1. PARLA UN SINDACO PALESTINESE DI GERUSALEMME EST
A colloquio con Muchtar Suhir Hamdan
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Suhir Hamdan |
Non è soltanto la popolazione ebraica a temere la divisione di Gerusalemme, ma anche e soprattutto la popolazione araba di Gerusalemme Est. Ogni volta che sul tavolo delle trattative c'è Gerusalemme, come nei giorni scorsi ad Annapolis o nell'estate 2000 a Camp David, si alzano voci critiche dalle fila dei palestinesi contro un eventuale governo palestinese. Il problema è che ben difficilmente si trova un palestinese che ha il coraggio di dire questo apertamente. La paura paralizza, e quindi la verità che la maggior parte dei palestinesi in privato ammette non arriva in pubblico. "Muchtar" Suhir Hamdan, che già sette anni fa ha criticato l'amministrazione palestinese in Gerusalemme Est e che per questo ha quasi pagato con la vita, non si dà per vinto. Il cinquantacinquenne Suhir Hamdan è un orgoglioso musulmano, sposato con tre mogli e padre di 22 figli. In quanto sindaco del villaggio arabo Zur Bacher, uno dei 12 villaggi di Gerusalemme Est, è una personalità riconosciuta. Come allora, anche oggi Hamdan dice quello che gli altri palestinesi pensano.
israel heute - Come la maggior parte dei palestinesi, anche lei ha previsto il fallimento del vertice di Annapolis.
Suhir Hamdan - Naturalmente, entrambe le parti, israeliani e palestinesi, con gli USA hanno soltanto perso tempo.
D. Con il successore di Arafat, il capo dell'OLP Mahmud Abbas, Israele e il mondo avevano sperato di avere una direzione palestinese più pragmatica.
R. Mahmud Abbas è un capo debole, e fino a che non ha il suo popolo in pugno non otterrà niente. Già al tempo della sua elezione ho avvertito che avrebbe portato al popolo una catastrofe. Prima di parlare a tutto il mondo, Abbas dovrebbe preoccuparsi di mettere ordine nel suo proprio popolo.
D. Chi è più forte, secondo lei, Fatah o Hamas?
R. Nella Striscia di Gaza oggi Hamas è molto più forte di Fatah. Non appena Israele si ritirerà dalle altre città palestinesi, nella stessa notte Hamas occuperà ogni singola città. Il capo di Fatah, Mahmud Abbas, ha perso il potere sul popolo palestinese.
D.
Come vede le ricorrenti trattative sul futuro di Gerusalemme?
R. Io dico molto chiramente che Olmert e Abbas non hanno nessun diritto di decidere sul nostro futuro in Gerusalemme. Prima di prendere ogni decisione bisognerebbe interrogare i cittadini arabi. Ma questo nessuno lo fa. Come nel 2000 ho combattuto per i nostri diritti e la nostra libertà, così faccio anche oggi. Non siamo pecore di un gregge. Noi, 250.000 arabi di Gerusalemme, siamo persone che hanno dei diritti e quindi insistiamo per avere una consultazione popolare.
D.
Suhir, sette anni fa, mentre stava davanti alla sua porta di casa in Zur Bacher, un'auto che passava le ha sparato cinque colpi. Erano terroristi Tanzim di Betlemme. Non ha ancora paura di criticare la direzione palestinese?
R. No! L'Autonomia Palestinese è una dittatura che teme la democrazia. La paura paralizza i palestinesi, che non si arrischiano a parlare contro i loro dirigenti. Io non ho paura. Il mio messaggio è libertà e democrazia.
D.
Ma come mai non si sentono altre voci?
R. Davanti all'amministrazione palestinese di Gerusalemme Est la maggior parte dei palestinesi ha paura. E' una cosa che il governo in Israele sa molto bene, e con lui i giornalisti israeliani che sono in contatto con la popolazione di Gerusalemme Est. La sola cosa che vogliamo è di poter determinare noi stessi il nostro futuro.
D.
Che cosa avverrà nei primi tempi dopo Annapolis?
R. E' garantito che i palestinesi non governeranno su Gerusalemme Est. Per esperienza sappiamo che una leadership palestinese potrà soltanto rovinare quello che abbiamo ottenuto sotto l'amministrazione israeliana. State a sentire le voci che si sentono tra la Striscia di Gaza e Nablus! La maggior parte delle persone implora il ritorno degli israeliani nelle loro città e nei loro paesi. Fatah si è dimostrato corrotto, e Hamas è fatto di assassini.
D.
Si parla di pace e non si ottiene niente!
R. Purtroppo! Oggi è diventato tutto ancora più difficile perché il popolo palestinese è diviso in due campi che combattono l'uno contro l'altro. Hamas diventa sempre più forte e alla fine occuperà anche gli altri territori paelstinesi. Per questo un ritiro delle truppe israeliane non è nell'interesse del Fatah di Mahmud Abbas. Dovrebbe essere armato e coperto da Israele per riuscire a contrapporsi a Hamas.
D.
Lei propone dunque di fare anzitutto una consultazione tra i cittadini palestinesi di Gerusalemme, da cui probabilmente verrebbe fuori che si vuole avere un'autonomia sotto la sovranità israeliana?
R. Sì, qualcosa di simile! Già sette anni fa avevo avvertito palestinesi e israeliani che entrambi i popoli sarebbero caduti sulla questione di Gerusalemme. Mi creda, io vedo la situazione politica in questa regione molto più realisticamente di certe note figure chiave.
(israel heute, gennaio 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. SOLDI, CORRUZIONE E ODIO
La solitudine di Salaam Fayad
da un articolo di Khaled Abu Toameh
Dalla sua nascita, nel 1994, l'Autorità Palestinese ha ricevuto miliardi di dollari in aiuti internazionali. Tutto quel denaro avrebbe dovuto aiutare i palestinesi a costruire una forte economia e salde istituzioni di governo. Il presupposto era, allora, che il benessere economico avrebbe indebolito gli estremisti e rafforzato i moderati all'interno del campo palestinese.
Ma centinaia di milioni di dollari finirono su conti bancari segreti o servirono per costruire sontuose ville per gli alti funzionari dell'Autorità Palestinese. Lo stesso Yasser Arafat usò il denaro per comprarsi la lealtà dei suoi, reclutando quante più persone possibile come impiegati civili e "militari". Privando la sua gente degli aiuti finanziari, Arafat spinse molti palestinesi nelle braccia di Hamas e di altri gruppi estremisti. Molti furono i palestinesi ferocemente delusi dal "processo di pace", perché non ne godettero mai i frutti.
La comunità internazionale che riversava denaro nell'Autorità Palestinese non sembrò preoccuparsi granché delle notizie di corruzione e malversazione che giungevano da Cisgiordania e striscia di Gaza. Né i donatori prestarono molta attenzione al fatto che Arafat continuava imperterrito a istigare la sua gente non solo contro Israele, ma anche contro quegli stessi "infedeli" che intanto firmavano assegni su assegni.
Quando scoppiò la seconda intifada, nel settembre 2000, la cosa fu possibile perché molti palestinesi non avevano nulla da perdere. Anziché creare zone industriali per dare lavoro ai tanti disoccupati palestinesi, Arafat aveva aperto un casinò e comprato veicoli di lusso per i suoi fedelissimi. Anziché costruire case per chi ne aveva bisogno, Arafat aveva stabilito per sua moglie una gratifica mensile di 100.000 dollari con cui fare shopping a Parigi.
Fu anche per coprire la corruzione dilagante e la pessima amministrazione dell'Autorità Palestinese che Arafat scatenò un'ondata di istigazione all'odio contro Israele e l'occidente, soprattutto sui suoi mass-media e nelle moschee. È la classica modalità con cui i dittatori arabi cercano di deviare l'attenzione dai loro reali problemi interni: mobilitare le masse nell'odio verso l'occidente e Israele.
Si calcola che l'Autorità Palestinese di Arafat abbia ricevuto circa 6,5 miliardi di dollari in aiuti internazionali. Una volta un ex consigliere di Arafat ha ammesso che, se la maggior parte di quel denaro fosse stata investita nel promuovere il benessere dei palestinesi, molto probabilmente questi non avrebbero fatto ricorso alla violenza nel settembre 2000 e non avrebbero votato per Hamas sei anni dopo.
Progetti di riforma dell'Autorità Palestinese sono venuti emergendo sin da quando Salaam Fayad venne nominato ministro delle finanze, nel giugno 2002. Ma per lo più quei progetti rimasero sulla carta a causa delle rivalità personali e delle lotte di potere fra i vari esponenti e gruppi politici all'interno dell'Autorità Palestinese. Arafat fece di tutto per far fallire gli sforzi di Fayad perché non voleva che consolidasse il suo potere emergendo come un leader forte e credibile. E molti alti funzionari di Fatah si adoperarono per vanificare i piani di Fayad finché restò in carica come ministro delle finanze fra il 2002 e il 2005.
All'inizio del 2007 Fayad venne rinominato ministro delle finanze nel governo di unità nazionale Hamas-Fatah, ma di nuovo non fu in grado di apportare reali cambiamenti a causa della dura lotta intestina fra le due fazioni palestinesi.
Ora Fayad ha ripreso in mano il piano per riformare l'Autorità Palestinese. Come quello precedente, anche questo è stato definito "ambizioso". E le sfide che Fayad deve affrontare non sono diverse da quelle che fecero naufragare i suoi precedenti tentativi. Ad esempio, Fayad vorrebbe licenziare migliaia di impiegati civili e "militari", una manovra che ha già suscitato aspre critiche tra gli attivisti di Fatah.
E poi Fayad è tuttora circondato da molti di coloro che in passato ostacolarono attivamente i suoi progetti di riforme con la scusa che stava applicando l'agenda di israeliani e americani. Sono le stesse figure che temono un successo di Fayad, perché minerebbe il loro status e migliorerebbe le prospettive del primo ministro di scalare il potere.
Anche se i miliardi di dollari promessi alla recente conferenza dei donatori a Parigi potranno migliorare le condizioni di vita dei palestinesi e rafforzarne un po' l'economia, tuttavia non v'è nulla che garantisca che l'aiuto economico eserciti un effetto di moderazione su gran parte dei palestinesi. Si tratta di denari che hanno soprattutto lo scopo di mantenere Fatah al potere impedendo a Hamas di assumere il controllo anche in Cisgiordania. A meno che l'Autorità Palestinese non cambi improvvisamente la sua retorica mettendosi a promuovere sul serio una genuina pace e coesistenza con Israele, i milioni di dollari non serviranno affatto a creare una nuova generazione di palestinesi moderati.
D'altra parte, anche le necessarie misure di sicurezza di Israele, fra cui le limitazioni ai movimenti, non aiutano a rafforzare la posizione del campo moderato.
L'unico modo per minare Hamas non è versare miliardi di dollari alla dirigenza dell'Autorità Palestinese, bensì offrire ai palestinesi un'alternativa migliore a quella del movimento islamista jihadista. Se vuole riguadagnarsi la fiducia dell'opinione pubblica palestinese, Fatah deve innanzitutto riformare se stessa e aprire la strada a volti nuovi. Le decine di migliaia di palestinesi che hanno partecipato alle manifestazioni per l'anniversario della nascita di Hamas avrebbero dovuto suonare come un campanello d'allarme a Ramallah e a Parigi: il movimento islamista continua a godere di un massiccio sostegno popolare nonostante le sanzioni economiche imposte alla striscia di Gaza.
(Jerusalem Post, 18 dicembre 2007 - da israele.net)
3. SÌ ALLA MORATORIA SULL'ABORTO DEI PRO LIFE ISRAELIANI
Parla il dottor Eli Schussheim
16.000 bambini oggi sono vivi grazie alla sua organizzazione Efrat. "Necessario prevenire aborti dopo l'Olocausto"
ROMA - "Il mio sì alla vostra moratoria è in nome della santificazione della vita che è parte della storia del popolo ebraico". Il chirurgo Eli Schussheim è un eroe in Israele. Dirige da vent'anni la più grande organizzazione antiabortista. Si chiama "Efrat". Quando il faraone ordinò l'uccisione di tutti i nuovi nati ebrei, disse alle levatrici: "Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere". Le levatrici disubbidirono: "Non fecero come aveva loro ordinato il re d'Egitto e lasciarono vivere i bambini". Una di loro, Miriam, che era anche sorella di Mosè, acquisì così il nome di Efrat, che risale all'espressione ebraica "pru u'revu", il precetto "siate fecondi e moltiplicatevi".
"Efrat svolge lo stesso ruolo in Israele che ebbe Miriam in Egitto" ci dice Schussheim, che ha combattuto nella guerra dei Sei giorni del 1967 e in quella di Yom Kippur del 1973. "Sono medico chirurgo e salvavo vite umane in Argentina. Sono arrivato in Israele nel 1964 e dopo che la Knesset legalizzò l'aborto, decisi di battermi contro di esso tramite una organizzazione che aiutasse le donne a tenere i loro figli. Molte madri sono state convinte dalla nostra organizzazione a non abortire. Nessuna di loro oggi si pente di averli salvati da un aborto che sembrava inevitabile. Abbiamo aiutato a far nascere 16 mila bambini". Ruti Tidhar, l'infaticabile guida degli oltre duemila
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volontari dell'organizzazione Efrat, parla di "restaurare il diritto di scegliere la vita". Uno dei fondatori, Tzvi Binn, dice che lavorano per una "aliayh interna", una emigrazione dei non nati dall'estinzione verso la vita.
(Il Foglio, 10 gennaio 2008)
4. REPORTAGE TRA GLI EBREI DI ODESSA
A Odessa il miracolo della rinascita ebraica
di Simolar Piotr
Arrivando a Odessa, calda e confusa città portuale sul mar Nero, un viaggiatore curioso deve diffidare del suo carattere. Meglio non partire alla ricerca di un tempo perduto, di un mondo inghiottito che non rimane se non nelle pietre e nei libri, quel mondo nel quale questa città si era guadagnata il soprannome di «Porta del Sion». Un tempo, alla fine dell'800, gli ebrei erano quasi la metà della popolazione, e i successi intellettuali e l'importanza economica di questa comunità non avevano eguali in questa parte dell'Europa. Meglio rinunciare a questa ricerca impossibile, e ricordare che da anni gli ebrei di Odessa si sono sparpagliati per tutto il mondo.
Qual è la prima cosa che fa un rabbino ljiubavitch dopo aver poggiato le sue valigie nella terra che deve conquistare? Si prenota un posto al cimitero. La battuta fa ridere Avraham Walff, un rabbino della più stretta osservanza hassidica. Ha 37 anni, 6 figli e tanto ottimismo da poterlo distribuire a tutti gli abitanti di Odessa. A sentirlo, in città ci sono ancora 50 mila ebrei. «Qui, ogni famiglia ha un legame molto diretto con la comunità», dice con malizia: «Un cugino o una sorella sposati con degli ebrei, o qualche parente che ha partecipato ai pogrom».
Il sindaco Eduard Gurviz, esponente illustre della comunità, possiede statistiche diverse: «Secondo il censimento del 2001, in città ci sono 13 mila ebrei. Nel 1989 erano 90 mila. Il paradosso è che, mentre non abbiamo mai avuto così pochi ebrei a Odessa, la vita della comunità è diventata molto più attiva».
Avraham Wolff è qui per questo. Nato in Israele, è arrivato a Odessa nel 1992 «con un biglietto di sola andata». Il suo obiettivo era ripopolare la sinagoga: sviluppare le strutture di istruzione, sociali e culturali. Il risultato è stato impressionante: nei quartieri-dormitorio della periferia sono stati aperti due luoghi di preghiera, tre scuole materne e due primarie, un'università economica, due rifugi per orfani, tossicodipendenti e prostitute. Il bilancio mensile per far funzionare tutto questo, grazie alle organizzazioni ebraiche internazionali e a donatori generosi, è di 350 mila dollari. «E' un vero rinascimento», gioisce il rabbino, mostrando il suo giornale, che esce in 15 mila copie: «Sono come un gioielliere che taglia e pulisce i diamanti. Faccio splendere la bellezza degli ebrei di Odessa alla luce del giorno».
La realtà dei numeri, a livello nazionale, non porta molti motivi di felicità. Oggi in Ucraina non restano che 100 mila ebrei. Dai tempi degli zar, che gli toglievano pezzo dopo pezzo i territori da abitare, sono stati emarginati sempre di più. Alla fine del '700, gli zar hanno deciso di confinare gli ebrei in zone limitate. Imposta dall'imperatrice Caterina II nel 1791, la «zona di residenza» è esistita fino al 1917, anche se i suoi confini sono cambiati nel tempo. Si estendeva su un vasto territorio a cavallo tra la Polonia, l'Ucraina, la Bielorussia la Russia e i Paesi Baltici. Al suo apogeo avrebbe ospitato circa 5 milioni di ebrei. Solo con deroghe speciali un pugno di ebrei poteva ambire a risiedere nelle grandi città imperiali come Mosca e Pietroburgo.
Avraham Wolff si accomoda nella sua poltrona. Sulla parete, uno schermo trasmette le immagini della videosorveglianza interna, installata «a titolo preventivo». Siamo nel suo ufficio sopra la sinagoga Shomrei-Shabbos. Costruita all'inizio del '900 grazie a un'opera di carità, è stata chiusa nel 1927, e le autorità ne hanno proibito l'utilizzo fino al 1992. Oggi gli odessiti vengono numerosi per lo shabbat e le feste. La maggioranza non è praticante, ma desidera l'iniziazione culturale e apprezza il legame identitario che si crea in questo luogo. La vita della comunità è diventata più intensa, ma resta sostanzialmente laica. L'impatto dell'assimilazione forzata, a Odessa come nel resto dell'ex Urss, ha ridotto l'identità a rituali culturali. Nel centro della città, la via Evreiskaja, degli ebrei, non mostra nessun segno particolare.
Per misurare il cammino difficile di questa comunità, basta ascoltare Alexandr Rozenbaum. Lo si trova al primo piano dell'Istituto degli studi ebraici, subito dietro il ristorante «Rosmarino», che serve i piatti più classici della cucina kasher e offre il Wi-Fi per collegarsi a tutto il mondo. In Ucraina come in Russia, i vecchi edifici universitari hanno un odore particolare, fatto di umidità, polvere sulle pile di giornali ingialliti, parquet che scricchiola a ogni passo. Intorno, oggetti senza valore che vorrebbero essere testimoni del passato. Qui lo storico resuscita i morti: «Alla fine dell'800 c'erano almeno 200 mila ebrei in città, 50-60 sinagoghe e luoghi di preghiera, dozzine di enti di beneficenza, due cimiteri. Si poteva trascorrere tutta la vita sotto la protezione della comunità, che però non si ripiegava su se stessa, salvo i più ortodossi». Poi è arrivato il XX secolo e li ha decimati. «Non posso dire quanti sono stati i morti. Non meno di 100 mila, tra i pogrom della fine dell'800, la guerra civile, le purghe staliniane e la seconda guerra mondiale», elenca Rozenbaum. Dopo l'Olocausto, molti hanno ucciso anche la memoria dei morti, negando la propria identità ebraica. I soli monumenti ammessi rendevano omaggio al sacrificio dei «combattenti sovietici».
A Odessa non ci sono più molti giovani ebrei con bambini. Si trovano più facilmente a Gerusalemme o a New York. Anatoli Kesselman, 35 anni, è un'eccezione: doveva partire anche lui, ma il destino a deciso altrimenti. Nel 1993 è rientrato a Odessa dopo il servizio militare. L'Urss era stata la sua patria, era finita, regnava la confusione, le frontiere si stavano aprendo. Ha pensato di partire, ma i genitori si sono rifiutati di seguirlo. E' rimasto. Molti stavano emigrando in Israele, mettendo radici, creando famiglie. «I miei amici sono partiti. Parlo con loro via Skype, promettono di venire qui, ma non arrivano mai. Mi mancano collaboratori giovani e competenti». Kesselman dirige Gmilus Hesed, un'organizzazione di assistenza sociale molto attiva nella comunità, che aiuta circa 8 mila persone, il 75% anziani e poveri. La solitudine li cuoce a fuoco lento. Guardano e riguardano le foto, e parlano da soli fino a che non gli va via la voce. Gmilus Hesed li assiste a domicilio e offre cure mediche d'urgenza, pasti caldi o buoni per mangiare gratis. Organizza anche corsi di storia e tradizioni ebraiche, di danza e di scacchi, in un club dove vedersi ogni giorno e dove gli anziani vanno volentieri: «Si guardano i film e ballano con le canzoni degli anni '50», sorride Kesselman.
(La Stampa, 14 gennaio 2008 - ripreso da Le Monde)
5. RICERCA SCIENTIFICA IN ISRAELE
Diagnosi di disfunzioni cardiache in 90 secondi
Il «CardioMeter» è un 'innovazione di una giovane ditta israeliana e permette per la prima volta la diagnosi di malattie cardiache in soli 90 secondi.
La ditta «CardioMeter Ltd.» con sede a Tei Aviv ha sviluppato questa nuova apparecchiatura con cui è possibile accertare una disfunzione cardiovascolare in tempo record. Essa permette inoltre la stima del rischio d'infarto per il paziente. Per il momento l'affidabilità del procedimento diagnostico raggiunge l'80 per cento.
L'apparecchio è stato provato in Israele dal dott. David Brosh, medico cardiologo nel reparto di cardiologia del centro medico Rabin. Il primo test clinico è stato effettuato su 124 pazienti che necessitavano di una dilatazione con palloncino, ossia dell'eliminazione di un'ostruzione dei vasi sanguigni tramite l'introduzione di una sonda a palloncino. Il «CardioMeter» è stato utilizzato sia prima sia dopo l'intervento.
Le informazioni fornite dai sensori vengono elaborate da uno speciale programma elettronico. Vengono raccolti vari dati indicatori della funzionalità del cuore. Tramite l'utilizzo del «CardioMeter» prima e dopo la dilatazione con palloncino, si vuole accertare che il sangue possa di nuovo circolare liberamente attraverso le arterie, un ulteriore indicatore utile per il medico curante per constatare il successo dell'intervento.
Quest'apparecchiatura aiuterà anche in modo notevole a scoprire quei pazienti che soffrono di ostruzione dei vasi sanguigni e dovrebbero quindi urgentemente sottoporsi ad un intervento. Durante la serie di test clinici si è constatato che il «CardioMeter» indica se il paziente ha subìto un attacco cardiaco nelle giornate precedenti l'esame. Vengono diagnosticati tre parametri: la circolazione sanguigna, la funzionalità del sistema nervoso autonomo (indica la perfetta funzionalità del sistema di controllo del cuore) e la resistenza delle arterie. In caso di lieve flessibilità, questa indica un alto tasso del colesterolo oppure un' ipertensione.
Il dott. Brosh ha spiegato al riguardo: «L'apparecchio rappresenta un importante ausilio per noi cardiologi: esso emette una prima diagnosi piuttosto precisa in pochissimo tempo. In questo modo sarà più facile pronunciare una diagnosi soprattutto per quei pazienti che definiamo a rischio.»
Nel mondo occidentale le malattie cardiovascolari sono una delle cause di decesso più frequenti. Nel solo Israele ogni anno si registrano circa 10.000 casi di infarto e si effettuano più di 40.000 interventi di dilatazione con palloncino. Spesso basta una diagnosi precoce per salvare delle vite umane e a questo scopo, in futuro, il nuovo apparecchio sarà sicuramente molto utile. ZL.
http://farmacologiasif.unito.it/risorse cardiolinks.htm
(Notizie da Israele, n.6/2007)
6. ARCHEOLOGIA BIBLICA
A Berlino nuovo esame su frammenti rotoli di Qumran
I papiri di Qumran, trovati casualmente nel 1947 da un gruppo di beduini nell'omonima caverna della Palestina meridionale, stanno per rivelare una parte dei loro segreti grazie al sincrotrone Bessy di Berlino, che permetterà un loro esame attraverso raggi X molto intensi.
A Berlino dalla primavera prossima si cercherà in particolare di capire dove sono stati prodotti i papiri, considerati opera della setta degli Esseni e contenenti la versione più antica mai ritrovata della Bibbia. Una risposta a questa domanda permetterà di capire se la setta, per esempio, era in contatto di scambio con altre comunità religiose dell'epoca, come farisei, sadducei e altri.
La responsabile del progetto, Birgit Kanngiesser, in una intervista al quotidiano Die Welt, ha spiegato che i due frammenti dei rotoli di Qumran, grandi quanto francobolli e portati con valigie speciali climatizzate da Gerusalemme a Berlino, saranno esaminati per capire dove è stata prodotta la pergamena. L'acqua intorno al Mar Morto ha un rapporto cloro-bromo diverso rispetto alle regioni più lontane. Se questo rapporto sarà ritrovato nei frammenti, ciò vorrà dire che la pergamena è stata prodotta vicino al mar Morto.
"Il mio metodo è uno sviluppo ulteriore dell' analisi a fluorescenza Roentgen - ha detto Kanngiesser al giornale - con la novità che noi ora possiamo penetrare in profondità in una opera d'arte. Praticamente ci immergiamo sotto la superficie dell'oggetto; micrometro per micrometro (si tratta di una unità di misura utilizzata di frequente nell'elettronica, ndr) entriamo così nell'oggetto e possiamo ottenere informazioni esatte, per esempio sapere a quale profondità in quale concentrazione dell'oggetto inquisito si trovano elementi come rame, ferro o oro".
(Ticino News, 16 gennaio 2008)
MUSICA E IMMAGINI
That Bench Near The Lake
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