ufficiali, che ci comunicavano la morte di Janiv. Dapprima dissero che Janiv era ferito mortalmente. Quando chiesi in quale ospedale si trovava, mi dissero che Janiv era ancora con i suoi compagni nel carro armato in Libano. Mi misi a gridare: Che cosa! e chiesi all'ufficiale come fa a sapere che Janiv è ancora vivo, se a causa dei lanci di razzi nemmeno un'unità di soccorso è potuta arrivare fino al carro armato di Janiv. Alla fine, dei soldati israeliani riiuscirono a raggiungere il carro armato incendiato soltanto il mattino seguente.

israel heute: I superiori di Janiv dicono che Janiv è stato un eroe che ha cercato di salvare i suoi compagni in pericolo.
     Asher Baron: E'vero, Janiv è stato un eroe, ma adesso è morto. Il Libano ha attaccato Israele con razzi e Israele ha dovuto reagire. Per noi tutto è andato in frantumi, la vita è vuota senza Janiv. I suoi compagni hanno cercato di consolarci e ci hanno raccontato molti fatti su Janiv come amico, commilitone e comandante di carro. Non si può immaginare quanto Janiv mi manchi. Aveva solo 19 anni.
     Caroline Baron: Da allora non riesco nemmeno più a vedere la televisione. A un tratto tutto è diventato insignificante.

israel heute: In che modo sopportano la mancanza i vostri figli?
     Asher Baron: Eitan studia e Hadas andrà nell'esercito. In famiglia ogni giorno è tremendo, piangiamo e ricordiamo Janiv.

israel heute: Che tipo era Janiv?
     Asher Baron: Janiv era un tipo tranquillo, si interessava di radio e di aerei, e spesso ascoltava le trasmissioni di piloti. Amava anche la fotogravia. Quando a 18 anni fu richiamato, insistette per fare servizio in una unità di carri armati. Era un giovane curioso, che s'interessava di tutto e prendeva ogni compito sul serio. In questo modo è diventato comandante.

israel heute: In che modo possiamo consolarvi?
     Asher Baron: Non potete. Sono contento che Janiv ha rischiato e dato la sua vita per salvare altri. Non ce l'aspettavamo da lui. I nostri soldati sono fedeli e affidabili, e di questo possiamo essere fieri. Ma su un eroe morto posso soltanto fare cordoglio.

(israel heute, ottobre 2006)





2. EBREI IN IRAQ




L'ultimo rabbino lascia Bagdad 

La maggior parte di loro ha paura a incontrarsi per celebrare insieme. A osservare lo Yom Kippur sono solo una decina di ebrei della comunità della capitale. L´unica sinagoga rimasta è stata sprangata con tavole e assi di legno. Molti non escono da casa nel timore di essere rapiti oppure uccisi.

di Amit R. Paley
 
BAGDAD - Lunedì scorso [2 ottobre], mentre nel giorno sacro del calendario ebraico il sole tramontava su Bagdad, l´ultimo rabbino rimasto nella capitale si accomodava per la sua ultima cena di Yom Kippur in Iraq: una fetta di torta e due bicchieri di latte. Yom Kippur, il giorno ebraico dell´espiazione, ha inizio con il digiuno e si chiude con una festa di celebrazione. Ma, ha ammesso Emad Levy, quest´anno c´era poco da festeggiare. Ormai a osservare lo Yom Kippur sono solo una decina di ebrei della comunità ebraica di Bagdad, nata 2.600 anni fa. La maggior parte di loro ha paura a incontrarsi per celebrare insieme.
     Così Emad Levy si è seduto da solo per cena. In un colloquio telefonico ha detto di aver appena terminato di cantare i versi della speranza che concludono il servizio di Yom Kippur. «Che ci sia concesso un buon anno nel libro della vita», canta nella sua camera da letto. Levy sa che le sue preghiere per la pace non saranno esaudite in Iraq. Anche se la carneficina che sta precipitando il Paese in una guerra civile ha fatto vittime tra gli arabi sunniti e i musulmani sciiti, nessun gruppo è più terrorizzato della comunità ebraica né è un bersaglio più vulnerabile.
     L´unica sinagoga rimasta nella capitale, un edificio rosa e giallo privo di qualsiasi contrassegno, è stato sprangato con tavole e assi di legno da quando oltre tre anni fa fu definito "il luogo di raduno dei sionisti". La maggioranza degli ebrei non lascia la sua casa nel timore di essere rapita o uccisa. Perfino al telefono Levy non parla direttamente di Israele, perché non si può mai sapere chi sia in ascolto. «È come se vivessi recluso in una prigione», racconta. «Per me qui non c´è futuro. Per vivere dovrò andarmene».
     Il conflitto iracheno è diventato insostenibile persino per il popolo israeliano, da tempo abituato a soffrire e mandato in esilio da Nabuccodonosor 26 secoli fa a Babilonia, in quello che è oggi l´Iraq centrale. Dopo la fondazione di Israele nel 1948 la famiglia di Levy è sopravvissuta ai sempre più frequenti e feroci attentati antisemiti, all´esecuzione nel 1969 di una dozzina di ebrei accusati di essere spie dello Stato israeliano, e all´incessante sorveglianza da parte del regime di Saddam Hussein. Dopo l´invasione del 2003 guidata dagli Stati Uniti, il padre di Levy si è trasferito in Israele. Anche lui aveva pensato di andarsene, ma è rimasto in Iraq per prendersi cura di un ebreo ottantenne, diabetico e in fin di vita. Ora che dell´uomo malato si prendono cura alcuni amici curdi, Levy vuole andarsene e lo farà non appena sarà riuscito a vendere la sua casa. Non si affiderà però a un intermediario immobiliare, che potrebbe truffarlo o fare di peggio, e così è in attesa che nei prossimi mesi un suo amico torni in Iraq per gestire i suoi affari. «Dobbiamo essere molto cauti», dice Levy.
     Domenica notte, vigilia di Yom Kippur, Levy si è preparato ad affrontare il digiuno del giorno successivo sgranocchiando un poco di torta e del melone. Alcuni anni fa, poiché era partito il macellaio rituale, Levy acquistava gli agnelli e li macellava secondo i dettami della legge ebraica, ma adesso non può più farlo: teme per la sua vita, ha paura che al mercato i commercianti lo riconoscano e dicano in giro che è ebreo. Anche il vino non riesce più a procurarselo e così in alcune feste si accontenta di succo di uva spremuto nell´acqua.
     Levy scherza e dice che anche la rete elettrica di Bagdad ha deciso di digiunare: l´elettricità è stata tagliata domenica pomeriggio e 30 ore più tardi non è stata ancora ripristinata. Lunedì notte ha faticato per rimettere in funzione il generatore. Ma nessuno dei problemi che affliggono la capitale avrebbe potuto rovinare il suo Yom Kippur. «Ho il mio Dio e le mie preghiere e questo è ciò che più conta per me», dice. Racconta di aver stretto tra le braccia un vecchio libro di preghiere ed essere rimasto nella sua stanza in piedi o seduto per un po´ sulle lenzuola verde pallido che coprono il letto. «Che avrei dovuto fare?» chiede. «Ovviamente non è così che bisognerebbe celebrare Yom Kippur», fa una pausa e poi dice: «Ecco perché devo lasciare l´Iraq e andare in Terra Santa».
     Non tutti gli ebrei iracheni la pensano così. Sameer, un appaltatore edilizio di 40 anni, dice che non potrebbe mai lasciare la sua patria, anche se questo potrebbe significare che non incontrerà mai una donna ebrea da sposare. «Questo è il mio destino: sono iracheno, sono parte dell´Iraq. Mi sta bene non sposarmi». Sameer chiede che il suo cognome non venga divulgato, teme per la propria vita. Ha abbandonato la sua casa di Bagdad e vive in una località che non ha voluto rivelare. Sameer si è rifiutato di parlare della vita sotto Saddam, dicendo che l´argomento è pericoloso, ma alcune interviste a Levy e ad ex funzionari dell´intelligence irachena fanno intuire che anche prima dell´invasione americana la vita per gli ebrei iracheni non era facile.

(La Repubblica, 5 ottobte 2006 - Traduzione di Anna Bissanti)





3. IL TROFEO DELLA MEMORIA




La prima volta di una squadra in visita ad Auschwitz

di Valerio Piccioni

La squadra juniores Vigor Perconti, vincitrice del Trofeo della Memoria, ha fatto visita al campo di concentramento. Lo studioso Pezzetti: "Avete avuto più coraggio della nazionale italiana"

AUSCHWITZ (Polonia), 10 ottobre 2006 - A un certo punto, poco dopo mezzogiorno, Andrea Colarossi, capitano della Vigor Perconti, squadra juniores della periferia est di Roma, vincitrice del Trofeo della Memoria, calcia il pallone e lo butta al di là del filo spinato. Succede ad Auschwitz-Birkenau, il campo simbolo del genocidio della Shoah. Dove un'iniziativa della Regione Lazio (ad accompagnare la comitiva c'era anche l'assessore allo sport Giulia Rodano) e della sua Agensport (con la presidente Paola Concia), in collaborazione con il comitato laziale della Federcalcio, ha voluto si concludesse l'iniziativa nata dagli striscioni della vergogna all'Olimpico: prima un torneo di calcio a 16 squadre, poi questa visita.
     Insieme con uno dei sopravvissuti, Piero Terracina, a 15 anni scaraventato quassù, dove ha lasciato tutta la famiglia. E con Marcello Pezzetti, il più grande studioso italiano e probabilmente non solo italiano di questa pagina di storia, futuro direttore del Museo della Shoah che nascerà prossimamente a Roma, a Villa Torlonia, proprio vicino alla casa e ai prati dove viveva Mussolini, il duce di quell'Italia delle leggi razziali in cui a un certo punto, a Terracina fu pure vietato di andare allo stadio a vedere la sua Roma, in quanto ebreo. Siamo vicino al forno crematorio e Pezzetti dice orgoglioso ai ragazzi romani: “Siete la prima squadra di calcio a venire in visita qui. Avete avuto più coraggio della nazionale italiana”.
     Qui, infatti, qualche anno fa si decise che era meglio non portare gli azzurri prima di una partita. “Era il periodo di Maldini c.t. Dissero che era preferibile non turbarli prima di giocare”, insiste Pezzetti. E un ragazzo gli fa eco: “Prima va bene, ma allora perché non sono venuti dopo?”. Il pallone è in una zona morta, dove non c'è niente e nessuno. Ma Pezzetti, ex allenatore di pallavolo, coach delle ragazze di Cassano d'Adda prima di dedicarsi completamente alla sua attività di ricercatore e divulgatore di questo pezzo terribile di storia, racconta che proprio oltre il forno crematorio c'era un campo da calcio.
     “Guardate”, e invita i ragazzi a dare un'occhiata a una foto d'epoca dove s'intravede una porta. “Capito? Prima pretendevano si giocasse, poi li mandavano a morire, appena qualche ora dopo”. E Terracina ricorda con sofferenza: “Giocava pure un ragazzo che era soprannominato il "portierino". E si giocava pure a pallavolo, dice Pezzetti. Per volere degli infermieri nazisti che obbligavano i prigionieri ammalati a farlo. In mezzo all'inferno. Un inferno che i ragazzi scoprono spesso in silenzio: le baracche dove si dormiva ammucchiati in 500, la sfilata infinita dei gabinetti collettivi dove il minimo era ammalarsi, la grande vetrata dietro cui, al museo, sono conservati i capelli delle donne tagliati prima di andare a morire. Così Terracina prende un ragazzo sotto braccio e gli dice: “Ora capite quanto dolore c'è nel guardare quegli striscioni allo stadio”.

(gazzetta.it, 10 ottobre 2006)

prosegue ->
4. RISCHIA DI CHIUDERE LA SINAGOGA DI YANGON




Nel Paese vi sono solo 25 ebrei, dopo un grande esodo diversi anni fa. La comunità necessita di fondi. Unica speranza è un incremento del turismo, specie di altri ebrei.

YANGON – Nella capitale Yangon sorge da oltre un secolo una piccola sinagoga. Ma i 25 ebrei del Paese non riescono a pagarne le spese e sperano nel turismo e nelle donazioni estere per tenerla aperta.
     La sinagoga Musmeah Yeshua sta tra negozi di abbigliamento indiani e commercianti islamici, in una piccola via vicino al centro città. Per molti anni è sopravvissuta grazie alle visite e alle offerte dei turisti, soprattutto ebrei. Moses Samuels, amministratore della sinagoga ricorda che “venivano ebrei da Israele, Stati Uniti, Canada, Francia, Inghilterra. Facevano donazioni. Ma ora viene sempre meno gente”, specie per “le sanzioni americane e gli ammonimenti contro i viaggi in Myanmar”.
     E’ stata costruita nel 1896, quando molti ebrei sono venuti nell’allora Birmania durante la dominazione britannica, specie dal Medio Oriente e dall’India. La comunità ebrea è giunta ad avere fino a 2.500 persone, impegnate negli affari e nel commercio di cotone e riso. Ma quasi tutti sono fuggiti durante l’invasione giapponese nella seconda guerra mondiale o per la presa di potere della giunta militare nel 1962, e ora rimangono solo 8 famiglie.
     “Sono convinto – prosegue Samuels – che la gente possa venire in Myanmar, perché la giunta non è certo finanziata dalle modeste entrate per il turismo”. Samules e il figlio Sammy hanno creato un’azienda turistica, che inizierà a operare in novembre e sperano di incrementare il turismo specie di altri ebrei e di chi è nato qui ma poi è emigrato, offrendo pacchetti in occasione delle maggiori festività.
     Una meta turistica è anche un vecchio cimitero ebraico a Yangon, ora in rovina, con i cani che dormono tra le lapidi e i bambini che giocano sulle tombe. Ruth Cernea, statunitense studiosa della storia di questa comunità, dice che rischia di essere presto distrutto dallo sviluppo della città. (PB)

(AsiaNews, 9 ottobre 2006)





5. CRISTIANI EVANGELICI, IMPORTANTE SOSTEGNO DEL TURISMO




GERUSALEMME - Un turista su tre proveniente dagli USA è un cristiano evangelico. Questo ha comunicato domenica scorsa il Ministro del Turismo israeliano Isaac Herzog.
«La solidarietà dei cristiani evangelici è la colonna più importante dell'industria del turismo in Israele», ha detto il Ministro al quotidiano "Jerusalem Post", «e sono veri amici d'Israele, ovunque essi siano».
Circa 5.000 cristiani evangelici provenienti da tutte le parti del mondo sono arrivati la settimana scorsa a Gerusalemme, come ogni anno in occasione della Festa delle Capanne.
La celebrazione, organizzata per la ventisettesima volta dalla International Christian Embassy, è la più grande manifestazione turistica in Israele. Secondo calcoli fatti, quest'anno sono entrati 15 milioni di dollari a vantaggio dell'economia israeliana.
Herzog ha detto che il 40 per cento dei turisti in Israele sono ebrei dall'America. Subito dopo seguono i cristiani evangelici. Si stima che negli USA ci siano 60 milioni di cristiani evangelici. Questo è un grosso potenziale, ha detto Herzog, e ha aggiunto che per il futuro si aspetta anche una crescita delle visite di cristiani evangelici dai paesi latino-americani e dall'Europa.
Alcuni ebrei americani criticano l'alleanza tra Israele e la destra cristiana negli USA. Ma Herzog ha replicato che in questo bisogna essere pragmatici, e che non si deve andare a questionare con i sostenitori di Israele, fino a che essi si attengono alla legge vigente, non cercano di convertire gli ebrei e si tengono fuori dalla politica del paese. «Se ci sono forze estremistiche radicali che cercano l'annientamento dello Stato ebraico, noi dobbiamo associarci con quelli che sostengono Israele», ha detto Herzog.
Nel momento di massima affluenza di turisti in Israele, nell'anno 2000, 2,7 milioni di persone hanno visitato il paese. Circa due terzi erano non ebrei.

(Israenetz Nachrichten, 9 ottobre 2006)





6. LINGUE BIFORCUTE




Abu Mazen: “Non è necessario riconoscere Israele”
    
    Subito dopo aver dichiarato, durante un incontro la settimana scorsa con il segretario di stato Usa Condoleezza Rice, che avrebbe chiesto a Hamas di riconoscere il diritto ad esistere dello stato di Israele, il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) ha detto, riesponendo alle domande della tv araba al-Arabiya, che né Hamas né la sua stessa fazione Fatah sono obbligati a riconoscere lo stato ebraico. “Hamas non è obbligata a riconoscere Israele – ha detto Abu Mazen – Non è necessario che lo faccia Hamas, né che lo faccia Fatah, né il Fronte Popolare.
    Le contraddittorie dichiarazioni, in arabo e in inglese, del presidente palestinese sono state sottolineate dal centro di monitoraggio Palestinian Media Watch.
    Incontrando Condoleezza Rice, Abu Mazen aveva garantito che avrebbe richiesto il riconoscimento di Israele da parte di Hamas come pre-condizione per creare un governo di unità nazionale. La Rice, dal canto suo, aveva dichiarato ai giornalisti in una conferenza stampa insieme ad Abu Mazen che gli Stati Uniti avrebbero trovato il modo di aiutare il presidente palestinese, esprimendo anche “grande ammirazione” per la sua leadership e per ciò che ella definiva la sua “volontà” di riavviare i negoziati israelo-palestinesi.
    Tuttavia, poco dopo, parlando in arabo alla tv al-Arabiya, lo stesso Abu Mazen spiegava che nemmeno Fatah ha mai ufficialmente riconosciuto Israele. “L’Olp [organizzazione ombrello di varie fazioni palestinesi] ha riconosciuto Israele nel 1993 quando Israele riconobbe l’Olp – ha spiegato Abu Mazen – Ma ognuno ha il diritto di dire: io non lo riconosco. È chiaro? È un diritto di chiunque e di qualunque organizzazione”.
    È vero che diversi leader di Fatah, compreso lo stesso Abu Mazen, hanno affermato molte volte di riconoscere lo stato ebraico. Ma Abu Mazen ha spiegato ai telespettatori di al-Arabiya che tali dichiarazioni di riconoscimento erano necessarie per fare fronte alle esigenze “quotidiane” degli affari palestinesi e che il riconoscimento da parte sua riguardava soltanto gli interlocutori politici israeliani, non lo stato di Israele in quanto tale. “Il futuro governo [palestinese] – ha detto Abu Mazen – avrà a che fare ogni giorno con gli israeliani e ogni ora, forse ogni minuto, vi saranno contatti fra ministri palestinesi e ministri israeliani. Dunque vi chiedo: come potrebbero, questo governo o i suoi ministri, non riconoscere i loro interlocutori e risolvere i problemi del popolo?”
    A titolo di esempio della necessità di riconoscere i singoli interlocutori politici israeliani, Abu Mazen ha fatto riferimento ai 500 milioni di dollari di prelievo fiscale destinati all’Autorità Palestinese ma congelati da Israele dopo l’elezione di Hamas. “Il ministro delle finanze palestinese deve arrivare a un accordo con il ministro delle finanze israeliano sul trasferimento di questi soldi. Dunque, come può fare un accordo se non lo riconosce?”
    
(YnetNews, 11 ottobre 2006 - da israele.net)






7. LIBRI




Il Falcone tedesco che scovò Eichmann

Gli israeliani, stranamente scettici, intervennero solo quando fu sicura l’identità del nazista in fuga. L’ex SS rintracciato in Argentina da un procuratore pignolo

di Carlo De Risio

Non fu il Mossad, servizio di spionaggio dello Stato di Israele, a scoprire il rifugio in Argentina del criminale nazista Adolf Eichmann, bensì Fritz Bauer, procuratore generale della Repubblica Federale tedesca: il Mossad si limitò semplicemente ad andare a prenderlo. Questa rivelazione si deve a David Cesarani, docente di storia in Inghilterra, autore di una meticolosa biografia dell’ufficiale delle SS, uno dei principali responsabili della «soluzione finale della questione ebraica»: deportazione e sterminio di milioni di ebrei («Adolf Eichmann-Anatomia di un criminale», Mondadori, 535 pagine, 22 euro). Nel saggio si affronta anche il tema dell’oblio, pressoché completo sul caso Eichmann: fino agli anni Cinquanta se ne sapeva poco. Il sedicente signor Ricardo Klement (questo il nome assunto dal fuggiasco) si era ben camuffato nella nuova patria di adozione. Infine, il fascio di luce proiettato dall’autore sulla personalità di Eichmann. Non è il caso di adombrare turbe psichiche del soggetto, complessi nascosti e cose del genere. L’ufficiale delle SS era una persona normale. «La deportazione di esseri umani verso la morte - scrive David Cesarani - fu gestita con la stessa mentalità aziendale, positiva ed efficiente, di cui aveva dato prova nel pianificare le consegne di benzina alle stazioni di servizio, attività svolta con zelo da Eichmann in gioventù». Nazionalsocialista convinto (lo rimase fino all’ultimo), l’azzimato ufficiale considerava gli ebrei alla stregua di nemici. Non era questa la direttiva del Führer? È stato detto che se gli uomini di governo (non soltanto quelli europei) avessero letto il «Mein Kampf» di Hitler, avrebbero evitato in seguito molte sgradevoli sorprese. Accadde di più e di peggio, proprio in relazione al problema ebraico. Il 30 gennaio 1939 (sesto anniversario della presa del potere), convinto che fosse in atto una congiura contro il Terzo Reich, Hitler pronunciò una terribile minaccia: «Se la finanza ebraica internazionale riuscirà, ancora una volta, a spingere le nazioni in una guerra mondiale, la conseguenza sarà l’annientamento della razza ebraica in tutta Europa». Quanti badarono a quelle parole? Himmler, Heydrick, Kaltenbrunnero e, scendendo la scala gerarchica, Eichmann e i suoi parigrado, dovevano soltanto mettere in atto la minaccia del Führer, sterminare le comunità ebraiche nel vasto impero nazista. Prima del genocidio eretto a sistema, non mancarono progetti a mezza strada tra la beffa atroce e il paradosso. Il «progetto Madagascar», all’indomani della vittoria sulla Francia, prevedeva il trasferimento in massa degli ebrei nella colonia insulare francese nell’Oceano Indiano, con l’impiego di una flotta di 120 navi! Le spese per questo esodo dovevano essere sostenute dagli stessi ebrei, confinanti e guardati a vista dalle SS. Altro macabro progetto, una "transazione" che prevedeva il salvataggio di un milione di ebrei, in cambio di 10 mila autocarri con le specifiche tecniche per l’impiego sul fronte orientale. Eichmann vi ebbe le mani in pasta. E, per la verità, gli inglesi tremarono all’idea che centinaia di migliaia di ebrei potessero approdare in Palestina. la qual cosa sposta il discorso sulle responsabilità degli Alleati. Come mai, con la superiorità acquisita dall’aviazione anglo-americana, non furono selezionati gli obiettivi nei campi di sterminio, colpendo gli acquartieramenti delle SS, interrompendo le linee ferroviarie percorse dai «treni della morte», sconvolgendo insomma l’intero apparato logistico per la soluzione finale»? Eichmann, nel 1944, a Budapest - da lui ribattezzata «Judapest» - si occupò della liquidazione della numerosa comunità ebraica. «Quando, nel marzo 1944, la Germania occupò il paese, vi risiedevano 750 mila ebrei. Tra l’aprile e il luglio 1944, 437 mila vennero rinchiusi nei ghetti e deportati ad Auschwitz-Birkenau, dove tre quarti di loro furono immediatamente assassinati». Nel caos seguito alla fine del Terzo Reich, Eichmann riuscì a far perdere le proprie tracce: scarsi gli elementi di riscontro che lo riguardavano, carente quasi del tutto la sua scheda presso le autorità alleate, introvabili le sue fotografie. Per cui Ricardo Klement riuscì ad approdare in Argentina, méta di molti altri nazisti. Un magistrato dell’Assia, Frit Bauer, nato da una famiglia ebrea, antinazista, venne a sapere che l’ex ufficiale delle SS si trovava a Buenos Aires «ma gli israeliani mostrarono un interesse sorprendentemente modesto a seguire le tracce che venivano loro indicate con insistenza dai colleghi della Germania Ovest e in pratica dovettero essere guidati fino al nazista fuggitivo». La trappola scattò l’11 maggio 1960, quando Adolf Eichmann fu prelevato da un commando del Mossad, cacciato su un aereo di linea e condotto in Israele. Il colpo di mano provocò una tempesta di critiche in Argentina: si gridò alla violazione della sovranità nazionale proprio nel momento in cui il paese celebrava i 150 anni della sua indipendenza: poi, la polemica si placò. Il processo al criminale nazista, spalancò le porte sugli orrori della Shoah: la volontà fu quella di non nascondere nulla, perché le nuove generazioni conoscessero la verità. Iniziato l’11 aprile 1961, il processo ad Adolf Eichmann, al quale venne data la massima pubblicità, si concluse con la condanna della pena capitale, per impiccagione, il 31 maggio 1962: il corpo fu cremato, le ceneri disperse in mare.

(Il Tempo, 5 ottobre, 2006)





MUSICA E IMMAGINI




Dos Kelb




INDIRIZZI INTERNET




Genealogy of the Jews in Italy

IRIS: Information Regarding Israel's Security




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.