1. FOSSATI DA COLMARE
Cuori ebrei per i cristiani
di Dennis Avi Lipkin
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Dennis Avi Lipkin |
Alcuni mei fratelli ebrei mi hanno inequivocabilmente fatto capire che dovrei smetterla di voler bene ai cristiani e desistere dal tentativo di stabilire relazioni tra ebrei e non ebrei. Secondo loro dovre cambiare strada e cercare piuttosto di diventare un buon ebreo. Ho passato una buona parte della mia vita a costruire ponti tra ebrei e cristiani, anche perché ritengo che i cristiani siano i migliori amici dello Stato ebraico.
L'immigrazione in Israele di più di 1 milione di persone provenienti dalla ex Unione Sovietica e dall'Etiopia è stato il frutto primaverile dell'albero di fico. Mi chiedo che cosa accadrà quando il frutto autunnale, che sarà ancora molto più produttivo, raggiungerà Israele. Mentre i musulmani danno il via al nuovo Olocausto nelle strade dell'America e in altre nazioni occidentali, agli ebrei viene chiesto di lasciare dove sono i loro coniugi cristiani quando emigrano in Israele? I genitori di figli nati da matrimoni misti nella Diaspora dovranno lasciare i loro figli all'estero?
Nel 1920 Zeev Jabotinski aveva messo in guardia contro un imminente Olocausto. Oggi io metto in guardia contro l'Olocausto islamico. Fino a quando gli ebrei vorranno chiudere gli occhi davanti alla realtà? La conversione all'ebraismo dovrebbe essere facilitata e dovremmo accogliere a braccia aperte quelli che non vogliono convertirsi. Noi permettiamo a dei musulmani, che odiano la nostra terra, di far parte del governo in Israele. Perché anche i cristiani che vivono con noi in un matrimonio misto, e ci amano, non dovrebbero poter servire nell'esercito e pagare le tasse? Quando Dio in cielo riporterà a casa i suoi dispersi, tra loro ci saranno anche dei cristiani. Su questo punto noi dobbiamo andare oltre e imparare a trattare la questione.
Batya Medad, che a New York apparteneva allo stesso mio movimento ebraico sionista, nel suo blog su internet ha scritto che non sarebbe bene per Israele se ci fosse un partito ebraico-cristiano. "Negli USA qualcosa di simile è possibile, ma Israele è l'unico paese ebraico al mondo", ha scritto Medad. "Non vorrei che i cristiani potessero arrivare ad avere influenza politica. Già così le cose sono abbastanza pericolose, con i nostri deboli, "fuorviati" politici che aspirano più ad avere lodi e riconoscimenti dal mondo invece di fare quello che per noi è il meglio - cioè ubbidire a Dio".
Io credo che Dio stia usando i musulmani per riempire il fossato esistente tra ebrei e cristiani. Agli occhi dei musulmani l'unica differenza tra ebrei e cristiani sta nel fatto che gli ebrei osservano il sabato e i cristiani la domenica. Per questo i musulmani dicono: "Uccidete gli ebrei il sabato, e uccidete i cristiani la domenica". Se continuiamo ad odiare i cristiani, perché i cristiani non dovrebbero a loro volta risponderci con l'odio e diventare dei neo-nazisti, come è accaduto recentemente in Petach Tikvah? Amore attira amore. E odio attira odio. Anti-cristianesimo provoca anti-semitismo. Si direbbe che noi ebrei non siamo capaci di farla finita con il nostro odio per i cristiani. Giustifichiamo il nostro odio per i cristiani con 2000 anni della nostra storia. Forse abbiamo ragione. Ma potremmo anche avere tragicamente torto.
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Per una biografia di Avi Lipkin: --> www.vicmord.com/biography.html
(israel heute, gennaio 2008)
COMMENTO - Le intenzioni dell'autore sono buone, tuttavia parlare di "cristiani" in senso generico non serve a chiarire le cose. Combattere l'odio è sempre cosa buona (in questo senso anche verso i musulmani), ma purtroppo anche da certi cosiddetti "cristiani" gli ebrei non possono fare a meno di guardarsi. Resta comunque il fatto che tra i cristiani si trovano certamente i più disinteressati amici di Israele. Ed è bene che ci siano ebrei che se ne sono accorti. M.C.
2. QUELLO CHE VUOLE HAMAS
Hamas non vuole carburante ma la cancellazione di Israele
di Giulio Meotti
ROMA - "La guerra dei palestinesi non finirà con l'arrivo del carburante nella Striscia di Gaza: la guerra non finirebbe neanche se Gaza fosse inondata di carburante". Lo ha dichiarato Khaled Mashaal, capo del politburo di Hamas in esilio a Damasco. "La lotta ha continuato Mashaal deve continuare fino a quando verrà tolto l'assedio alla Striscia di Gaza e fino alla liberazione della Palestina, tutta la Palestina". Qualche settimana fa Mashall aveva detto: "Hamas non abbandonerà la violenza. Questa è la nostra scelta, il nostro asso nella manica che fa soccombere il nemico". Parole pronunciate in occasione del ventesimo anniversario della fondazione del movimento jihadista palestinese. Mashaal ha aggiunto che il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen), che controlla la Cisgiordania, non ha alcun mandato per negoziare con Israele. "Il nostro popolo aveva detto il leader di Hamas all'estero è in grado di lanciare una terza e una quarta intifada, fino a quando non sorgerà la vittoria finale". Hamas ha celebrato il suo ventesimo anniversario con un grande raduno a Gaza volto a diffondere un messaggio di forza e di sfida nel momento in cui, in realtà, si batte per cercare di impedire che la Striscia di Gaza sprofondi ancora di più nel caos e nella povertà. Decine di migliaia di sostenitori di Hamas si sono riuniti in uno spiazzo sabbioso e nelle vie adiacenti sventolando bandiere verdi islamiche. All'adunata di sabato scorso, su uno striscione teso su un edificio sopra il palco degli oratori, si poteva leggere in arabo, inglese e francese la frase: "Non riconosceremo il cosiddetto Israele".
Nel suo discorso, il primo ministro palestinese (deposto) Ismail Haniyeh ha ribadito che Hamas non riconoscerà mai Israele. "Solo con la jihad e la lotta armata potremo liberare la Palestina, Gerusalemme e la moschea di al-Aqsa ha detto Haniyeh non con i negoziati, gli incontri, i baci e i sorrisi. Le centinaia di migliaia che partecipano a questo raduno sono la prova che la via indicata da Hamas trionfa, e che Israele si è ritirato senza condizioni da Gaza grazie alla lotta armata. È la lotta armata che ha cacciato Israele dal Libano meridionale, ed è questo il mezzo con cui i nostri combattenti hanno catturato (l'israeliano) Gilad Shalit". Fra la folla erano presenti decine di membri dell'ala militare di Hamas molti dei quali, pesantemente armati, esibivano riproduzioni dei missili Qassam palestinesi che vengono lanciati quotidianamente su Israele. Hanno marciato anche una cinquantina di donne appartenenti all'ala militare, con addosso lunghi abiti e cartucciere militari. E mentre Hamas chiarisce i punti della crisi di Gaza, poco più a nord Hassan Nasrallah, leader dell'organizzazione terroristica filoiraniana Hezbollah, brandisce i resti degli ebrei come emblemi di ricatto: "Abbiamo teste, mani, piedi e un cadavere quasi completo dalla testa fino al bacino". Nasrallah respinge ogni richiesta della Croce Rossa di visitare i soldati israeliani in ostaggio, non c'è modo di avere il più piccolo segno di vita. L'associazione Keren Hayesod ha scelto un bellissimo motto per tenere alta l'attenzione: "Salviamoli e salviamoci". Sono ancora tre i soldati israeliani che dal 1982 sono tenuti in ostaggio dai guerriglieri sciiti. E da due anni ne mancano altri due all'appello. Si tratta di Eldad Regev e Ehud Goldwasser, rapiti un anno e mezzo fa, per la cui liberazione Nasrallah chiede quella di Samir Kuntar, il più efferato terrorista e assassino di ebrei detenuto in Israele.
Il 22 aprile 1979 Kuntar guidò un gruppo di terroristi libanesi sulla spiaggia israeliana di Nahariya. Entrarono in un edificio al numero 61 di via Jabotinski, l'appartamento della famiglia Haran. La madre, Smadar, fece in tempo a nascondersi in un soppalco insieme a Yael, di due anni. "Non dimenticherò mai racconterà Smadar l'allegria e l'odio nelle voci degli uomini di Kuntar mentre si aggiravano per la casa dandoci la caccia, sparando coi mitra e gettando granate. Tenni la mano sulla sua bocca per non farla gridare. Acquattata là dentro, mi tornavano alla mente i racconti di mia madre su quando si nascondeva dai nazisti durante la Shoah". Nel tentativo di evitare rumori, Smadar provocò la morte per soffocamento della figlia. Kuntar trascinò il padre Danny e la piccola Einat di quattro anni sulla spiaggia. Sparò a bruciapelo alla schiena dell'uomo, immergendolo in mare per assicurarsi che fosse morto. Poi sfondò il cranio alla bambina. Ma c'è anche un altro israeliano nelle mani dell'asse Beirut-Teheran: è Ron Arad, fu catturato dai sicari di Nasrallah nel 1986. Da allora non si è più saputo niente di lui. Il 10 ottobre 2003 i media israeliani trasmisero la notizia che tre diplomatici iraniani in esilio avevano avuto un contatto con Arad in una prigione di Teheran. I diplomatici hanno raccontato che i boia iraniani avevano eseguito un "atto chirurgico" su Arad: l'incisione della nervatura del midollo spinale per impedirgli la fuga.
(Velino, 25 gennaio 2008))
3. DOPO L'OLOCAUSTO
4 luglio 1946 il pogrom di Kielce: un crimine contro i sopravvissuti
Basato sul materiale pubblicato dall'European Jewish Press, l'unica agenzia di stampa ebraica europea online.
Articolo originale: www.ejpress.org/article/9420
A Kielce furono massacrati più di 40 ebrei. Quei fatti scatenarono la corsa all'esilio di quei membri di una comunità ebraica polacca un tempo fiorente, che erano sopravvissuti all'Olocausto.
A provocare i tragici eventi di Kielce fu la voce senza fondamento che una famiglia di ebrei avesse sequestrato per una notte un bambino cristiano di nove anni.
Secondo quella voce, che aveva subito assunto proporzioni grottesche, la comunità ebraica della città, che era stata quasi annientata durante la guerra, avrebbe avuto bisogno di trasfusioni di sangue di bambini cristiani per continuare ad esistere.
Alcune persone sostennero di aver visto teschi e scheletri di bambini nella cantina di una famiglia ebrea e diffusero la frottola che quella famiglia avesse compiuto omicidi rituali per ottenere una goccia di sangue cristiano, che secondo loro era un ingrediente essenziale per la preparazione delle matzot, il pane azzimo ebraico.
Il padre del ragazzo che si diceva fosse stato tenuto in ostaggio dalla famiglia ebrea per una notte ma che poi risultò aver trascorso la notte a casa di un amico in campagna chiese alla polizia di aprire un'inchiesta.
Accompagnato dai vicini si recò con la polizia in via Planty, dove risiedevano molte famiglie ebree. La delegazione divenne una folla quando ad essa si unirono dei soldati e i membri della milizia comunista.
Un ufficiale della polizia ordinò agli ebrei di consegnare le armi ed è stato allora che si sono sentiti i primi spari. Nessuno può dire con certezza chi sia stato ad aprire il fuoco e contro chi, ma la battaglia che ne seguì coinvolse soldati, polizia e civili che o spararono agli ebrei o li picchiarono a morte. Alcuni vennero lanciati fuori dalle finestre dei loro appartamenti
Trentasette ebrei e tre cristiani polacchi vennero uccisi dalla violenza di quel giorno; altri attacchi contro gli ebrei della città vennero registrati nei giorni successivi.
Secondo alcuni sopravvissuti che ora vivono in Israele, parecchi giorni prima di quei tragici eventi, una delegazione ebraica, avendo percepito la tensione nell'aria, aveva chiesto udienza al vescovo, il quale aveva risposto che la chiesa non poteva intervenire a favore degli ebrei, "in quanto essi hanno portato in Polonia il comunismo".
Quegli eventi scatenarono un'enorme ondata migratoria, che coinvolse decine di migliaia di ebrei polacchi sopravvissuti all'Olocausto nazista.
"Dopo il pogrom di Kielce la situazione era inesorabilmente cambiata", sostiene la storica Bozena Szaynok dell'Università di Wroclaw.
"Subito dopo la guerra molti ebrei emigrarono in Palestina perché ai loro occhi la Polonia era diventata un enorme cimitero in cui non si poteva più vivere.
"Dopo il pogrom, gli ebrei furono presi dal panico. Non si sentivano più al sicuro in Polonia", dice.
Nei tre mesi che seguirono il pogrom circa 70.000 ebrei lasciarono la Polonia più dei 50.000 che erano emigrati durante tutto l'anno precedente.
Prima della seconda guerra mondiale la Polonia ospitava la comunità europea più grande d'Europa (circa 3.5 milioni di persone). La maggior parte di loro fu spazzata via durante l'Olocausto.
L'atmosfera post-bellica in Polonia era matura per il pogrom di Kielce.
"Il pogrom non sarebbe mai avvenuto se non fosse stato per il clima di antisemitismo che allora pervadeva la Polonia: gli ebrei erano stati disumanizzati, si pensava che fossero stati "puniti" durante la guerra e il mito dell'ebreo comunista che aveva portato al potere gli odiati comunisti veniva propagato liberamente", dice lo storico Andrzej Paczkowski.
"I polacchi temevano che gli ebrei che erano sopravvissuti alla guerra tornassero e pretendessero la restituzione delle case che avevano abbandonato quando erano sfuggiti ai nazisti", racconta.
Sebbene il pogrom di Kielce rappresenti il maggior massacro di ebrei nella Polonia del secondo dopo guerra, in tutto il Paese si registrarono massacri simili, spesso scatenati da dispute per questioni di proprietà.
Secondo gli storici, solo nel dopo guerra, in Polonia vennero uccisi tra i 600 e i 1500 ebrei.
(Keren Hayesod, 25 gennaio 2008)
4. UNA VOCE DALL'INTERNO D'ISRAELE
"Tu sol pensando ideal sei vero!"
Si racconta di uno dei nostri saggi che quando era un ragazzo gioco' con degli amici a saltare una corda tesa tra due alberi. Gli altri incominciarono ad inciampare ed ad essere eliminati mentre lui fini' la gara. Rispose, a chi gli chiese come ci fosse riuscito: "I miei amici guardavano verso il basso, si impressionarono e caddero, io ho sempre pensato all'obbiettivo finale e li ho indirizzato il mio pensiero ed i miei sforzi".
Queste parole spiegano come debba comportarsi un vero leader. Le persone normali vedono soprattutto le difficolta' ed i pericoli e percio' si abbattono e crollano. Al contrario, il vero leader mette sempre davanti a se' lo scopo finale e studia come meglio raggiungerla. Anche lui sa che ci sono gli ostacoli, ma il suo sguardo e la sua mente sono indirizzati alla meta e con la forza della fede e sicuro nell'aiuto di D.o, supera tutte le difficolta'.
Ci sono delle persone che sempre ti spiegheranno che una cosa e' impossibile perche' e' troppo complicata e pericolosa.
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Esse non sono stolte. Esse spiegano in maniera assai razionale e convincente i pericoli e le difficolta'. Ma alla base del loro ragionamento c'e' sin dall'inizio che una certa cosa e' impossibile e tutte le loro spiegazioni sono per rafforzare tale convincimento in se' e negli altri.
Al contrario c'e' chi vi dira': la cosa e' possibile! Se ci sono delle difficolta' si trovera' il modo di superarle. Con il coraggio si neutralizzera' la paura.
Anche se ci saranno degli imprevisti si vedra' come affrontarli. Costui avanza sicuro verso la meta finale nonostante le difficolta' ed i pericoli che incontra.
Per anni il mito dei reparti d'elite dell'esercito e' stato "l'impossibile non esiste!"
Ed esso raggiunse risultati sorprendenti e stupefacenti. In quegli anni quando si parlava del nostro "lungo braccio" i nostri nemici tremavano. Essi sapevano che il Popolo Ebraico li avrebbe scovati anche nei loro nascondigli piu' sicuri e che avrebbero pagato il prezzo per i loro crimini.
In quei giorni sapevamo portare a termine in poco tempo un'azione perfetta come la liberazione degli ostaggi ad Entebbe. Chi decise l'azione prese su di se' dei rischi tremendi, ma era chiaro a tutti che eravamo obbligati ad agire nonostante tutte le difficolta' e gli imprevisti, mentre oggi dei nostri soldati sono tenuti in ostaggio da circa un anno. Forse veramente non e' possibile liberarli, ma e' piu' probabile che siamo piu' impegnati in discussioni nelle varie commissioni d'inchiesta e cosa c'e' da correggere invece che cercare di tentare azioni coraggiose e studiate nei minimi dettagli per liberarli.
Lo sforzo e l'impegno per raggiungere l'obiettivo non e' un tener in poca considerazione gli ostacoli ed i pericoli. Non c'e' mancanza di responsabilita'. Il vero leader conosce i pericoli e le difficolta' meglio di chiunque altro, ma nonostante cio' e' determinato nel superarli. Egli infonde fede e sicurezza nei suoi uomini perche' non si lascino scoraggiare dagli ostacoli ma che li debbano superare per arrivare al premio della meta agognata.
Questo e' in fin dei conti la disputa tra le dieci spie e Giosue' e Calev. Le spie descrivono i pericoli e gli ostacoli facendoli apparire insormontabili, mentre Giosue' e Calev sprizzano fede e sicurezza. I 10 esploratori dicono:"Non potremo sconfiggere il popolo del paese, perche' e molto piu' forte di noi!"
Mentre Calev proclama: "Saliamo ed ereditiamo la terra, perche' con l'aiuto di D.o riusciremo!".
Le spie, e quelli che oggi le imitano, producono panico e causano il crollo psico-fisico nel Popolo, ed il modo di affrontarli e' di infondere fede e sicurezza, esattamente come fecero Giosue' e Calev: "Non temete il popolo del paese... il Signore e' con noi, non temeteli!"
Se alla fine siamo entrati nella Terra d'Israele e' per merito di persone come Giosue' e Calev. Se ascoltiamo la voce delle spie restiamo o finiamo nel deserto e rischiamo, D.o non voglia!, l'estinzione.
Soltanto con la fede e la sicurezza nel Signore si potranno superare tutti gli ostacoli e le difficolta' che ci restano per poter presto arrivare al termine della Gheulah (Redenzione).
(Iesh hamafchidim veiesh hamaminim, articolo di fondo di SICAT HASHAVUAH N. 1066, 8/6/07, p. 1; liberamente tratto e tradotto dall'ebraico da Eleazar Ben Yair).
5. LIBRI
Un "Campo della vergogna" anche nella "italiana" Libia
di Cristina Cattaneo
Finalmente raccontata la triste vicenda del campo di concentramento per ebrei di Giado in Libia durante la seconda guerra mondiale in un libro del giornalista scrittore Eric Salerno.
Per caso alcuni giorni fa ho sentito - solo per metà - alla radio svizzera la segnalazione di uno dei troppi episodi della seconda guerra mondiale che rischiano di cadere nel dimenticatoio.
Si tratta di un fatto che fino ad ieri ignoravo, ma che mi sembra doveroso divulgare, sia in segno di rispetto per le vittime, sia perché non si deve mai smettere di esercitare la memoria, come ci ricorda la prossima giornata ad essa dedicata.
Poche le parole udite, Libia, ebrei, campo di concentramento. Si parlava di un libro.
Con queste poche parole sono però riuscita a trovare il libro di cui penso si stesse parlando e a capire di quale campo si trattasse.
Libia, meglio Tripolitania, ancora colonia italiana in tempo di guerra. Nord Africa, zona di residenza di numerose comunità ebraiche sefardite da sempre, prima e dopo la cacciata dalla Spagna voluta da Ferdinando e Isabella di Castiglia. Si trattava di comunità ben integrate e cosmopolite, che aiutavano anche a tenere vivi i rapporti con la parte settentrionale del Mediterraneo, con le loro attività, con le loro parentele, con i loro viaggi di studio Durante la guerra alcune hanno forse sofferto meno di altre, almeno là dove prevalevano gli alleati, inglesi, francesi americani.. In Africa inoltre si combatteva su tutta la linea, con alterne fortune.
Gli ebrei libici invece avevano adottato l'Italia come loro patria, imparato e insegnato l'italiano ai figli, aderito al fascismo come tanti altri. Avevano accolto trionfalmente lo stesso duce in occasione di una sua visita in Libia.
Ma la Libia era italiana e Mussolini, alleato dei tedeschi, aveva fatto applicare le odiose leggi razziali.
Nel maggio del 1942, in un momento favorevole alla Germania e all'Italia, il console tedesco si preoccupava della "sistemazione" da dare ai numerosi ebrei residenti in Cirenaica e in Tripolitania, questi ultimi troppo numerosi per essere trasferiti in Italia e in Germania.
Doppio tradimento nei confronti di questa comunità, fu quindi la decisione presa all'inizio del 1942 di trasferire gli ebrei libici in campi di concentramento o di lavoro, decretando inevitabilmente la fine prematura di troppi di essi per le malattie, le privazioni e gli stenti.
Chi ha cercato di ricostruire queste vicende è lo scrittore giornalista Eric Salerno, voce nota agli ascoltatori della radio per le sue corrispondenze dal Medio Oriente, autore del volume "Uccideteli tutti". Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado (ed. Il Saggiatore).
Racconta dei crimini commessi dai militari italiani e di un ordine finale terribile che solo il caso lasciò incompiuto. Un esclusivo dossier storico che aggiunge un'altra pagina al già terribile libro dello sterminio degli ebrei voluto dai nazisti.
In particolare parla del campo di Giado, grazie anche alle testimonianze di sopravvissuti raccolte in Israele, in Italia, negli Stati Uniti e nella stessa Libia, nel quale furono internati duemilaseicento ebrei, più o meno, e di questi quasi seicento morirono per maltrattamenti, malattie, tifo e febbre tifoidea, fame. Uomini, donne e tanti bambini di cui, però, non esiste un elenco dei nomi. Cinquecento, tra gli internati, furono poi deportati in altri campi in Italia (Civitella del Tronto e Bagno) e successivamente a Bergen-Belsen e Biberach in Germania e un campo a Innsbrück in Austria.
Eric Salerno è riuscito a parlare con un testimone oculare, il 92enne Khalifa Massoud Eidoudi, che è tra i pochi abitanti di questa località sulla montagna, 240 chilometri a sud di Tripoli, a ricordare quando il "campo Priore", una vecchia caserma italiana, venne trasformata in un campo di detenzione e di lavori forzati per ebrei libici.
Riporto qui uno stralcio dell'articolo di E. S. apparso su Il Messaggero del 7 dicembre 2005, pag. 1:
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Eidoudi, passo svelto, stretta di mano forte, voce sicura come la memoria, racconta. «All'inizio li portarono dalla Cirenaica, li accusavano di complottare con gli inglesi, poi arrivarono anche altri arabi yehudi ». Arabi ebrei, li chiama. A Sidi Aziza, più vicino a Tripoli, i fascisti allestirono un altro campo dedicato soprattutto agli ebrei tripolini. Lavori forzati e maltrattamenti. Trecento di loro furono deportati nella regione di Tobruk per riparare le difese tedesche e italiane contro l'avanzata degli Alleati. Nell'albo delle vittime dell'Olocausto a Yad Vashem, a Gerusalemme, non ci sono molti nomi di ebrei periti nell'Olocausto in Libia. Ne ho trovati una decina, tra cui quello di tale Morthchi Lachmish, nato a Tobruk, data sconosciuta, morto a Giado all'età di 42 anni, nel 1943. La prima generazione di sopravvissuti non ha lasciato molte testimonianze. Tra gli ebrei libici, in Israele e in Italia, si parla di uno strano «senso di vergogna» per i tormenti subiti, e soltanto ora qualcuno comincia ad aprirsi. «In generale gli italiani non erano antisemiti crudeli - spiega uno di loro - ma i due ufficiali comandanti del campo di Giado lo erano». «Soldati italiani e arabi pattugliavano il campo e chi si avvicinava al reticolato veniva fucilato. Ogni giorno ci davano 120 grammi di pane. E una volta la settimana, l'equivalente di cinque grammi di riso al giorno, tre grammi d'olio, tre di salsa di pomodoro, cinque di zucchero e altrettanto di caffè». E ancora: «Dovevamo lavorare dodici ore di seguito, senza alcun riposo. Era chiaro che con quel ritmo e la poca alimentazione, eravamo destinati tutti a morire». Bastonate, torture, sofferenze di ogni genere, riaffiorano dal fondo della memoria. «Erano pronti a ucciderci tutti», sono le parole di un anziano ebreo. Le truppe italiane avevano avuto l'ordine di massacrare i malati, quasi quattrocento. La notizia dell'avvicinarsi dei britannici bloccò l'operazione, i soldati se ne andarono.
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Il campo di Giado oggi non esiste più, a ricordo di questa tristissima vicenda rimane solo il cimitero. C'è quello musulmano e, sulla destra, quello degli ebrei. Racconta ancora Eric Salerno: Non vedo lapidi. Haj Ibrahim - un altro vecchio libico - mi prende per mano e con la sua indica. «La gente moriva nel campo e gli ebrei venivano sepolti qui. Senza grandi cerimonie. Senza lasciare traccia».
Inoltre in questa occasione mi sembra giusto ricordare che sono ancora molti i "campi"italiani sui quali non si è ancora fatta piena luce e che meriterebbero fossero oggetto di studi più approfonditi. Io stessa ho visitato Fossoli, vicino a Modena, campo per lo più di "passaggio", ma vale la pena citare Cairo Montenotte , Castel Sereni, Chiesanuova nel Veneto vicino a Padova, Colfiorito, Ellera, Gonars nel Friuli a ovest di Palmanova (provincia di Udine), Monigo nel Veneto vicino a Treviso, Pietrafitta, Renicci in Toscana vicono ad Anghiari, in provincia di Arezzo, Tavernelle, e Visco nel Friuli. (Informazioni queste ultime per le quali ringrazio lo studioso, Dott. Gennaro Stammati, autore anche di interessanti articoli per il Notiziario della Banca Popolare di Sondrio).
Titolo: «Uccideteli tutti». Libia 1943: gli ebrei nel campo di concentramento fascista di Giado. Una storia italiana
Autore: Salerno Eric
Editore: Il Saggiatore
Data di Pubblicazione: 2008
(La Gazzetta di Sondrio, 20 gennaio 2008)
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Scacco perpetuo
di Anna Rolli
Nel 1940, a Vilnius, capitale della Lituania, vivevano circa 60mila ebrei membri di una comunità risalente alla prima metà dell'undicesimo secolo, una comunità che con il trascorrere del tempo era diventata famosa per lo sviluppo degli studi e per la vivacità della vita culturale, al punto da essere stata soprannominata la "Gerusalemme della Lituania". In tre anni tale comunità venne annientata, il 95% per cento degli ebrei fu sterminato in parte dai lituani antisemiti e collaborazionisti, in parte dagli occupanti tedeschi. Le retate, seguite dai massacri, iniziarono nel giugno e proseguirono ininterrottamente fino a tutto il dicembre del 1941.
Dopo un periodo di relativa calma, nel giugno del 1943 arresti e carneficine ripresero, fino alla liquidazione definitiva del ghetto il 23 e il 24 settembre. Un piccolo numero di ebrei lituani poté sopravvivere ancora nel campo di Kailis ma nel marzo del 1944 tutti i bambini furono portati nella foresta di Paneriai e fucilati, e mentre avanzava l'armata rossa, il 2 di luglio del 1944, anche gli ultimi adulti furono assassinati. In un giorno di quegli anni, un giorno come tanti altri, un bambino di sette anni dopo la fucilazione dei genitori si avviava alla morte insieme ad altri bambini lituani ebrei. Per volere della sorte, quel giorno luminoso, il 28 luglio del 1941, il piccolo di sette anni venne salvato e fu nascosto da una famiglia di braccianti lituani.
Finita la guerra, quel bambino oramai adolescente iniziò a raccontare e a scrivere soprattutto dei ricordi d'infanzia e dell'esperienza della Shoà, introducendo per la prima volta tale tematica nella letteratura lituana. Soltanto molti anni dopo, nel 1972, oramai uomo maturo, riuscì ad ottenere un visto e poté emigrare in Israele.
Icchocas Meras vive tuttora in Israele e ha scritto molti romanzi e racconti, la critica lo considera un maestro del romanzo breve e le sue opere, in passato vietate in Unione Sovietica, sono state tradotte in molte lingue e sono state premiate più volte da varie giurie internazionali.
Scacco Perpetuo è il suo primo, e per ora unico, libro tradotto in italiano. Si tratta di un lungo racconto, da leggere in poche ore, ambientato nel ghetto di Vilnius poco prima della liquidazione finale, quando il poeta ebreo Abba Kovner aveva già incitato i giovani alla Resistenza con un proclama divenuto in seguito famoso, quando gli ebrei cercavano ogni maniera per procurarsi delle armi e si preparavano a combattere l'assurdo in una rivolta senza speranza. Il linguaggio limpido, poetico, il succedersi di lucide implacabili visioni ci restituiscono una vita quotidiana di orrori e di amori e di amicizie senza tempo, in un tempo nel quale, ogni momento di ogni ora, si svolgeva, fatale, la partita a scacchi con la morte, e la posta in gioco era rappresentata non tanto e non soltanto dalla vita ma dalla dignità, dalla dignità propria e da quella del proprio popolo, nel confronto continuo con il disumano.
Scacco perpetuo
di Icchonas Meras
a cura di Ausra Povilaviciute e Vanna Vogelmann
Giuntina 2007 (PP178, 14 Euro)
(Agenzia Radicale, 19 gennaio 2008)
MUSICA E IMMAGINI
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