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Notizie su Israele 390 - 24 maggio 2007

1. Sderot sotto tiro
2. L'Iran è un pericolo credibile?
3. La questione dell'identità ebraica
4. Intellettuali ebrei contro Israele
5. Panorama messianico in Israele
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Deuteronomio 30:1-2. Quando tutte queste cose che io ho messe davanti a te, la benedizione e la maledizione, si saranno realizzate per te e tu le ricorderai nel tuo cuore dovunque il Signore, il tuo Dio, ti avrà sospinto in mezzo alle nazioni e ti convertirai al Signore tuo Dio, e ubbidirai alla sua voce, tu e i tuoi figli, con tutto il tuo cuore e con tutta l'anima tua, secondo tutto ciò che oggi io ti comando.
1. SDEROT SOTTO TIRO




Gli effetti dei Qassam sui cittadini israeliani

di Elena Lattes

Razzo Qassam
Ho letto un articolo che davvero mi ha fatto paura. Una paura oscura, che non sai da dove arriva. Cos'è? E come è possibile. La giornalista autrice del reportage racconta un colloquio con una dottoressa in servizio a Sderot, la città israeliana più vicina alla Striscia di Gaza, sulla quale da più di sei anni non hanno mai smesso di cadere i razzi Qassam. Dal 2001 oltre 4.500, dice la dottoressa. Ma in questi giorni pare che la situazione si sia aggravata. Perchè, come abbiamo qui riferito, i bombardamenti tra palestinesi e israeliani si sono fatti più intensi e sono continuati a piovere, a quanto pare, i terribili Qassam. Sono fabbricati nella Striscia e sono dei Katyusha ma più piccoli, i quali provocano danni materiali inferiori. Ma quelli psicologici sarebbero addirittura irreversibili. Come è possibile, e di che si tratta?
Lo chiamano il post-traumatic stress disorder (PTSD), un disturbo che colpisce chi si trova in zone di guerra. Almeno la metà della popolazione di Sderot (in tutto circa 24.000 abitanti) ha bisogno di cure, dice la dottoressa Adriana Katz, 59 anni, che dirige la clinica per la salute mentale di Sderot e il Trauma Center per il trattamento immediato delle vittime da shock. Di origini rumene, è giunta in Israele venti anni fa con il marito, dopo averne trascorsi sedici in Italia, a Padova. Il suo lavoro è come una missione, spiega. Ma è sempre più dura, perché anche il personale della clinica soffre attacchi di ansia.

"Non sai mai quando potrebbe capitare a te", racconta in una intervista a Il Sole 24 Ore. "Può accadere per strada, in clinica, mentre mangi... non hai neanche il tempo di ripararti, perché trascorrono solo 15 secondi dal suono della sirena all'impatto. Qui non è come ad Haifa, gli edifici non hanno rifugi, non hanno protezione, i muri sono fatti di cartone".

"Questi missili sembrano giocattoli, rispetto ai Katyusha. Ma quando abbiamo capito che questo 'giocattolo' uccide, quando un giorno è stato ucciso un bambino, poi un nonno, poi una donna è rimasta senza le gambe.... allora abbiamo incominciato a capire. E ad impaurirci. Non hanno smesso un solo giorno di sparare Qassam, nonostante il cessate il fuoco."

Lo scopo a quanto pare è terrorizzare. "Esattamente - dice la dottoressa - . Ma non solo, perché oltre a terrorizzare, talvolta ammazzano. Sparano senza nessun criterio. E allora, di colpo, la paura ha incominciato a impadronirsi dei cittadini. Ormai ha preso delle dimensioni serie."

"Ci sono vari tipi di cure e le applichiamo tutte insieme: terapia con i farmaci, psicoterapia, gruppi e varie tecniche. Facciamo del nostro meglio per non arrivare alla diagnosi del PTSD, che è irreversibile. Alcuni pazienti però non rispondono alle terapie. Quindi abbiamo un buon numero di Post Traumatici che praticamente hanno finito di vivere: hanno dei flash back e continuano a rivivere la paura. E' qualcosa che somiglia tanto alla schizofrenia e malgrado i molti metodi di cura i risultati sono limitati."

(Fuori dal Ghetto, 22 maggio 2007)

* * *

L'Agenzia Ebraica e il Keren Hayesod rispondono alla crisi.

L'Agenzia Ebraica mette a disposizione 2 milioni di dollari per aiutare gli abitanti di Sderot durante quest'ultima emergenza.
Il Keren Hayesod, le Comunità Ebraiche Unite e l'UIA Canada finanzieranno un campo di una settimana per 8.000 bambini residenti a Sderot e provincia.


L'Agenzia Ebraica ha ricevuto 2 milioni di dollari in fondi di emergenza dal Keren Hayesod, dalle Comunità Ebraiche Unite e dall'UIA Canada per portare nel centro del Paese, per un campo di una settimana, tutti gli 8.000 bambini che vivono a Sderot e provincia. Il presidente dell'Agenzia Ebraica Zeev Bielski ha annunciato il progetto venerdì scorso (18 maggio), durante una visita a Sderot.
Quando all'inizio della settimana i bombardamenti su Sderot sono diventati più intensi, L'Agenzia Ebraica ha iniziato ad offrire assistenza agli abitanti. Mercoledì, l'agenzia Ebraica ha portato un gruppo di 250 bambini e adolescenti a vedere la finale della coppa israeliana di calcio a Tel Aviv. Giovedì l'Agenzia Ebraica ha fatto arrivare a Sderot un camion pieno di provviste base per i rifugi, inclusi apparrecchi elettrici, luci d'emergenza, e prodotti per la pulizia. Oggi, l'Agenzia Ebraica porterà 150 ragazzi della zona a Gerusalemme per un fine settimana; i bambini e gli adolescenti dormiranno negli ostelli della gioventù di Gerusalemme e visiteranno attrazioni turistiche e luna park.
L'Agenzia Ebraica ha anche messo a disposizione 20.000 dollari dal suo fondo per le Vittime del Terrorismo per poter offrire assistenza immediata a coloro che sono stati feriti durante i bombardamenti di missili kassam. Inoltre, l'Agenzia Ebraica offrirà assistenza finanziaria agli esercenti e alle aziende che sono stati danneggiati dai bombardamenti.
"Come durante la guerra in Libano dell'estate scorsa, l'Agenzia Ebraica, le Comunità Ebraiche Unite, l'UIA Canada e il Keren Hayesod sono qui per aiutare gli abitanti di Sderot e provincia che si trovano sotto tiro e vivono in condizioni impossibili", ha detto il presidente dell'Agenzia Ebraica Zeev Bielski durante la sua visita di venerdì a Sderot per supervisionare il lavoro dell'Agenzia nella zona.

(Keren Hayesod, 21 maggio 2007)





2. L'IRAN È UN PERICOLO CREDIBILE?




Menashe Amir è un giornalista iraniano che ogni giorno conduce dalla radio israeliana un popolare programma in lingua pharsi.

"Ahmadinejad è una minaccia vera", intervista a Menashe Amir

di Arturo Varvelli

MILANO - Gli ebrei sono in Iran da molto prima che nella sua storia si affacciassero i musulmani e amano spesso ricordarlo. Fu proprio uno scià persiano, Ciro il Grande, a liberarli dalla prigionia babilonese. La comunità ebraica iraniana è una delle più radicate del Medio Oriente e spesso ha convissuto senza alcun problema. Ma molte cose sono cambiate con la rivoluzione. Il senso di appartenenza è profondo. La vita per la comunità è stata spesso dura, ma andarsene è comunque una scelta lacerante. Lo fu nel 1979, quando le minacce della Repubblica islamica erano soltanto oscuri presagi e lo è adesso che quelle stesse minacce le ripropone Mahmoud Ahmadinejad. Chi parte conserva tanta nostalgia e non smette di amare l'Iran, sovrapponendogli però l'odio per i suoi governanti. Il Presidente dello Stato d'Israele, Moshe Katsav, attualmente sospeso dalle sue funzioni, è uno di essi. Lo è anche Menashe Amir, giornalista e conduttore radiofonico, che dalla radio israeliana di stato tiene tutti i giorni un programma in lingua persiana. Il presidente fu ospite della trasmissione di Amir nel 2003 quando rispose a numerose domande della comunità ebrea in Iran ed ebbe modo di commuoversi ripercorrendo passaggi importanti della sua vita nella terra d'origine. Allora sembravano poterci essere possibilità di dialogo tra i due paesi, non erano ancora i tempi di Ahmadinejad.
Abbiamo chiesto a Menashe Amir, in Italia per partecipare ad un incontro con i giornalisti italiani e gli studenti del prestigioso Collegio di Milano, di commentarci gli ultimi sviluppi sull'Iran.

Menashe Amir, come valuta la volontà dichiarata dell'Iran di possedere tecnologia nucleare? Vi è unanimità di convinzione all'interno della dirigenza iraniana?
Bisogna comprendere che in Iran vi sono diversi centri di potere. All'interno della classe dirigente c'è un certo dibattito. Il gruppo che fa capo ad Ahmadinejad vuole giungere ad ottenere la bomba atomica ad ogni costo e a qualsiasi prezzo. Il loro ultimo scopo è questo. Vi è poi alle spalle un gruppo più moderato che mira invece ad ottenere in breve termine la "scienza atomica".

È solo una differenza tattica tra i due gruppi o anche strategica?
È solo tattica, tutti mirano comunque a ottenere l'arma nucleare, ma il gruppo più moderato è più intelligente: è disposto anche a sospendere la produzione dei reattori con lo scopo di calmare le proteste internazionali, alleggerire le pressioni e poi ricominciare nel silenzio. Questi temono infatti che forzando la situazione si corra il pericolo di mettere a rischio l'esistenza stessa dell'Iran islamico, che è la cosa più importante di tutte proprio secondo i dettami di Khomeini.

Queste differenze all'interno della classe dirigente traspaiono all'esterno?
Parzialmente il dibattito interno si rivela, anche se la stampa naturalmente è tutt'altro che libera. Io in questo caso direi che l'Iran è il più democratico dei paesi non democratici.

Quale è la posizione di Khatami e quale quella dei riformisti?
Khatami sembra nascondere la sua opinione, non tiene una posizione chiara. Di fatto mantenendo il silenzio approva le decisioni. Non mi sembra aver coraggio. I riformisti altrettanto. Rafsanjani non parla più in pubblico. Per interpretare la politica iraniana bisogna continuamente saper leggere tra le righe, ma nessuno sembra avere il coraggio di azzardare un cambio di linea, di mutare la strategia.

Come vengono percepite le minacce di Ahmadinejad in Israele. L'Iran è un pericolo credibile?
È una domanda molto difficile. Possiamo dire soltanto una cosa: se non reputiamo credibili le minacce, il rischio che corriamo, se sbagliamo, è l'esistenza stessa di Israele. Secondo me è necessario che tutto venga preso sul serio. Non abbiamo a che fare con dei pazzi, ma con degli estremisti. Uso un espressione cruda per farvi capire. È gente che ragiona così: "mi cavo due occhi per cavare un occhio del nemico". Sono disposti a tutto, prendiamo sul serio le minacce di Ahmadinejad quindi.

(La Voce d'Italia, 21 maggio 2007)





3. LA QUESTIONE DELL'IDENTITA' EBRAICA




La profezia di Berlin sull'identità del popolo d'Israele

di Gianluca Sadun Bordoni

In un momento in cui, inopinatamente, tornano a farsi sentire in Medio Oriente e in Europa (Italia compresa) preoccupanti accenti antisemiti, tra inverosimili "negazionismi" e minacce di distruzione per Israele, sembra quanto mai necessario tornare ad interrogarsi sull'identità e la storia degli ebrei, e sul nesso che lega questo popolo con la terra e oggi lo Stato di Israele.
    Il modo migliore per realizzare questo doveroso atto ermeneutico è probabilmente quello di porsi per prima cosa in ascolto dell'autointerrogazione che gli ebrei incessantemente hanno compiuto e compiono sulla loro identità, quella ricerca intorno a se stessi che divenne particolarmente urgente dopo la fondazione dello Stato di Israele, allorquando il problema dell'identità acquistò il concreto carattere di una definizione legislativa dei criteri della cittadinanza, e del rapporto che tali criteri dovevano intrattenere con l'antico diritto talmudico, l'Halakah.
    Un momento alto, e poco noto, di questa autointerrogazione si ebbe nel 1958, allorquando Ben Gurion, capo d'uno Stato che aveva allora appena dieci anni, si rivolse ad alcune eminenti personalità del mondo ebraico, israeliano e della diaspora, ortodossi e assimilati, delle più varie professioni "intellettuali", perché rispondessero alla domanda: che cos'è un ebreo?
    Lo sfondo, come accennato, era costituito dal problema di determinare politicamente, al di là dell'ortodossia rabbinica, l'identità ebraica di fronte ai problemi posti dall'immigrazione e dai matrimoni misti. In termini più generali, naturalmente, il giovane stato d'Israele si era problematicamente interrogato sin dall'inizio sul rapporto che esso dovesse intrattenere con il diritto "secolare", ad esempio con la grande questione, se potesse in Israele darsi una "Costituzione" in senso pieno.
    Tra i "saggi d'Israele" – come li chiamò – a cui Ben Gurion si rivolse, uno dei più eminenti era senz'altro Isaiah Berlin, che Ben Gurion aveva conosciuto a New York nel 1941, e che cercò a lungo di legare a sé, fino ad offrirgli, nel 1950, la direzione del Ministero degli esteri del nuovo Stato d'Israele. Lo scambio di lettere che nel 1958 ne nacque sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista "Paradoxa".
    Sin da quando ebbe modo di conoscere Ben Gurion, Berlin (che dalla fine del '40 seguiva la politica americana come funzionario del governo inglese) era in realtà più legato a Weizmann – e affettivamente vi resterà sempre – sostenitore di un sionismo "gradualista", anglofilo, contrario all'uso della violenza, che invece Ben Gurion riteneva necessaria sin dal periodo della guerra, anche per forzare la mano al governo inglese in direzione della creazione di uno Stato d'Israele. Dopo la conclusione della guerra apparve progressivamente chiaro che il destino di Israele era legato all'uso delle armi, e anche Berlin, dopo il 1948, cominciò a distanziarsi politicamente da Weizmann – cui il ruolo "formale" di capo dello Stato andava assai stretto – senza per questo accettare le numerose offerte che, come accennato, Ben Gurion e altri gli fecero perché si trasferisse in Israele e vi assumesse incarichi di prestigio.
    Ciò non significa certo che Berlin non prendesse parte attivamente alla vita del nuovo Stato di Israele e alle questioni nuove che ciò poneva agli ebrei della diaspora. In risposta ad un intervento di Arthur Koestler, che sosteneva che ormai per gli ebrei non vi era altra possibilità che emigrare in Israele, oppure rinunciare alla loro identità ebraica, Berlin scrisse nel 1951 un saggio, Jewish Slavery and Emancipation, in cui non negava che con la nascita del nuovo Stato fosse per la prima volta possibile agli ebrei vivere una vita pienamente ebraica, ma negava che questa fosse per gli ebrei l'unica possibilità di essere tali.
    Ignatieff ha scritto a tal proposito che "il sionismo di Berlin consisteva in una difesa dello Stato di Israele come condizione indispensabile non già dell'appartenenza ebraica, ma della libertà ebraica". Questo tuttavia potrebbe indurre alla conclusione affrettata che per Berlin quelli dell'identità e dell'appartenenza non costituissero problemi reali, o quantomeno che egli non li avvertisse come tali. Al contrario, essi furono vissuti in modo intenso da Berlin, e proprio in virtù della sua identità ebraica. Come egli stesso scrisse, "per quanto riguarda le mie origini ebraiche, sono così profonde, così connaturate in me, che mi è difficile cercare di identificarle, ancor meno analizzarle. Ma questo è quello che posso dire: non sono mai stato tentato, nonostante la mia lunga devozione alla libertà individuale, di marciare con chi, in suo nome, rigetta l'appartenenza a una particolare nazione, comunità, cultura, tradizione, lingua: la miriade di aspetti inanalizzabili che stringono gli uomini in gruppi identificabili".
    Quando però Ben Gurion gli pose il dilemma concreto circa ciò che dovesse contare come criterio per determinare l'appartenenza al popolo ebraico, l'atteggiamento di Berlin fu a dir poco cauto, quasi tendente a defilarsi. Egli rispose con un certo ritardo alla lettera di Ben Gurion, che era stata spedita nell'ottobre del 1958 - proprio nei giorni in cui Berlin teneva a Oxford la celebre lezione inaugurale sui Due concetti di libertà. Nonostante una certa elusività, però, un punto è affermato da Berlin con chiarezza: lo statuto degli ebrei è così particolare, anomalo, composto da una molteplicità di elementi - nazionali, culturali, religiosi - strettamente legati tra loro, che ogni tentativo di affermarne l'indissolubilità, o al contrario di separarli, è destinato a creare profondi dissidi, in particolare tra ebrei religiosi e laici. Cionondimeno, Berlin non nega la sua simpatia per il progetto di definire lo Stato di Israele come Stato liberale e non teocratico, all'interno del quale, quindi, la cittadinanza deve essere determinata in termini non religiosi. Deve dunque essere possibile - argomenta Berlin - definirsi ebrei in termini di nazionalità, ma non di religione.
    Per evitare di urtare la sensibilità religiosa degli ebrei ortodossi, poi, Berlin propone una soluzione compromissoria, come quella di caratterizzare gli ebrei per parte di padre non come "ebrei" in senso pieno, bensì come "di origine ebraica", o simili. Tale soluzione appare a Berlin stesso insoddisfacente, e difficilmente può - trattandosi di cittadinanza - evitare l'impressione di creare cittadini di prima e di seconda classe - e ciò in base al diritto religioso, non a quello secolare. In definitiva, la scommessa di costituire un moderno Stato di tipo occidentale sulla base di quella "miscela" unica e problematica di caratteri che costituiscono l'ebraicità, appare a Berlin un compito che può bensì essere realizzato, ma solo consentendo a quei vari fattori ed elementi di esistere anche indipendentemente l'uno dall'altro, secondo quell'arte della distinzione, della separazione, che è, al fondo, l'essenza del liberalismo moderno.
     Non si può dire che Berlin non sia stato profeta, se si pensa ai contrasti che in merito al peso dell'ortodossia rabbinica, in specie nel diritto di famiglia, continuamente si sono riaffacciati in Israele, ad opera naturalmente dei partiti religiosi. In tal senso, non pare azzardato ritenere che la pur

prosegue ->
esitante analisi di Berlin conservi un valore, a mezzo secolo di distanza, in un momento in cui lo Stato di Israele è chiamato a riaffermare il proprio diritto all'esistenza, mantenendo - di fronte alla sfida fondamentalista - le ragioni anche secolari di esso come fondamento della propria identità.

(L'Occidentale, 16 maggio 2007)





4. INTELLETTUALI EBREI CONTRO ISRAELE




"Alter-ebrei" e post-sionismo: la guerra ideologica contro Israele

"Alterjuifs": questo e' il neologismo creato da Muriel Darmon per designare quegli intellettuali ebrei in Francia ed in altri paesi che appaiono continuamente sui media per criticare Israele facendosi scudo delle origini ebraiche per poter giustificare qualsiasi tipo di condanna. . . certuni sono degli israeliani che hanno abbandonato il paese per far carriera nella diaspora e che sfruttano le loro condanne acritiche d'Israele come carta d'accesso ai giornali ed agli studi televisivi e cinematografici, come il cineasta Eyal Sivan. Altri sono ebrei, di nazionalita' per lo piu' francese od americana, in cui tutta l'identita' ebraica si riduce ad una feroce critica contro Israele e contro il Popolo Ebraico. ....
Questo fenomeno e' senza dubbio assai antico nell'ebraismo, ma si e' assai rafforzato recentemente, da quando la guerra ideologica e mediatica contro Israele e' raddoppiata di vigore dagli inizi del 2000. Si tratta della patologia "l'odio di se' stesso", per riprendere l'espressione del filosofo tedesco Theodor Lessing, o si tratta, piuttosto, di un'evoluzione politica e sociale legata alla situazione degli ebrei in Europa, e soprattutto in Francia, dove solo le voci ebraiche contro Israele hanno il diritto d'esprimersi pubblicamente?
E non si tratta di paria a cui si potrebbe trovare la scusa di carrierismo, ma, al contrario, d'intellettuali e giornalisti che occupano dei posti in vista nella societa' francese, basti citare Edgar Morin, Jean Daniel e Gisel Halimi.
La situazione non e' molto differente in Israele dove vari universitari sono diventati celebri grazie alle loro prese di posizione contro il sionismo, contro la politica israeliana o contro il diritto stesso ad esistere dello Stato Ebraico!
I piu' famosi sono i "nuovi storici", gruppo iniziato alla fine degli anni ottanta.
Attaccano quelli che loro considerano i "miti" della storiografia sionista per minare dalle fondamenta lo Stato d'Israele, e per far cio' conducono una guerra ideologica ricorrendo anche alla menzogna ed a tutti i mezzi di disinformazione e propaganda. Certi intellettuali israeliani di questo movimento si sono messi alla testa dell'iniziativa che invita a boicottare le universita' israeliane, ad incominciare da Ilan Pappe' che reclama la sparizione pura e semplice dello Stato Ebraico e difende il "diritto al ritorno" dei profughi palestinesi del 1948.

Una frangia estremista e pericolosa!
Il carattere provocatorio ed estremistico di queste prese di posizione possono lasciar credere che si tratti di una frangia minoritaria e poco influente. Niente di piu' lontano dalla realta'! Gli "alterjuifs" in Francia, cosi' come gli intellettuali antisionisti in Israele, occupano un posto centrale dentro il dibattito pubblico e le loro opinioni, seppure molto minoritarie, hanno un peso rilevante sulle decisioni politiche.
Due esempi recenti illustrano la loro influenza. Il primo e' la decisione della cinemateca di Gerusalemme e della Fondazione Rabinovitch di conferire la realizzazione del film per il sessantesimo anniversario dello Stato d'Israele al realizzatore antisionista Eyal Sivan.
Il secondo e' la violenta manifestazione organizzata da un gruppuscolo anarchico israeliano contro un posto di blocco dell'IDF, vicino ad Otniel, a sud di Hebron. I manifestanti, anche arabi, arrivarono numerosi ed accompagnati dai fotoreporters ed incominciarono a smontare il blocco di pietre ed ad offendere i soldati. Quando i soldati riservisti han reagito con vigore per difendersi dagli assalitori sono stati filmati. Allorquando le immagini dell'alterco sono state diffuse dalla televisione israeliana, il ministro della difesa Amir Perez ha reagito dichiarando che l'ufficiale dell'IDF dovrebbe essere arrestato!
Questi due esempi dimostrano il carattere estremamente nocivo dei gruppuscoli e degli ideologi antisionisti che manipolano l'opinione pubblica e trovano la complicita' o la compiacenza delle istituzioni pubbliche israeliane,
finanziate dai contribuenti, anche in quelle piu' elevate dello Stato. . .
E' d'importanza vitale comprendere le ragioni di questo fenomeno per poterlo combattere efficacemente.

("Itshak Lurcat, Alterjuifs et post-sionism: la guerre ideologique contre Israel", in Le p'tit hebdo n.308, 18/5/07, pp. 28-29; liberamente tratto e tradotto dal francese da Eleazar Ben Yair)





5. PANORAMA MESSIANICO A GERUSALEMME




I primi passi del movimento messianico in Israele: retrospettiva storica (prima parte)

«Se qualcuno, pur udendo il suono del corno, non se ne cura, e la spada viene e lo porta via, il sangue di quel tale sarà sopra il suo capo» (Ezechiele 33:4).

di Gershon Nerel

Il primo numero di "Kol Shofar-rivista ebraica messianica» fu pubblicato nell'autunno del 1953 ad Haifa. L'editore era Moshe Immanuel Ben-Meir (1904-1978), noto negli ambienti messianici già dal tempo del mandato britannico in Palestina. Era stato segretario della "Società dei cristiani ebrei (ebrei messianici) in Palestina» (The Fellowship of Hebrew Christians in Palestine) negli anni '30. Mantenne questo ruolo fino agli anni '40, sebbene la società cambiò denominazione, diventando la "Alleanza cristiana ebraica della Palestina e del Medio Oriente» (The Hebrew Christian Alliance of Palestine and the Near East). La prefazione di «Kol Shofar» (in ebraico: suono dello shofar) spiegava l'intento della rivista di stabilire un legame tra i vari discepoli e seguaci di Yéshua sparsi nel territorio di Israele e che non si conoscevano tra loro. A quel tempo, coloro che credevano in Gesù erano pochissimi in Israele e tenevano segreta la loro fede. L'obiettivo di Kol Shofar era anche quello di incoraggiare i cristiani ebrei a "porre fine a questa vita di fede vissuta nella clandestinità». Per tutto il periodo del mandato britannico, i discepoli ebrei di Yéshua hanno vissuto nel timore di essere scartati e messi al bando dalla società e dalle attività economiche, un po' com'era accaduto ai fratelli ebrei durante la diaspora. Paragonando la situazione di questi primi credenti nel corso della prima parte di storia dello Stato di Israele, con la storia dei credenti dei giorni nostri, possiamo constatare che, in questo periodo, gli ebrei messianici, non hanno più alcuna ragione per nascondere la propria fede e vivere nella clandestinità.
    E' possibile che ancora oggi qualche nuovo arrivato in Israele preferisca tenere segreta la propria fede, volendo prima ambientarsi e inserirsi nella nuova situazione, ma la maggior parte degli ebrei messianici in Israele, non vive più nella clandestinità, anzi, al contrario, proclamano con forza e senza vergogna la loro fede in Gesù Cristo come Signore e Salvatore! Ne è stato un esempio il film documentario che è stato mandato in onda recentemente dal popolare canale televisivo "Channel 2» a febbraio di quest'anno, dedicato interamente agli ebrei messianici in Israele. Questo documentario ha presentato diverse testimonianze di fede cristiana di alcuni giovani credenti di Yad Hashmona. Le testimonianze sono anche state messe on line su alcuni siti internet suscitando centinaia di blog. Emmanuel BenMeir ha spiegato il perché del nome "Kol Shofar" (Suono dello shofar): «Lo shofar emette suoni diversi, dai suoni di lamento a quelli di trionfo. "Kol Shofar" in quanto rivista e giornale, vorrebbe farsi portavoce di tematiche e problemi diversi. Una parte della rivista è dedicata alla narrazione di alcuni aspetti critici della nostra vita cristiana. Un'altra parte è dedicata agli aspetti che non provocano danni o problemi alla nostra vita naturale e spirituale. Una terza parte è dedicata invece al suono del trionfo, ovvero, alla narrazione della testimonianza, del messaggio d'amore, della misericordia di Dio e della redenzione in Cristo. Tutto in ogni modo ha lo scopo di aiutare i lettori ad incamminarsi per una via di vittoria».
    Abraham Ben-Shraga (1900-1968), un altro redattore di Kol Shofar, ha lanciato un appello ai credenti ebrei residenti nel nuovo Stato di Israele per "innalzare la propria voce e la bandiera del Messia annunciando il suo imminente ritorno ... e che la grazia di Dio scenda di nuovo sul "popolo dell'alleanza"». In altre parole: Ben-Meir e Ben-Shraga aspettavano una nuova fase nel corso della quale i credenti israeliani cristiani avrebbero fatto sentire una nuova voce profetica nella storia del mondo.
    Questo sarebbe dovuto accadere in particolare mediante la proclamazione di un messaggio antico e al tempo stesso nuovo, fondato sulla Bibbia ebraica. Inoltre Ben-Meir e Ben-Shraga sostenevano che gli ebrei messianici dovevano rispettare il calendario biblico con lo shabbat al settimo giorno, in quanto credevano che un ebreo che non osserva il riposo dello shabbat, era come se rinnegasse Dio stesso. Possiamo concludere che all'epoca, il rispetto e l'osservanza dello shabbat non fosse, un po' come oggi, una regola sempre rispettata tra gli ebrei messianici in Israele. Molti di loro, infatti, preferivano festeggiare il giorno di riposo la domenica. Oggi in ogni caso stiamo assistendo ad un ritorno alla tradizione, infatti, abbiamo saputo che più di 100 comunità cristiane ebraiche celebrano il culto di sabato! La rivista Kol Shofar avrebbe dovuto essere bimestrale, ma questa visione non ha poi avuto un seguito. Infatti, si è fermata al primo numero! Solo sette anni dopo quel lontano 1953, uscì un altro magazine cristiano edito da alcuni credenti ebrei.

(Notizie da Israele, 2/2007)





6. LIBRI




Mal di pancia a sinistra per un libro sull'antisemitismo

ROMA - Un libro che squarcia il silenzio su un tema fino a oggi "off limits". Un testo che i mezzi d'informazione seguitano a trascurare nonostante sia uscito da circa un mese. Stiamo parlando del saggio L'antisemitismo di sinistra (Einaudi) di Gadi Luzzatto Voghera, docente di Storia dell'ebraismo in età moderna e contemporanea all'università di Venezia, il quale non nasconde al VELINO il proprio disagio per quanto sta accadendo. "Il libro non viene dibattuto – dichiara lo studioso - perché vengono dette cose scomode sulle quali si vuole far calare il silenzio. Del resto ci sono stati settori dell'Einaudi che avrebbero preferito non pubblicarlo e c'è una parte della sinistra che preferisce non discuterlo. Sono orgoglioso del fatto che la casa editrice Einaudi alla fine abbia avuto il coraggio di affrontare i violenti mal di pancia che sono scoppiati al proprio interno e abbia deciso di far vedere la luce a questo saggio. Vedremo se anche il resto della sinistra italiana saprà superare questi mal di pancia". Ci tiene, Luzzatto Voghera, al fatto che la sinistra prenda in considerazione il suo lavoro. Sia perché è rivolto a questa parte politica, sia perché l'autore non fa mistero di esserne un militante. "Il libro – spiega - nasce dalla personale esigenza di chiarire alla sinistra, cioè all'area politica a cui personalmente faccio riferimento, le ragioni della persistenza in alcuni suoi ambiti di un linguaggio antisemita tuttora presente in Italia e in Europa. In un momento di passaggio e di costruzione di nuove aggregazioni partitiche a sinistra, voglio segnalare alla mia parte politica che tale linguaggio dovrebbe essere emarginato e tenuto sotto controllo".
    Antisemitismo a sinistra: un tabù che perdura da tanto tempo. "Nell'immediato dopoguerra - spiega Luzzatto Voghera - è passata la tesi, assolutamente destituita di fondamento dal punto di vista storico, che dire 'antisemitismo di sinistra' fosse un'assurdità. Non era ritenuto possibile che i settori progressisti, per il solo fatto di indirizzare la propria azione politica per la liberazione dell'uomo, potessero praticare i linguaggi e le azioni dell'antisemitismo. In realtà questo fenomeno è presente nelle radici ideologiche della sinistra ed è stato perseguito nei paesi dove la sinistra è arrivata al potere". Essendo l'antisemitismo un prodotto della cultura europea ed essendo la sinistra un movimento politico europeo è naturale che anche lei ne sia rimasta impregnata. "Non capisco - si chiede lo studioso – perché mentre il mondo cristiano e la destra hanno riconosciuto di avere avuto a che fare al proprio interno con l'antisemitismo, la sinistra seguiti a ritenere di esserne stata immune e di esserne esente. Personalmente mi pesa il fatto che l'area politica in cui da sempre milito si lasci andare a una visione demagogica molto manichea della realtà. E allo stesso modo non accetto che esponenti appartenenti al mio stesso governo facciano una manifestazione dove sono bruciati manichini con soldati israeliani". Dove affondano le radici antisemite della sinistra? "Si possono far risalire all'Ottocento – risponde Luzzatto Voghera -, quando con la nascita dei movimenti a difesa del mondo del lavoro, gli ebrei in quanto simbolo del denaro vennero individuati come nemici della classe operaia. Non si tenne minimamente conto del fatto che la popolazione ebraica era al 95 per cento di estrazione sottoproletaria e si diede credito, invece, all'icona astratta dell'ebreo rappresentante del capitale".
    Alla fine del XIX secolo, in Europa i movimenti di sinistra utilizzavano l'antisemitismo nel proprio linguaggio politico. Basti pensare al caso Dreyfus in Francia, quando il partito socialista fece molta fatica a non simpatizzare con gli accusatori del capitano. Solamente grazie al segretario Jean Jaures i socialisti transalpini presero coscienza che il caso Dreyfus era anche un attacco ai valori della Rivoluzione francese e andava quindi smantellato. In Italia violenti toni antisemiti si possono rintracciare nei discorsi di Mussolini d'inizio Novecento, quando il futuro duce militava con i socialisti. Nel momento in cui la sinistra si fece Stato, quando cioè il comunismo prese il potere in Russia, la religione e la cultura ebraica vennero immediatamente colpite come manifestazioni autonome di pensiero e di libertà. La logica e tragica conseguenza fu la distruzione delle comunità ebraiche in Unione Sovietica. Dopo la seconda guerra mondiale, la sinistra europea si ancorò sostanzialmente alle posizioni che mano a mano assunse l'Urss nei confronti del neonato stato d'Israele. Mosca riconobbe Israele al momento della sua fondazione, nel maggio 1948, e la sinistra si mise a elogiare gli ebrei come alleati nella lotta al nazifascismo e come popolo fratello da aiutare. Con il processo di decolonizzazione dei paesi del terzo mondo, la nascita dell'ideologia terzomondista e soprattutto con lo scoppio della guerra dei Sei giorni nel 1967, maturò la rottura tra la sinistra e Israele. Agli stereotipi antisemiti si aggiunsero nuove immagini appositamente create, tipo quella dell'ebreo che da perseguitato della seconda guerra mondiale si fa persecutore del popolo palestinese e strumento dell'azione imperialista americana in Medio Oriente.
    "L'antisemitismo risiede nel riunire in un solo blocco la variegata realtà israeliana – spiega Luzzatto Voghera -. Mentre prima tutti gli ebrei erano vittime, e non era vero, oggi sono tutti persecutori e non è vero neanche questo. Permane sempre questo vezzo di assegnare una categoria unitaria al mondo ebraico che è invece un mosaico, un insieme di culture anche contraddittorie, le quali continuano a confrontarsi e non hanno niente di unitario se non le origini". Non è però esagerato bollare come "antisemita" chi semplicemente vuole svolgere una critica nei confronti della linea politica attuata da Gerusalemme? "È assolutamente legittimo criticare la politica di uno stato o meglio la politica di un governo – risponde Luzzatto Voghera -. Il problema è che molto spesso questa critica viene avanzata a tutto lo stato d'Israele e si carica di una serie di quegli stereotipi che non appartengono a una normale dialettica politica ma sono propri del linguaggio antisemita tradizionale. Io, ad esempio, critico la politica del governo Bush, ma non mi viene mai in mente di pensare che tutti gli americani siano corresponsabili. Verso Israele questo passaggio logico è molto raro che avvenga. Quando si criticano Israele e gli ebrei se ne parla sempre come un blocco unico. Con questo libro – conclude lo studioso - vorrei far capire che gli ebrei, fra Otto e Novecento, proprio quando si sviluppò in Europa un linguaggio antisemita, smisero di essere un blocco unico e per ragioni storiche interne presero strade diverse e cominciarono a pensare tra loro in modo diverso".

(Il Velino, 16 maggio 2007)





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