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Notizie su Israele 403 - 5 ottobre 2007 |
1. Il futuro d'Israele
2. Se a Gaza si votasse oggi 3. Non esiste soluzione militare al terrorismo? 4. La comunità ebraica della Birmania 5. Un segnale di buona volontà 6. Cure mediche per i palestinesi in Israele 7. Musica e immagini 8. Indirizzi internet |
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1. IL FUTURO D'ISRAELE
Il futuro d'Israele sta nel Negev e in Galilea di Ariel Schneider
La Bibbia dice che il deserto un giorno fiorirà. E' un sogno che anche il Primo Ministro David Ben Gurion aveva. Ma a circa 60 anni dalla fondazione dello Stato d'Israele il 60% del deserto è ancora incolto. I governi israeliani preferiscono investire dove il paese è più fittamente popolato. Il deserto del Negev, che è quasi del tutto spopolato e serve principalmente come campo di manovra per l'esercito israeliano, non sta quindi al primo posto nell'ordine del giorno degli israeliani. Alla fine di luglio, il segretario di Stato americano Condoleeza Rice ha detto alla radio araba che il futuro di Israele sta nel deserto e in Galilea. "In un tempo prevedibile l'occupazione israeliana della cosiddetta Cisgiordania finirà e sorgerà uno stato palestinese. In futuro Israele si svilupperà nel Negev e in Galilea", ha dichiarato Rice. Pochi giorni prima il Presidente americano George W. Bush aveva fatto a Israele la stessa proposta: "Israele deve concentrarsi sul Negev e sulla Galilea e ritirarsi dentro i confini della guerra dei sei giorni del 1967". Nei 36 kibbutz, moshav e cittadine vivono appena 85.000 israeliani, di cui 60.000 in 6 città. La cosiddetta capitale del Negev al confine del deserto, Beersheba, conta 200.000 abitanti. Nel Negev vivono inoltre 180.000 beduini. La popolazione israeliana nel deserto ammonta a meno del 7% dell'intera popolazione, nonostante costituisca il 60% del territorio nazionale. Se si tolgono i beduini israeliani, gli abitanti ebrei nel deserto (285.000) costituiscono soltanto il 4% della popolazione israeliana (7,2 milioni). L'ebreo si ritira malvolentieri nell'arido territorio del deserto. Il 93% della popolazione israeliana vive sul solo 40% del territorio nazionale israeliano. La liberazione del biblico territorio di Giudea e Samaria, così come la riunione di Gerusalemme 40 anni fa, non ha ancora svegliato David Ben Gurion - così si scherza - "dal suo sogno di un deserto verdeggiante". Negli ultimi 40 anni la politica degli insediamenti ha spostato l'interesse politico dal deserto nel sud del paese verso la Giudea e Samaria nel centro. Nei 125 insediamenti ebrei dei territori contesi di Giudea e Samaria vivono oggi quasi altrettanti ebrei che nel deserto, insieme con 1,5 milioni di palestinesi. E bisogna tenere presente che la superficie di Giudea e Samaria è circa tre volte più piccola di quella del deserto israeliano. I beduini di Israele continuano a dire che loro hanno realizzato il sogno del grande visionario ebreo, perché vivono nel deserto, e perché ogni 17 anni la popolazione dei beduini nel deserto si raddoppia. A occhio e croce questo significa che saranno 360.000 nel 2024, 720.000 nel 2041 e un milione e mezzo nel 2058. La popolazione beduina cresce quindi quattro volte più velocemente di quella ebrea. In Galilea, Israele si trova davanti anche a un problema demografico, perché il 55% degli 1,2 milioni di persone della Galilea sono arabi, che in cifra sono 670.000. La metà di tutta la popolazione araba di Israele (circa 1,3 milioni) vive nel nord di Israele, in un territorio di 4.500 chilometri quadrati. Già oggi la popolazione ebrea in Galilea costituisce la minoranza e conta 150.000 persone meno degli arabi. La Galilea è un territorio collinoso e montuoso fittamente popolato, in cui vivono 261 persone per chilometro quadrato. Già adesso cominciano ad essere stretti in Galilea, e le tensioni tra ebrei e arabi si moltiplicano. Negev e Galilea, più che una soluzione politica, costituiscono piuttosto una parte del conflitto arabo-israeliano. Nel Negev e in Galilea è presente lo stesso pericolo demografico che Israele si trova ad affrontare con i palestinesi nella biblica Giudea-Samaria. Succede così che qualche politico israeliano ha sostenuto l'idea che il deserto israeliano del Negev dovrebbe diventare un'attrazione simile a quella che è la città del gioco di Las Vegas nel deserto americano del Nevada. Ma questo certamente non ha niente a che vedere con il pensiero di Dio e con il sogno di Ben Gurion. (israel heute, 4 ottobre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 2. SE A GAZA SI VOTASSE OGGI Se a Gaza si votasse, secondo un sondaggio Hamas perderebbe L'indagine evidenzia che il 42% darebbe la preferenza a Fatah, contro un 15% che la confermerebbe al movimento estremista. La maggioranza degli abitanti della Striscia è favorevole ad un accordo di pace con Israele e chiede a Hamas di modificare atteggiamento su tale questione. GERUSALEMME La maggioranza degli abitanti della Striscia di Gaza, se chiamata a votare, non darebbe la propria preferenza a Hamas - che da giugno ha il controllo totale sulla zona - è favorevole alla pace con Israele e contraria al lancio di razzi contro lo Stato ebraico, considera Mahmoud Abbas, presidente dell'Anp, l'autorità legittima. Sono alcuni dei risultati di un sondaggio condotto a Gaza dal Near East Consulting, un istituto di Ramallah. Favorevole ad un accordo di pace con Israele, secondo l'indagine, sarebbe il 72% della popolazione ed il 55% chiede a Hamas di cambiare il suo atteggiamento contrario a colloqui di pace. Oltre il 70% appoggia l'idea di nuove elezioni, come chiesto da Abbas ed anche da Marwan Barghouti, il leader di Fatah imprigionato in Israele: in caso di voto, il 42% afferma che voterebbe per Fatah, il 15% per Hamas. Abbas, inoltre, rappresenta, a giudizio del 52% degli intervistati, la legittima autorità nazionale, mentre il 26% ritiene che lo sia il governo di Hamas, guidato da Ismail Haniyeh. Il sondaggio, condotto telefonicamente tra il 25 ed il 27 settembre, afferma poi che, l'86% della popolazione è preoccupata per la situazione economica e che il 47% sta pensando all'emigrazione. Il mese precedente, solo il 33% stava pensando di lasciare la Striscia. Inoltre, dopo la conquista del potere da parte di Hamas, il 58% dei rispondenti ha paura di esprimere le proprie opinioni politiche ed il 60% ritiene che la polizia del movimento, la Forza esecutiva, ha fatto poco per il rispetto dei diritti individuali. (AsiaNews/Agenzie, 4 ottobre 2007) 3. NON ESISTE SOLUZIONE MILITARE AL TERRORISMO? Uno slogan da smontare Da un articolo di Evelyn Gordon "Non esiste soluzione militare al terrorismo". È così raro, di questi tempi, che questo mantra venga messo in discussione, che è stato quasi scioccante leggere sulla prima pagina di Ha'aretz, testata leader in Israele della teoria della "inesistente soluzione militare", il seguente commento: "Si sostiene comunemente che è impossibile sconfiggere il terrorismo. Ma negli ultimi sette anni di intifada le Forze di Difesa e i servizi di sicurezza israeliani sono andati molto vicino a quella che si potrebbe definire una vittoria sul campo. Gli israeliani uccisi dal terrorismo dall'inizio del 2007 sono stati: due soldati (uno in Cisgiordania e uno nella striscia di Gaza) e sei civili (tre per un attentato suicida a Eilat, due per missili Qassam a Sderot e uno accoltellato a morte a Gush Etzion). Per quanto tragico, si tratta di un numero di vittime molto basso se messo a confronto con il numero di attentati che, nello stesso periodo, sono stati organizzati ma sventati, e con il numero di vite mietute quando l'intifada era al suo apice, nel 2002: 450 israeliani uccisi. L'ultimo attentato suicida che i terroristi sono riusciti a realizzare nel cuore di Israele risale all'aprile 2006: diciotto mesi fa. La formula che ha prodotto questi risultati è nota prosegue Ha'aretz Energica raccolta di informazioni di intelligence, barriera di sicurezza fra Israele e territori, completa libertà d'azione delle Forze di Difesa nelle città cirsgiordane". Se questa non è una vittoria militare, è sicuramente la sua più prossima approssimazione che la maggior parte degli israeliani sono ben disposti ad accettare. Ecco perché la rilevazione dello scorso giugno del sondaggio periodico "Indice della Pace" ha trovato una schiacciante maggioranza di israeliani ebrei contrari all'idea di fare ai palestinesi altre concessioni sulla sicurezza, con il 79% contrario a dare armi alle forze dell'Autorità Palestinese, il 71% contrario alla rimozione di posti di blocco, e il 54% contrario all'ulteriore scarcerazione di detenuti. Sono pochi i cittadini di questo paese disposti a smantellare delle misure di sicurezza che hanno contribuito a ridurre i morti israeliani da 450 a 8 nell'arco di cinque anni. Il che spiega anche il sorprendente mutamento d'opinione degli israeliani riguardo a Sderot, rilevato dall'Indice della Pace dello scorso agosto, con ben il 69% degli israeliani ebrei che oggi appoggiano l'idea di una vasta operazione di terra nella striscia di Gaza per fermare i lanci di Qassam contro il sud di Israele, mentre lo scorso dicembre i favorevoli erano solo il 57%. Di più, questo sostegno risulta trasversale agli schieramenti politici: anche coloro che votano i partiti di sinistra, laburista e Meretz, sono favorevoli, al 64% e al 67% rispettivamente, a una decisa operazione militare a Gaza. È chiaro che questo mutamento d'opinione in parte si è prodotto perché nel frattempo erano state esaurite tutte le altre opzioni. Il sondaggio di dicembre cadeva un mese dopo che Hamas aveva dichiarato un "cessate il fuoco" a Gaza: sebbene la tregua non tenesse, molti ancora speravano che prima o poi avrebbe funzionato. Ad agosto ogni speranza era svanita. Non solo i Qassam continuavano a cadere su Sderot con un ritmo quasi quotidiano mentre la "tregua" era ancora ufficialmente in vigore, ma a maggio Hamas aveva addirittura esplicitato il suo spregio per la "tregua" rivendicando più di cento Qassam lanciati in una singola settimana. Non basta: a dicembre Mahmoud Abbas (Abu Mazen) aveva ancora formalmente il controllo sulla striscia di Gaza e molti speravano ancora che avrebbe agito concretamente per far cessare i lanci di missili. In agosto Hamas aveva orami assunto il pieno controllo. Il fatto che Israele a Gaza abbia innanzitutto perseguito soluzioni non militari ricorda il suo comportamento durante i primi diciotto mesi di intifada. In quel periodo Gerusalemme aderì a vari cessate il fuoco (sempre immediatamente violati), evitò di reagire persino quando gli attentati suicidi colpirono nel cuore di Israele (alla discoteca Dolphinarium di Tel Aviv e alla pizzeria Sbarro di Gerusalemme), e in generale cercò di far sì che le forze di sicurezza palestinesi riprendessero il controllo della situazione nei territori di loro competenza. Poi però, mentre il numero di vittime cresceva tragicamente soprattutto all'interno di Israele, apparve del tutto chiaro che la soluzione non sarebbe mai arrivata dall'Autorità Palestinese. Così, nel marzo 2002 Israele riprese il controllo della Cisgiordania con l'Operazione Scudo Difensivo, e il numero di vittime israeliane iniziò a diminuire vistosamente, già quell'anno e poi ogni anno successivo. C'è tuttavia una differenza cruciale fra i primi anni dell'intifada e il recente tentativo israeliano di arrivare a una soluzione non militare a Gaza. Gli israeliani preferirebbero sempre evitare di mettere a repentaglio la vita dei loro soldati; oggi però sanno qualcosa che nel 2002 non sapevano: e cioè che l'opzione militare può funzionare. Dopo tutto, resta vero che dalla Cisgiordania non è stato lanciato un solo Qassam. Quindi gli israeliani, senza aspettare la leadership dall'alto, danno il loro sostegno a un'azione militare, anche se i politici ancora la rifiutano con determinazione. Alla luce di questa crescente consapevolezza del pubblico israeliano, appare bizzarro che autorevoli politici e alti ufficiali continuino a ripetere il mantra che "non esiste soluzione militare al terrorismo". Ma costoro, se non altro, capiscono che nella pratica le misure difensive israeliane in Cisgiordania funzionano, e che pertanto sospenderle sarebbe una pessima idea (per non dire di quanto sarebbe impopolare fra gli elettori). Viceversa, organismi e diplomatici internazionali non arrivano a capire nemmeno questo. Tutti, esaminando i dati anche solo per cinque minuti, potrebbero capire che, a partire dal 2002, le misure militari in Cisgiordania hanno drasticamente ridotto il numero di vittime israeliane, specialmente all'interno di Israele. Eppure continuano a proclamare che quelle misure sono inutilmente vessatorie e che devono essere eliminate. La stessa Condoleezza Rice usa ogni sua visita in Israele per fare pressioni su questo argomento, mentre la Banca Mondiale di recente ha chiesto di nuovo che Israele rimuova i posti di blocco, apra i confini con Gaza e ripristini la libertà di movimento tra Gaza e Cisgiordania. Ma potrebbe anche trattarsi di ignoranza simulata, volta a coprire una precisa volontà: quella di sacrificare vite di israeliani pur di sfoggiare "progressi" nel processo di pace. Il rapporto della Banca Mondiale, ad esempio, afferma con grazioso eufemismo che "i costi sono soggettivi per ciascuna parte, ed esulano dall'ambito di questo rapporto", risparmiandosi in questo modo la necessità di ammettere che il costo più probabile sarebbe pagato in vite di israeliani uccisi. E aggiunge che "tutte le parti dovranno impiegare maggiori risorse e assumersi maggiori rischi di quanto abbiano fatto in passato". Davvero non sanno in cosa consistono quei "rischi" tenuti così prudentemente impliciti? In ogni caso, questa voluta cecità non fa che perpetuare il conflitto giacché garantisce che non venga affrontato quello che è uno dei principali ostacoli che impediscono la soluzione: il terrorismo palestinese. Nel 1993 molti israeliani speravano che un accordo di pace avrebbe posto fine al terrorismo. Quattordici anni più tardi, dopo aver subito più caduti per terrorismo palestiense nel dopo-Oslo che in tutti i 45 anni precedenti, la maggior parte degli israeliani è arrivata alla conclusione che la soluzione militare che si presume inesistente protegge in realtà assai meglio la loro vita. E finché non vi sarà prova concreta della volontà e della capacità dei |
palestinesi di assolvere questo compito altrettanto bene o persino meglio, non si troverà una maggioranza di israeliani disposta ad appaltare la loro sicurezza all'Autorità Palestinese in cambio di un accordo su un pezzo di carta. (Jerusalem Post, 26 settembre 2007 - da israele.net) 4. LA COMUNITA' EBRAICA DELLA BIRMANIA Gli ebrei del Myanmar vivono nella paura di Yael Ancri Resta ben poco della comunità ebraica del Myanmar. Al suo apogeo degli anni quaranta, la comunità dell'ex Birmania contava circa 4.000 ebrei, di cui la maggior parte erano d'origine iraniana, irachena e indiana. Adesso non restano che 20 ebrei. Gli ebrei hanno cominciato a lasciare la Birmania durante la seconda guerra mondiale. La maggioranza di loro sono fuggiti quando il Giappone ha invaso il paese, scegliendo di emigrare verso gli Stati Uniti e Israele. Nel 1962, dopo il colpo di stato militare del generale Ne Win, la comunità è di nuovo diminuita. Altri ebrei sono partiti nel 1964, dopo che il regime militare è diventato un affare privato su scala nazionale. Gli ebrei rimasti in Birmania abitano nella capitale, Yangon, e nella dodicesima città del paese, Mandalay. Non c'è vita comunitaria e le sole interazioni tra gli ebrei birmani hanno luogo lo Shabbat e le feste, quando s'incontrano nella sinagoga per pregare. «La comunità ebraica vive nella paura. Nessuno sa quello che può succedere domani», ha affermato Sami Samuels, uno degli ebrei di Yangon. «Le feste di Rosh HaShana e di Succot di quest'anno sono state le più tristi che abbiamo vissuto da molto tempo... Abbiamo dovuto adattare gli orari delle funzioni al coprifuoco militare. Le strade sono piene di soldati e la situazione qui è instabile. Gli ebrei, come molti altri qui, temono per le loro vite», ha aggiunto Samuels. Dopo il 5 settembre 2007, quando dei monaci buddisti sono stati picchiati dai militari della giunta birmana durante una manifestazione a Pakokku, a 5.000 chilometri a nord di Yangon (Rangoon), un movimento di protesta dei bonzi si è sviluppato in tutta la Birmania. Questo movimento fa seguito a delle manifestazioni organizzate dopo il 19 agosto 2007 a Yangon per denunciare l'aumento massiccio dei prezzi dei carburanti e dei trasporti pubblici. Membri di opposizione della Lega Nazionale per la Democrazia, diretta da Aung San Suu Ky, agli arresti domiciliari da dieci anni, come anche studenti e altre persone hanno raggiunto le manifestazioni pacifiche dei monaci che si svolgevano principalmente a Yangon (Rangoon), Mandalay e probabilmente anche in altre città. A partire dal 26 settembre 2007, numerosi arresti sono stati operati e il bilancio dei morti e dei feriti si aggrava di giorno in giorno. Le tensioni tra la giunta militare e i monaci buddisti hanno spinto la comunità ebraica a prendere delle precauzioni supplementari, e recentemente gli ebrei hanno noleggiato i servizi di una compagnia privata di sicurezza per assicurare la vigilanza della sola sinagoga di Yangon. «I disordini rendono anche più difficile trovare il Mynian (quorum di 10 uomini) di cui abbiamo bisogno per le feste», ha precisato Samuels. «Di solito ci sono molti turisti qui in quest'epoca dell'anno, ma questa volta, a causa dei tumulti, ce ne sono molto pochi. Dovunque guardiate, non vedete altro che gente che ha fretta di tornare a casa», ha aggiunto. La comunità è così piccola, ha spiegato Samuels, che qualche volta si trovano a celebrare certe funzioni con i monaci buddisti. Il padre di Sami Samuels, Moshé Samuels, è il Gabai (il presidente) della sinagoga di Yangon, che è stata costruita nel 1854. Contrariamente a suo figlio, Moshè è nettamente più ottimista: «La giunta militare non ha niente contro gli ebrei. Noi rimaniamo fuori dalla politica, così che quello che succede intorno a noi non ha veramente rapporto con noi. E' vero che è diventato più difficile trovare un Minyan, ma i nostri amici dell'ambasciata israeliana ci hanno aiutato in questo.» Le tensioni, affermano i due Samuels, non risparmiano la comunità musulmana del Myanmar, che teme anche lei per la sua esistenza. «Preghiamo tutti che le trattative dell'Onu aiutino a ristabilire la pace e la calma in questo paese», hanno concluso padre e figlio. (Arouts 7, 3 ottobre 2007 - trad. www.ilvangelo-israele.it) 5. UN SEGNALE DI BUONA VOLONTÀ Palestina-Israele: la pace, per ora, in un cartone animato Il progetto si chiama Pace of Peace, esempio di dialogo e convivenza. di Stefano Maria Torelli A noi piace associare la città di Qalqilia ad un altro evento, che ha poco a che fare con la violenza e l'intolleranza e molto con il dialogo e la convivenza. Nel 2004 un gruppo di lavoro formato da 8 ragazzi palestinesi di una scuola di Qalqilia e 8 ragazzi israeliani delle scuole di Raanana (piccola città di 80 mila abitanti a Nord di Tel Aviv), con i loro rispettivi insegnanti, ha portato a termine un progetto senza dubbio ambizioso. Con l'aiuto di alcuni dei maggiori esperti italiani nel settore della tecnica cinematografica, hanno realizzato un cortometraggio sul tema del conflitto israelo-palestinese. Il nome del progetto è Pace of Peace e il cortometraggio, un cartone animato, è stato premiato dalla Mostra del Cinema di Venezia, oltre ad aver ottenuto altri prestigiosi riconoscimenti dal mondo del cinema e della cultura. Il cartone animato racconta la storia di un ragazzo palestinese ed uno israeliano che, in groppa ad un cammello "volante", osservano dall'alto la triste realtà del conflitto armato che imperversa da più di mezzo secolo. Al loro passaggio tutta la distruzione e le macerie diventano prati fioriti, che i protagonisti si lasciano alle spalle per andare a "salvare" altre zone colpite dalla guerra. La colonna sonora è firmata ed interpretata da due icone della musica israeliana e palestinese: rispettivamente le cantautrici Noa e Nim Banna. A dare il loro contributo alla realizzazione del progetto, oltre grandi autori italiani come Luca Raffaelli ed Attilio Valenti e le municipalità di Qalqilia e Raanana, vi sono state anche due importanti fondazioni filantropiche: quella fondata dall'ex premio Nobel per la Pace ed attuale Presidente di Israele Shimon Peres, e la palestinese al-Liqa', che promuove da sempre il dialogo tra le religioni. Dopo più di due anni dalla promozione del video nelle più importanti rassegne europee, il Centro di Cultura Italiana ad Haifa ha deciso di diffondere il progetto anche nei territori palestinesi e in Israele. Paradossalmente infatti il video, passato molte volte anche in Italia da Raitre, non ha ottenuto la dovuta pubblicità proprio nei luoghi in cui è nato e a cui è destinato maggiormente. Luoghi in cui probabilmente è difficile fermarsi a guardare un cartone animato, attorniati dalla realtà della guerra come condizione perenne di vita. Luoghi caldi, non solo per effetto del deserto e del sole. Di conflitti come quello palestinese ne esistono a decine nel mondo, alimentati da anni di scontri, ingiustizie subite e rancore covato. E' dal futuro, dai ragazzi, che si può ripartire per riportare le situazioni di crisi sui binari della razionalità e della convivenza pacifica attraverso il dialogo e la cooperazione. Non sarà un cartone animato a cambiare le sorti del mondo, ma il fatto che sia stato il frutto di una collaborazione tra i giovani palestinesi ed israeliani sicuramente è un segnale forte. E' un esempio per tutti, una prova, nel suo piccolo, che insieme si può costruire qualcosa di molto più importante e significativo. Insieme si costruisce il futuro, da soli al massimo si tira su un muro. (BuoneNotizie.it, 4 ottobre 2007) COMMENTO - Sembra che la stoccata anti-israeliana non debba mancare mai, anche quando si vuole dare prova di buona volontà. Si poteva anche concludere dicendo che da soli al massimo si mandano i bambini a farsi saltare in aria per ammazzare gente, cosa che certamente è molto meno costruttiva di un muro. 6. CURE MEDICHE PER I PALESTINESI IN ISRAELE «Ferito dalla propria gente e curato dal nemico» La sovversione violenta di Hamas nella Striscia di Gaza non ha causato soltanto conseguenze politiche ed economiche, ma ha provocato anche una crisi umanitaria: si tratta soprattutto del problema dei rifugiati, oltre ad altre conseguenze dovute alla violenza fra fratelli. È stato un Palestinese ferito a dirla in poche parole: «I miei fratelli mi hanno sparato e il mio acerrimo nemico, Israele, mi ha rimesso in sesto. Sembra assurdo, ma è la realtà.» Dopo varie incertezze e ordini vaghi, il nuovo Ministro della Difesa Ehud Barak ha parlato chiaro già poco dopo essere entrato in carica. Ha ordinato che tutti i Palestinesi finiti nella terra di nessuno a seguito delle lotte fra Hamas e Fatah nella Striscia di Gaza, e che necessitano di urgenti cure mediche, vengano portati in Israele. In questo modo dozzine di palestinesi sono giunti negli ospedali israeliani per essere curati. Fra loro non c'è soltanto gente con ferite da arma da fuoco, o in altro modo dovute ai combattimenti, bensì anche donne in gravidanza e malati di cancro. [n parte sono storie tragiche, come quella di una bambina di quattro anni, malata di cancro, che ha un bisogno urgente di chemioterapia e di trapianto del midollo osseo. Particolarmente sentiti dal punto di vista emotivo sono però i casi delle vittime ferite nel corso dei combattimenti. Anche queste persone sono riconoscenti di aver ricevuto cure mediche, ma contemporaneamente hanno espresso chiaramente la loro rabbia, delusione e perplessità. «Non solo veniamo macellati dai nostri fratelli, ma non possiamo neppure essere curati negli ospedali del nostro paese. Le cose non dovrebbero stare così, eppure è la realtà», ha raccontato un ventiduenne palestinese, ferito dai combattenti di Hamas con varie pallottole, e ha aggiunto: «I Palestinesi mi hanno sparato e gli Ebrei mi curano.» Vari ospedali israeliani hanno accolto tali pazienti, ma in molti casi non si tratta soltanto di un aiuto straordinario in una situazione di bisogno particolare: molti pazienti palestinesi vengono regolarmente curati in cliniche israeliane. Una panoramica del fenomeno è offerta dalla relazione del Ministro della Sanità israeliano relativa al periodo fra maggio 2006 e maggio 2007. In base ad essa, nel corso dell'anno passato, circa 60.000 Palestinesi della Transgiordania sono stati curati in ospedali israeliani: 20.000 sono stati ricoverati in modo stazionario, mentre 40.000 hanno ricevuto cure ambulatoriali. Contemporaneamente anche 5.000 pazienti palestinesi, provenienti dalla Striscia di Gaza, hanno goduto di assistenza medica in Israele: 2.000 sono stati ricoverati in ospedali e 3.000 curati ambulatorialmente. Fra i 65.000 Palestinesi che sono stati complessivamente curati in Israele fra il maggio 2006 e il maggio 2007, 2.500 sono bambini gravemente malati che in parte sono stati sottoposti a complessi interventi chirurgici. In media, quindi, circa 200 pazienti palestinesi sono stati curati ogni giorno nelle istituzioni di sanità pubblica israeliane. La relazione ha anche reso pubblico il fatto che, dopo lo scoppio della seconda intifada nel 2000, il Ministero della Sanità palestinese ha interrotto i contatti con il comitato di coordinamento comune ed è stata interrotta da molto tempo l'erogazione completa del rimborso minimo pattuito per le spese di cura dei pazienti palestinesi in lsraele. AN (Notizie da Israele, Nr. 4 - 2007) MUSICA E IMMAGINI Uri Tsyon INDIRIZZI INTERNET Statuto di Hamas Baruch HaShem Messianic Synagogue Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte. |