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Notizie su Israele 387 - 27 aprile 2007

1. Israele non è un'impresa fallita
2. Una gigantesca manifestazione di ipocrisia
3. La voce dei giusti
4. «Noi siamo più forti dell'America e di Israele»
5. Intervista a Ghideon Meir
6. Ebrei messianici in TV
7. Libri
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Geremia 3:17. Allora Gerusalemme sarà chiamata il trono del Signore; tutte le nazioni si raduneranno a Gerusalemme nel nome del Signore, e non cammineranno più secondo la caparbietà del loro cuore malvagio.
1. ISRAELE NON E' UN'IMPRESA FALLITA




La vita in Israele

da un articolo di Yosef Lapid


Tel Aviv

Per descrivere la situazione in Israele mentre inizia il suo 60esimo anno, occorre un certo numero di parole greche: dicotomia, schizofrenia, paranoia. Leggendo i giornali, ascoltando la radio e guardando la tv, apprendo che qui tutto sta andando a pezzi, che Israele è il fallimento della visione sionista, che il nostro governo è corrotto, l'esercito è arrugginito, il sistema educativo è nel caos e il sistema sanitario è malato.
Ma quando esco e vado per la strada incontro un paese completamente diverso. Vedo gente ben vestita, ragazzini che chiacchierano nei cellulari, case che vengono restaurate. Vedo auto nuove, vedo metà della popolazione che va in vacanza: alcuni nel nord del paese, altri molto più a nord. Vedo caffè pieni, nightclub formicolanti, fioritura delle arti, spiagge affollate. Tutto sommato non è affatto male, la vita, qui in Israele.
Sì, lo so, sto parlando della sazia Tel Aviv senza considerare la disoccupazione nelle cittadine di sviluppo, e la povertà di Bnei Brak, e i ministri sotto inchiesta, e i sopravvissuti alla Shoà senza medicine, e gli scioperi nelle scuole, e il settore arabo trascurato, e la burocrazia che imperversa. E, naturalmente, il problema palestinese.
Ma io considero tutto questo, ed è tutto vero e triste. Ci sono un sacco di cose che devono essere cambiate, messe a posto, riesaminate. Eppure, non è affatto male la vita, qui in Israele.
C'è una enorme distanza fra lo stato di Israele per come si vede riflesso nei mass-media e lo stato di Israele nella realtà. Il mestiere dei mass-media è quello di criticare. È questo il servizio che devono fare al pubblico. Allo stesso tempo, però, creano un'atmosfera di avvilimento e sconforto, e facendolo non rispecchiano un'immagine veritiera della realtà.
Anche se Israele soffre, in maggiore o minor misura, dei malanni che affliggono ogni paese al mondo, la qualità della vita qui migliora di anno in anno, e cresce lo standard di vita. Guardando indietro, è chiaro che oggi Israele supera di gran lunga tutte le aspettative e le speranze dei suoi fondatori.
Certo, non abbiamo gli stessi ideali di una volta, e non ci sono più ideologie, idealizzazioni e idoli. Ma l'aspettativa di vita si è allungata di sei anni (sanità), il 97% della popolazione sa leggere e scrivere (istruzione), più di metà delle famiglie possiede una macchina (economia), e nel 99% delle cucine israeliane c'è un frigorifero (benessere).
Naturalmente le cose sono ben lontane dall'essere perfette. Ma presentare Israele come un'impresa fallita e la sua popolazione come masse di gente straziata non è solo un'esagerazione e una diffamazione, è una pura e semplice bugia. La vita non è affatto male, in Israele.
Non dico, come il filosofo Gottfried Leibniz, che questo sia "il migliore dei mondi possibili". Ma certamente respingo come una sciocchezza l'idea che, per via di alcuni politici discussi, Israele sia uno stato corrotto e miserabile. I mass-media hanno ragione quando rivelano le magagne, ma sbagliano quando si mettono a sparare a zero contro tutto ciò che si muove.
Sono convinto che, date le circostanze, il mondo che abbiamo creato qui non è affatto male. E che, sì, la vita è bella in Israele.

(Jerusalem Post, 26 aprile 2007 - da israele.net)





2. UNA GIGANTESCA MANIFESTAZIONE DI IPOCRISIA




I sauditi chiedono il suicidio di Israele
e subito piace la loro "proposta di pace"


di Giorgio Israel

I francesi lo chiamano "langue de bois", lingua di legno. È il linguaggio politico dell'ipocrisia, delle formule vacue miranti a difendere una versione ufficiale, anche se non ha alcun rapporto con la realtà. La "langue de bois" domina in certi commenti sulla "proposta di pace" dell'Arabia Saudita che la vantano come una nuova e grande opportunità. Al contrario, si tratta della "soluzione" più vecchia e irrealistica: il ritorno di Israele entro i confini precedenti la guerra del 1967, con la divisione di Gerusalemme in due e l'accettazione del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e discendenti, generosamente stimati in 5 o 6 milioni. È una soluzione superata dalla risoluzione 242 dell'Onu – che prevede il ritiro di Israele "da" (e non "dai") territori occupati – , dalle bozze di accordo di Camp David, ed anche dall'"intesa" di Ginevra raggiunta informalmente da esponenti "progressisti" delle due parti. Oltretutto in quelle bozze di intesa si offriva a Israele una vera pace, mentre qui si prospetta soltanto la possibilità di "relazioni normali" e non si parla di una soluzione definitiva. In sostanza, è una linea coerente con quella del governo palestinese di Hamas, che alle condizioni saudite accetta di stabilire una "hudna" (tregua) anche ventennale, per poi giungere alla fase finale della vertenza. In che senso "finale" è facile immaginare, dopo che Israele avesse accettato di accogliere sulla propria terra qualche milione di palestinesi, mettendosi in condizioni analoghe a quelle in cui si troverebbe la Polonia se accettasse di accogliere i tedeschi espulsi dai suoi territori, inclusi i discendenti: una ventina di milioni.
    Chi loda la proposta saudita si esibisce in una gigantesca manifestazione di ipocrisia, il cui unico fine è di accusare Israele di non volere la pace perché non accetta di suicidarsi. Anche se al posto del debolissimo governo Olmert ve ne fosse uno capace di imporre al paese i più duri sacrifici, non potrebbe comunque accettare una proposta come quella, per tante ragioni di cui si parla spesso: Israele si metterebbe in una condizione di grave debolezza strategica, accanto a un'entità palestinese che non ne vuol sapere di offrire garanzie; il carattere drammatico di un ritiro da Gerusalemme con la rinuncia al principale luogo santo dell'ebraismo; l'impossibilità fisica di accogliere tanti palestinesi senza distruggere seduta stante il paese. Ma vi sono ragioni ancor più elementari. Israele non è riuscita ancora a riassorbire i 7000 concittadini rientrati da Gaza, che continuano in gran parte a vivere penosamente in prefabbricati. Israele è un paese con tanti poveri. Coloro che la dipingono come una ricca Sparta dovrebbero fare un viaggio per rendersi conto della realtà. Se Israele facesse rientrare di colpo 200.000 persone dal West Bank si trasformerebbe in una tendopoli. Per di più, una tendopoli sotto i missili che continuano a piovere da Gaza e che potrebbero di nuovo piovere dal Libano.
    In realtà ai sauditi della pace in Palestina non importa nulla. Essi, con l'accordo della Mecca e con questo piano tentano di stabilire un terreno di intesa con l'Iran, Hamas e Hezbollah, e di rilanciare la loro influenza sul mondo arabo e islamico. La conferenza di Riyad ha offerto il solito panorama di disunione del mondo arabo e un tentativo di incollare i cocci con un accordo unanime sulla pelle di Israele. Quale governo israeliano potrà mai accollarsi di pagare da solo il prezzo di un rifiuto e di una crisi: il rifiuto della democrazia da parte del mondo arabo e islamico e la drammatica fase di debolezza dell'Occidente?

(Tempi, 19 aprile 2007)





3. LA VOCE DEI GIUSTI




Gabriella ricorda l'orrore della Shoah:
«Tendete la mano a chi ne ha bisogno»


I testimoni della Shoah da anni raccontano la loro storia ai giovani delle scuole per perpetuare la memoria, affinché non riaccada ciò che è stato. Eppure le voci dei salvatori, di coloro che con coraggio hanno messo in salvo famiglie intere di ebrei, sono ancora una rarità.
    Ieri per la prima volta una «salvatrice» ha raccontato la sua storia a settanta ragazzi della scuola media superiore «Arturo Toscanini» di Roma. Gabriella Fedeli aveva quattordici anni, all'alba del 16 ottobre 1943 ha sentito bussare alla porta di casa: dall'altra parte c'era la famiglia Roccas, che quando guardò quella porta spalancarsi, vide finalmente uno spiraglio di salvezza. Così i Fedeli con coraggio accolsero in casa loro una famiglia di ebrei, di cui faceva parte Fabrizio che aveva poco più di otto anni. I Roccas stettero dai Fedeli per venti giorni, condividendo con loro interminabili momenti di angoscia profonda, poi Amedeo Fedeli, che era direttore della legatoria vaticana, trovò un rifugio per ognuno di loro. Nei mesi successivi il signor Amedeo non abbandonò i Roccas neanche per un istante, rassicurandoli e tenendoli costantemente informati sulle condizioni dei loro famigliari nascosti nei conventi e nei collegi, facendogli da raccordo per i mesi più difficili e tragici che la storia dell'ebraismo italiano ricordi.
    «Sono molti anni che vado nelle scuole a raccontare le mie memorie di allora. Questa volta vi ho portato la voce dei giusti - spiega Fabrizio Roccas presentando Gabriella agli alunni della scuola romana-. Voi ragazzi sentite spesso parlare di queste figure che hanno salvato intere famiglie, ma non li avete mai conosciuti personalmente. Invece i loro racconti sono importanti quanto i nostri, perché esprimono una testimonianza di ciò che è stato». I ragazzi ascoltano a lungo e in silenzio le parole di Fabrizio e Gabriella, incuriositi da quel legame unico che ancora oggi unisce i due e li unirà per sempre. Così gli alunni della terza media chiedono a Gabriella se non avesse avuto paura a nascondere i Roccas dentro casa, e se la decisione di ospitarli fosse stata frutto dell'eroismo o dell'incoscienza: «Tremavamo dalla paura, anche se non sapevamo ancora cosa stesse accadendo nel mondo, capivamo che stavamo rischiando la vita - risponde lei -. Non si può chiudere la porta in faccia a chi ti chiede aiuto. Certo, abbiamo salvato una famiglia intera, ma non si trattava di essere eroi e compiere un'opera buona, lo abbiamo fatto istintivamente, con sentimento come se fosse una cosa normale».
    Oggi Fabrizio ha fatto aprire a Gerusalemme la pratica per il conferimento della Medaglia dei Giusti alla famiglia Fedeli, perché seppur Gabriella glissi gli elogi, nascondere un ebreo durante la Shoah era un gesto eroico. «Voi siete il nostro avvenire e siete voi che dovete dare seguito alla nostra memoria - dice Gabriella congedandosi dalla giovane platea -. Chiedete sempre, fate domande su ciò che è stato e ricordate che quando tendete una mano a chi è in difficoltà non sbagliate mai».

(Il Giornale, 24 aprile 2007)





4. «NOI SIAMO PIÙ FORTI DELL'AMERICA E DI ISRAELE»




''Oh Allah, uccidi gli ebrei, annienta l'America e Israele"

Brani da un sermone tenuto dal presidente ad interim del Consiglio Legislativo dell'Autorità Palestinese Ahmad Bahr (membro di Hamas), trasmesso dalla tv sudanese lo scorso 13 aprile.

"Voi sarete vittoriosi su tutta la faccia della Terra. Voi siete i padroni del mondo, su tutta la faccia della Terra. Sì, il Corano dice: Voi sarete vittoriosi, ma solo se sarete credenti. Ad Allah piacendo, voi sarete vittoriosi, mentre America e Israele saranno annientate.
Io vi garantisco che la potenza del credo e della fede è più grande della forza di America e Israele. Loro sono codardi, come è scritto nel libro di Allah: Voi troverete in loro i popoli più ansiosi di proteggere la propria vita. Sono dei codardi ansiosi di vivere, mentre noi desideriamo morire nel nome di Allah. Ecco perché l'America si trova col naso nel fango in Iraq, in Afghanistan, in Somalia e dappertutto. L'America sarà annientata, mentre l'islam rimarrà. La volontà dei musulmani vincerà, se sarete credenti.
Oh musulmani, io vi garantisco che la potenza di Allah è più grande della forza dell'America, dalla quale tanti sono oggi accecati. Alcuni sono accecati dalla potenza dell'America. A costoro noi diciamo che, con la forza di Allah, con la forza del Suo Messaggero, noi siamo più forti dell'America e di Israele. Io vi dico che noi proteggeremo la resistenza, giacché il nemico sionista capisce solo il linguaggio della forza. Esso non riconosce né la pace, né gli accordi. Non riconosce nulla, e capisce solo il linguaggio della forza.
Il nostro popolo palestinese che combatte la jihad saluta il fratello Sudan.
La donna palestinese dice addio a suo figlio e gli dice: Figlio, va' e non essere codardo. Va' e combatti gli ebrei. Lui le dice addio e compie un'azione di martirio. Cosa dice questa donna, quando viene chiesta la sua opinione, dopo il martirio di suo figlio? Lei dice: Mio figlio è carne della mia carne, sangue del mio sangue. Amo mio figlio, ma il mio amore per Allah e il Suo Messaggero è più grande del mio amore per mio figlio.
Sì, questo è il messaggio della donna palestinese, che aveva più di 70 anni: Fatima Al-Najjar. Aveva più di 70 anni, ma si fece esplodere lei stessa per Allah, abbattendo molti criminali sionisti.
Oh Allah, sconfiggi gli ebrei e i loro sostenitori. Oh Allah, sconfiggi gli americani e i loro sostenitori. Oh Allah, contali e uccidili tutti, fino all'ultimo. Oh Allah, dà loro una giornata di tenebre. Oh Allah che inviasti il Libro, motore dei cieli vincitore dei nemici del Profeta, sconfiggi gli ebrei e gli americani, e donaci la vittoria su di loro".

Video: cliccare ---> qui

(MEMRI, 20 aprile, 2007 - da israele.net)





5. INTERVISTA A GHIDEON MEIR




«L'Europa non finanzi i terroristi di Hamas»

di Alessandro M. Caprettini

Il sogno nel cassetto? Quello di portare l'interscambio Italia-Israle da 2,5 a 8,4 miliardi di dollari. «E cioè pareggiare quello tra Italia e Iran...», ride divertito.

prosegue ->
Materia per collaborazioni ce n'è: medicina, tecnologie di alto livello, cultura e tanto altro. Ma il presente resta grigio. E alla festa per i 59 anni del suo Paese, proprio oggi, Ghideon Meir, ambasciatore di Gerusalemme a Roma da solo 7 mesi, si presenta più allarmato che felice. «In tutti questi anni non è cambiato nulla. Anzi, forse le minacce alla nostra esistenza sono aumentate visto che a quelle ben note si aggiunge ora anche quella nucleare e che quello che facciamo per difendere le nostre case, nessuno, anche tra gli amici, lo ha fatto né lo farà mai...».

• Paesi amici. L'Italia lo è?
«Diciamo che c'è un buon dialogo con l'attuale governo, che abbiamo apprezzato quando è stato il primo a dirsi disponibile a inviare truppe nel sud del Libano, dopo gli scontri dell'anno scorso. Certo, questo non vuol dire che ci sia accordo su tutto. Ma nel corso di incontri con Prodi e D'Alema ho trovato interlocutori attenti, come del resto lo erano Berlusconi e Fini che ebbero anzi un ruolo fondamentale per fare inserire Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche».

• Capisco che di Hamas continuate a non fidarvi...
«Si fiderebbe di un movimento che sostiene in maniera per nulla implicita che Israle va distrutto? Guardi che lo dicono ad alta voce, anche dopo la formazione del governo di coalizione con Fatah. Loro non dicono "due popoli e due Stati" come ormai accettano tanti in Israele e anche in qualche Stato arabo: loro pretendono "un solo Stato". Il che presuppone la disintegrazione di Israele».

• È per questo che vi opponete alla riapertura dei rubinetti finanziari europei ai palestinesi, che Abu Mazen (oggi arriva a Roma, ndr) va perorando?
«Chi ha posto condizioni per riavviare i finanziamenti ai palestinesi non siamo stati noi, ma la comunità internazionale. E però accade troppo spesso che se l'Onu o la Ue avanzano una nuova idea per la pace e Israele dice sì e i palestinesi al contrario dicono di no, ecco che le stesse comunità internazionali cominciano a pressare noi, e non chi si oppone... Strano? Purtroppo è così. E dunque se si riavviassero i finanziamenti europei al governo palestinese dove Hamas domina, ecco che si fornirebbero soldi non per la pace, ma al terrorismo».

• Ne è sicuro?
«La striscia di Gaza è un arsenale pronto a esplodere. Nelle ultime settimane abbiamo sventato due enormi attentati e sappiamo che aumenta il numero dei missili Kassam che vengono nascosti. Solo il nostro esercito e la nostra intelligence riescono a sventare le minacce che ci sono portate quotidiamente».
Ma il piano di pace saudita? Credete o no che possa cambiare lo stato delle cose?
«Alcune cose, come i due Stati, paiono positive. Ma nel recente vertice a Beirut della Lega Araba si è tornati all'idea del "diritto di ritorno" che esclude che possano esserci due Stati. Una pura pretesa di sparizione dello Stato ebraico che per noi è inammissibile. Spero l'Europa ne tenga conto».

• Ambasciatore Meir, perché alcuni in Europa, e anche in Italia, non amano Israele?
«Intanto perché trasformare la vittima in aggressore, sana i sensi di colpa, come dimostra il fatto che spesso accomunano le nostre azioni militari a quelle dei nazisti! Poi resta una robusta dose di antisemitismo, spesso mascherato da antisionismo. Ancora, ci si giudica con gli occhiali del colonialismo europeo e naturalmente c'è di mezzo la crescita dell'Islam nel Vecchio continente. Non siamo anti-musulmani, ma non possiamo far finta di niente davanti a un integralismo che si fa antisemita e vuole distruggerci».

• Una cura possibile?
«Maggiore conoscenza di quel che siamo: una democrazia vera, tant'è che la nostra Corte suprema ha vietato partiti razzisti anti-arabi e che nel nostro Parlamento sono eletti arabi che vogliono la fine dello Stato di Israele. Più interscambi, culturali, commerciali, turistici. Sapere che noi vogliamo la pace davvero. Ma che troppo spesso ci troviamo davanti a un muro».

• Ultima questione: il Libano. Funziona la forza d'interposizione europea?
«Con la guerra siamo riusciti ad allontanare Hezbollah dai nostri confini e a distruggere i loro arsenali missilistici. Confidiamo che il contingente Unifil esegua il compito affidatogli sotto il comando italiano perché altrimenti si potrebbe nuovamente arrivare allo scontro. Sappiamo che i rifornimenti d'armi dalla Siria al terrorismo sono ripresi e abbiamo anche fornito prove. Quel che accadrà prossimamente nel Libano del sud è un interrogativo aperto di cui si discute molto anche a Gerusalemme. Ci auguriamo tutti che l'Europa si renda conto del ruolo vitale che sta giocando là, a cominciare dal governo italiano».

(Il Giornale, 24 aprile 2007)





6. EBREI MESSIANICI IN TV




Recentemente la televisione israeliana ha mandato in onda un reportage di sette minuti del giornalista Shlomo Raz sugli ebrei messianici. «Effettivamente, autentici ebrei "kosher" che credono in Yeshua...», con queste parole il moderatore televisivo ha introdotto il suo servizio. Se all'inizio c'erano soltanto singoli ebrei messianici in Israele che in privato confessavano la loro fede, a poco a poco sono sorte numerose comunità che oggi contano in totale circa 15.000 membri, di cui un terzo sono ebrei.
    Viene ripresa la famiglia Ronen di Yad Hashmona a pranzo: la figlia più piccola recita la preghiera prima del pasto nel nome di "Yeshua HaMashiach". Nel sottofondo si sente la musica di un inno di lode ebraico.
    Nella famiglia Bar David da diverse generazioni ufficiali di alto rango servono nell'esercito israeliano. I figli, che in questo momento stanno facendo servizio in unità speciali, prendono la parola: «Come prima cosa siamo ebrei che rimangono fedeli allo Stato, come il Tanach (Antico Testamento) e il Nuovo Testamento raccomandano», dichiara Zuriel Bar David.
    Un bambino messianico dice: «Qualche volta ci gridano dietro: Ehi voi, nozrim!» (termine canzonatorio per i cristiani gentili).
    Il servizio documenta un modo di vivere familiare tipicamente ebraico. Sugli stipiti delle porte non mancano neppure le mesusa [piccoli astucci contenenti versetti biblici], come anche le candele per lo Shabbat.
    Ajelet Ronen interviene dicendo che gli dà fastidio quando storpiano il nome di Yeshua, perché gli ebrei di solito dicono "Yeshu" invece di Yeshua. Verso la fine del servizio si sente la voce del moderatore che pronuncia la forma giusta e completa del nome: "Yeshua, Ben HaElohim, Mashiach", Gesù Figlio di Dio e Messia.
    Poi per la prima volta viene ripreso in TV un culto ebreo-messianico. L'unica comunità che si è resa disponibile per questo è stata Shemen-Sasson di Gerusalemme, guidata da John e Calev Myers. Pochi giorni prima Calev, avvocato di un prestigioso ufficio legale, in una riunione di preghiera aveva detto che i credenti in Gesù devono integrarsi in tutti i settori della società israeliana, ivi compresi i media e la politica. Lo spettatore vede la comunità cantare inni di lode e sente dire preghiere per Israele e per il governo.
    Nella trasmissione vengono inseriti anche degli estratti di un precedente reportage in cui si vedono dei Gur-Chassidim [ebrei ortodossi] in Arad che si scagliano imprecando contro dei credenti in Gesù. Gli ortodossi appaiono in una luce poco favorevole. Verso la fine il giornalista Raz fa vedere come nella via dei Profeti di Gerusalemme si radunano 15 comunità, porta a porta con il quartiere ortodosso della città.
    Alla fine del servizio si è di nuovo dai Ronen, mentre tutta la famiglia all'inizio dello Shabbat canta "Shalom alechem, malachei hascharet", esattamente come è uso in ogni famiglia ebraica.
    La risposta del pubblico è stata sorprendentemente positiva. Per la prima volta un rapporto veramente positivo sopra gli ebrei messianici in Israele! (MS)

(israel heute, aprile 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





7. LIBRI




Fiamma Nirenstein, Israele siamo noi, Rizzoli, 2007

Dalla copertina

La tesi del nuovo libro di Fiamma Nirenstein è semplice e insieme rivoluzionaria, dato che va contro una propaganda pervasiva purtroppo diventata senso comune: Israele è un modello positivo di convivenza civile, proprio perché è fondato su un'ideologia - il sionismo - che propone un modo di vita insieme laico e carico di valori, attento ai bisogni della collettività e alla libertà degli individui, fondato sulla pace e sul progresso, alieno per sua natura dalla violenza, Quante volte, invece, abbiamo sentito la stampa internazionale, i partiti di sinistra europei, le organizzazioni non governative, ministri e diplomatici di grandi nazioni, l'Onu stessa paragonare il sionismo all'imperialismo o addirittura al razzismo, e accusare Israele di colonialismo e crimini di guerra? Uno pseudopacifismo a senso unico che, per malafede o per incoscienza, non abdica al pregiudizio - storicamente infondato - secondo cui Israele occupa territori che non gli spettano, Quel che è nuovo, oggi, è che Israele e tutti i suoi abitanti, sia ebrei sia arabi, sono direttamente minacciati di estinzione da parte del terrorismo suicida e di coloro che - come Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina e l'Iran di Ahmadinejad, imminente potenza nucleare - negano che l'Olocausto sia un dato della storia, che Israele sia uno Stato legittimo e sovrano, e anzi affermano apertamente di voler cancellare il "nemico sionista" dalle carte geografiche, Ma Israele siamo noi, perché la minaccia che lo sovrasta incombe su tutta la nostra civiltà occidentale, attaccata dall'estremismo islamico, Per noi europei cresciuti da un sessantennio nella bambagia della pace, Israele è un esempio di società democratica costretta ad affrontare una guerra di difesa per la propria sopravvivenza, Rifiutarsi di comprenderlo significa non voler vedere il futuro che ci attende.


Alcuni estratti

Per questo, come abbiamo spiegato, l'esercito israeliano, tenendo fermo l'imperativo categorico della difesa, pure è costruito in modo tale da non ignorare la dottrina basilare dell'uomo moderno, la legge internazionale e l'ispirazione umanista del sionismo. Ma ecco la maggiore causa di antipatia del mondo dei media verso questo Paese: l'invidia etica. Il radicale antagonismo del giornalismo internazionale nasce nell'idea che Israele, pure in perenne guerra contro nemici carichi di un odio primitivo e nazista, pure si sia messo in testa - questi, presuntuosi ebrei che credono ancora di essere il popolo eletto - di agire preservando una fiaccola di moralità. È proprio questa fiaccola che i giornalisti, portavoce della decadenza dell'Occidente, vogliono strappare a Israele, rappresentandolo come il criminale di guerra per eccellenza.

Nella più profonda sofferenza gli ebrei non hanno mai dimenticato la loro madrepatria, Israele. Lo hanno amato per duemila anni e più, come oggi. Anche nei campi di concentramento gli ebrei pregavano volti verso Gerusalemme e invocavano il ritorno nella loro città elettiva. Non stupisce che Winston Churchill abbia detto: «Dovete lasciare che siano gli ebrei ad avere Gerusalemme: sono loro che l'hanno resa importante». Dopo millenni in cui ogni giorno gli ebrei hanno pregato per tornare a casa, una volta riuscitici vivono con spirito di missione questa fase storica, che siano religiosi e credano in un dono di Dio, o laici e credano nell'eccellenza umana.
Ci può essere un movimento più morale di quello che vuole tornare alla propria madrepatria per costruirvi una democrazia, nonostante dintorno il panorama sia disseminato di dittature? Che resiste dal primo giorno della sua nascita all'assalto di forze sempre totalitarie, sempre antisemite, sempre terroriste? Nonostante Israele sia costruito sul confine di Stati per lo più aggressivi e islamisti, assediato da movimenti pieni di odio verso l'Occidente cristiano ed ebraico, gli israeliani da soli, senza chiedere aiuto a nessuno, hanno resistito agli attacchi creando un tipo di cittadino per cui la democrazia risulta la trincea della sua stessa salvezza. Vero o falso, così sente la destra e la sinistra.

Tre sono gli elementi che fanno pensare che lo sterminio [degli ebrei] sia possibile. Uno, il fatto che gli ebrei siano radunati nello stesso luogo geografico, dove è facile minacciarli, e che si preparino concretamente le armi per farlo. Due, il fatto che lo scenario strategico che circonda Israele sia quello di una grande guerra islamista che non ha niente a che fare con una disputa territoriale ma con il jihadismo, e che il nemico è molto deciso. E tre, il fatto che l'antisemitismo sia tornato a essere molto diffuso, e quindi costituisca uno sfondo in cui la disponibilità a un appeasement sia simile a quella dell'Europa degli anni Trenta.

La mentalità ecumenico-umanista-progressista, molto aperta nei confronti dei non ebrei che si immaginava incarnassero gli stessi valori, si fece spazio tra gli ebrei italiani a partire dal secondo dopoguerra. Essere ebreo, per una sua certa interpretazione, vuol dire, paradossalmente, cercare quante più similitudini possibili con chi non lo è; credo che anche il mondo cristiano dopo lo shock della Seconda guerra mondiale abbia cercato e trovato la sua identificazione con la parte vincitrice in Italia, la Resistenza e poi la sinistra. È rimasto nella nostra cultura il prendere la strada opposta a quella della specificità ebraica, immaginarsi, per quanto possa sembrare strano, che l'ebraismo di fatto si potesse definire attraverso l'universalismo, attraverso l'assorbimento di un universo morale ed estetico mutuato da ciò che più colpisce la fantasia progressista. Stranieri, senza radici, poetici, inermi, vittime del potere, alieni alla concezione dello Stato, alla violenza, indifesi, con una cultura etnica e scarse capacità belliche e tecnologiche... Come gli immigrati, i neri, le donne, i bambini, il Terzo mondo, o anche come un vicino di casa cristiano che non mangia maiale.





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