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Notizie su Israele 402 - 25 settembre 2007 |
1. Intervista con il presidente Mahmoud Abbas
2. Diritto al terrorismo? 3. L'incursione israeliana in Siria 4. L'immigrazione in Israele 5. Israele in cifre 6. Libri 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. INTERVISTA CON IL PRESIDENTE MAHMOUD ABBAS
"Ogni contatto con Hamas è mortale" Nella sua intervista al giornale tedesco "taz", il presidente palestinese Abbas insiste nel suo atteggiamento duro: nessun colloquio con Hamas fino a che gli islamisti resteranno nella Striscia di Gaza. di Susanne Knaul
Mahmoud Abbas: Hamas deve revocare il suo "Coup d'Etat". Soltanto dopo questo tratteremo con Hamas. Cosa che questi uomini non escludono. Appartengono al nostro popolo. Ma tuttavia adesso non è il tempo per un dialogo. La popolazione nella Striscia di Gaza sta pagando un alto prezzo. Con il suo atteggiamento duro non rischia di provocare un'escalation militare e una difficoltà economica ancora più grande? Noi ci prendiamo cura dei nostri connazionali nella Striscia di Gaza in tutte le questioni che riguardano gli aiuti umanitari. Abbiamo cominciato con il pagamento degli stipendi. Facciamo quello che possiamo. Ci sono contatti con i leader di Hamas? No, non ci sono trattative con Hamas, né dirette né indirette. Che cosa pensa di fare se Hamas non capitola? Progetta di invadere Gaza? No. Non useremo mezzi militari. Convinceremo le persone nella Striscia di Gaza che è loro interesse tornare alla situazione di prima e riunire la nostra terra e il nostro popolo. Questa divisione danneggia il popolo palestinese. Ci sono sempre più politici che fanno pressioni per una ripresa del dialogo con Hamas. Lei che ne pensa? Hamas fraintenderebbe un'eventuale cessazione del boicottaggio pensando che il mondo adesso lo riconosce. Con questo diminuirebbero le chance di far cessare la lotta di stato nella Striscia di Gaza. Ogni contatto con Hamas è un grosso sbaglio, probabilmente mortale. Lei sostiene colloqui di pace con Israele e per novembre è fissata una conferenza di pace per il Medio Oriente. Non è strano, in questo momento di divisione della Palestina, parlare di pace? Come capo dell'OLP e dell'Autonomia Palestinese ho la piena facoltà di condurre trattative con Israele. Non appena raggiungerò l'unità indirò un referendum e contemporaneamente interpellerò il Parlamento. Per il momento non interpellerò né Hamas né Fatah. Crede che Hamas resterà tranquillo mentre lei tratta con Israele? Non dobbiamo mescolare le cose. Hamas e Gaza son una cosa, la conferenza è un'altra. Se dovesse saltar fuori qualche altra cosa, continueremo a trattare. Su una riunione definitiva sarà il popolo palestinese a decidere. Lei si è incontrato più volte con il Primo Ministro Ehud Olmert. Che impressione ha di lui? Fino ad ora non abbiamo ottenuto risultati concreti. La mia impressione è che Israele desideri davvero la pace. Che cosa si aspetta dal progettato vertice mediorientale negli USA? Per prima cosa mi piacerebbe sapere quando avrà luogo e chi vi parteciperà. Crediamo che tutti gli interessati dovrebbero essere presenti: Siria, Libano, Palestina, Giordania, Egitto e altri stati arabi. Sarebbe un errore escludere anche un solo stato arabo. Il terzo punto è che dobbiamo avere una concreta agenda politica. Soltanto così la conferenza può avere successo. E che cosa ci deve essere nell'agenda? Abbiamo bisogno di un quadro, cioè un accordo fondamentale su come possono essere sciolti i grossi nodi, tra cui la linea di frontiera, il futuro dei profughi, Gerusalemme, la sicurezza e l'acqua. E' un patto simbolico, prima di trattare la soluzione finale della situazione (Endstatuslösung, il termine suona male, ma è così, ndt). Ma lei può sottoscrivere un trattato di pace senza Gaza? Se il popolo accetterà il trattato di pace, io lo firmerò. Che Hamas lo accetti o no. L'Arabia Saudita preme affinché Hamas sia inclusa. Questo mi è nuovo. Perché i sauditi dovrebbero fare questo? Noi abbiamo un governo che è riconosciuto internazionalmente. Hamas è illegale. Quanto è vicino Hamas all'Iran? Hamas mantiene stretti rapporti con l'Iran, finanziari, politici, militari e altro ancora. Non potrebbe esserci una lotta di stato anche in Cisgiordania? Non credo. Che cosa la fa essere così sicuro? Siamo fondamentalmente pronti ad ogni eventualità (taz.de, 21 settembre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 2. DIRITTO AL TERRORISMO? Le Nazioni Unite e il "territorio nemico" di Gaza Da un editoriale del Jerusalem Post Mercoledì scorso il segretario generale dell'Onu Ban Ki-moon si è detto "molto preoccupato" per la decisione israeliana di definire la striscia di Gaza "territorio nemico" riservandosi, di conseguenza, il diritto di sospendere alcune forniture come elettricità o carburante. "Vi sono 1,4 milioni di persone a Gaza ha detto Ban Ki-moon e non devono essere puniti per colpa delle gesta inaccettabili di militanti ed estremisti. Chiedo a Israele di di riconsiderare la sua decisione". Poi, come per un ripensamento peraltro ignorato dalla quasi totalità dei mass-media, la dichiarazione di Ban Ki-moon si concludeva dicendo: "Il continuo e indiscriminato lancio di missili da Gaza su Israele è inaccettabile e lo biasimo. Chiedo che cessi immediatamente, e capisco le preoccupazioni israeliane per la sicurezza in questa materia". Beh, forse no. Se l'Onu "capisse" davvero le preoccupazioni israeliane, avrebbe condannato quello che Ban Ki-moon definisce giustamente "l'indiscriminato lancio di missili" immediatamente, ufficialmente e coerentemente, e non solo come una sorta di aggiunta a pie' pagina di una dichiarazione di condanna di Israele. Sotto molti aspetti, da tempo l'Onu ha perso il diritto di disquisire sulla legalità delle misure di difesa israeliane. Nessuna nazione o organismo che ignora il deliberato fuoco sui civili israeliani ha il diritto di criticare le reazioni di Israele. Condannare la risposta israeliana mentre si resta sostanzialmente zitti sugli attacchi spudoratamente illegali e terroristici che quella risposta hanno provocato, costituisce un chiaro fallimento della giustizia, della legalità e del buon senso. Che tale schema sia da tempo diventato uno standard normale non lo rende meno indecente. Il diritto internazionale diventa peggio che senza senso se viene interpretato come una forma di patto suicida. Contestare la legalità delle misure che Israele sta prendendo in considerazione e che, oltre a colpire il regime di Hamas, danneggerebbero anche palestinesi innocenti, è del tutto legittimo. Ma tali critiche devono anche saper rispondere a una semplice domanda: cosa dovrebbe fare Israele per reagire in modo legale al lancio indiscriminato di missili sui suoi cittadini? Quando Israele prende in considerazione sanzioni sulle forniture di elettricità a Gaza, si parla di "punizione collettiva". Quando ricorre alle uccisioni mirate di singoli terroristi e mandanti lo si condanna per "omicidi extragiudiziali". D'altra parte, dubitiamo assai che chi emette queste condanne perorerebbe l'alternativa di una rioccupazione delle aree della striscia di Gaza da cui viene lanciata la maggior parte dei Qassam. E naturalmente si opporrebbe con forza anche a un vasto impiego di incursioni militari, che inevitabilmente causerebbero la morte, oltre che di molti terroristi, anche di alcuni civili presi nel fuoco incrociato, per non dire di quella dei soldati israeliani. Esasperati, i critici potrebbero sbottare: "Ma insomma, perché non ve ne andate semplicemente da Gaza?". Che è esattamente quello che abbiamo già fatto, nella convinzione appunto che i palestinesi non avrebbero continuato ad attaccarci da un territorio che abbiamo abbandonato, mettendo a repentaglio, anziché incoraggiare, ulteriori futuri ritiri. E nella convinzione che, se i palestinesi, contro ogni logica, ci avessero attaccato ancora da Gaza, il mondo sarebbe stato lealmente al nostro fianco nella risposta a una tale infamia. Non sostenere Israele in questo momento, dunque, serve a dissuadere gli israeliani dall'assumersi proprio quei "rischi per la pace" a cui veniamo continuamente sollecitati. Perché Israele dovrebbe dare ascolto a queste sollecitazioni quando farlo gli si ritorce contro e si traduce in ancor meno sostegno da parte di presunti amici? Ma la mancanza di credibilità dell'Onu sul conflitto arabo-israeliano va anche oltre. In questo momento, ed esempio, fervono i preparativi per la conferenza detta "Durban Due", sotto l'egida ufficiale di Europa e Nazioni Unite. Come la precedente del 2001, anche questa, organizzata con l'amorevole sostegno di campioni di diritti umani quali la Libia e l'Iran, potrebbe segnare il ritorno in auge della vecchia risoluzione Onu (poi abrogata) nota come "sionismo uguale razzismo". Nel complesso, il nuovo segretario generale dell'Onu sembra avere una consapevolezza molto maggiore della situazione in cui si trova Israele, ma è difficile vedere questa maggiore comprensione riflettersi nei comportamenti delle Nazioni Unite. Ban Ki-moon non ha il potere né la volontà di staccare la spina a una conferenza che mira a fomentare odio e razzismo e che danneggia le prospettive di pace, per cui la conclusione ineluttabile è che l'Onu, su questo tema, gioca un ruolo che appare incorreggibilmente dannoso. L'Onu dovrebbe cancellare "Durban Due". Poi, se è davvero animato da sincere preoccupazioni umanitarie per i palestinesi, per non dire degli israeliani, dovrebbe accentuare drasticamente la sua condanna del terrorismo palestinese contro Israele. Se il Consiglio di Sicurezza non solo condannasse con forza gli attentati terroristici (anche quelli sventati), ma imponesse concrete sanzioni diplomatiche contro il regime delinquenziale di Hamas, ciò potrebbe contribuire a dissuadere i burattinai del terrore, e a diminuire la necessità di reazioni israeliane, militari o d'altra natura. In mancanza di tutto questo, è l'Onu e non Israele che deve essere criticata per il suo contributo alle pene umanitarie e per il danno alla causa della pace. (Jerusalem Post, 21 settembre 2007 - da israele.net) 3. L'INCURSIONE ISRAELIANA IN SIRIA Così Israele ha distrutto l'atomica di Damasco di Gian Micalessin Uzi Arad, un ex agente del Mossad diventato poi consigliere politico di Benjamin Netanyahu, l'ex premier alla guida del Likud, riassume tutto in tre laconiche frasi. «So cos'è successo e quando verrà fuori tutti resteranno stupiti». C'è da credergli. A ogni giorno che passa il mistero sull'incursione israeliana in territorio siriano del 6 settembre si fa più inquietante e intrigante. Da ieri è diventata l'ultimo capitolo di una complessa e segretissima operazione militare condotta dalle forze speciali israeliane. Una rischiosissima infiltrazione in profondità messa a segno, a più riprese, da una squadra di commandos incaricati di raccogliere le prove degli esperimenti nucleari condotti con l'ausilio di tecnici e consiglieri nord coreani. Tutto inizia il 18 giugno quando Ehud Barak, il reduce più decorato d'Israele, l'ex comandante di Sayeret Matkal, prende il posto di Amir Peretz alla guida del ministero della Difesa. Il dossier su Dayr az-Zawr lo allarma. In quel centro di ricerche agricole nel nord della Siria stanno confluendo, secondo i rapporti del Mossad, misteriose forniture nord coreane e tecnici di Pyongyang. Barak, fedele al suo passato di uomo d'azione, non indugia. Ascolta il capo del Mossad, convoca i capi di Sayeret Matkal, le forze d'élite dell'esercito, e quelli delle unità 5101 e 5707 dell'aviazione, i commandos responsabili dell'acquisizione bersagli e delle infiltrazioni a lungo raggio. L'obbiettivo è penetrare a Dayr az Zawr, trovare un'eventuale conferma ai rapporti del Mossad e definire gli obbiettivi prioritari. Un compito cruciale ed essenziale - spiegano le rivelazioni di fonte militare israeliana pubblicate ieri dal Sunday Times - per ottenere da Washington l'autorizzazione a colpire. I preparativi e l'operazione durano tutta l'estate. I componenti della squadra, tutti in grado di parlare perfettamente arabo, vengono vestiti con le divise dell'esercito di Damasco e fatti salire su un Black Hawk decollato, probabilmente, da una base nel nord dell'Irak, dove il confine è meno controllato e l'attività americana intensa. Come i militari israeliani riescano a penetrare a Dayr az Zawr è un arcano che scopriremo solo grazie ai libri di memorie di qualcuno dei partecipanti. Il risultato è quello previsto. I campioni prelevati dai commandos risultano di provenienza nord coreana e confermano l'ipotesi di attività nucleare. A quel punto Ehud Barak torna a esaminare la situazione e inoltra un rapporto dettagliato alla Casa Bianca. La consistenza delle prove israeliane suscita un doppio allarme a Washington. Se da una parte la Siria cerca di acquisire componenti nucleari, dall'altra Pyongyang, firmataria pochi mesi prima di un'intesa con Washington, sembra pronta a svendere il proprio arsenale atomico. Il via libera americano arriva quasi immediatamente. Israele deve mettere a segno il difficile colpo in un unico complessissimo raid. Barak non perde tempo. Ordina un'altra infiltrazione in territorio nemico per illuminare il bersaglio e nella notte del 6 settembre dà il via agli F15 da giorni in volo in attesa dell'occasione più opportuna. Sul terreno, stando alle rivelazioni del Sunday Times, la sorpresa è totale. I radar e le difese anti aeree appena acquistate dalla Russia vengono completamente accecate. Quando le prime bombe colpiscono la struttura di Dayr az Zawr i tecnici nord coreani al lavoro assieme ai loro colleghi siriani non fanno in tempo a mettersi in salvo. Restano sepolti sotto le macerie dei laboratori atomici, muoiono assieme al primo sogno nucleare di Damasco. Il successo insomma è completo, ma resta l'inquietudine per l'inevitabile e attesa rappresaglia siriana. Ehud Barak lo sa |
e lo ricorda a tutta la nazione. «Dobbiamo - ha avvertito ieri alle celebrazioni per l'anniversario della guerra dello Yom Kippur - vivere come se la guerra fosse dietro l'angolo». (Il Giornale, 24 settembre 2007) 4. L'IMMIGRAZIONE IN ISRAELE I nuovi israeliani? Da Asia e Africa di Alberto Stabile GERUSALEMME - Verrà dai discendenti delle Tribù perdute il soccorso all´Alyah da qualche tempo in difficoltà? A giudicare dai dati in possesso del Ministero dell´Interno, mentre continua il saldo negativo tra quanti arrivano in Israele e quanti se ne vanno in cerca di fortuna altrove, decine di migliaia sparsi ai quattro angoli della Terra aspettano di vedersi riconosciuti come ebrei per poter compiere la "salita", l´Alyah, appunto, nella Terra Promessa. Diciamolo francamente: non sono tempi di vacche grasse, questi, per l´immigrazione in Israele, uno dei pilastri su cui si basava, ieri, il progetto sionista ed, oggi, la bilancia demografica dello Stato ebraico. L´anno appena concluso ha confermato il declino degli arrivi, 18.753 nel 2006-2007 contro i 20.050 del 2005-2006. Ma, soprattutto, sono di più quelli che emigrano, 30 mila lo scorso anno, la maggioranza dei quali giovani laureati, tecnici, scienziati in cerca di migliori opportunità all´estero. Fuga dei cervelli. E poi c´è il fenomeno dei naziskin, fanatici e violenti (ultimo episodio, nel fine settimana una sinagoga di Dimona, nel Negev è stata imbrattata di svastiche e scritte naziste) che ha spinto a guardare un po´ meglio dentro la nebulosa della grande immigrazione che negli ultimi anni è stata soprattutto dall´ex Unione sovietica, per scoprire ciò che già si sapeva. E cioè che la maggioranza degli immigrati dalla Russia, non sono ebrei o per lo meno, pur avendo diritto alla cittadinanza, il loro ebraismo non è certo. Ma ecco che, a riequilibrare parzialmente questi dati poco edificanti, si scopre che, secondo il Ministero dell´Interno, a decine di migliaia, e letteralmente dai quattro angoli della terra, desiderano essere riconosciuti come ebrei per poter emigrare in Israele. Il titolo, per così dire, che molti presentano è una lontana e tutta da verificare discendenza con le cosiddette Tribù perdute. E qui basti dire che le leggende sulle Tribù scomparse risalgono alla morte di Re Salomone (930 a. c.) quando il regno d´Israele fu diviso in Regno del Nord, che comprendeva 10 tribù (Ruben, Simeone, Asher, Gad, Zebulon, Efraim, Manasse, Dan, Naftali, Issachar) ed il regno del Sud, con due sole tribù, quelle di Giuda e di Beniamino. Il regno del Nord fu conquistato e distrutto dagli Assiri nel 722 a. C. e la sua popolazione esiliata e dispersa nei territori dell´impero. Mentre gli appartenenti alle due tribù del regno del Sud subirono una sorte migliore: furono esiliati dai Babilonesi ma Ciro il Grande, fondatore dell´Impero persiano, ne permise il ritorno. Gli ebrei di oggi (detti anche giudei) sono in gran parte discendenti delle tribù di Giuda e Beniamino, regno del Sud. Ma chi sono questi potenziali candidati ad usufruire della legge del ritorno? Per quanto riguarda l´Africa, essi provengono dalla Nigeria, dove alcune migliaia di membri della tribù Ibo rivendica di discendere dalla Tribù perduta di Gad, al Sud Africa, dove 70 mila appartenenti alla tribù Lemba dichiara di avere tratti genetici simili alla stirpe sacerdotale dei Cohaim. Dall´Uganda, dove 600 mila Abayudaya (qualche traccia nel nome?) hanno mantenuto tradizioni ebraiche negli ultimi 90 anni, all´Etiopia dove si sono fatti avanti 15 mila Falashmura, discendenti degli ebrei etiopi (Falashà, già emigrati in Israele negli anni '80) convertiti al cristianesimo. Ma richieste di vagliare l´eventuale discendenza ebraica vengono anche dall´India (i cosiddetti figli di Menashe), dalla Cina e dal Sud America, dove, a fronte della sparuta comunità di Iquitos, in Perù, consistente solo in poche centinaia di persone, cominciano a farsi avanti i discendenti dei marrani, (ebrei costretti a convertirsi al cristianesimo) del Brasile, da un milione a dieci milioni. Senza tralasciare l´Europa (marrani spagnoli e portoghesi) e la Russia: i Sobotniks, discendenti da una comunità cristiana pravoslava, che all´inizio dell´800 decise di osservare il sabato secondo le regole ebraiche, da cui il nome. Da notare che la maggior parte di questi potenziali immigrati provengono da paesi del terzo Mondo o da regioni coinvolte nel crollo dell´ex Impero russo. Sono, cioè, persone che, oltre alla spinta religiosa, o d´identità, sono alla ricerca di una soluzione "messianica" alle loro difficili condizioni materiali e di vita. In questo sforzo sono incoraggiati da un certo numero di organizzazioni private che sono interessate, chi per motivi laici, come il tentativo di equilibrare la bilancia demografica tra popolazione ebraica e popolazione araba, chi per motivi di fede a ritrovare le tracce delle cosiddette Tribù perdute. Ma sarebbe esagerato parlare di un fenomeno che coinvolge la società israeliana. (La Repubblica, 17 settembre 2007) 180 5. ISRAELE IN CIFRE Come ogni anno in occasione di Rosh Hashana (capodanno), l'ufficio israeliano delle statistiche pubblica dati e cifre sul paese e sulla sua popolazione. La popolazione del paese All'inizio dell'anno 5768, secondo il calendario ebraico, la popolazione d'Israele ammonta a 7.200.000 persone: 5.477.000 ebrei; 1.438.000 arabi e 315.000 persone registrate come cristiani non arabi o dichiarati senza religione. Crescita della popolazione La crescita della popolazione israeliana è stabile al tasso di 1,8% e non si è evoluta dal 2003. Il 90% di questa crescita è naturale. Il 10% è dovuto all'immigrazione. All'inizio degli anni '90 l'immigrazione costituiva il 56% della crescita annuale del paese. Negli anni '90 la crescita è stata del 3%. La crescita naturale nell'ambito della popolazione ebrea è dell'1,5%, mentre presso gli arabi arriva al 2,6%. Dalla creazione dello Stato d'Israele nel 1948, la popolazione si è moltiplicata di più di 8,5 volte. Nel 1948 Israele contava 806.000 abitanti. Una popolazione relativamente giovane La popolazione israeliana, paragonato alle popolazioni dei paesi occidentali, è considerata come giovane, perché il 28% degli israeliani sono sotto i 14 anni (contro il 17% degli altri paesi europei). Il 10% della popolazione ha più di 65 anni (contro il 15% dei paesi occidentali). Più Aschkenaziti che Sefarditi Si contano più ebrei provenienti da paesi europei e dall'America del Nord (39% della popolazione) che ebrei provenienti dall'Africa del Nord (15%). Il gruppo etnico più piccolo è quello degli ebrei provenienti dai paesi dell'Asia. che costituiscono soltanto il 12% della popolazione. Più donne che uomini In Israele ci sono 977 uomini ogni 1000 donne. Fino all'età di 35 anni si contano più uomini che donne, ma a 36 anni la tendenza si inverte. Dopo i 75 anni s'accentua ancora di più perché restano soltanto 673 uomini ogni 1000 donne. Tel Aviv attira sempre La metà della popolazione ebraica del paese è concentrata nel centro del paese, con il 20,9% nella regione di Tel Aviv. Soltanto il 10% della popolazione ebraica abita nel nord del paese. La popolazione araba si trova piuttosto alla periferia: il 45% degli arabi abitano al nord (Galilea, Haifa) e l'11% al sud (Neghev). Densità della popolazione La densità della popolazione non cessa di aumentare in Israele. Si registrano 310 abitanti per kmq contro i 220 abitanti per kmq nel 1990. Tel Aviv e i suoi dintorni (il centro del paese) sono la regione più popolata con 1974 abitanti per kmq, mentre nel sud del paese si registrano soltanto 72 abitanti per kmq. Le due città d'Israele che hanno la più forte densità sono Bené Brak (nei pressi di Tel Aviv) con 20.266 abitanti per kmq e Bat Yam (a sud di Giaffa) con 15.785 persone per kmq. La densità della popolazione israeliana è paragonabile a quella dell'India. E' una delle più forti al mondo. La popolazione è in maggior parte urbana Il 91% degli israeliani abitano in località con più di 2000 persone. Un quarto della popolazione abita nelle quattro grandi città del paese: Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa e Rishon LeZion. La speranza di vita aumenta Nel 2006 sono nati in Israele 148.178 bambini, con un aumento del 3% rispetto al 2005. La speranza di vita in Israele è di 78,5 anni per gli uomini e 82,5 anni per le donne. In rapporto all'anno scorso, si registra un progresso della speranza di vita dello 0,2%. (Un Echo d'Israèl, 13 settembre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 6. LIBRI Weisz, l'allenatore ebreo vittima delle leggi razziali fasciste ROMA - Forse sono in pochi a sapere che le leggi razziali del fascismo hanno provocato una vittima illustre. Si tratta di Arpad Weisz, allenatore dell'Ambrosiana e poi del Bologna. Weisz portò al successo dello scudetto queste due squadre. Se lo facesse oggi, sarebbe considerato un genio insuperabile del calcio. Lo seppe fare tra gli anni '20 e '30, riuscendo in un impresa che solo in pochi hanno raggiunto. Il nome di questo allenatore ebreo di nazionalità ungherese è stato dimenticato da tutti. L'unica traccia visibile dell'insegnamento di Weisz è rimasto nella bravura di Fulvio Bernardini che riuscì a vincere lo scudetto con il Bologna negli anni '60. Nel 1938 fu costretto a lasciare il nostro Paese per l'introduzione delle leggi contro i cittadini italiani e stranieri di religione ebraica. Fu un vero peccato per il calcio italiano. La sua cacciata dal mondo calcistico italiano fu passata sotto silenzio da tutti i mezzi di informazione e dimenticata dalla saggistica sul calcio. A ricordarne la figura ci ha pensato Matteo Marani, giornalista del Guerin Sportivo che ha pubblicato con Aliberti editore Dallo Scudetto ad Auschwitz - Vita e morte di Arpad Weisz, allenatore ebreo. Questo libro merita un plauso speciale perché Marani ha saputo dare una risposta esauriente a un interrogativo che si ponevano in molti senza trovare risposte. Enzo Biagi qualche anno fa si era chiesto: "Mi sembra si chiamasse Weisz, era molto bravo ma anche ebreo e chissà come è finito". Come fosse finito Weisz non lo sa nemmeno Simon Kuper che pubblica nel 2003 con ISBN il volume Ajax, la squadra del ghetto. Weisz aveva allenato tra il 1939 e il 1941 una squadra olandese, il FC Dordrecht. Ma del suo nome non c'è traccia. Si parla una sola volta di Weisz in Calcio e fascismo (Mondadori) di Simon Martin. Il giornalista inglese ricorda che "gli ungheresi Ugo Meisl e Arpad Weisz avevano contribuito grandemente alla modernizzazione del calcio italiano. In effetti, con crudele disprezzo del suo contributo allo sviluppo del calcio italiano, Weisz, l'ebreo ungherese, fu costretto a rinunciare alla sua professione nel gennaio del 1939, in seguito all'introduzione delle leggi razziali. Venne in seguito deportato e morì in campo di concentramento" (pagina 85). La fine dell'esperienza dell'allenatore ungherese fu accompagnata dal silenzio dei mezzi di informazione sportiva. Ad emettere la sua condanna a morte ci pensò lo stesso Benito Mussolini che modificò il decreto sulla discriminazione degli ebrei che imponeva a quanti di loro fossero stranieri di lasciare l'Italia. La prima stesura aveva previsto l'espulsione per gli ebrei che risiedevano in Italia nel 1933. Ma il presidente del Consiglio pensò di anticipare la data dell'espulsione al 1919. Il Calcio illustrato aveva descritto Weisz così nel 1937: "Troverete rilievi originali e profondi, e nel complesso la prova di un'intelligenza purtroppo non comune nei nostri allenatori. Non per nulla questo ungherese ha vinto, sinora, tutti i campionati a girone unico lasciati liberi dalla Juventus". Ma quando l'allenatore ungherese fu costretto a lasciare l'Italia, lo stesso Calcio illustrato liquidò quell'allenatore "intelligente" con due righe: "Quanto a Veisz (il nome autarchico stabilito dal fascismo, ndr) sembra che lascerà l'Italia a fine anno". In Italia nessuno riuscì davvero a comprendere le ragioni che avevano spinto Weisz in Italia. L'allenatore cercò fortuna a Parigi dove trovò una città nella quale l'ideologia nazista aveva fatto strada prima della guerra. Tra il gennaio del 1938 e l'inizio della primavera di quell'anno Weisz cercò un ingaggio con una squadra francese e trovò solo l'ostilità di un ambiente calcistico prevenuto verso gli ebrei. Ne è un esempio Alexandrè Villaplane, capitano della nazionale francese ai mondiali di calcio del 1930, che divenne nel 1940 collaboratore della Gestapo e fu condannato a morte nel 1944 dopo la liberazione della Francia. Una possibilità di riscatto per Weisz arrivò da una squadra olandese di prima divisione, il FC Dordrecht. Weisz riuscì a guidare questa formazione per tre stagioni, collezionando una salvezza e due cinque posti da ricordare per la sconfitta inflitta per due volte al Feyenoord, una delle squadre più forti dell'epoca. L'invasione nazista del suo Paese avrebbe ucciso ogni speranza della famiglia dell'allenatore olandese che fu deportata nel campo di concentramento di Auschwitz. Per Weisz il passaggio dal campionato italiano a quello olandese fu traumatico. L'allenatore pensava spesso all'Italia e a quel calcio che aveva abbandonato e avrebbe pagato la follia di una guerra inutile che avrebbe travolto tutto. Anche quel calcio che Weisz amava e che aveva contribuito ad innovare con la sua bravura. (Il Velino, 17 settembre 2007) MUSICA E IMMAGINI Dayagim INDIRIZZI INTERNET Gli ebrei a Roma Netivyah Bible Instruction Ministry Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |