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Notizie su Israele 391 - 4 giugno 2007

1. Ebrei messianici in Israele
2. Ahmadinejad: Presto Israele scomparirà
3. Ricerca scientifica in Israele
4. Chi ha voluto la guerra dei sei giorni?
5. Una storia di aliyah dall'Etiopia
6. Trovato il passaporto falso di Eichmann
7. Vita quotidiana in Israele
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 46:9-10. Ricordate il passato, le cose antiche; perché io sono Dio, e non ce n'è alcun altro; sono Dio, e nessuno è simile a me. Io annunzio la fine sin dal principio, molto tempo prima dico le cose non ancora avvenute; io dico: Il mio piano sussisterà, e metterò a effetto tutta la mia volontà.
1. EBREI MESSIANICI IN ISRAELE




Un ebreo ortodosso parla dell'ebraismo messianico

Il dr. Dov Meimon è nato in Francia e all'età di 18 anni si è trasferito in Israele come acceso sionista. Ha studiato da manager e ha fondato e diretto ditte di high-tech. L'assassinio del capo di governo israeliano Jitzchak Rabin ha condotto Dov Meimon a un ripensamento: è possibile far avvicinare ebrei e musulmani, ebrei ortodossi ed ebrei laici? Oggi fa ricerche nell'"Istituto per l'edificazione politica del popolo ebraico" a Gerusalemme. L'ebreo ortodosso si dichiara pronto a concedere un'intervista alla rivista messianica Kivun sul futuro del popolo ebraico. L'obiettivo dell'Istituto, fondato del 2002 dal commerciante americano ebreo Dennis Ross, è la crescita strategica del popolo ebraico nel mondo. Meimon considera gli ebrei messianici come parte del popolo ebraico in Israele, ma non quelli della diaspora.

Dov Meimon
Kivun: Come siete arrivati a individuare questo obiettivo?
Meimon: Non c'è nessuna organizzazione nel mondo che si interessa del futuro del popolo ebraico. Anche se esistono un paio di organizzazioni di questo tipo, in realtà non cercano soluzioni per il popolo ebraico nel futuro. Presentano una diagnosi più o meno precisa, e questo è tutto. Noi abbiamo sviluppato scenari possibili fino al 2025 e addirittura fino al 2050, con possibili proposte e progetti.

Kivun: Considera il movimento messianico come una corrente all'interno dell'ebraismo?
Meimon: A parer mio, sarebbe meglio se l'ebraismo messianico non ci fosse.

Kivun: Però adesso esiste...
Meimon: Queste dichiarazioni per me non sono importanti. Noi parliamo di ebrei che restano ebrei. Chi vive in Israele in un ghetto fisico e culturale, resta ebreo, che sia messianico o buddista per me non ha alcuna importanza. Tra quelli che vivono nella diaspora, comunque, soltanto gli ebrei ortodossi mantengono la loro identità ebraica. Per l'identità ebraica è meno importante il fatto che gli ebrei siano religiosi e osservino i precetti ebraici. Dal punto di vista sociologico sono e restano ebrei, anche se alcuni aderiscono alla fede cristiana o si dicono ebrei messianici.

Kivun: Se capisco bene, lei considera gli ebrei messianici come parte del popolo ebraico.
Meimon: Poiché non sono arabi, devono ben essere ebrei. Sono parte della collettività ebraica, servono nell'esercito e adempiono ai loro doveri verso lo Stato d'Israele. Appartengono alla popolazione ebraico-sociale di Israele, questo non ha niente a che fare con la loro fede. Io però conosco una sola via per essere ebreo: osservare i comandamenti ebraici. Sottolineo comunque che questa è la mia personale opinione, e non necessariamente quella dell'Istituto. Gli ebrei messianici all'estero io non li considero ebrei. Nel paese io chiamo questo fenomeno "identità ebraica passiva". Chi vive in Israele e crede in Gesù, ed è membro della società ebraica, e ha un coniuge ebreo, viene annoverato nel popolo ebraico.

Kivun: Questa è un'interessante prospettiva.
Meimon: Ci sono fenomeni che fanno un gran chiasso e alla fine scompaiono. Non lasciano traccia nella storia. Per quanto riguarda il cosiddetto ebraismo messianico, mi comporto come si fa con un fuoco acceso. Personalmente non capisco la fede ebreo-messianica e neppure cerco di capirla.

Kivun: Perché no?
Meimon: Noi siamo in guerra col cristianesimo. Anche se mi interesso del cristianesimo, non vedo nessun collegamento tra l'ebraismo e la fede cristiana. Così come non vedo il bisogno di fare un collegamento tra l'Islam e l'ebraismo. Con i cristiani siamo in discussione per il regno dei cieli e con i musulmani siamo in discussione per la terra. Tutti e due ci dicono che noi ebrei non abbiamo posto né in cielo né in terra, e tutti e due insistono sul loro presunto diritto esclusivo, sia sopra che sotto. Sulla terra forse possiamo trovare un compromesso, ma in cielo no.

(israel heute, maggio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. AHMADINEJAD: PRESTO ISRAELE SCOMPARIRÀ




Il presidente iraniano celebra il 18º anniversario della morte di Khomeini

TEHERAN - Il presidente iraniano, Mahmud Ahmadinejad, ha detto che è ormai cominciato "il conto alla rovescia" per la scomparsa di Israele.
Un tema a lui caro, che torna a proporre mentre si fa sempre più teso il braccio di ferro con la comunità internazionale sul programma atomico della Repubblica islamica.
Il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Mohammad Ali Hosseini, ha ribadito che non cambia la posizione iraniana di rifiuto della sospensione dell'arricchimento dell'uranio, chiestogli dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu in tre risoluzioni successive. E se anche, ha aggiunto, ne venisse "adottata e applicata" una quarta "per sbarrare la strada alla Repubblica islamica, essa è destinata a fallire".
È dall'ottobre del 2005, quando auspicò per la prima volta la cancellazione di Israele dalle carte geografiche, che Ahmadinejad ha continuato ad intervalli più o meno lunghi a battere su questo tasto, alternandolo con iniziative volte a mettere in dubbio la realtà dell'Olocausto. Prese di posizione che hanno provocato reazioni di protesta da parte di governi occidentali e non, aumentando i timori per i fini del programma nucleare iraniano, che Teheran afferma avere scopi esclusivamente civili e non militari.
L'occasione dell'ultima uscita è stata una cerimonia di benvenuto ad alcuni ospiti stranieri giunti a Teheran per le celebrazioni del 18/o anniversario, che è stato celebrato ieri, della morte dell'ayatollah Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Un regime che non ha mai riconosciuto il diritto all'esistenza di Israele. «È cominciato il conto alla rovescia per la caduta del regime sionista, ad opera dei popoli del Libano e della Palestina", ha affermato Ahmadinejad, citato dall'agenzia Isna. «Siamo alla vigilia di grandi cambiamenti - ha aggiunto il presidente iraniano - il pensiero dell'imam (Khomeini) ha avuto un forte impatto nei Paesi islamici e oggi lo si può vedere in particolare sui popoli del Libano e della Palestina... A Dio piacendo in un futuro prossimo vedremo la caduta del regime sionista».

(Corriere Canadese, 4 giugno 2007)





3. RICERCA SCIENTIFICA IN ISRAELE




Un "cappello elettrico" contro il cancro al cervello

di Gianluca Riccio

Per anni si è sospettato che i campi elettrici causassero il cancro: oggi c'e' ragione di credere che possono combatterlo, e in alcuni casi distruggerlo.
I ricercatori hanno utilizzato alcuni campi elettrici a bassa intensità per combattere un aggressivo cancro al cervello noto come glioblastoma multiforme (GBM). I test condotti sinora hanno addirittura raddoppiato il tempo di sopravvivenza nei pazienti.
Il nuovo approccio lascia il segno nel processo di divisione cellulare: quando la cellula si divide, un micromotore chiamato 'microtubulo' aiuta questa separazione guidando i cromosomi nelle nuove cellule 'figlie' formate dalla separazione. Dall'aspetto simile a stringhe, questi microtubuli sono formati da macromolecole polarizzate che sono sensibili all'elettricità.
Precedenti lavori hanno mostrato che se viene applicato un campo elettrico di 200-Khz, le cellule smettono di separarsi (e il tumore smette di moltiplicarsi).
Il team di ricercatori della NovoCure Limited, una compagnia biotech di Haifa, in Israele, in collaborazione con diversi istituti Israeliani ed Europei, ha iniziato la sperimentazione clinica con 10 pazienti affetti da questo cancro al cervello che non avevano risposto alle terapie convenzionali.
Hanno fornito ciascun paziente di un leggerissimo dispositivo a batteria, chiamato NovoTTF-100A, che genera un campo di 200-kHz (un filo elettrico, giusto per capirci, genera 60 Hz circa). Un set di 4 elettrodi è stato poi sistemato nei punti del 'cappello' che aderivano alla zona affetta da tumore: il 'cappello' è stato quindi fatto indossare per 24 ore al giorno, per 18 mesi.
In 8 casi su 10, il campo elettrico ha aumentato l'aspettativa di vita.
Anche se un raffronto non era possibile, i ricercatori hanno comparato i risultati del test sui volontari con quelli degli esperimenti 'storici' fatti su pazienti affetti da GBM: l'aspettativa di vita media è ora di 62 settimane, contro le 29 settimane degli 800 e passa pazienti curati con la chemioterapia. 
In 4 pazienti il tumore ha smesso di crescere. In altri 4 si è ridotto.
In un caso, il tumore del paziente è completamente sparito, e quest'ultimo è rimasto senza alcun problema per 2 anni e mezzo dopo il test: al momento di fare l'esperimento, la sua aspettativa di vita era di 6 mesi.
In 2 casi, il tumore ha continuato a crescere.
Erico Wong, un neuro-oncologo del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, Massachusetts, sostiene che questo dispositivo è perfetto perchè agisce senza provocare gli effetti collaterali tipici della chemioterapia.
Wong fa parte del team che oggi ha avviato la fase III del progetto, che coinvolgerà piu' di 200 pazienti affetti da glioblastoma in America ed Europa: se l'esperimento funzionerà, è probabile che il metodo dei campi elettrici verrà applicato anche alla cura di altri tipi di cancro, come quelli al seno e ai polmoni.

(Futuro Prossimo, 31 maggio 2007)

* * *

«Come un pesce ... »

Un inventore israeliano ha realizzato un apparecchio che permetterà di respirare sott'acqua senza dover ricorrere all'utilizzo di bombole ad ossigeno. Questo sistema permetterà ai sommozzatori e ai palombari di andare sott'acqua in maniera del tutto innovativa!

Quanti appassionati di immersione sognano di potersi tuffare in acqua e perlustrare i fondali marini senza dover utilizzare le pesanti ed ingombranti bombole ad ossigeno! Inoltre, le immersioni con le bombole hanno una durata limitata perché la riserva di ossigeno non dura più di qualche ora, e i rischi che qualcosa non funzioni non sono mai pochi. Gli scienziati si occupano di questo problema da una decina d'anni. Un inventore israeliano è però riuscito ad aprire uno spiraglio molto interessante in questo ambito. L'israeliano Alon Brodner è ingegnere ed appassionato in immersioni. Suo figlio di sette anni lo ha subissato di domande in merito alle immersioni e all'utilizzo poco pratico delle bombole ad ossigeno, dopo di che egli si è messo a studiare un sistema respiratorio alternativo. Innanzitutto si è interessato all'approvvigionamento di ossigeno dei sottomarini e delle navette spaziali; in questo caso l'ossigeno è ottenuto estraendolo dall'acqua mediante il processo di elettrolisi. Ma questo processo necessita di una grande quantità di energia, e bisogna quindi disporre di grandi quantità di carburante. Allora Brodner ha iniziato a studiare il sistema respiratorio dei pesci, che per respirare assorbono l'ossigeno disciolto nell'acqua. Il vento, le onde e le correnti comprimono aria nell'acqua; studi recenti hanno dimostrato che a 200 metri di profondità l'acqua contiene ancora 1,5 % di aria, quantità sufficiente per assicurare la vita ai pesci. Quindi Brodner ha cercato di realizzare un sistema che imitasse il sistema respiratorio di questi animali. L'apparecchio funziona secondo una nota legge fisica: la «legge di Herrry», che descrive la solubilità dei materiali volatili nell'acqua. Essa sostiene in particolare che la quantità di gas disciolta in un liquido è proporzionale alla pressione che questo gas esercita su questo liquido. Questa legge è bivalente: quando la pressione diminuisce, la quantità di gas nel liquido aumenta. L'apparecchio di Bodner ottiene questo risultato grazie ad una sorta di centrifuga che ruota incessantemente provocando una diminuzione di pressione in un recipiente chiuso ermeticamente e pieno di acqua di mare. La centrifuga funziona grazie a delle batterie che servono da peso per mantenere il tutto sotto l'acqua. Secondo i calcoli di Bodner, una batteria al litio di un chilo permette di fornire ossigeno per un'immersione della durata di circa un'ora. Lo scienziato sta realizzando un prototipo della sua invenzione, e la sua domanda di brevetto è già stata rilasciata in Europa, mentre è in fase di valutazione negli Stati Uniti. L'ingegnere ha già ricevuto diverse domande da parte di scienziati e da parte della marina israeliana. Il ministero israeliano dell'Industria e del Commercio gli ha promesso un aiuto finanziario consistente, ma egli è ancora alla ricerca di altri investitori privati per poter concludere le ricerche. E' convinto che nel giro di pochi anni questa sua invenzione potrà essere messa sul mercato ad un prezzo accessibile.

(Notizie da Israele, 2/2007)





4. CHI HA VOLUTO LA GUERRA DEI SEI GIORNI?




1967: sei giorni per sopravvivere

da un articolo di Michael B. Oren

Le grandi guerre della storia finiscono per diventare grandi guerre sulla storia. Dopo solo pochi anni da quando l'ultimo soldato è tornato dal campo di battaglia, le più evidenti verità circa la natura del conflitto e le ragioni che l'hanno reso inevitabile subiscono l'assalto di revisionisti e contro-revisionisti la cui veemenza fa a gara con quella dei combattimenti reali.
    Poche di queste battaglie storiografiche sono tanto amare quanto quella che viene oggi combattuta sulle guerre arabo-israeliane, dove un drappello di sedicenti "nuovi storici" cinge d'assedio la narrazione fino a poco tempo fa inattaccabile della creazione e della sopravvivenza dello stato degli ebrei. L'insolita violenza del dibattito sulla storia arabo-israeliana è direttamente legata alla posta in gioco che è singolarmente alta. Gli avversari non competono semplicemente per un po' di spazio sugli scaffali delle biblioteche universitarie. In realtà si scontrano su questioni che hanno un profondo impatto sulla vita di milioni di persone: la sicurezza di Israele, i diritti dei profughi palestinesi, il futuro di Gerusalemme. E i "nuovi storici" non fanno nemmeno finta di nascondere i loro obiettivi politici.
    Pubblicate dalle maggiori case editrici accademiche e ampiamente celebrate dai recensori, le interpretazioni dei "nuovi storici" hanno già largamente soppiantato quelle tradizionali. Tale successo non sarebbe stato possibile senza i documenti diplomatici resi disponibili da vari archivi governativi sulla base della norma per la declassificazione dopo trent'anni, che permette l'accesso a materiali precedentemente secretati: una regola in vigore nella maggior parte dei paesi occidentali. Incartamenti resi disponibili, ad esempio, dal Public Record Office britannico e dai National Archives statunitensi gettano nuova luce sulla diplomazia degli anni '40 e '50, in particolare per quanto concerne i paesi arabi i cui archivi, invece, restano sigillati a tempo indefinito.
    Ma quando si tratta di storia arabo-israeliana, non esiste raccolta documentaria che possa rivaleggiare con gli Archivi di Stato israeliani i quali, oltre a contenere un tesoro di resoconti di prima mano, sono particolarmente liberali nella loro politica di declassificazione. Tali documenti, letti in modo selettivo e tendenzioso, sono stati utilizzati a sostegno delle teorie revisioniste più estreme sulla guerra d'indipendenza del 1948 e sulla campagna del Sinai del 1956. Avvicinandosi il 40esimo anniversario della guerra dei sei giorni, la stessa metodologia viene ora utilizzata per infrangere i "miti" del 1967.
    La controversia storica sul 1967 è particolarmente aspra. La convinzione che la guerra dei sei giorni sia stata imposta a Israele da un'alleanza di stati arabi votati alla sua distruzione, e che le conquiste territoriali israeliane siano state il risultato del suo legittimo esercizio del diritto di autodifesa in una guerra che aveva fatto tutto ciò che poteva per evitare, è stata fermamente condivisa da tutto l'arco politico israeliano. Ma il fatto che la destinazione finale di quei territori continui ad essere al centro del dibattito politico israeliano e di trattative in corso a livello internazionale fa della guerra del 1967 un obiettivo assai ghiotto per le reinterpretazioni revisioniste. Questi autori sembrando condividere la tesi – chiaramente sottintesa, quando non ancora esplicitamente affermata – che le scelte degli arabi abbiano avuto ben poco a che fare con lo scoppio delle ostilità nel 1967, e che Israele non solo non abbia saputo evitare la guerra, ma che anzi l'abbia attivamente sollecitata. L'ammassarsi di truppe egiziane nel Sinai, l'espulsione della Forza di Emergenza dell'Onu e la chiusura degli stretti di Tiran, i patti militari fra paesi arabi e l'impegno pubblicamente preso e ribadito di sradicare lo stato degli ebrei, tutto questo sarebbe stato provocato o gonfiato a dismisura da Israele per conseguire i suoi scopi di coesione interna, espansione territoriale o altri obiettivi reconditi. "La paura israeliana non aveva fondamento nella realtà – scrive ad esempio il giornalista di Ha'aretz Tom Segev nel suo recente libro sul 1967 – In verità non v'era alcuna giustificazione per il panico che precedette la guerra, né per l'euforia che si diffuse dopo di essa".
    La domanda è: queste conclusioni possono reggere a un chiaro e accurato esame storico? L'affermazione che Israele abbia voluto la guerra, abbia fatto poco o nulla per evitarla o l'abbia addirittura istigata, trova conferma nei documenti israeliani declassificati di quel periodo, l'arma favorita dei "nuovi storici"?
    I dossier degli Archi di Stato israeliani svelano molte cose sulla diplomazia e sul processo decisionale della politica israeliana di quel periodo, e su cosa i leader israeliani pensarono, temettero e si sforzarono di fare durante quelle fatidiche tre settimane di intensa attività diplomatica che portarono al 5 giugno 1967. Tuttavia, lungi dal suggerire che Israele abbia deliberatamente spinto verso il conflitto, i documenti mostrano che Israele si sforzò disperatamente di evitare la guerra e, fino alla viglia dello scontro, tentò ogni possibile strada nello sforzo di scongiurarla, anche a costo di far pagare un alto prezzo alla nazione in termini strategici ed economici.
    I documenti diplomatici israeliani da poco resi disponibili, relativi al periodo precedente il 5 giugno 1967, offrono prove schiaccianti contro ogni accenno all'idea che Israele abbia voluto la guerra con gli arabi. Le decine di migliaia di dossier finora declassificati non contengono un solo riferimento al presunto desiderio di sviare l'opinione pubblica dalla situazione economica, di rovesciare i governanti arabi, di conquistare o occupare territori in Cisgiordania, nel Sinai o sulle alture del Golan. Al contrario, il quadro che emerge è quello di un paese e di una dirigenza leadership profondamente spaventati dall'idea di uno scontro militare e disperatamente tesi ad evitarlo quasi a qualunque costo. L'unica speranza di evitare la guerra, erano convinti gli israeliani, stava negli Stati Uniti. Ma l'amministrazione Johnson, benché favorevolmente disposta verso Israele, aveva le mani legate da vincoli di politica interna e dal suo divorante coinvolgimento in Vietnam. Questi limiti impedirono agli americani di prendere le decisioni che avrebbero potuto ripristinare nel Sinai e agli stretti di Tiran lo status quo precedente l'escalation, e frenare la deriva verso la guerra che il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser aveva innescato.
    Non si può nemmeno sostenere che Israele abbia sbagliato nel decidere per il ricorso alla forza. Assediato da un duro blocco economico, da patti militari fra i suoi vicini pesantemente armati con lo scopo dichiarato di attaccarlo e da centinaia di migliaia di soldati nemici ammassati ai suoi stretti e frastagliati confini, sarebbe stato il massimo dell'irresponsabilità se Israele, nel 1967, non avesse pianificato un'azione preventiva. Né si può incolpare Israele per aver brandito la minaccia della forza per spronare gli Stati Uniti a intervenire diplomaticamente. Le poche misure che Johnson affettivamente prese – la reiterazione degli impegni assunti dall'America su Tiran nel 1957, la proposta (peraltro non realizzata) di un convoglio internazionale nel Mar Rosso per forzare il blocco navale egiziano, le rimostranze presso i leader arabi – sono tutte direttamente attribuibili agli sviluppi paventati da Israele.
    In ultima analisi, gli israeliani si trattennero dall'agire militarmente fino a quando non si esaurì anche l'ultima possibilità di composizione diplomatica, sebbene sapessero che ogni giorno d'attesa gli costava enormemente in risorse, preparazione e morale, rischiando di limitare gravemente i loro margini di manovra se la guerra alla fine fosse risultata inevitabile.
    Alla luce dei documenti d'archivio, sembra che i "nuovi storici" avranno un bel daffare per dimostrare in modo convincente che Israele nel 1967 nutriva intenzioni ostili.

(Jerusalem Post, 15 maggio 2007 - da israele.net)

prosegue ->
5. UNA STORIA DI ALYHA DALL'ETIOPIA




«Sono il ragazzino che hai salvato dal deserto»

A prima vista non è facile individuare delle somiglianze tra il pilota veterano israeliano e l'immigrato etiope che siede al suo fianco? Il brigadiere generale Dan Ganot, a capo dello squadrone HR dell'Aereonautica Militare, era sull'aereo che ha salvato Naftali Avraham dal deserto sudanese e lo ha portato in Iaraele? Ventisei anni dopo, un incontro tra il pilota e l'immigrato (oggi ingegnere e maggiore dell'Aereonautica Militare) svela le rimarchevoli somiglianze che uniscono le loro vite: somiglianze che possono esistere solo nella fantasia o in una realtà come quella israeliana.

di Nechama Douek-  Yediot Achronot

    Seduti di fronte al brigadiere generale Dan Ganot (50 anni), a capo dello squadrone HR dell'Aereonautica Militare, e al maggiore Naftali Avraham (37 anni), un ingegnere della stessa Aereonautica Militare, non è facile individuare delle somiglianze tra i due. Il primo, un pilota e israeliano di vecchia data, è robusto e allegro, sempre sorridente; l'altro è sottile, introverso e piuttosto serio.
    Tuttavia, alcune ore in loro compagnia sono state sufficienti per capire che le loro vite non sono solo intrecciate l'una all'altra, ma anche rimarcabilmente simili. Solo una società di immigrati, come la nostra qui in Israele, poteva prudurre una storia commovente come questa, dove la biografia del soccorritore e quella della persona che ha salvato sono così diverse e tuttavia così simili.
    Negli anni Ottanta Israele inaugurò la campagna per portare a casa tutti gli ebrei etiopi. Oltre alle operazioni a tutti note, come l'operazione Solomon e l'operazione Moses, ci furono anche numerose operazioni segrete cui vennero dati nomi in codice presi dai titoli di film e programmi televisivi. Una di queste fu l'operazione Puffi. Aerei cargo dell'Aereonautica Militare Israeliana volarono in Sudan, dove gruppi di rifugiati etiopi, che avevano compiuto a piedi il pericoloso viaggio dall'Etiopia al confine sudanese, aspettavano in campi di raccolta che gli aerei venissero a prenderli e a portarli a Sion.
    Nel 1984 Dan Ganot era un giovane navigatore in attesa di completare il suo servizio militare e di iniziare gli studi presso la facoltà di medicina dell'Università Ebraica di Gerusalemme. "Mi ero accorto che lo squadrone si stava preparando a qualcosa di speciale", ricorda. "Quando mi hanno chiesto di mettere la firma per un ulteriore periodo di ferma, ho risposto che ero stato accettato a medicina. Ho detto che se volevano che rimanessi nell'Aereonautica Militare dovevano garantirmi che mi avrebbero incluso nelle future operazioni speciali".

I Puffi

L'operazione pianificata dallo squadrone di Ganot venne chiamata operazione Puffi. I suoi comandanti mentennero la promessa e lui venne scelto come navigatore per uno degli aerei guida.
    Ganot: "Il volo era lungo e in parte sopra territorio nemico. Mi ricordo in particolare i primi attimi dopo l'atterraggio in Sudan. La notte era molto buia – oscurità e deserto. I motori tagliavano il silenzio e alzavano in aria una nuvola di polvere. Là in un angolo ho visto un gruppo di persone che sembravano spaventate. Non sapevo se a spaventarli era stato più il grande uccello che era appena atterrato oppure il rumore e la polvere".
    Avraham: "Ricordo la data; era il 3 marzo 1984. Avevo quasi 14 anni. Ricordo di aver visto l'aereo atterrare, il rumore e la polvere. Ricordo anche com'era l'aereo all'interno. Non c'erano posti a sedere e lungo le fiancate c'erano corde, alle quali l'equipaggio si aggrappava mentre ci aiutava a salire. Rimanemmo in silenzio assoluto per tutto il viaggio e quando atterrammo in Isaele fummo presi da una gioia senza confini".
    Ganot: "Sono saliti sull'aereo senza portare nulla con sé".
    Avraham: "Ci avevano detto di non portare nulla perché ci fosse posto per quante più persone possibile".
    Ganot: "Il volo di ritorno era un'operazione complicata. Ho partecipato a numerose missioni e spesso durante il viaggio di ritorno nascevano dei bambini. Raccomandammo ai nostri comandanti di aggregare all'equipaggio dei ginecologi al posto di normali dottori. Ricordo il silenzio e la nobiltà degli immigrati. Ricordo l'odore che rimaneva nell'aereo dopo il loro sbarco – un misto di dolce e di terra e l'odore della polvere dopo il loro lungo viaggio nel deserto. Era l'odore della fatica. Sono sicuro che se allora, quando eravamo dei giovani piloti, avessimo saputo quello che avevano passato per arrivare lì, allora ci saremmo impegnati anche di più".
    Avraham: "Dimmi, cosa si prova a partecipare ad una missione simile? Cosa provavi quando il pericolo era passato e vedevi il confine israeliano?"
    Ganot: "Durante il volo ciascuno era concentrato sul suo lavoro, nel cercare di farlo nel miglior modo possibile. Mi ricordo di aver pensato che quando saremmo arrivati a casa avremmo dovuto volare sopra Gerusalemme, senza seguire la rotta tradizionale. In un'occasione abbiamo fatto un giro completo sopra Gerusalemme".
    Avraham: "È un peccato che non ce lo abbiate detto: sarebbe stato molto entusiasmante per noi".
    Ganot: "Allora pensavamo di essere parte dell'evento più importante che stava accadendo in quell momento nel mondo intero. Sentivo che quella era l'essenza delle imprese professionali delle Forze di Difesa Israeliane (FDI), la sua funzione più importante – raccogliere gli esuli dopo 40 anni. Non so di nessun altro Paese che va in un deserto lentono per portare a casa i suoi figli. Sentivo che stavo facendo un'altra volta l'aliyah".
    L'incontro con Avraham è molto commovente per Ganot. Per un attimo il pilota israeliano, un alto ufficiale, torna a quando aveva sei anni e i soldati della Securitate, la polizia segreta rumena, fecero irruzione nella casa della sua famiglia per sondare i muri con una potente calamita, alla ricerca di congegni nascosti o denaro. I soldati ruppero alcune cose, misero tutto a soqquadro e portarono via suo padre per interrogarlo. Sì, ricorda tutto questo, anche se col tempo ha imparato a soffocare i ricordi. Ricorda i suoi genitori che accedendevano la radio dopo che lui era andato a dormire per ascoltare la "Voce d'Israele". Ricorda il trillo che precedeva la trasmissione. In seguito, quando ha chiesto ai suoi genitori perché ascoltavano la trasmissione solo dopo che lui era andato a letto, gli hanno risposto che non volevano metterlo in una situazione in cui – se interrogato – non avrebbe saputo se doveva mentire per proteggerli dalla Securitate.
    La famiglia di Ganot è stata una di quelle per la cui libertà Israele ha pagato un riscatto. Il governo rumeno permise a suo nonno, uno dei leader della comunità, di trasferirsi in Israele, avendo promesso che il figlio e il nipote lo avrebbero seguito di lì a poco. Invece la promessa non venne mantenuta. La famiglia di Ganot venne mandata in esilio al confine russo-rumeno dove rimase per 10 anni e dove i suoi genitori lavorarono come dottori, fino a quando Israele non pretese la loro liberazione e quella di un'altra famiglia quale parte di una transizione circolare per l'acquisto di acciaio tra la Romania e la Gran Bretagna.
    Ganot: "Sono arrivato in Israele il 3 settembre 1962. Avevo sei anni. Due giorni dopo ho iniziato la prima elementare. Non sapevo una parola di ebraico. Gli altri bambini pensavano che fossi ritardato e mi picchiavano. Per parecchi giorni sono tornato a casa malconcio e bastonato ed ero piuttosto depresso. Mia madre mi disse che questa era la vita e che dovevo difendermi, mostrare loro che ero forte. Il giorno dopo, quando hanno cominciato a picchiarmi, ho reagito e da quell momento mi hanno trattato con rispetto. Due mesi dopo parlavo ebraico. Nel 1984, quando le FDI mi hanno chieso di rimanere nell'esercito per un ulteriore periodo di ferma, all'inizio ho esitato. Poi ho pensato che Israele aveva pagato per permettere ai miei genitori di fare l'aliyah. Ho deciso di rimanere nell'esercito e di aiutare a portare a casa altre persone".

Viaggio nel deserto

    La storia dell'aliyah di Naftali Avraham inizia quando lui aveva 13 anni, quando al suo villaggio giunse la voce che uno dei modi per raggiungere Israele era attraverso il Sudan. I suoi genitori declinarono l'idea, ma il ragazzo, che allora si chiamava Fentahon, non si arrese. Convinse i suoi genitori a lasciarlo partire. Suo padre lo benedì e gli diede un po' di soldi per il viaggio. Insieme ad un gruppo di amici, tra i quali c'erano anche quattro ragazzine di 12-13 anni e due ragazzi di diciotto anni, si mise in cammino verso il confine sudanese. Un viaggio che doveva durare una settimana diventò un incubo di parecchi mesi, durante i quali i ragazzi vennero assaliti da rapinatori e incontrarono soldati che cercarono di violentare le ragazze del gruppo. Riuscirono ad evitarlo sostenendo che le ragazze erano le loro mogli e che uno di loro era musulmano. Come se non bastasse, un membro del gruppo finì col deidratarsi e dovette essere trasportato a spalla. C'erano anche le bestie feroci e la sete che li affliggeva per poco non li uccise tutti. "Prima che partissimo i miei genitori mi avevano comprato un paio di scarpe All-Star nuove. Quando raggiungemmo il campo in Sudan la suola era completamente distrutta", ricorda Naftali.
    A quel tempo Naftali era un ragazzino di 13 anni, senza genitori o parenti. "Quello stesso giorno ci hanno detto che stava per arrivare un aereo. Ci hanno portato in un aeroporto di fortuna con dei camion. Era buio pesto. Improvvisamente arrivò l'aereo sbucando fuori dal nulla e facendo un rumore pazzesco. Ci hanno spindi sull'aereo e pochi minuti dopo eravamo già in volo. Sedevamo su pavimento, abbracciati stretti stretti l'uno all'altro. Ricordo che il pavimento era coperto con fogli di plastica e che c'erano guardie di sicurezza in ogni angolo. Ci diedero da mangiare e da bere e non dimenticherò mai il sapore di quel pasto".
    Ganot: "Sull'aereo durante il viaggio verso Israele, nel 1962, qualcuno mi ha dato una gomma da masticare avvolta in una cartina gialla. Una gomma da masticare Alma. Non avevo mai assaggiato niente di così buono, ne mi capiterà mai di nuovo un'esperienza simile. Posso ancora sentirne in bocca il gusto. Siamo atterrati all'aereoporto Ben Gurion. I miei genitori si sono diretti verso l'uscita e attraverso le finestre hanno visto la loro famiglia che li aspettava. Sono tutti e due scoppiati a piangere e io ricordo di essermi molto spaventato. Quando i genitori piangono un bambino si sente impotente e non capisce perché lo fanno".
    Avraham: "Dimmi, non hai provato alcuna nostalgia? Io ho iniziato a sentire nostalgia di casa dal momento in cui saiamo atterrati. Fino a quel momento ero stato occupato a cercare di sopravvivere. Dopo l'atterraggio ho cominciato a sentire la mancanza di tutto ciò che mi ero lasciato alle spalle – i genitori, il paesaggio".
    Ganot: "Non ho sentito la mancanza di nulla. Cercavo solo di sopravvivere. Mi sono rifiutato di tornare in Romania. Cinque anni fa, molti anni dopo essere arrivato in Israele, ho guidato una delegazione delle FDI in Romania e ho insistito per indossare la mia uniforme e per portare una valigia che pesasse solo 12 chili, il peso che i miei genitori poterono portare con sé quando lasciarono la Romania. Questa era la mia vittoria personale e privata. I miei genitori non sono mai tornati, nemmeno per una visita".
    Avraham: A volte i bambini devono affrontare molto più che una lotta per la sopravvivenza. Un bambino che è stato sradicato rimane senza radicie deve farne crescere di nuove, imparare un nuovo codice di comportamento e familiarizzare con la nuova cultura in cui si trova a vivere. E' molto dura".

Lotta per la sopravvivenza

    Naftali Avraham venne mandato al collegio Yemin Orde sul Carmelo. Ha insistito perché gli fosse concesso di frequentare una classe normale e ha convinto i suoi amici etiopi a fare lo stesso. "In Etiopia frequentavo la nona classe. Qui mi hanno fatto fare alcuni test e mi hanno meso in decima. Forse un giorno tornerò indietro e completerò la nona. Solo ora che il mio primogento Noam ha celebrato il Bar Mitzvah sono potuto salire alla Torah con lui. Io non ho mai celebrato il mio Bar Mitzvah. L'ho mancato quando sono scappato alla volta di Israele".
    Ganot è stato picchiato dai suoi compagni e i compagni di Naftali hanno urinato sul suo letto. "Piansi tutta la notte. Non potevo credere di essere finito in un  posto simile. Improvvisamente, nel mezzo della notte, alcuni ragazzi più grandi fecero irruzione nella nostra stanza con tubo dell'acqua e iniziarono a spruzzare dappertutto. Ne scaturì una strenua battaglia per la sopravvivenza. Ma come succede spesso tra ragazzi, il tipo che aveva aperto l'acqua divenne in seguito il mio migliore amico. Ho anche dei bellissimi ricordi del mio professore di storia, che lasciava uscire la classe 10 minuti prima della campanella per poter rimanere da solo con me e aiutarmi a raggiungere il livello del resto della classe. Ricordo che prendevo 100% in tutti i miei esami di ebraico, ma la mia insegnante mi diede 85% perché non riusciva a credere che conoscessi così bene la lingua. Nonostante ciò ho finito la scuola con ottimi voti, sono stato accettato nel programma accademico delle FDI (Atudà) e ho studiato ingegneria al Technion".
    Dopo aver completato gli studi, Naftali è entrato a far parte di quell'Aereonautica Militare che lo aveva portato in Israele ed è qui che le vite di Avraham e Ganot si incontrano di nuovo.
    Avraham: "In qualità di comandante della sezione rifornimenti e infrastrutture dell'Aereonautica Militare ho preparato una conferenza con uno dei piloti. Lui ha proiettato per me alcuni filmati, tra cui uno sull'operazione che ha portato gli ebrei etiopi in Israele. Mi sono molto emozionato e ho deciso di trovare il modo di riconnettermi a quella operazione. Ho cercato i nomi dell'equipaggio e dei piloti che si trovavano sull'aereo che mi ha portato in Israele, li ho scritti su una pagina che ho piegato e infilato nella tasca sinistra della mia camicia".
    Uno dei nomi in quella lista era Dan Ganot. Un giorno Avraham ha intravvisto Ganot in un corriodoio del quartier generale delle FDI a Tel Aviv e lo ha avvicinato. Ganot era occupato a prepararsi per il suo nuovo incarco come comandante della base Hatzerim e ha chiesto ad Avraham di tornare pià tardi. Imbarazzato Avraham ha tolto il disturbo e sono passati otto anni prima che i loro sentieri si incrociassero di nuovo. Questa volta Avraham ha tolto il foglio dalla tasca e lo ha mostrato Ganot: l'abbraccio che è seguito ha commosso tutti coloro che vi hanno assistito. Hanno passato insieme alcune ore, parlando delle reciproche esperienze. Oggi vengono spesso invitati a parlare ai soldati della loro esperienza unica. Ma è stato solo durante questa intervista che il brigadiere generale Ganot ha parlato per la prima volta della sua dura esperienza di bambino immigrato e della sua lotta per la sopravvivenza.
    "Sono stordito", ha detto Avraham al suo comandante. "Non avevo idea di ciò che hai dovuto passare".
"Non è nulla se paragonato a quello che hai passato tu", ha risposto Ganot con un sorriso. "Io sono arrivato con i miei genitori mentre tu sei arrivato da solo quando eri ancora un ragazzino. I tuoi genitori sono arrivati in Israele 10 anni dopo e tu sei sopravvissuto da solo per tutto quel tempo".
"Sono state molte le notti in cui il mio cuscino si è inzuppato di lacrime", ricorda Avraham. "Sì, avevo solo 13 anni. Oggi ho un figlio di quell'età. A volte penso a quello che ho dovuto io alla stessa età. Io non lo lascio nemmeno andare da nessuna parte da solo in treno".
    Sei un israeliano?
    Ganot: "Un israeliano orgoglioso di esserlo".
    Avraham: "Abito al Moshav Yodfat e ho sposato Morit che è nata là. Ho tre figli, un misto israelo-etiope. Mi sento israeliano? Alcuni mi dicono che a parte il colore della mia pelle non c'è nulla di etiope in me. Ma come si misurano queste cose? Se il test mi chiede se sogno e conto in ebraico, allora sì, sono israeliano".
 
(Keren Hayesod, 10 maggio 2007)





6. TROVATO IL PASSAPORTO FALSO DI EICHMANN




Rinvenuto in Argentina il documento che consentì al gerarca nazista di scappare da Genova

BUENOS AIRES - Due timbri rossi, uno più grande del Comitato internazionale della Croce Rossa (Cicr) ed uno più piccolo del consolato argentino a Genova, hanno dato validità, oltre 50 fa, al passaporto con cui Adolf Eichmann, il regista della «soluzione finale» orchestrata dal Terzo Reich per gli ebrei, riuscì a rifugiarsi in Argentina con il falso nome di Ricardo Klement, cercando così di sfuggire ad un processo sui gravissimi crimini contro l'umanità da lui commessi. A differenza di quanto avvenuto per altri ex gerarchi nazisti tedeschi o croati (Martin Borman, Joseph Mengele ed Ante Pavelic) che hanno mantenuto zone d'ombra sulla vita trascorsa in territorio argentino dopo la Seconda Guerra Mondiale, si sapeva praticamente tutto dei dieci anni di Eichmann a Buenos Aires fino a quando (11 maggio 1960) fu sequestrato da un commando del Mossad israeliano e portato a Tel Aviv. Si sapeva ad esempio che il nome falso era Klement, che aveva lavorato come tecnico prima per la ditta Capri di Tucuman, e che poi si era trasferito nella capitale per entrare nella neonata fabbrica delle Mercedes Benz.
    Ma nessuno aveva mai visto i documenti che gli permisero di lasciare l'1 giugno 1950 il porto di Genova per costruirsi una nuova vita. Ma ora, grazie all'insistenza di una studentessa impegnata in una tesi di laurea e della collaborazione della giudice federale argentina Maria Romilda Servini de Cubria, è stato rinvenuto in un vecchio fascicolo giudiziario l'originale del passaporto con cui Eichmann si imbarcò dal capoluogo ligure verso l'Argentina. Si tratta di un cartoncino piegato in quattro, su cui c'è una foto autentica dell'ex gerarca, che appare semicalvo, con occhiali rotondi, una camicia, una giacca e un papillon. E poi le generalità: Ricardo Klement, nato a Bolzano il 23 maggio 1913, apolide, di professione tecnico. Il documento prova che la fuga dall'Europa di uno dei protagonisti dello sterminio ebraico è potuta avvenire grazie alla collaborazione del Cicr e dell'allora governo di Peron. I timbri, chiaramente leggibili, sono stati apposti dal Cicr e dal viceconsole argentino a Genova, Pedro Solari Capurro.
    A Ginevra, la Croce Rossa ha spiegato per bocca di un suo portavoce, Vincent Lusser, che i criminali di guerra nazisti «abusarono di un sistema umanitario» e che all'epoca il Cicr non era in grado di svolgere inchieste sull'identità dei profughi e apolidi che chiedevano i documenti. Per quanto riguarda invece le intenzioni del governo argentino, gli storici hanno provato che il presidente Peron fu un promotore della politica di apertura agli esuli nazisti. In particolare il documento relativo a Eichmann si trovava nel fascicolo di una causa aperta a Buenos Aires dalla moglie dell'ex gerarca, Veronika Catalina Liebel, dopo la sua cattura nella capitale argentina nel 1960.
    La direttrice del Museo dell'Olocausto di Buenos Aires, Graciela Jinich, cui è stato consegnato l'originale del passaporto su cui ha studiato la ricercatrice universitaria Maria Galvan, ha detto che il documento è una «testimonianza degli inganni che permisero ad Eichmann di tentare di nascondersi per sempre per non pagare i suoi crimini contro l'umanità».

(Il Gazzettino online, 31 maggio 2007)





7. VITA QUOTIDIANA IN ISRAELE




Pappagallo inadatto

Un negoziante di animali di Sderot ha raccontato a un reporter del quotidiano israeliano Maariv un fatto che gli è accaduto di recente. Una coppia ebrea è andata da lui per liberarsi di un pappagallo che avevano comprato poco tempo prima in Kafr Kassem, un villaggio arabo-israeliano in cui molte cose si possono acquistare a metà prezzo, rispetto per esempio a Tel Aviv. Il guaio però era che il pappagallo ogni mattina, quando il suo nuovo proprietario, un ebreo osservante, recitava la sua preghiera, si metteva a lodare Allah alla maniera musulmana. E con grande foga: "Allahuuuuu Akbar!" La coppia non poteva sopportarlo. Al negoziante non è rimasto altro che portare il pappagallo da un istruttore di animali che cercasse di fargli imparare un po' di ebraico.

(Berliner Zeitung, 30 maggio 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





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