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Notizie su Israele 364 - 20 ottobre 2006

1. Parla un libanese che ha combattuto Hezbollah
2. Israele tra le economie più competitive del mondo
3. Luoghi comuni da sfatare
4. Hezbollah non deporrà spontaneamente le armi
5. Primo incidente nel sud del Libano
6. Distanze abissali fra Stato d'Israele e governo italiano
7. Il parere di un militare israeliano
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 29:22-23. Perciò così dice il Signore alla casa di Giacobbe, il Signore che riscattò Abraamo: «Giacobbe non avrà più da vergognarsi e la sua faccia non impallidirà più. Poiché quando i suoi figli vedranno in mezzo a loro l’opera delle mie mani, santificheranno il mio nome, santificheranno il Santo di Giacobbe, e temeranno grandemente il Dio d’Israele.
1. PARLA UN LIBANESE CHE HA COMBATTUTO HEZBOLLAH




A colloquio con l'ex Generale Lached

Intervista condotta dal direttore di "israel heute", mensile evangelico in lingua tedesca stampato a Gerusalemme, quando i combattimenti in Libano non erano ancora terminati.

di Aviel Schneider

Antoine Lached
Un caffè a Tel Aviv. Sia i locali sia i turisti sfruttano volentieri la possibilità di distendersi un po' mangiando qualcosa o prendendo una tazza di caffè o di tè. Ma ben pochi sanno che il proprietario ha un nome che una volta compariva nei titoli dei giornali di tutto il Medio Oriente: generale Antoine Lached, anno 1925, che con i suoi soldati dell'esercito sud-libanese (SLA) ha combattuto a fianco di Israele fino al ritiro delle truppe israeliane dal sud del Libano nell'estate del 2000. Nemici comuni erano l'organizzazione terroristica palestinese OLP e gli Hezbollah.
    Il generale Lached, come anche oggi viene chiamato, ritiene che l'attuale governo libanese sia debole. E' un governo che per anni ha ignorato il riarmo del fanatico "Partito di Dio" sciita, e per questo adesso il Libano e Israele devono pagare un caro prezzo. Come Lached, molti esiliati libanesi sono del parere che il paese starebbe molto meglio senza i terroristi Hezbollah. L'ex generale Lached conosce la guerra dal suo lato crudele e alla fine del colloquio il nostro team ha detto che le lacrime e il dolore di una madre ebrea o araba si assomigliano.

israel heute: Signor Generale, che cosa prova, come libanese che oggi vive in Israele, pensando alla guerra del Libano?
    Generale Lached: Sono veramente addolorato che il Libano sia in guerra, perché io sono e resto libanese, nonostante che mi abbiano tolto la cittadinanza libanese.

israel heute: Che cosa ci può dire sugli Hezbollah?
    Generale Lached: Quando fui costretto a lasciare il Libano sei anni fa, Hezbollah era ben lontano dall'essere così potente come oggi. Allora avevano soltanto pochi combattenti e pochi razzi. Ma bisogna anche sapere che quelle persone sono senza scrupoli e fondamentalmente si trincerano dietro la popolazione civile in Libano.

israel heute: Adesso però sembra che Hezbollah procuri grosse difficoltà a Israele.
    Generale Lached: Molto grosse perfino! Hezbollah adesso è diventato un piccolo ma efficace esercito di guerriglia. I guerriglieri conoscono ogni albero e ogni sasso e sanno nascondersi nelle grotte. Faranno impazzire Israele, ma alla fine Israele sarà il più forte. Hezbollah non ammetterà mai una sconfitta, perché ai loro occhi loro vincono sempre. Inoltre non dobbiamo dimenticare che Siria e Iran sostengono finanziariamente e strategicamente i guerriglieri. Io spero che dopo questa guerra i Libano riesca a liberarsi davvero della Siria. Ma in nessun caso Israele deve cessare la guerra senza vincere. Queste persone non si vergognano di usare donne e bambini come scudi umani.

israel heute: Signor General, che ne è stato dei suoi soldati del SLA?
    Generale Lached: Dopo il ritiro dell'esercito israeliano, 6900 soldati SLA si sono trasferiti in Israele con le loro famiglie. Alcune famiglie poi sono ritornate in Libano, dove sono state immediatamente arrestate. Oggi circa 2200 soldati SLA vivono in Israele con le loro famiglie e 600 si sono trasferiti in Germania.

israel heute: Come finirà la guerra, a suo parere?
    Generale Lached: Ci sono due possibilità: sul campo di battaglia, con la vittoria di Israele su Hezbollah, o sul piano politico, con l'aiuto diplomatico di americani ed europei. Ma chi pagherà il prezzo più alto sono il Libano e Israele.

israel heute: Che cosa direbbe a una ebrea o a una libanese che piange?
    Generale Lached: Vedo le lacrime, i funerali da entrambe le parti, ed è molto triste. Una guerra è sempre spaventosa. Fino a che la guerra durerà, le lacrime continueranno a scorrere. Dobbiamo continuare a pregare, e chiedere a Dio, in cui entrambi crediamo, che faccia finire la guerra. Credete a me, la guerra è una macchineria infernale!

(israel heute, ottobre 2006)





2. ISRAELE TRA LE ECONOMIE PIÙ COMPETITIVE DEL MONDO




Il World Economic Forum ha pubblicato la sua relazione annuale 2006-2007 in cui Israele risulta una delle economie più competitive del mondo, davanti a Canada, Francia e Repubblica di Corea.
Il progresso tecnologico ha avuto il massimo miglioramento ed ha saltato 20 posti per classificarsi terzo al mondo, mentre l’efficienza del mercato ha guadagnato 7 posti. Israele si è classificato primo per disponibilità di scienziati ed ingegneri, con un miglioramento di tre posti rispetto all’anno scorso, secondo per disponibilità di venture capital e settimo per innovazione. Ulteriori miglioramenti si sono visti nel management macroeconomico, nell’efficienza di mercato ed in varie aree di infrastrutture.
Grazie al grande miglioramento nella classifica generale, Israele è stato messo in particolare evidenza nella relazione. Il capo economista e direttore del Global Competitiveness Network, Augusto Lopex-Claros, ha scritto nella relazione: "Israele è diventato una potenza nella tecnologia mondiale, e sta cominciando ad avere una dimostrazione dell’effetto favorevole sul resto dell’economia. Israele ha tratto beneficio dallo sviluppo della cultura dell’innovazione, sostenuto dalle istituzioni di prim’ordine di istruzione superiore e ricerca scientifica ".

(IEICI-Israel Export and International Cooperation Institute, 15 ottobre 2006 - da israele.net)





3. LUOGHI COMUNI DA SFATARE




Non solo al ghetto, la furia nazista colpì tutta Roma

di Fabio Isman

ROMA - Il colonnello Guido Terracina, che abitava a San Giovanni, si salva così: incontra le Ss sul pianerottolo, e saluta i tedeschi nella loro lingua, in modo affabile; loro gli snocciolano le generalità complete del ricercato, cioé le sue; lui risponde: «Non perdete tempo, è partito da 15 giorni»; poi, tutti si danno la mano. Alberta Ravenna, in via Flaminia, perché, all’irruzione, s’infila sul balcone. La scampa anche Cesare Piattelli: ma finirà poi alle Fosse Ardeatine. Non sfugge invece ad Auschwitz, ma sarà uno dei 12 a tornare, Leone Sabatello: i 28 carri-merce piombati sostano a Padova; lui scende «per un bisogno»; il convoglio sta già ripartendo: temendo rappresaglie contro i suoi, lui lo ferma, per risalire. Storie di 63 anni fa: il 16 ottobre alle 5.30 inizia la razzia; dopo due giornate senza cibo (a via della Lungara, dove ora c’è la Foresteria militare), il 18, alle 14, il macchinista Quirino Zazza, dalla stazione Tiburtina fa partire il convoglio; per ultimissima, ci sale Costanza Sermoneta: ha veduto il marito, e convince le Ss a far partire anche lei. Il 24, il treno giunge ad Auschwitz. Dei 1067 ebrei presi a Roma, entrano in lager 149 uomini e 47 donne: gli altri, subito gassati. Torneranno 11 uomini e una donna. Il “sabato nero” è stato ricordato, ieri [16 ottobre] dagli ex deportati, al Teatro Argentina, con il sindaco Walter Veltroni e 800 studenti; poi, presentata in Campidoglio una nuova ricerca su quei fatti, voluta dalla Comunità ebraica: Roma, 16 ottobre 1943. Anatomia di una deportazione, di Silvia Haia Antonucci, Claudio Procaccia, Gabriele Rigano e Giancarlo Spizzichino (ed. Angelo Guerini e Associati).
    Tanti luoghi comuni da sfatare. Deportazione dal Ghetto? No: il 57 per cento delle 600 donne e dei 415 uomini presi quel giorno (un bimbo è nato a via della Lungara) vivevano lontano dalla “Roma giudìa”. I nazisti hanno usato, come in tanti hanno sempre detto, elenchi conservati in Comunità? No: esaminando chi è stato prelevato, i nomi provenivano da quelli della Questura di Roma. I deportati, anche questo s’è sempre detto, appartenevano alle classi medio-basse? Altra falsità: 65 impiegati, 42 commercianti, cinque insegnanti e altrettanti ingegneri e industriali; laureati, giornalisti, docenti, avvocati, archeologi, e un ufficiale di Marina. Il 27 per cento ha meno di 15 anni, e 107 meno di cinque; sei sono battezzati: anche Carolina Milani, che non abbandona un’anziana inferma. E il Vaticano? Tace: l’ambasciatore tedesco, a razzia ormai avvenuta, chiede al Segretario di Stato «cosa avrebbe fatto il Papa, se le cose avessero a continuare»; «la Santa Sede non vorrebbe essere messa nella necessità di dire la sua parola di disapprovazione», è la risposta del cardinale.
    Degli oltre 13 mila ebrei allora a Roma, i nazisti volevano prenderne molti di più: almeno 8 mila, per «liquidarli». In città, il 3 ottobre, mandano apposta un ufficiale; e pochi giorni dopo, 44 militari esperti nella caccia all’uomo: li aiuteranno 20 agenti di polizia, segregati per evitare ogni allarme. A operare la razzia (che per l’ambasciatore è «una porcheria»), in giro per Roma sono 365 militari: anche due reparti di polizia fatti affluire allo scopo. Pochi giorni prima, Herbert Kappler ha preteso dalla Comunità, in sole 36 ore, 50 chili d’oro, e li ha avuti. Anche per questo gli ebrei romani cadono in trappola. Voci su quanto accadeva, si erano già sparse; il rabbino capo, che a guerra finita diverrà cattolico, proponeva fughe di massa; i membri della Delasem, struttura di sicurezza ebraica, anche; i vertici della Comunità non pensavano si potesse giungere a tanto. Eppure, l’operazione per i nazisti è un mezzo fallimento: in troppi se ne sono già andati. Solo al quartiere Salario, su 58 appartamenti “visitati”, 37 vuoti. Mario Spizzichino, al rione Monti, lo viene a sapere mentre è al bar, e fugge con tutti i suoi; altri finiscono nella parrocchia Regina Pacis, a via Rosolino Pilo: don Antonio veste i paramenti, li schiera tra i banchi e dice: «Se vengono i tedeschi, in ginocchio a far finta di pregare». Uno ha dei “santini” nel portafoglio: le Ss lo credono cattolico, e si salva; 1.266 vengono portati via, 252 liberati a via della Lungara. Già il 1° novembre, in Vaticano giunge la notizia «che questi ebrei non torneranno mai più alle loro case»; anche se sono trascorsi 63 anni, per favore, almeno un pensiero per loro.

(Il Messaggero, 17 ottobre 2006)





4. HEZBOLLAH NON DEPORRA' SPONTANEAMENTE LE ARMI




Il riarmo di Hezbollah e la missione equivicina

Le forze internazionali non sono ancora del tutto schierate ma già si evidenziano i limiti e le ambiguità della missione. E per Israele si annuncia nulla di buono.

di Emiliano Stornelli

Le notizie provenienti dal Libano mettono in cattiva luce l’operato dell’UNIFIL. La Risoluzione 1701 che ne aggiorna il mandato prescrive a chiare lettere la creazione di una fascia di sicurezza tra la Blue Line e il fiume Litani “free of any armed personnel, assets and weapons other than those of the Government of Lebanon and of UNIFIL”. Perché, allora, l’UNIFIL ha assistito inerte al reinsediamento di Hezbollah nelle postazioni da dove, nel conflitto di luglio-agosto, venivano lanciati i missili contro Israele?
    La risposta l’ha data il generale francese Pellegrini, capo della missione ONU, in un’intervista al Jerusalem Post del 22 settembre: «We first will observe and then inform the Lebanese army […]. If we see something dangerous we will inform the Lebanese army and it will decide whether it will act independently or consider having a joint reaction together with us». Significa che il compito della forza multinazionale consiste non nel prevenire possibili azioni ostili di Hezbollah, quanto nello stare a guardare ciò che accade e segnalarlo all’esercito libanese, il quale a sua volta rimetterà ogni decisione al vertice politico. L’esegesi della Risoluzione 1701 formulata da Pellegrini appare, tuttavia, più diplomatica che letterale. A conti fatti, il Partito di Dio ha rioccupato i suoi avamposti territoriali alla faccia dell’UNIFIL e con l’accondiscendenza dei militari e del governo del Libano, ma il verificarsi di tale scempio è imputabile al profilo basso (nel senso di meschino) assunto dai responsabili politici dei contingenti sin qui schierati, tra cui l’italiano è il più numeroso, e non al mancato potenziamento delle regole d’ingaggio, che invece c’è stato, finalmente, sebbene viste le circostanze solo sulla carta. Tante chiacchiere e belle parole, come d’abitudine, senza sporcarsi le mani per non urtare la sensibilità della piazza. È questo il multilateralismo? Come dovrà comportarsi Israele, secondo la Farnesina, nel caso di future e prevedibili incursioni delle milizie sciite oltre la Blue Line e l’UNIFIL non dovesse intervenire? Sarà onesto biasimare nuovamente Tsahal per una reazione «sproporzionata»? Quando arriveranno i cinesi, gli indonesiani e i bengalesi con i tappeti rossi per Hezbollah?
    Al momento le unità sul campo sono poco più di un terzo delle 15 mila previste dal Consiglio di Sicurezza, mentre quelle libanesi, di cui si richiede un uguale ammontare, sono anche meno. Il grave ritardo nel dispiegamento dei soldati pregiudica il controllo dell’entroterra e Hezbollah ne approfitta per proseguire liberamente nei soliti traffici. Un rapporto dell’intelligence militare israeliano ha dimostrato con prove inconfutabili la cadenza quotidiana delle consegne di armi ai guerriglieri, che dal nord della Siria giungono a destinazione nel sudovest del Libano. Assad, il presidente siriano, spalleggiato da Russia e Cina, si è opposto allo schieramento delle truppe ONU lungo la frontiera e per i soli libanesi è impresa ardua presidiare i 375 km di confine. Eppure, Pellegrini nega l’esistenza del problema («This border is airtight and hermetically closed by the Lebanese army») e intanto l’UNIFIL, sul Corriere della Sera dell’11 ottobre, prende ordini da Nabil Kaouk, uno dei leader più vicini a Nasrallah («Se l’Unifil nei suoi pattugliamenti sul territorio dovesse vedere convogli di armi potrebbe allora segnalare all’esercito libanese di requisirle. Ma, ne sono certo, nessuno vedrà mai le nostre armi. Queste al momento sono le regole sul campo»)e ne subisce le intimidazioni («Guai se i contingenti internazionali in Libano dovessero venire usati per isolare o condizionare l’Hezbollah»). La premiata ditta Damasco-Teheran, insomma, non incontra ostacoli e riuscirà a rimpinguare il già nutrito arsenale dei guerriglieri prima che l’UNIFIL e l’esercito di Beirut avranno conseguito la piena operatività.
    Sul punto più caldo, il disarmo di Hezbollah, Pellegrini ha precisato che rientra nei compiti dei libanesi; i caschi blu offriranno semplicemente assistenza, fedeli alla linea di rimanere alla larga dai miliziani in “un quieto modus vivendi” (Toni Capuozzo, Il Foglio, 6 ottobre). Il capo dell’UNIFIL, in sostanza, ha rassicurato gli uomini di Nasrallah che non verrà torto loro neppure un capello. L’esercito regolare non ha la forza di disarmarli e nemmeno la volontà: il Partito di Dio riscuote forti simpatie all’interno della sua componente maggioritaria sciita e molti generali sono anti-israeliani e fedeli al presidente Lahud, filosiriano. Come se non bastasse, la tenuta istituzionale e sociale del Libano è estremamente fragile e a perenne rischio di disgregazione. Il premier Siniora guida un esecutivo privo di autorevolezza, che nonostante il ritiro militare di Damasco soffre tuttora delle ingerenze siriane e non è in grado di sfidare Hezbollah in un gioco a somma zero qual è il disarmo. Si vocifera, infatti, di un accordo informale tra il governo ed emissari di Nasrallah che permette alla guerriglia, in violazione della Risoluzione 1701, di conservare le armi purché non le mostri in pubblico e le tenga nascoste nei depositi sotterranei a ridosso d’Israele, nella Valle della Bekaa, nei sobborghi delle città e nei campi profughi palestinesi, luoghi proibiti per l’esercito libanese e per l’UNIFIL, dove accade l’inimmaginabile. «Le vostre armi sono anche nelle zone controllate dall’Unifil a sud del fiume Litani?», Nabil Kaouk conferma: «Senza dubbio. Ma sono nascoste bene, nessuno può vederle. E non sta all’Unifil venirle a cercare o spiare i nostri movimenti».
    Sulla questione del disarmo è l’intera comunità internazionale a muoversi con grande cautela. Hezbollah non accetterà mai di deporre le armi: sarebbe la fine di quel colossale imbroglio che è la resistenza antisraeliana e l’organizzazione perderebbe la ragione di esistere. Messa sotto pressione potrebbe radicalizzare le sue posizioni verso gli «imbelli» - stando alla dicitura di Nasrallah - che governano il Libano, col rischio di mettere in moto
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un processo destabilizzante anticamera del ritorno alla guerra civile. Ma è proprio in tal senso che si dirige la proposta, avanzata da Siniora, d’integrare i miliziani nell’esercito allo scopo di contenerli cooptandoli: non tutti i militari accetterebbero l’istituzionalizzazione della resistenza e un eventuale sfaldamento delle forze armate su base confessionale ricondurrebbe il Libano alla conflittualità interreligiosa dei tempi passati, un supplizio ingiusto per un paese martoriato dalle vicende storiche, che all’epoca della preminenza cristiana era indubbiamente il più moderno e avanzato del mondo arabo.
    Israele, nel 2000, ritirandosi dalla zona occupata, aveva creato le condizioni affinché Beirut potesse estendere al sud la sua sovranità territoriale: la stessa logica alla base della Risoluzione 1701. Purtroppo, a colmare il vuoto lasciato da Gerusalemme non è stato l’esercito regolare
bensì Hezbollah, che ha dato inizio allo stillicidio di provocazioni durato sei anni che Tsahal, invano, ha cercato di stroncare con le operazioni militari di luglio-agosto. Beirut, sprecando un’occasione forse irripetibile, non è stata allora capace di garantire la sicurezza d’Israele e lo è tanto meno adesso. Le responsabilità di cui la Risoluzione 1701 investe il governo Siniora rientrano nell’ordine degli auspici e delle buone intenzioni. Non va dimenticato che già la Risoluzione 1559 del settembre 2004 stabiliva il disarmo del movimento sciita e lo schieramento dell’esercito nel sud del Libano. Siniora non ha alcuna influenza su Hezbollah, che oltretutto vanta tre ministri nell’esecutivo e trentacinque parlamentari, e anzi deve temerne l’ascesa sull’onda della crescente popolarità. La combinazione di forza politica e militare, moltiplicata per l’alleanza organica con Iran e Siria, autorizza la sua leadership a puntare ai massimi traguardi, magari riuscendo a imporre un governo di unità nazionale e una modifica della costituzione che consenta agli sciiti di esprimere il capo del governo, per poi andare alle elezioni e vincerle nelle vesti di partito patriottico antisraeliano. A tal fine, la propaganda incentrata sulla resistenza armata nei confronti del Piccolo Satana è un argomento ideologico irrinunciabile, seppure totalmente infondato. La rivendicazione delle fattorie di Shebaa è un mero pretesto: è innegabile che Israele le occupi, ma a detta persino dell’ONU sono territorio siriano e non libanese in quanto parte delle Alture del Golan.
    La verità è che Hezbollah non è un movimento di paladini della libertà che combatte per l’autodeterminazione del proprio popolo contro uno stato oppressore, come tanto piace alla vulgata antimperialista e terzomondista italiana ed europea (la medesima, ignorante e sciocca fascinazione che induce a tifare per Hamas e a scambiare per eroe un essere immondo qual è stato Arafat). Hezbollah non ha neanche origini libanesi, è in tutto e per tutto una creatura dell’Iran trapiantata nella terra dei cedri con la funzione di combattere Israele al servizio delle ambizioni geopolitiche degli ayatollah. Grazie alle scelte inopinate di Beirut e all’abilità di Nasrallah, che Teheran continua a sponsorizzare senza risparmio, negli anni l’organizzazione si è radicata tra gli sciiti, specie al sud, dandosi un connotato politico-sociale, e ha avuto gioco facile nello scagliarne la frustrazione e il risentimento esistenziale verso il Piccolo Satana. Nasrallah ora mira più in alto, a rendere lo spirito jihadista antiebraico consustanziale all’identità libanese, così da trascendere le divisioni etniche e religiose, compattare ideologicamente il paese e volgerlo in blocco all’attacco d’Israele, seguendo le linee espansionistiche che dipartono da Teheran, attraversano Damasco, approdano a Beirut e vorrebbero spingersi fino a Gerusalemme. Se il bene del Libano e dei libanesi è vivere al fianco d’Israele in spirito di cooperazione e amicizia, Hezbollah opera per il loro male, perché vuole un Libano jihadista pedina dell’Iran, votato fisiologicamente alla distruzione dello stato ebraico; come non operano certamente per il bene l’Unione Europea, che non ha il coraggio d’iscrivere il Partito di Dio nella lista nera delle organizzazioni terroristiche, e l’Italia del presente governo, «il nostro partner europeo più prossimo» (Nabil Kaouk).
    Attualmente, l’unica via alternativa alla guerra davvero praticabile è il mantenimento di un costante stato di tensione caratterizzato da minacce, incidenti, atti di forza dimostrativi, che non sfoci in autentica belligeranza. Si tratta, in pratica, di ristabilire lo status quo ante bellum, finché dura. L’UNIFIL contribuirà a dilatare tale spazio di tempo, ma a beneficio di Hezbollah e a danno d’Israele. La sua presenza a ranghi completi non sarà d’ostacolo alla guerriglia islamista, che una volta riorganizzata riprenderà impunemente la campagna antisionista con la regia di Teheran, mentre lo sarà per Gerusalemme sia in quanto scudo umano alle attività dei miliziani, che ulteriore elemento di pressione politica teso a soffocare la sua sacrosanta libertà di difendersi. Pellegrini ha già dato prova di atteggiamento ostile, criticando aspramente le violazioni dello spazio aereo libanese ad opera di velivoli dell’intelligence israeliano («These violations are not justifiable with the deployment of the Lebanese army and the enhancement of UNIFIL. This is not justified any longer») e non proferendo parola sul Partito di Dio che proprio sotto il suo naso si riarma e si riappropria delle postazioni militari. Se il buon giorno si vede dal mattino, la nuova UNIFIL per spirito è identica alla vecchia. A Israele non resta che conservare l’autocontrollo e insistere perché i soldati libanesi e i contingenti multinazionali diano attuazione alle previsioni della Risoluzione 1701, altrimenti la mossa successiva potrebbe essere l’intervento diretto, con gravi complicazioni politiche e militari: come insegna l’esperienza dell’estate scorsa, l’attacco metterebbe in serio pericolo l’incolumità dei caschi blu, italiani inclusi, e i governi che partecipano alla missione potrebbero anche decidere di ritirarli di fronte a una massiccia iniziativa israeliana, sancendo il fallimento dell’UNIFIL e svelando così l’inconsistenza del loro impegno in Libano. Gerusalemme rimarrebbe isolata diplomaticamente, eccezion fatta per gli Stati Uniti, ma avrebbe l’opportunità di chiudere definitivamente il fronte settentrionale prima che l’Iran completi la fabbricazione della bomba atomica e magari la rechi in dono a Hezbollah tramite la Siria con l’UNIFIL a far da spettatore. Per Israele, inoltre, certi interlocutori è meglio perderli che averli equivicini.
    Gli Stati Uniti, alla luce della drammatica situazione in Iraq, hanno accuratamente evitato di sovresporsi nella vicenda. All’inizio del conflitto hanno lasciato carta bianca a Tsahal, con la speranza che riuscisse ad affondare il colpo nei confronti di Hezbollah. Preso atto dell’insuccesso, con Gerusalemme ha optato per un congelamento della situazione giocando la carta dell’UNIFIL e lasciando sfogare l’ardore multilateralista e propagandistico di D’Alema, dal quale persino Chirac si è tenuto alla larga. Washington, tuttavia, sa che le milizie sciite se ne infischiano delle truppe ONU e che invece di disarmare si rafforzeranno. Pertanto, a salvaguardia del governo Siniora da possibili macchinazioni ispirate da Teheran e Damasco, mantiene al largo della costa libanese la Joint Task Force Lebabon, pronta a entrare in azione in caso di necessità in quello che il presidente Bush ha definito il terzo fronte della guerra al terrorismo, insieme a Iraq e Afghanistan.

(RadioRadicale.it, 19 ottobre 2006)





5. PRIMO INCIDENTE NEL SUD DEL LIBANO




Per la prima volta si è verificato un incidente tra le "truppe di pace internazionali" nel sud del Libano e Hezbollah. Militari spagnoli hanno incontratto dei guerriglieri Hezbollah che non hanno permesso agli spagnoli di proseguire per portare a compimento la loro missione. Seguendo il protocollo, i soldati spagnoli hanno chiesto l'aiuto dell'esercito libanese, che ancora una volta non ha risposto e non è intervenuto. Gli spagnoli sono tornati alla loro base e hanno spiegato alla stampa del loro paese che probabilmente erano entrati in un campo di addestramento degli Hezbollah. Israele si è molto preoccupato di questo episodio, che dimostra quanto inefficace siano le "truppe di pace" e ha richiesto una spiegazione dalle Nazioni Unite.

(israel heute, 19 ottobre 2006)






6. DISTANZE ABISSALI FRA STATO D'ISRAELE E GOVERNO ITALIANO




Missili terra-aria Aster 15 per impedire le ricognizioni aeree nella Bekaa.

Israele accusa Prodi: “Vende armi al Libano”

di Dimitri Buffa

Altro che equivicinanza. Oramai tra il governo Prodi e lo stato di Israele le distanze si sono fatte abissali. Tanto che c’è da domandarsi quando scoppierà il caso diplomatico. Almeno se verranno confermate le notizie date ieri da Debka.com, il sito internet vicino allo Shin Bet e al Mossad, che accusa l’Italia, anzi più precisamente il premier Romano Prodi di avere dato istruzioni al suo fido ministro della Difesa Arturo Parisi di vendere rapidamente al governo di Fouad Siniora una fornitura di alcune batterie contraeree di missili Aster 15 che dovrebbero impedire le ricognizioni aeree dell’aviazione con la stella di Davide sulla valle della Bekaa in attesa che si dispieghino le forze dell’Unifil per monitorare i movimenti oltre confine dei terroristi dell’Hezbollah. Conferma autorevole della notizia viene dal fatto che il capo di stato maggiore libanese Michel Suleiman si è personalmente congratulato con il suo premier “per gli sforzi economici, diplomatici e militari fatti in questi mesi per dotare il paese di nuove armi di deterrenza contro il nemico sionista”.
    Insomma, vendiamo armi che dovranno servire a difendere con un deterrente servizio di contraerea le postazioni di Nasrallah da possibili attacchi israeliani. A tanto è arrivata la folle politica ormai dichiaratamente filo-terrorista dell’esecutivo in carica. Il prodotto che l’Italia ha intenzione di vendere a Fouad Siniora, premier del Libano, è in realtà una fabbricazione franco-italiana.
    Le fonti romane dei servizi israeliani sono prodighe di particolari e sembra che il nostro paese sia disposto a mettere a disposizione, oltre alle batterie di missili, anche il know how per farli funzionare e persino degli istruttori italiani che dovrebbero impratichire l’esercito, formato per oltre il 50% da sciiti non molto distanti dalle posizioni filo iraniane di Hassan Nasrallah. Sarebbe la prima volta che simili sofisticati sistemi di armamento potrebbero entrare in diretto possesso di estremisti e terroristi islamici della fazione sciita khomeinista. Secondo altre fonti di intelligence americana, l’esercito libanese presto potrebbe avere anche, dalla Francia stavolta, potenti missili anti-carro per prevenire nuove avanzate israeliane all’interno dei propri confini alla caccia di terroristi Hezbollah. In pratica l’Europa ha compiuto il miracolo di armare da una parte i terroristi foraggiati da stati canaglia come Iran e Siria che operano senza disturbo in Libano, e di indebolire dall’altra la possibile capacità di reazione di Israele in caso di altri attacchi da parte di Hezbollah o anche dei pasdaran iraniani i cui corpi sono stati trovati a decine in mezzo alle macerie dell’ultima guerra in Libano. E difatti per non essere da meno dell’Italia anche i francesi, secondo fonti della Difesa israeliana, avrebbero minacciato nei giorni scorsi di abbattere aerei con la stella di Davide in ricognizione sui cieli del Libano.
    Tutto questo iper attivismo però è solo contro il nemico sionista, perché dall’altra parte nessuno ha veramente intenzione di disarmare gli Hezbollah.
Incredibilmente per ora pare che il governo di Ehud Olmert abbia intenzione di mandare giù il boccone anche perché l’intera classe politica, di governo e non, è stata ridicolizzata dagli ultimi eventi. E sta nel caos per la conduzione disastrosa della guerra di luglio e per gli episodi tra il delinquenziale e la pochade grottesca di cui è accusato il presidente della Repubblica Moshe Katsav. Insomma è un momento buono per gli avvoltoi anti-israeliani di sinistra per colpire lo stato di Israele. L’unica circostanza che può avere un vago sapore polemico nei confronti del nostro paese è rappresentata dal ritardo inusuale dell’insediamento del nuovo ambasciatore a Roma Gideon Meir, il successore di Ehud Gol. Pare che dovrebbe presentare le proprie credenziali ai primi di novembre, ma intanto sono tre mesi che la rappresentanza diplomatica di Roma è vacante. Infine qualche dettaglio tecnico sugli Aster 15: sono di ultima generazione e vengono costruiti in Italia dal gruppo Alenia della Finmeccanica. Hanno una testata da 3 chili e mezzo e una velocità massima di oltre 3600 chilometri orari. Sono missili a due stadi con propellente “booster” e sono gli unici al mondo capaci di correzione di rotta verso il bersaglio anche a pochi istanti dall’impatto. Insomma dei gioiellini che finiranno quasi sicuramente in mano ai terroristi islamici. La prossima volta che Osama bin Laden o chi per lui vorrà buttare giù qualche grattacielo in America o in Israele è inutile che perda tanti anni, come ha fatto con Mohammed Atta, ad addestrare piloti suicidi. Stavolta glieli mandiamo noi i missili per l’attacco. E magari pure gli istruttori.

(L'Opinione.it, 19 ottobre 2006)





7. IL PARERE DI UN MILITARE ISRAELIANO




Sebbene il motto "guerra adesso" possa, forse, sembrare tremendo, e' vietato' dimenticarci che si sta parlando del nostro avvenire.
E' sperabile che pochi mesi ci siano bastati per capire gli insegnamenti della seconda guerra libanese e di come essa influenzera' il nostro futuro, cio' ci deve servire per farci capire quello che sta avvenendo nella striscia di Gaza.
Da quando ci ritirammo dal Libano sei anni fa nacque il dibattito su come effettuammo il disimpegno e come lo considerarono i nostri nemici.
E' augurabile che abbiamo appreso che occupandoci al piu' presto dei problemi eviteremo maggior sacrifici in futuro, e meno distruzione e perdite da parte dei civili di entrambe le parti. Oggi siamo di fronte allo stesso problema, stavolta al sud. Da quando abbiamo attuato il ritiro unilaterale dal Gush Katif e dalla linea difensiva "Filadelfia" il nemico si sta armando a dismisura. Tale rafforzamento ricorda esattamente cio' che avvenne allora nel sud del Libano. Ancora sino a poco tempo fa c'era chi si illudeva che gli egiziani avrebbero tenuto a bada ed a freno i palestinesi e c'era chi credeva che bastassero le intimidazioni e qualche movimento di truppe per impedire il lancio dei kassam. Pensammo che staccandoci da Gaza avremmo risolto tutti i nostri problemi.
Dopo la guerra in Libano dobbiamo trarre le logiche conseguenze e colpire i gruppi palestinesi il prima possibile. Tutti loro, da hamas a fatah, vogliono la nostra distruzione e non ci lasciano altra via di scelta se non combatterli.
Il nostro compito e' percio' colpire e far arretrare il nemico. Questo e' il momento, dopo sarà troppo tardi! Ci troveremo davanti a quello che era la situazione al nord. Perche' ora nel nord ci troviamo in un'altra fase. Poiche' abbiamo ritardato il momento giusto a colpire gli hezbollah, saremo costretti ad altri scontri sempre piu' difficili e con maggiori perdite. La situazione al nord e' gia' ritornata com'era prima del nostro intervento: armi, missili e combattenti; e' follia credere che qualcun altro compira' il lavoro al nostro posto!
Nascondere la testa nella sabbia non e' un programma di lavoro. Politici e dirigenti che danno false illusioni neanche risolveranno il problema.
Soltanto aprendo gli occhi e credendo fortemente nei nostri giusti e sacrosanti diritti potremo continuare a vivere nella nostra Terra. Il prezzo sara' alto, ma 2000 anni di esilio ci hanno insegnato molto bene che il prezzo di vivere il galuth (esilio) e' di gran lunga piu' caro.
Quando sto finendo di scrivere mi giunge la notizia che il ministro dell'assorbimento (sic!) Zeev Buim ha detto: «Non abbiamo scelta! Dovremo fare un'operazione "barriera difensiva" nella striscia di Gaza». Spero per il nostro bene che non siano solo vuote parole!
 
(Yehuar Gal, colonnello (riserva) dell'aviazione, "Milcamah acshav", Israeli, 19/10/2006, p. 12; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair).





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