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Notizie su Israele 411 - 8 gennaio 2008

1. Provvedimenti preventivi
2. Ebrei etiopici in Israele
3. A titolo di risarcimento
4. Per una vita decorosa in un paese decente
5. Il controllo delle risorse energetiche
6. Ricerche archeologiche in Israele
7. Una tradizione di doppiezza e ambiguità
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 66:10-11 - «Gioite con Gerusalemme ed esultate a motivo di lei, voi tutti che l'amate! Rallegratevi grandemente con lei, voi tutti che siete in lutto per essa, affinché siate allattati e saziati al seno delle sue consolazioni; affinché beviate a lunghi sorsi e con delizia l'abbondanza della sua gloria».
1. PROVVEDIMENTI PREVENTIVI




Israele, un opuscolo contro i missili

di Luca Ferrari

Una particolare e "preventiva" mossa quella del Governo israeliano, alle porte del 2008.
Ogni cittadino dello stato ebraico si è visto recapitare al proprio domicilio un opuscolo con tutte le indicazioni da seguire in caso di attacchi missilistici.
Non è tutto. Si fanno anche nomi e cognomi dei possibili aggressori. Dai "fratellastri" di Hamas ai vicini libaensi Hezbollah, per poi chiudere con "lo stato canaglia" per eccellenza: l'Iran.
Ma quali ordigni potrebbero turbare la vita degli israeliani? Nel materiale inviato, non mancano neppure i dettagli tecnici.
Ed ecco dunque descritta una precisa rassegna di aggeggi volanti. Quelli di ultima generazione e più pericolosi, i missili chimici & biologici. Quelli convenzionali, i Qassam, i Katiuscia.
Come ai tempi della Guerra Fredda dunque, in cui il mondo temeva lo scontro nucleare e c'era già chi si era fatto il rifugio sotterraneo provvisto di acqua e viveri.
Il Comando centrale dell'esercito israeliano ha dunque redatto un corposo volumetto completo  di vere e proprie istruzioni pratiche e psicologiche sul come comportarsi in caso di attacchi improvvisi.
La presentazione consiste in un elaborato libretto e in un sito internet, strutturati per pericoli e per bisogni sia per le persone normali, sia per quelle con particolari problemi (malati e anziani).
Molto forte è la parte del testo in cui si raccomanda di prevedere la possibilità di restare soli e isolati per molto tempo in attesa del cessate pericolo.
A quel punto si fa appello alla popolazione perché tenga sempre cibo secco, acqua, una radio, giochi per i bambini e qualche libro.
Sgomento. Sorpresa per questa notizia. Facile a critiche. Il militarismo che aizza la folla anche a ridosso delle celebrazioni di un giorno di festa. Uno sfondo di terrore e paura, ma neanche troppo irreale.
Chi avrebbe pensato a inizio nel '900, che ci sarebbero state due guerre mondiali, campi di sterminio? Viviamo in un mondo in cui il diavolo è anche più brutto di come lo si dipinge.

(il reporter, 2 gennaio 2008)





2. EBREI ETIOPICI IN ISRAELE




La storia che non tutti conoscono, quella del popolo falasha.

di Cristian Ribichesu

Nello studio della storia risulta impossibile non avvicinarsi alla lettura delle riviste tecniche.
    Studiando gli avvenimenti sui manuali e sui testi monografici sembra sempre che a queste pietanze manchi qualcosa, per l'appunto le spezie e il sale che sono contenuti negli articoli delle riviste storiche. Ma ovviamente, come per la lettura dei giornali, è bene che la lettura delle riviste venga valutata nel pieno dell'obiettività, magari con l'accostamento e il confronto fra riviste orientate diversamente. Detto questo la lettura è sempre ricchezza e leggendo un lavoro didattico di Lucia Monda, pubblicato sulla rivista Nova Historica, n°21 anno 6 2007, capita di riscoprire una vicenda che non tutti conoscono, quella del popolo falasha.
    Semplicemente, con il termine falasha, dispregiativo o no, vengono indicate delle popolazioni nere dell'Etiopia settentrionale e di religione giudaica. Forse ebrei fuggiti  in Egitto dopo la distruzione del primo tempio nel 586 a.C., o discendenti di Salomone e della Regina di Saba, questi figli d'Israele hanno dovuto subire per secoli le pressioni di altre popolazioni africane che li hanno costretti, in parte, alla conversione al cristianesimo. Ma la storia che vogliamo raccontare è quella che, passando per il Sudan, arriva fino in Israele.
    Il Sudan, che come tutti sanno è il più esteso stato del continente africano e la cui storia è interessante, sia per comprendere le dinamiche del colonialismo, sia per le successive fasi della decolonizzazione e del neocolonialismo (il Sudan, che dalla coltivazione del sorgo riusciva a coprire le richieste del mercato interno, oggi, in seguito ad accordi commerciali con l'Inghilterra, impegna una parte consistente della propria agricoltura per la coltivazione del cotone e, dai ricavati della vendita di questo, non riesce a soddisfare la richiesta cerealicola interna) è, anche, il Paese africano dove, dopo scontri e carestie che stavano travagliando l'Etiopia, sono emigrati molti falasha.
    Tra il 1984 e il 1985, attraverso l'operazione Mosè, furono trasferiti in Israele, con dei ponti aerei,  circa 8000 individui su un totale di 25000. Poi, il 24 maggio 1991, con un'altra operazione, Salomone, e in collaborazione con gli Stati Uniti, nell'arco di trentasei ore venne trasferita in Israele, quasi completamente, la restante popolazione degli ebrei etiopici, 14000 persone, non convertita al cristianesimo.
    Ma in realtà, dal 1984, e quasi senza soluzione di continuità, è continuato l'esodo di molti falasha, ebrei o cristiani, che non sono stati trasportati con i ponti aerei. Dal 2003 le autorità israeliane decisero che nell'arco di quattro anni sarebbero stati trasferiti in Israele tutti i falasha rimasti in Africa. Però attraverso queste "operazioni umanitarie" venivano trasferite in Israele decine di migliaia di ebrei che, indipendentemente dal colore della pelle, avevano usanze, lingua e tradizioni differenti, anche per molti punti riguardanti la religione, incontrando tutti quei problemi dell'integrazione tipici degli emigrati contemporanei, se non anche l'odio legato al razzismo.
    Oggi, in Israele ci sono circa 105000 falasha, molti di questi vivono le difficoltà dell'integrazione e il 60 per cento vive sotto i livelli di povertà. Altri falasha, ebrei o cristiani che rivendicano un antico legame con l'ebraismo, dall'Africa sognano quel viaggio della speranza verso una patria ebraica che forse è diventata dubbiosa.

(L'ItaloEuropeo, 1 gennaio 2008)





3. A TITOLO DI RISARCIMENTO




Olocausto: 180mila israeliani chiedono la pensione a Berlino

di Enzo Piergianni

BERLINO - Il primo adempimento del nuovo ambasciatore israeliano a Berlino, Yoram Ben-Zeev, poche ore dopo la presentazione delle credenziali al capo dello Stato Horst Köhler nel castello di Bellevue, è stata una visita al famigerato "Gleis 17", il binario della stazione berlinese di Wilmersdorf da dove gli ebrei venivano deportati nei campi di sterminio. A più di sessant'anni dalla capitolazione della Germania nazista, la memoria dell'orrore di Auschwitz resta viva nelle cerimonie ufficiali, ma anche sul piano dell'attualità politica non ha perso importanza. Uno dei primi dossier sulla scrivania di Ben-Zeev, il settimo capomissione nella storia dei rapporti bilaterali e per la prima volta un "sabra" - un cittadino nato in Israele e non nella Diaspora - concerne infatti l'aspirazione di 180mila ebrei sopravvissuti all'Olocausto che vivono per lo più in miseria in Israele e chiedono di fatto una pensione alla Germania a titolo di risarcimento per le persecuzioni subite nel Terzo Reich. Sono ultraottantenni emigrati dall'Europa orientale, finalmente liberi di partire dopo la caduta dei regimi comunisti a Mosca e nei paesi satelliti. "Gli ebrei liberati dai lager nazisti avevano tra i 18 e i 28 anni"– spiega Noach Flug, segretario generale dell'Associazione dei sopravvissuti dell'Olocausto – "Quelli più giovani o più vecchi erano stati uccisi perchè non erano idonei ai lavori forzati. Occorre distinguere tra i sopravvissuti che hanno potuto trasferirsi in Israele dopo la guerra e quelli che sono arrivati molto tempo dopo.
    I primi oggi sono circa 80mila e percepiscono generalmente una pensione integrativa di 270 euro dalla Germania. Gli altri 180mila scampati all'Olocausto che sono tuttora vivi, invece hanno potuto muoversi solo dopo la caduta della cortina di ferro". Costoro, essendo giunti in Israele in età avanzata, non vi hanno mai lavorato sicchè non hanno maturato diritti previdenziali dove ora vivono. La maggior parte di essi (circa il 65 per cento) tira avanti in povertà o al limite dell'indigenza con il sostegno di un magro sussidio statale israeliano. "Molti addirittura non hanno i soldi per gli occhiali o per apparecchi acustici" – protesta Noach Flug, la famiglia sterminata dai nazisti e lui stesso deportato a 19 anni ad Auschwitz e Mauthausen – "Se si afferma che negli ultimi tre anni di vita un individuo ha bisogno di più medicinali e assistenza medica, questo deve valere in modo speciale per i sopravvissuti all'Olocausto che hanno patito gravi sofferenze fisiche e in molti casi sono invalidi". Noach Flug ha aperto anche un secondo fronte contro la rigidità della burocrazia tedesca che in diecimila casi non riconosce il diritto ai 270 euro di pensione integrativa richiamandosi a criteri ferrei, come la segregazione per almeno 18 mesi in un ghetto. "Ma il ghetto di Budapest, ad esempio, non è esistito così a lungo", fa notare il segretario generale. A suo avviso, quanto ha versato finora la Germania è insufficiente.
    La spinosa materia fu regolata nel 1952 dall'accordo passato alla storia come il Luxemburger Abkommen che fu stipulato dal governo della Germania Ovest guidato dal cancelliere Konrad Adenauer con la Jewish Claims Conference (JCC). Da allora ad oggi la Germania, prima solo quella di Bonn e dal 1990 il nuovo Stato tedesco unificato, ha erogato circa 60 miliardi di euro a titolo di risarcimento allo Stato d'Israele. Le rivendicazioni di Noach Flug vengono appoggiate apertamente dal ministro israeliano della Previdenza sociale, Rafi Eitan, leader del partito dei Pensionati. Intervistato dal giornale Haaretz alla vigilia dell'ultima visita in Israele del ministro delle Finanze tedesco Peer Steinbrück, Rafi Eitan ha sollecitato ulteriori risarcimenti tedeschi :"Noi consideriamo la Germania come responsabile per i sopravvissuti dell'Olocausto". E ha argomentato che nel 1952 nessuno poteva ipotizzare una longevità così elevata dei sopravvissuti, nè l'ondata di arrivi in Israele dall'est europeo e neppure l'attuale costo della vita.
    Il ministro Steinbrück però non intende assolutamente rinegoziare l'accordo del 1952 e lo ha sottolineato nella visita a Gerusalemme che gli ha offerto l'opportunità di un faccia a faccia con Noach Flug e l'Associazione dei sopravvissuti. Il capitolo dei risarcimenti è chiuso – ha comunicato Steinbrück nell'incontro svoltosi nella residenza dell'ambasciatore tedesco a Herzlia – Eventualmente qualche nuova elargizione potrà avvenire soltanto in casi isolati che andranno esaminati singolarmente da un apposito comitato bilaterale con il supporto della Jewish Claims Conference. La stampa israeliana ha sottolineato la "profonda delusione" degli interlocutori di Steinbrück. Sintomatico, per il clima politico, che un previsto colloquio di Steinbrück con il combattivo Eitan sia stato disdetto all'ultimo momento da parte tedesca. Rischia così di riaprirsi inaspettatamente un contenzioso nevralgico che sembrava definitivamente archiviato. Lo storico israeliano Tom Segev, noto anche in Italia per il saggio "Il settimo milione : come l'Olocausto ha segnato la storia d'Israele" (Mondadori 2001), ha calcolato che i risarcimenti, dal loro inizio, sono costati a ciascun tedesco circa 16 euro l'anno. Perciò, sostiene Segev, non sarebbe esagerato versare ancora qualcosa. "Con i risarcimenti la Germania ha costruito una bella casa – commenta l'irriducibile Noach Flug – Nel frattempo però si sono aperti buchi nel tetto che bisogna riparare affinchè nulla si sfasci. Ai tedeschi, ciò verrebbe a costare circa quanto un pacchetto di sigarette a testa all'anno, non di più".

(Il Velino, 2 gennaio 2008)





4. PER UNA VITA DECOROSA IN UN PAESE DECENTE




Palestinesi che preferiscono Israele

di Daniel Pipes

I palestinesi hanno una lunga storia non manifesta di ammirazione nei confronti di Israele che contrasta con la loro meglio conosciuta consuetudine di diffamazione e irredentismo.
    Negli ultimi tempi, questo aspetto è assai lampante, specie da quando il premier israeliano Ehud Olmert, nell'ottobre scorso, ha reso una dichiarazione volta a sondare l'opinione pubblica in merito al trasferimento all'Autorità palestinese (AP) di alcune aree a predominanza araba di Gerusalemme est. Come egli si è chiesto in modo retorico riguardo alle azioni israeliane del 1967: "Era necessario annettere il campo profughi di Shuafat, al-Sawahra, Walajeh e altri villaggi, e poi asserire che essi appartengono a Gerusalemme? Riconosco che possano sorgere alcuni interrogativi legittimi in merito a ciò".
    Di punto in bianco, questa dichiarazione ha tramutato le testimonianze a favore di Israele, enunciate dai palestinesi (per un saggio di ciò, si veda un mio articolo del 2005 dal titolo "L'inferno di Israele è migliore del paradiso di Arafat"), da assunti teoretici in discorsi attivi e politici.
    Per meglio dire, le riflessioni di Olmert hanno indotto ad alcune risposte belligeranti. Come chiosa il titolo di un pezzo apparso su Globe and Mail: "Alcuni palestinesi preferiscono vivere in Israele: a Gerusalemme est, i residenti dicono che si opporrebbero strenuamente alla decisione di passare sotto il regime di Abbas". L'articolo offre l'esempio di Nabil Gheit, dal quale ci si aspetterebbe una certa esultanza all'idea che settori di Gerusalemme est finiscano sotto il controllo dell'AP, visti i suoi due soggiorni nelle prigioni israeliane e i poster del "martire Saddam Hussein" affissi sopra il registratore di cassa del suo negozio.
    Ma così non è. Come mukhtar di Ras Khamis, nei pressi di Shuafat, Gheit teme l'AP e asserisce che lui ed altri si opporrebbero a un trasferimento. "Se fosse stato indetto un referendum, nessuno avrebbe votato a favore dell'AP (…) Vi sarebbe stata un'altra intifada per difendere noi stessi dall'Autorità palestinese".
    Due sondaggi resi noti la scorsa settimana da Keevoon Research, Strategy & Communications e dal quotidiano in lingua araba As-Sennara, condotti su campioni rappresentativi di adulti arabo-israeliani sulla questione dell'annessione all'AP, corroborano quanto asserito da Gheit. Alla domanda: "Preferiresti essere cittadino israeliano o di un neo-Stato palestinese?", il 62 per cento degli intervistati ha risposto di volere continuare ad avere la cittadinanza israeliana e il 14 per cento ha detto di voler far parte di un futuro Stato palestinese. Alla domanda: "Appoggeresti l'idea di trasferire il Triangolo [un'area a dominazione araba nel nord di Israele] sotto il controllo dell'AP?", il 78 per cento degli intervistati ha ricusato l'idea e il 18 per cento si è detto favorevole.
    Non tenendo conto di coloro che hanno risposto "non so" e di coloro che si sono rifiutati di rispondere al sondaggio, le proporzioni degli intervistati favorevoli a rimanere in Israele quasi si equivalgono: rispettivamente sono l'82 e l'81 per cento. Gheit esagera a dire che "nessuno" desidera vivere sotto l'Autorità palestinese, ma non di molto. Sono migliaia i palestinesi residenti a Gerusalemme che per paura dell'AP hanno inoltrato richiesta di ottenere la cittadinanza israeliana, giacché la dichiarazione di Olmert corrobora ulteriormente il punto di vista di Gheit.
    Quali sono i motivi che inducono a un simile attaccamento per uno stato che i palestinesi non fanno altro che vituperare davanti ai media, nel mondo della cultura, nelle aule scolastiche, nelle moschee e negli organismi internazionali, che essi terrorizzano quotidianamente? È meglio che siano essi stessi a spiegare le loro motivazioni nelle seguenti citazioni dirette:
    • Considerazioni finanziarie. "Non desidero far parte dell'AP. Desidero avere l'assicurazione sanitaria, le scuole, e tutte le altre cose che si hanno vivendo qui", asserisce Ranya Mohammed. "Andrò a vivere in Israele piuttosto che rimanere qui e vivere sotto l'AP, anche se ciò significa prendere un passaporto israeliano. Vedo quanto si soffre nell'Autorità palestinese. Godiamo di parecchi privilegi e non sono disposta a rinunciarvi".
    • Legge e ordine. I giornalisti arabo-israeliani Faiz Abbas e Muhammad Awwad osservano che oggi agli abitanti di Gaza "mancano gli israeliani, giacché Israele è più clemente [dei killer palestinesi], che non sanno perfino il perché si combattono e si uccidono gli uni con gli altri, al pari del crimine organizzato".
    • Allevare i figli. "Voglio vivere in pace e mandare i miei figli in una scuola regolare", dice Jamil Sanduqa. "Non desidero tirar su i miei figli insegnando loro a scagliare pietre oppure a imitare Hamas".
    • Un futuro più prevedibile. "Desidero continuare a vivere qui con mia moglie e mio figlio, senza aver timori per il nostro avvenire. Ecco perché voglio la cittadinanza israeliana. Non so cosa ha in serbo il futuro", spiega Samar Qassam, 33anni.
Altri esprimono delle preoccupazioni in merito alla corruzione, ai diritti umani e perfino all'autostima ("Quando gli ebrei parlano di barattarmi, è come se mi stessero negando il diritto di essere una persona").
    Questi schietti punti di vista non ricusano il brutale antisionismo che regna in Medio Oriente, ma rivelano che quattro quinti di quei palestinesi che conoscono Israele in prima persona comprendono le attrattive di una vita decorosa in un paese decente, un dato di fatto che presenta importanti e positive implicazioni.

(Jerusalem Post, 2 gennaio 2008 - dall'archivio di Daniel Pipes)





5. IL CONTROLLO DELLE RISORSE ENERGETICHE




Israele e le nuove strategie del petrolio

di Aldo Sorrentino

Israele ha avuto sin dalla sua nascita un ruolo di risalto nell'agenda delle relazioni internazionali: la fondazione dello Stato, la sua sopravvivenza, il conflitto arabo-israeliano, la questione dei territori occupati e l'indipendenza della Palestina non sono mai stati una semplice questione regionale ma sono entrati sin da subito nello schema della Guerra Fredda e nella lotta sovietico-americana delle zone di influenza.
    Nel "gioco a somma zero" della Guerra Fredda ad ogni conquista dell'avversario corrispondeva una propria perdita e viceversa, quindi le due potenze dinanzi ad una conquista dell'avversario, per controbilanciare dovevano causare una perdita a quest'ultimo, ossia una conquista per se.
    Per tale motivo le due potenze hanno di volta in volta appoggiato uno dei contendenti del conflitto Medio Orientale in modo da essere non solo presenti in ogni scenario globale, ma anche per controbilanciare gli effetti positivi della presenza dell'altro. Da qui l'iniziale sostegno di Stalin ad Israele per estromettere gli inglesi dalla regione e controbilanciare l'alleanza anglo-arabo-americana e la successiva rottura delle relazioni tra Urss ed Israele ed il sostegno sovietico ai paesi arabi quando ormai era chiaro che Israele era entrata nell'orbita americana. In questo senso Israele e la regione Medio Orientale hanno avuto un ruolo di risalto nell'agenda dei grandi conflitti globali per decenni. Ma proprio per questo motivo il carattere regionale del conflitto diventava Globale solo perché proiettato nel gioco delle Grandi potenze. Infatti nonostante Israele abbia con il tempo aumentato il proprio potere divenendo la Super Potenza regionale ed i Paesi sostenuti dall'Unione Sovietica siano stati più volte sconfitti militarmente, è evidente che non si può affermare che la fine della Guerra Fredda e lo smembramento dell'Unione Sovietica siano stati causati dall'avere o meno Israele nella propria orbita. Dopo la fine della Guerra Fredda lo scenario internazionale ha visto nuove Guerre, molte delle quali coinvolgevano in modo più o meno diretto anche Israele e la regione Medio Orientale. Nell'analisi di questi nuovi conflitti spesso si è usato il concetto di "Scontro di Civiltà" di Huntington, scontro che si verificherebbe lungo le linee di divisione culturale e religiosa e non ideologica come durante la Guerra Fredda. In tal senso Israele sarebbe ancor più in prima linea in questo conflitto, dato che la propria cultura, religione ed esistenza non è mai stata accettata dalla maggior parte dei Paesi Mussulmani. Ma ancora una volta sarebbe difficilmente

argomentabile che Israele possa da sola influire sulle sorti globali di questo "Scontro di Civiltà".
    In un'analisi meno culturale e più economica e geopolitica dei nuovi conflitti essi rientrano nel conflitto globale per il controllo e l'approvvigionamento delle risorse energetiche. In questo tipo di analisi attorno ad Israele non si combatte più il conflitto Globale nella regione Medio Orientale ma diventa essa stessa il perno per vincere il conflitto globale per il controllo e l'approvvigionamento delle risorse energetiche. Questo perché Israele grazie alla sua peculiare posizione geografica è diventato lo snodo principale delle nuove rotte del petrolio. Il piccolo Paese Mediorientale ha sbocchi sul Mediterraneo e sul Mar Rosso e per questo è l'anello di congiunzione tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano, ossia tra la Turchia e i Paesi del Sud-Sud-Est asiatico. La Turchia è essa stessa uno snodo fondamentale per il petrolio ed il gas naturale proveniente dalla Russia e dalla regione Caucasica. Finora il trasporto del petrolio tra la Turchia e i paesi Asiatici è avvenuto attraverso il Canale di Suez, ma la possibilità di transitare attraverso il territorio israeliano ridurrebbe i tempi ed i costi. Infatti le petroliere impiegano circa 30-35 giorni dal Mediterraneo alla Cina attraverso il Canale di Suez mentre impiegano solo 14-15 giorni dal porto israeliano di Eilat sul Mar Rosso fino a Shanghai. Inoltre il porto israeliano di Askhelon può ospitare petroliere molto più grandi di quelle che possono attraversare il canale di Suez e il prezzo richiesto dagli israeliani per utilizzare l'oleodotto Askhelon-Eilat è inferiore a quello richiesto dalle autorità del canale.
    E' infatti proprio l'oleodotto Askhelon-Eilat che rende Israele lo snodo principale di questa nuova rotta del petrolio. L'oleodotto fu costruito nel 1968 per trasportare petrolio iraniano da Eilat a Askhelon per poi essere trasportato verso l'Europa. Con la rottura delle relazioni tra Iran e Israele, a seguito del collasso del regime dello Shah, l'oleodotto fu utilizzato per trasportare piccole quantità di petrolio egiziano da Abu Rudeis alla costa mediterranea di Israele. Nel 2003 la compagnia Eliat-Askhelon Pipeline Company, che gestisce il canale, ha terminato i lavori per permettere il flusso di petrolio anche nella direzione inversa, venendo incontro alla richiesta russa di poter utilizzare l'oleodotto per trasportare il proprio petrolio in Asia Sud- Orientale attraverso il territorio israeliano, in modo da creare un "corridoio" alternativo al Canale di Suez: le petroliere trasportano il petrolio dai porti russi del Mar Nero, attraverso il Bosforo, a Askhelon e poi, attraverso l'oleodotto, a Eilat per poi essere trasportato con le petroliere in Cina e negli altri Paesi Asiatici. Il progetto russo in realtà era sin dall'inizio di più ampia portata, infatti essi vorrebbero affiancare il già esistente gasdotto Blue Stream nel Mar Nero che unisce la città russa Beregovaya alla città turca di Samsun con un oleodotto e poi collegarlo al Mediterraneo attraverso l'oleodotto Samsun-Ceyhan. Questo progetto in linea di principio doveva essere poi completato con la costruzione di un altro oleodotto tra le città di Ceyhan e Askhelon, in modo da creare un collegamento diretto tra i porti russi sul Mar Nero e il Mar Rosso, dove poi il petrolio verrebbe trasportato in Asia.
    L'oleodotto israeliano però non necessariamente dovrà trasportare petrolio russo ma potrebbe trasportare anche il petrolio non russo che giunge in Turchia grazie all'oleodotto B-T-C (Baku-Tiblisi-Ceyhan). Questo oleodotto è stato voluto fortemente dagli americani per aggirare il territorio russo e sottrarre alla Russia il controllo totale sulle risorse energetiche del Caspio e del Caucaso. Anche in questo caso il petrolio dalle coste mediterranee della Turchia arriverebbe con le petroliere ad Askhelon per poi essere trasportato in Asia dal porto di Eilat. Ed ancora una volta un eventuale oleodotto tra Ceyhan e Askhelon agevolerebbe il collegamento tra il Mediterraneo e l'Oceano Indiano. In tal senso la Guerra del Libano dell'estate del 2006 può essere intesa come un tentativo israelo-americano di controllare l'Est del Mediterraneo per meglio difendere la rotta del petrolio se non addirittura parte di un disegno più ampio che vorrebbe il controllo israelo-americano delle coste libanesi e siriane per eventualmente costruire un oleodotto che colleghi Turchia e Israele attraverso il territorio della Siria e del Libano, evitando la costruzione di un più oneroso oleodotto sottomarino. A prescindere dal fatto che la Guerra del Libano possa essere o meno parte del Conflitto globale per il controllo e l'approvvigionamento delle risorse energetiche, quest'ultimo conflitto esiste ed è evidente. La Guerra in Iraq, l'asse Parigi-Berlino-Mosca, l'espansione della Nato Verso Est e in Asia Centrale, la dura risposta russa, il ritorno prepotente della Russia nella scena internazionale ne sono esempi lampanti. Controllare le risorse energetiche e le nuove rotte del petrolio e del Gas porterebbe non solo un'ingente profitto economico ma da se basterebbe a mutare o a conservare gli equilibri internazionali. La Russia grazie alle esportazioni di gas e petrolio è tornata ad essere una potenza mondiale, capace di influire sugli assetti internazionali e di tenere sotto scacco intere regioni come avvenne durante la crisi con l'Ucraina, durante la quale paralizzò mezza Europa. Gli Stati Uniti presa coscienza di questa situazione cercano di limitare l'ascesa russa cercando di differenziare i fornitori dei propri alleati e di limitare e controllare l'approvvigionamento cinese di risorse energetiche. Per questo motivo il controllo del flusso di petrolio e gas verso l'Asia ha un significato geopolitico e strategico di primaria importanza. L'enorme mercato asiatico ha una necessità crescente di importare petrolio, fondamentale per continuare lo sviluppo economico, e la Russia sta man mano acquisendo una fetta sempre più grande di quel mercato a discapito dei Paesi del Golfo. Oggi Cina, India e Giappone importano rispettivamente il 58%, il 65% e l'88% dai Paesi del Golfo, mentre senza le importazioni dalla Russia importerebbero dai Paesi del Golfo rispettivamente l'80%, l'85% ed il 90%, e la quota russa di esportazioni nella regione è in continua crescita. I Paesi asiatici dal canto loro sono convinti del pericolo di essere troppo dipendenti dai Paesi del Golfo, per questo sono entusiasti di poter diversificare i loro fornitori. Il loro accesso diretto alle risorse energetiche dell'Asia Centrale, soprattutto per la Cina, è stato molto limitato dalla presenza americana in quella regione e dalla costruzione dell'oleodotto B-T-C , mentre ci vorranno ancora anni per terminare l'oleodotto Siberia Orientale-Pacifico che permetterà al petrolio russo di essere smistato da Nakhodka al Giappone, alla Cina e agli altri Paesi della regione, per questo la rotta Turchia-Oceano Indiano è fondamentale per l'approvvigionamento della regione. Da qui la necessità di controllare questa rotta e di rendere quanto più possibile veloce ed economico il trasporto. Il piccolo stato di Israele che non ha significative risorse energetiche proprie e che subisce il boicottaggio da parte dei Paesi del Golfo, grazie ai propri oleodotti è diventato l'ago della bilancia del conflitto per la gestione dell'approvvigionamento dell'Asia sudorientale. Scegliere di far transitare sul proprio territorio petrolio russo o petrolio proveniente dal B-T-C influirà notevolmente sulle sorti di questo conflitto. Si può per questo affermare che Israele non è più solo un alleato di uno dei protagonisti del conflitto globale ma è ora capace di influire in modo significativo sulle sorti del conflitto globale per il controllo e l'approvvigionamento delle risorse energetiche. Conflitto che vede da un lato gli Stati Uniti e gli alleati europei ancora in una posizione di vantaggio ma che devono limitare l'ascesa russa e cinese, e dall'altro Russia e Cina che vogliono l'una continuare a crescere politicamente nella scena internazionale grazie all'arma "energetica", l'altra ha bisogno di risorse energetiche per continuare il proprio sviluppo economico per potersi affermare come SuperPotenza mondiale.
    In questo contesto Israele che si appresta a diventare uno snodo fondamentale per il trasporto di petrolio soddisferà la propria richiesta interna ma ne trarrà anche benefici economici dalle royalties e soprattutto vedrà accrescere il proprio peso politico. E quanto l'essere al centro del flusso di petrolio possa influire sul potere politico di uno stato è visibile a tutti da quanto sta accadendo al confine turco-irakeno: la Turchia sta agendo contro gli interessi americani in Irak forte della propria importanza geostrategica, rafforzata dall'essere il terminale del B-T-C . Proprio la Turchia ed Israele hanno avviato nel 2006 lo studio sulla fattibilità dell'oleodotto Ceyhan-Ashkelon, progetto visto di buon occhio sia dai Russi che dagli americani, ma che ancora non si sa se, una volta ultimato, sarà collegato al B-T-C o all'oleodotto Samsun-Ceyhan. Il governo Sharon, date anche le ottime relazioni personali con Putin, sembrava orientato ad abbracciare il progetto russo, ma la Guerra in Libano e il record di aiuti americani ad Israele nel 2007 fanno propendere per un'inversione di rotta da parte del governo Olmert.

(Megachip, 5 gennaio 2008)





6. RICERCHE ARCHEOLOGICHE IN ISRAELE




Scoperta la tomba di re Erode il Grande

Le rovine del suo palazzo 12 chilometri a sud di Gerusalemme

di Luigi Galli

Forse si può definire la scoperta archeologica dell'anno 2007. Niente di meno che la reggia e la tomba di Erode, colui che mandò ad uccidere gli Innocenti. Il sovrano sperava, così, di colpire Cristo che i Magi gli avevano annunciato essere nato quale re degli Ebrei.
    Si sa, in Terrasanta le ricerche archeologiche non hanno fine e l'università di Gerusalemme promuove continue attività in questo senso. Ebbene, il Consiglio Supremo archeologico Israeliano, un'equipe di studiosi dell'Università ebraica in Gerusalemme, ha comunicato di aver recato alla luce la tomba di Erode il Grande, re dei Giudei dal 40 al 4 a. C. di cui parla anche il Vangelo. Il ritrovamento è avvenuto dopo 35 anni di scavi sistematici effettuati da archeologi guidati da Ehud Netzer, il più grande esperto su questo re della storia ebraica.
    Le rovine del palazzo e della sepoltura si collocano 12 chilometri a sud di Gerusalemme, sulla strada che conduce a Betlemme, in una località chiamata Herodium proprio per il grandioso palazzo che il sovrano vi aveva fatto costruire oltre 2000 anni fa. Si tratta di una fortezza fondata tra il 24 ed il 15 a. C. sulla cima di una collina piatta e desertica.
    La costruzione delle fortezze era una delle preoccupazioni principali di Erode il Grande, spaventato com'era costantemente di restare vittima di qualche attentato.
    L'archeologo Netzer ha dichiarato che fonti storiche non lasciano dubbi sulla sepoltura del sovrano in quel luogo fortificato. Tra le rovine è venuto alla luce un grande unico sarcofago, fatto con calcare rossiccio di Gerusalemme, decorato a rosette. Questo è indicato dall'archeologo come il sarcofago di Erode.
    Anche lo storico Flavio Giuseppe racconta la morte di Erode e la gran partecipazione ai funerali: "La bara era d'oro massiccio, con pietre preziose ed aveva una copertura di porpora ricamata in vari colori.(.) Il corpo fu poi portato ad Herodium, dove fu sepolto, secondo le direttive del defunto. Così finì il regno d'Erode". (Dalla Guerra giudaica 1, 23, 9).
    Inoltre, molti altri storici rammentano che il luogo degli ultimi anni di Erode il Grande fu proprio Herodium, la fortezza.
    I Vangeli narrano di come la vita del sovrano, verso la fine, si sia incrociata con quella di Gesù Cristo.
    Si sa che i Magi passarono da lui per chiedere ove fosse nato il Re degli Ebrei, com'era stato loro annunciato dall'apparizione della cometa. Egli rispose di saperne nulla, ma domandò loro di esserne informato, qualora l'avessero trovato, per recarsi a riverirlo. Si sa che le intenzioni erano altre. Ne venne la strage degli Innocenti, ossia di tutti quei bambini, di età sotto i due anni, nati in Betlemme e dintorni, nella speranza di sopprimere anche il Cristo.
    Racconta l'evangelista Matteo che Giuseppe e Maria, avvertiti in sogno da un angelo, fuggirono col piccolo Gesù verso l'Egitto, per tornare solo dopo la morte di Erode.
    Tutto sembrerebbe quadrare, allora?
    Eppure qualche dubbio, per ora, rimane sul complesso della ricerca.
    Gli archeologi, si diceva, hanno scoperto nel palazzo resti consistenti di un sarcofago, ritenuto quello che ha contenuto il re. Essi hanno testualmente affermato: «Sicuramente appartenne ad un personaggio importante, vista la particolare fattura e le decorazioni. E all'interno del palazzo il personaggio proprietario di un simile sarcofago non poteva essere che re Erode». Non sono, tuttavia, ancora emersi elementi scritti a testimonianza.
Inoltre, essi stanno indagando sui ritrovamenti, nel tentativo di ricavare dati certi sulla vita quotidiana dell'epoca.
Si cerca anche sulla datazione riguardante la morte di Re Erode, quel 4 a. C. Non essendo ancora Gesù nato, allora non poteva essersi verificata la strage degli Innocenti. Di conseguenza si dovrebbe anticipare la nascita del Cristo di almeno un anno precedente la morte di Erode. Ben si sa che quella data di nascita non è fissata con sicurezza, almeno sino ad oggi.
Le ricerche sono in corso, dunque, per avvicinarsi oggettivamente ai fatti allora accaduti.

(Libertà, 5 gennaio 2008)





7. UNA TRADIZIONE DI DOPPIEZZA E AMBIGUITÀ




L'ala militare di Fatah è ancora fucina di terrorismo

di Giulio Meotti

ROMA - Nel suo libro "Cain's Field: Faith, Fratricide, and Fear in the Middle East", Matt Rees, capo della redazione di Gerusalemme di Time Magazine, ha rivelato che Yasser Arafat nel giugno 2002 aveva versato ben due milioni di dollari alle Brigate Al Aqsa di Gaza mentre passava solo pochi spiccioli per pagare gli stipendi degli uomini delle forze di sicurezza ufficiali dell'Autorità palestinese. Una tradizione oscura di doppiezza, ambiguità e aperta sfida terroristica quella che coinvolge l'ala militare di Fatah e che prosegue oggi nel regno di Abu Mazen. Due dei terroristi che hanno ucciso a freddo Ahikam Amihai, 20 anni, e David Ruben, 21 anni, due soldati israeliani in licenza che, in abiti civili, erano in escursione nella regione di Hebron, erano membri delle forze di sicurezza di Fatah, il movimento che fa capo al presidente Abu Mazen e che risultano sui libri paga dell'Autorità palestinese. Rispondendo al quotidiano Yedioth Aharonot, un membro delle Brigate al-Aqsa, braccio armato di Fatah, conferma che i terroristi appartenevano all'organizzazione aggiungendo che anche il terzo aggressore, ucciso dalla reazione dei due israeliani, ne faceva parte. "Hamas ha rivendicato l'attentato – spiega la fonte palestinese – su richiesta della famiglia di uno dei terroristi il cui padre è detenuto in Israele. Ma in realtà siamo noi che abbiamo compiuto l'attacco".
    Il Jerusalem Post conferma che la massiccia operazione delle forze di difesa israeliane a Nablus dei giorni scorsi ha dimostrato che, contrariamente a quanto sostenuto dall'Autorità palestinese, l'ala armata di Fatah non è stata affatto smantellata. E ha dimostrato che, in Cisgiordania, decine di miliziani armati di Fatah non hanno affatto deposto le armi e continuano anzi a preparare attacchi contro Israele. Nel corso dell'operazione, iniziata giovedì scorso, le forze di difesa israeliane hanno arrestato diciannove terroristi affiliati all'ala militare di Fatah, le Brigate Martiri di al-Aqsa. Hanno anche arrestato Shadi al-Sakhel e Ahmed Hisham, due ufficiali della sicurezza sui libri paga della forza di intelligence militare dell'Autorità palestinese. I due ufficiali sono sospettati d'aver aiutato le Brigate al-Aqsa nella città. I soldati israeliani hanno inoltre scoperto e demolito un'officina, nella parte vecchia di Nablus, dove il gruppo palestinese ha fabbricato almeno due missili. L'azione anti-terrorismo è stata effettuata pochi giorni dopo che il ministro degli interni dell'Autorità palestinese Abdel Razak Yahya aveva ufficialmente annunciato che le Brigate Martiri di al-Aqsa in Cisgiordania avevano cessato di esistere, e mentre numerosi servizi giornalistici parlavano di Nablus come di una città nella quale le forze di sicurezza dell'Autorità palestinese erano ormai riuscite a imporre legge e ordine.
    Per la verità, le stesse Brigate Martiri di al-Aqsa avevano apertamente sbeffeggiato le dichiarazioni del ministro Yahya, etichettandolo come "collaborazionista" d'Israele e chiedendone la destituzione. Il gruppo continua a diffondere dichiarazioni quotidiane sulle attività dei suoi membri sia in Cisgiordania che nella striscia di Gaza. E a Gaza, le Brigate al-Aqsa continuano a rivendicare molti lanci di missili contro Israele. Le Brigate al-Aqsa pongono infatti una seria sfida alla leadership dell'Autorità palestinese. La settimana scorsa, un volantino distribuito dal gruppo nella città di Gaza invocava l'uccisione del primo ministro palestinese Salaam Fayad. Inoltre, numerosi membri delle Brigate al-Aqsa hanno apertamente sfidato l'invito dell'Autorità palestinese a deporre le armi in cambio di posti e stipendi. Si tratta di miliziani che preferiscono continuare a operare come una "forza di sicurezza" indipendente nella maggior parte delle città di Cisgiordania, dove possono guadagnare di più con il ricatto e l'estorsione. Un'ulteriore prova della persistenza del gruppo in Cisgiordania è emersa lo scorso primo gennaio quando molti membri del gruppo hanno partecipato a pubblici raduni in occasione del 43esimo anniversario dell'esordio terroristico di Fatah. Da quando è entrato in vigore a Gaza il cessate il fuoco, alla fine dello scorso novembre, gruppi terroristici palestinesi hanno lanciato contro Israele più di 60 missili Qassam, ferendo gravemente due ragazzini israeliani e procurando numerosi danni.
    Le Brigate Martiri di al-Aqsa hanno rivendicato circa un terzo di questi lanci. Abu Mazen ha definito "rinnegati" i loro capi i quali sostengono di non avere alcun potere di controllo su questi terroristi. Ma Abu Ahmed, leader delle Brigate al-Aqsa nella parte nord della striscia di Gaza, ha dichiarato al magazine americano World Net Daily che il suo gruppo, che comprende squadre di terroristi dedite al lancio di Qassam, è leale ad Abu Mazen e coordina le sue "operazioni di resistenza" con il partito Fatah. "Le Brigate Martiri di al-Aqsa – ha detto Abu Ahmed – sono il braccio militare di Fatah e il presidente Abu Mazen è il presidente del movimento. Noi siamo fedeli alla nostra dirigenza e ad Abu Mazen. Tutte le nostre attività sono conformi alla linea politica di Fatah, che consiste nel combattere l'occupazione fino alla creazione di uno stato palestinese. Il lancio di missili fa parte di questa visione". Tutti i Qassam lanciati dalla striscia di Gaza (completamente sgomberata da Israele nell'agosto 2005) sono partiti dalla parte nord del territorio, quella di competenza di Abu Ahmed. Alla domanda su come mai Abu Mazen prenda le distanze dai lanci di Qassam delle Brigate al-Aqsa, Abu Ahmed ha risposto: "Ascolta, conosciamo le dichiarazioni del nostro presidente, ma siamo anche ben consapevoli del sistema politico internazionale che spinge il presidente ad adottare quelle posizioni". Abu Ahmed ha aggiunto che Abu Mazen non ha mai chiesto al suo gruppo di cessare i lanci. "Sappiamo qual è la linea politica generale di Fatah – ha spiegato – e agiamo di conseguenza, e posso dire che non ci è mai stato chiesto di cessare i lanci di missili. Pertanto i lanci non compromettono in alcun modo la nostra lealtà e il nostro impegno verso Abu Mazen e la sua leadership".
    Le Brigate Martiri di al-Aqsa, insieme alla Jihad Islamica palestinese, hanno rivendicato tutti gli attentati suicidi realizzati in Israele negli ultimi due anni, compreso quello di aprile a Tel Aviv costato la vita a nove israeliani e a un adolescente americano. Le Brigate al-Aqsa nei mesi scorsi hanno anche firmato decine di sparatorie contro civili israeliani. Tutti i capi delle Brigate al-Aqsa sono anche membri di Fatah e molti di loro prestano apertamente servizio nelle sue organizzazioni di sicurezza, compresa la Forza 17 che funziona come una forza di polizia a Gaza e in Cisgiordania. Lo scorso giungo Abu Mazen ha nominato comandante di Forza 17 il leader delle Brigate al-Aqsa Mahmoud Damra, che figura nella lista dei ricercati da Israele per attività terroristiche. Nel novembre del 2005 le Brigate Martiri di al-Aqsa furono il primo gruppo palestinese che sottoscrisse pubblicamente le dichiarazioni del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad secondo cui "Israele deve scomparire dalla carta geografica". "Noi affermiamo il nostro appoggio e sostegno alle posizioni del presidente iraniano sullo stato sionista che, a Dio piacendo, cesserà di esistere – si legge nel volantino diffuso dalle Brigate al-Aqsa distribuito a Gaza –. Riconoscere il diritto di Israele a esistere significa svalutare il popolo palestinese, che sta facendo grandi sacrifici ogni giorno per liberare la Palestina e Gerusalemme".

(il Velino, 7 gennaio 2008)





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