1. EBREI RIFORMATI ED EVANGELICI
Il movimento ebraico riformato: la cooperazione con gli evangelici è nociva a Israele
di Franck Olivier
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Il rabbino Eric H. Yoffie |
Il quotidiano Haaretz riporta che il presidente del movimento ebraico riformato americano, il rabbino Eric H. Yoffie, ha dichiarato, durante il congresso annuale del movimento a Cincinnati, che la cooperazione con la Chiesa evangelica è nociva, non soltanto a causa delle loro posizioni discriminatorie contro gli omosessuali o perché non manifestano rispetto verso i musulmani e i cattolici (la chiesa cattolica è stata soprannominata dal pastore Hagge «la grande prostituta»), ma soprattutto perché il loro sostegno a Israele è di fatto un sostegno a una politica di destra. Secondo il rabbino Yoffie, presidente della più grande corrente dell'ebraismo americano (40% degli ebrei degli Stati Uniti), «non si può collaborare con gli evangelici sionisti».
Per Yoffie, il sostegno a Israele degli evangelici non è incondizionato, ma è giustificato da una visione politica che la maggioranza degli israeliani non condivide. Gli evangelici sionisti si oppongono alla soluzione dei due Stati: uno per gli israeliani e uno per il palestinesi.
Gli evangelici negli Stati Uniti sono circa 10 milioni e il rabbino Yoffie vuole stabilire una distinzione tra i differenti gruppi. Secondo lui ci sono dei «moderati», con cui la cooperazione sarebbe possibile, e ci sono degli «evangelici sionisti» (considerati evidentemente «non moderati», ndr).
E' la prima volta che il presidente del movimento ebraico riformato attacca questa Chiesa per il sostegno a Israele. Due anni e mezzo fa era già insorto contro le posizioni anti-omosessuali degli evangelici. Inoltre, Yoffie stima che non bisogna soltanto «allontanarsi da coloro che coltivano propositi antisemiti e anti-israeliani», ma anche da «coloro che coltivano propositi anti-islam e anti-cattolici»:
Fonte: Haaretz e Ynet, 3 aprile 2008
(Un écho d'Israèl, 4 aprile 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
COMMENTO - Non esiste una "Chiesa evangelica", né mondiale né nazionale. Ci sono evangelici di tutti i tipi, come ci sono ebrei di tutti i tipi. Probabilmente la corrente del rabbino Yoffie troverà difficoltà a collaborare non solo con gli "evangelici sionisti", ma anche con tanti altri gruppi di ebrei. Niente di strano, dunque.
2. ALLA JIHAD COL PERMESSO DEI GENITORI
Mamma e papà lo sanno
che vuoi fare il kamikaze?
di Francesca Paci*
Hussan Bilal Abdul avrebbe dovuto chiedere il permesso a mamma e papà quel pomeriggio estivo del 2004, prima di presentarsi imbottito d'esplosivo al check point di Hawara, vicino Nablus, per immolarsi a soli 16 anni nel nome della Palestina? Cosa avrebbero detto, se interpellati in tempo, i genitori di Rashida, adolescente-bomba scagliata contro un pulmino di turisti a Kusadasi, in Turchia, un mese dopo Hussan? E quelli del tredicenne Abdul Karim, saltato in aria al posto di blocco americano di Kirkuk, in Iraq, il primo novembre 2005? A chi appartiene la vita dei baby-kamikaze, nuovo terribile strumento del terrorismo islamista, alla famiglia o al Dio impietoso che pretende il sacrificio estremo? La domanda è al centro di un serrato dibattito tra i massimi teorici della jihad globale.
Il 6 marzo scorso il sito internet al-Sahab, braccio mediatico di al Qaeda, diffonde un'audiocassetta intitolata «They Lied: Now Is the Time to Fight», «Mentono: ora è tempo di combattere». Per 46 minuti il protagonista, l'egiziano Ahmed Muhammad Uthman Abu-al-Yazid, 52 anni di cui 3 trascorsi in una cella del Cairo con l'accusa d'aver partecipato all'assassinio del presidente Sadat, fido luogotenente di Osama in Afghanistan, si rivolge a padri e madri musulmane pregandoli di non ostacolare la volontà divina. «Ci appelliamo a voi affinché non vi frapponiate tra i vostri figli e il paradiso» dice Abu-Al- Yazid. «Se pure li disapprovate non impedite loro di diventare shadid». Martiri.
L'appello del consulente di al-Zawahiri non è un'uscita estemporanea, ricostruisce il quotidiano Wall Street Journal. Un anno fa Sayyed Imam al Sharif detto dottor Fadl, primo emiro dell'Egyptian Islamic Jihad e autore del saggio «Foundations of Preparation for Holy War», la bibbia del salafismo, aveva diffuso un pamphlet molto critico verso i vecchi compagni di clandestinità, «The Document of Right Guidance for Jihad Activity in Egypt and the World», una ritrattazione sistematica della teologia qaedista. Imam al Sharif, oggi incarcerato in Egitto, spiega che «la jihad proibisce di uccidere civili e di distruggere vite che sono sacre ad Allah». Anche la guerra santa insomma, ha le sue regole. La principale, secondo il dottor Fadl, sarebbe il rispetto dell'autorità della famiglia, cardine della società musulmana: «È vietato per un minore andare a combattere senza il permesso di entrambi i genitori».
Immaginate lo scompiglio tra le fila dei mujaheddin, per cui non esiste infedele peggiore di un traditore. Da mesi i forum dei siti jihadisti discutono sul libro dell'emiro «rinnegato ». «Dovremmo permettere che il nostro sangue venga versato senza opporre resistenza? » si chiede Abu Yahyha Al-Libi, comandante di al Qaeda in Waziristan. C'è il post di una madre fiera della prole eroica («Prima che si facesse esplodere il mio ragazzo mi ha chiamato al telefonino per avere un incoraggiamento e gli ho detto di ripetere i versetti del Corano») e molte richieste di moratoria («risparmiate i bambini»). Un dibattito intenso al quale partecipa anche al Zawahiri, numero due di Osama bin Laden: «Per accontentare il lacchè dell'alleanza crociato-sionista suggeriremo agli shadid di mandare prima un fax a mamma e papà».
Può darsi che l'appello del dottor Fadl e la replica di Uthman Abu-al-Yazid si perdano nell'oceano della jihad telematica. Magari il richiamo alla famiglia è davvero un'operazione architettata dal ministero dell'interno egiziano, come ipotizza il columnist turco Dogu Ergil. Ma gli analisti concordano nel riconoscere un mutamento del mondo musulmano, all'inizio non troppo severo verso il salafismo, dopo le bombe qaediste contro i sunniti ad Ammam, quelle contro gli sciiti in Iraq, dopo il debutto d'una strategia del terrore nichilista che travolge l'ordine interno di società profondamente tradizionali.
(La Stampa, 1 aprile 2008)
3. IL TOPOS DEL NUOVO ANTISEMITISMO
Israele - Se torna l'odio contro gli ebrei
L'anticipazione pubblicata da "Avvenire" di un saggio in corso di stampa per "Lettera Internazionale".
di David Meghnagi
Nel sessantesimo anniversario della fondazione dello Stato di Israele Meghnagi indaga le nuove forme assunte nel mondo contemporaneo dall'antisemitismo, che spesso si maschera dietro la cortina dell'"antisionismo" ma che di fatto approda al rifiuto del diritto all'esistenza di Israele
La perversione dei valori appare chiara nell'apparente innocenza della domanda che i sopravvissuti si sentono spesso fare dopo avere raccontato la loro esperienza. "Come è accaduto che un popolo che ha tanto sofferto, ripeta coi palestinesi, ciò che ha subito ad opera dei nazisti?" La domanda arriva regolarmente alla fine di un dibattito fissando con equazioni false e ricostruzioni arbitrarie gli ebrei in due immagini simmetriche e complementari della vittima e del carnefice.
Se non fosse per le implicazioni tragiche e devastanti di un'equazione che fa sfondo ad un nuovo tipo di antisemitismo che rovescia sugli ebrei in quanto nazione l'odio che prima era loro rivolto in quanto collettività, verrebbe da ridere amaramente all'idea che dopo avere ascoltato un sopravvissuto vero non si trovi di meglio che fissarlo una seconda volta nella condizione descritta da Kafka nel Processo.
L'entità del dolore di cui il sopravvissuto è portatore gli viene rovesciata contro con atto di violenza che lo ricaccia con tutto il suo mondo nella condizione di chi non può essere giudicato come tutti gli uomini per quello che realmente fa e può essere rappresentato sulla scena pubblica solo come vittima o come carnefice o entrambi le cose. Fissati in queste immagini simmetriche e complementari gli ebrei come gli israeliani cessano di essere persone, fornendo all'antisemitismo in quanto "nuovi carnefici" un'innocenza perduta di un tempo. Dopo Auschwitz non si possono più odiare gli ebrei in quanto tali, in quanto vittime del male assoluto li si deve onorare . Si può però tornare a odiarli in quanto nazione che ha tradito i suoi valori più profondi.
Il topos del nuovo antisemitismo appare chiaro non appena il discorso passa ai palestinesi e alle rappresentazioni del terrorismo suicida e assassino, che viene al contrario "spiegato", se non addirittura giustificato, come una risposta distorta alla violenza subita. Poco importa se il terrorismo non fa distinzione alcuna fra le sue vittime trasformate in un unicum indifferenziato. Con la stessa logica con cui prima il testimone poteva essere nuovamente "accusato", il terrorista può essere "giustificato". Ciò che agli ebrei in quanto rappresentazione assoluta della vittima buona è ontologicamente negato se non al prezzo di un rovesciamento speculare di immagini che lo trasforma in carnefice assoluto, al terrorismo è riconosciuto, se non giustificato (dopo la carneficina delle Torri gemelle, di Londra e Madrid non si può più), come "una risposta sbagliata" ad una "esigenza giusta". Come se il mezzo attuato, l'assassinio indiscriminato dei civili in ogni luogo e senza distinzione, non indicasse già i fini veri di un movimento, che ha colpito in primo luogo le popolazioni arabe a centinaia di migliaia in Algeria e in altre parti del mondo arabo e islamico. Le analogie con gli slogan "dei compagni che sbagliano" della buia stagione del terrorismo italiano dovrebbero far riflettere sulle parentele inconfessate o misconosciute di un più vasto album di famiglia che per vie diverse unisce il terrorismo in Occidente a quello in Oriente.
Sino a quando non ha scoperto che per delegittimare Israele, poteva risultare più utile negare e ridimensionare la tragedia della Shoah, l'antisemitismo arabo non ha esitato a istituire un legame diretto fra il comportamento di Israele e l'esperienza del Lager- nella letteratura palestinese degli anni settanta, non era raro ricondurre il comportamento "malvagio" degli israeliani con l'esperienza del Lager.
Poco importa se il nazionalismo arabo e palestinese si era identificato nel corso della guerra con le potenze dell'Asse e la loro massima autorità religiosa aveva contribuito a creare dei corpi speciali nazisti islamici contribuendo attivamente alla soluzione finale. Poco importa se l'avanzata di Rommel lungo il Nord Africa era attesa dai nazionalisti arabi come un'alba risorgimentale e le camere a gas mobili in attesa ad Atene, avrebbero dovuto competere per celerità nel caso in cui il fronte alleato avesse ceduto. Come ha avuto modo di riferire con commozione il mio amico Amos Luzzatto, in un convegno a Roma Tre, nelle terribili settimane che hanno opposto le armate dell'Asse alle forze britanniche sul confine di El Alamein, per ciascun ebreo di Gerusalemme come nel resto del paese, c'era già pronto un macellaio pronto a sgozzarlo.
L'andamento della crisi mediorientale fissa i tempi, la virulenza e le forme di questa perversa logica. Se la crisi del conflitto arabo israeliano si acuisce, l'accusa può assumere un carattere virulento, al punto che le istituzioni ebraiche che predispongono l'invio dei testimoni per lo svolgimento del rito, hanno preso la abitudine di affiancare il "testimone sacerdote" con un giovane preparato a rispondere su questi temi. Il testimone tornato dall'inferno può parlare solo ed esclusivamente dell'inferno. L'esperto di politica può invece rispondere sul resto, entrando con ciò nel merito delle storture prodotte da una cattiva informazione e dalla non conoscenza.
Il rito è salvo ma non per sempre. Il pericolo è solo momentaneamente allontanato, con gli ebrei nella scomoda posizione di doversi confrontare con un duplice ricatto: l'obbligo di ricordare perché gli altri dimenticano, e l'accusa di fissare gli altri in una posizione di colpa perenne.
"Se non sono io per me, chi per me, se non ora quando?", insegnano i saggi del Talmud. Non si può sperare che altri possano portare un peso se non lo sentono interamente loro. Se non vi è altra via, occorre almeno guardare ai rischi che nel lungo periodo essa comporta.
Dopo Auschwitz l'antisemitismo può esprimersi in modo apparentemente rispettabile solo se prende di mira gli ebrei come Stato, demonizzando Israele e deformando la tragedia di un conflitto che ha ormai un secolo sino a renderlo irriconoscibile. Il cerchio del nuovo antisemitismo si chiude con l'accusa agli ebrei di voler fissare gli altri popoli in un sentimento di colpa perenne per acquisire privilegi e coprire le colpe di Israele.
La memoria personale coinvolge le emozioni e il pensiero. È di ricordi e di storie famigliari. Man mano che l'evento si allontana e il rito si svuota, come si è svuotato quello della Resistenza in Italia, il rischio è che chiunque non si riconosca nei valori della cultura occidentale, o sia in aperto contrasto con essa possa identificare gli ebrei con i mali di questa società. L'odio contro Holliwood diventa fastidio per la memoria di Auschwitz. L'odio contro l'Occidente e il potere americano diventa tutt'uno con quello contro Israele, poco importa se Israele è un paese piccolo e accerchiato, da sempre esposto al pericolo di una distruzione. I Rotoli del Mar Morto riportati in vita, sono oggi conservati in un Museo. In caso di attacco nucleare tornerebbero sotto il suolo di Gerusalemme per essere salvati e conservati a futura testimonianza. Il messaggio degli israeliani è chiaro. In caso di estinzione violenta, resterà la memoria. Il che la dice lunga sui contenuti dei loro incubi notturni.
Il sionismo aspirava a fare degli ebrei un popolo "come gli altri", a edificare uno stato ebraico come gli altri stati. L'esito paradossale di questa impresa è stato di avere uno Stato "diverso" dagli altri. Lo Stato degli ebrei è diventato l'ebreo degli Stati, e gli ebrei i suoi ambasciatori in ogni luogo del mondo, non solo agli occhi dei suoi nemici, degli antisemiti vecchi e nuovi, ma anche degli amici più sinceri, che ne difendono l'esistenza. Le tradizioni comunitarie un tempo svalutate in nome dell'ebreo nuovo, si sono riprese una rivincita e la possibilità di vincere un'elezione si misura ormai con la capacità di rispondere ai richiami e alle rivendicazioni dei singoli gruppi comunitari (sefarditi e hashkenaziti, ebrei di origine russa e di origine marocchina ecc). La società israeliana somiglia ad un laboratorio postmoderno che ha sperimentato con molto anticipo molti dei problemi che assillano oggi l'Europa. A non accorgersene sono gli europei che dopo avere lungamente preteso di impartire lezioni agli israeliani sulla convivenza tra popoli diversi, scoprono con angoscia di non essere affatto avanti in fatto di tolleranza, e che molti dei problemi che pensavano di essersi lasciati per sempre alle spalle si sono violentemente riaffacciati, mostrando quanto fragili siano le costruzioni umane.
Israele appare ai suoi amici come ai suoi nemici, un pezzo d'Europa trapiantato in Oriente. La realtà è diversa, più complessa di quanto non appaia ad una prima e semplicistica lettura. Per quel che valgono delle metafore, utilizzate spesso come schermo per occultare e confondere, geograficamente, culturalmente e simbolicamente, Israele contiene l'Oriente come l'Occidente. È Occidente nella misura in cui i padri fondatori del sionismo si ispiravano ad una visione dello Stato e della rinascita nazionale che traeva linfa dalle ideologie dominanti dell'Ottocento, portando con sé un pezzo di Europa nel Vicino Oriente ne avevano accelerato la presa di coscienza politica e nazionale. È Oriente perché in quella "striscia di terra madre" che separa l'Oriente dall'Occidente, la civiltà ebraica ha preso corpo e si è sviluppata per oltre un millennio a contatto con l'Oriente profondo. Per non parlare delle tante diaspore che hanno segnato la Diaspora con i suoi forzati spostamenti e le sue invenzioni creative che ne hanno reso possibile la sopravvivenza nei secoli.
Sotto questo aspetto Israele porta dentro di sé i tanti orienti e i tanti occidenti con cui si è incontrato nella sua dolorosa storia uscendone segnato ma anche positivamente trasformato in uno scambio che non è mai venuto meno anche nei momenti più difficili. La condizione di minoranza oppressa o tollerata sperimentata dagli ebrei sotto il cristianesimo e l'islam, è stata anche l'arena in cui l'ebraismo non ha smesso di interrogarsi e scambiare trasformando la sua condizione di debolezza in una condizione di forza per poter sopravvivere nelle condizioni più impervie.
Il rapporto che l'ebraismo ha intrattenuto con le civiltà cristiana e islamica nella storia, non è stato solo l'espressione di una condizione di subalternità, di rifiuto e di oppressione, ma anche di arricchimento culturale, religioso e simbolico, di uno scambio grazie al quale l'ebraismo è riuscito a rinnovarsi e sopravvivere. La stagione d'oro degli ebrei spagnoli fu anche il risultato di un creativo incontro con la civiltà islamica, così come la grande esplosione di creatività degli ebrei che uscivano dai ghetti fu il risultato di un creativo per quanto doloroso incontro con la cultura circostante, di cui Auschwitz come anche lo scontro attuale che oppone Israele al mondo arabo, non erano necessariamente l'epilogo. La storia avrebbe potuto prendere un'altra direzione. Non tutto era scritto, né tutto è già scritto almeno per gli ebrei dovrebbe essere così. In ogni generazione il racconto dell'Esodo dovrebbe essere commentato come se la liberazione riguardasse quella generazione. La scelta tra la morte e la vita riguarda ogni momento. La disperazione della ragione non potrà mai cancellare l'ottimismo della volontà. La comparsa dell'angelo che annulla il comando di sacrificare il figlio esisteva nella mente divina prima che il mondo venisse alla luce e ne rende possibile l'esistenza. Non tutto è necessariamente scritto, anche nelle situazioni più tragiche vi è una possibilità di scelta per quanto condizionata e limitata dalle circostanze e dai processi storici più ampi.
Il debito che l'Occidente ha verso Israele va oltre le tragedie che hanno insanguinato il secolo che si è appena chiuso. Difendendo l'esistenza d'Israele, l'Europa difende in realtà l'unica immagine credibile di un suo futuro possibile. L'ambivalenza con cui l'Europa guarda a Israele è il sintomo di un rapporto irrisolto che l'Occidente intrattiene col suo passato più antico e recente, la tentazione di alcuni settori del mondo politico di farne a meno e di abbandonarlo al suo proprio destino è un grave sintomo di fuga dalle
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responsabilità della politica, segno di una incomprensione profonda della vera posta in gioco oggi nei rapporti fra civiltà e culture, Stati e nazioni, democrazia e convivenza tra i popoli, che può portare al collasso morale.
Il rifiuto di Israele, la sua trasformazione in Stato paria giudicato in base a criteri che non si applicherebbero a nessun altro Stato è il sintomo di un fallimento dei rapporti fra l'Europa e il mondo arabo, l'Occidente cristiano e l'islam. Non è qui in discussione il diritto dovere alla critica di questo o quel governo, perché la critica è il sale della democrazia. È qui in discussione le forme che assume, le metafore a cui attinge, le immagini e gli stereotipi di cui si alimenta. Per non parlare della falsificazione e lo stravolgimento dei fatti. Come dimostrano gli inquietanti sviluppi della politica nucleare iraniana, il diritto di Israele ad esistere entro confini sicuri internazionalmente riconosciuti, la sua sicurezza è la condizione stessa della possibilità del dialogo fra l'Occidente e l'islam. È la condizione per una composizione storica, politica e morale dei conflitti che insanguinano la regione. Senza Israele questo dialogo non sarebbe nemmeno pensabile. L'Europa e il mondo arabo, l'Occidente e l'islam potranno tornare a parlarsi, se Israele pacificato col mondo arabo è presente fra loro come testimone dei loro e dei propri lutti. "Chi vive in un'isola deve farsi amico il mare", così recita un antico proverbio arabo.
Israele è una piccola isola accerchiata da un oceano arabo e islamico. Farsi amico il mare, aprirsi un varco nel cuore degli abitanti dell'oceano arabo, è per Israele una necessità. Accettare l'esistenza di quest'isola è per l'intero mondo arabo, come per l'islam, la condizione per rompere la catena di violenze e lutti in cui è tragicamente avviluppato.
(Avvenire, 31 marzo 2008)
4. CADE L'ULTIMO MURO DELL'EBRAISMO
La rivoluzione delle donne rabbino
«Per troppo tempo abbiamo rinunciato a un grande potenziale»
Negli anni '40 e '50, in una casupola di Ramat Gan (oggi grande centro israeliano dei diamanti) viveva un saggio praticamente sconosciuto alla maggioranza della popolazione del nuovo stato. Nel mondo religioso ortodosso era considerato un luminare, superstite di quella società ebraica d'Europa orientale, che il nazismo aveva distrutto. Di nome Avrom Y. Karelitz (1878-1953) meglio noto come Hazon Ish (Uomo della visione) passava la vita sui testi sacri in volontaria povertà tipica della tradizione dei grandi maestri del Talmud. A questo saggio privo di titoli ufficiali, Ben Gurion - che per il Talmud e i talmudisti non aveva simpatia - fece visita nel 1952 per superare un problema che turbava allora - come a tutt'oggi - la politica di Israele: il servizio militare dei religiosi e delle donne.
Ben Gurion, era convinto che la religione fosse in via di scomparsa. Si rendeva però conto, che la legittimità di uno Stato degli ebrei (anche se non ebraico) risiedeva nel giudaismo. Voleva raggiungere un compromesso coi religiosi, allora minuscola percentuale della popolazione e al parlamento che solo un personaggio come Hazon Ish poteva autorizzare. Questi lo stette a sentire in silenzio e poi gli chiese. «Se due carri, uno carico e uno vuoto, si incontrano su un ponte stretto, chi dei due deve avere la precedenza?». La precedenza Ben Gurion la dette al «carro carico» (di tradizione) col permesso per le ragazze religiose e per qualche centinaio di allievi nelle accademie rabbiniche di essere esonerati dal servizio militare.
L'accordo si è trasformato, nel corso degli anni, in un problema per tutti i governi «laici» di Gerusalemme che di fronte alla campagna di delegittimazione araba, islamica e antisemita contro lo «Stato sionista» hanno fatto del diritto di Israele di essere riconosciuto come «Stato ebraico» una questione fondamentale. Col risultato che i religiosi che non fanno il servizio militare sono diventati decine di migliaia e l'esenzione delle donne dall'obbligo di portare l'uniforme si ottiene con un'autodichiarazione di religiosità. Il rapporti «fra Stato e sinagoga» è diventato il più importante dopo quello della sicurezza. Ha impedito a Israele di avere una costituzione (per i religiosi è la Bibbia); ha strumentalizzato la religione nella politica, ed è fonte di dissidio con le altre correnti maggioritarie dell'ebraismo - la Liberale, la Conservativa e la Ricostruttivista - che continuano a non essere riconosciute in Israele anche a causa della loro posizione in favore dell'uguaglianza della donna.
Era necessario ricordare questi precedenti per comprendere il terremoto psicologico e socio politico provocato dalla decisione di un grande centro ortodosso di studi e formazione giovanile, l'Istituto Shalom Hartman di Gerusalemme di lanciare un programma di 4 anni per la preparazione di donne e uomini, appartenenti alle correnti riformiste, conservative e ortodosse dell'ebraismo al rabbinato. «Per troppo tempo ha dichiarato il rabbino Donniel Hartman , co-direttore dell'Istituto e figlio del suo fondatore - ci siamo derubati del 50 per cento (femminile) del nostro potenziale di leadership mentre la classica distinzione fra uomini e donne non è più rilevante». L'Istituto che da 12 anni non fa distinzioni di sesso nei suoi corsi, seguiti ormai da migliaia di giovani, non intende «produrre» rabbini per le comunità ebraiche in Israele e nel mondo. Ma dal momento che il rabbino non è un sacerdote ma - come dice il suo titolo - un maestro, la donna rabbino va vista come un'insegnante, come una guida, non come «pretessa». L'ebraismo liberale lo ha accettato ordinando donne rabbino sin dal 1972 e l'ebraismo conservativo dal 1983.
È interessante che questa coraggiosa decisione dell'Istituto Hartman ha causato brontolii nel mondo ortodosso ma non ha provocato scomuniche. Il che dimostra quanto profonda sia ormai la coscienza della «rivoluzione femminista» anche nel campo religioso ebraico: le donne studiano i testi sacri come gli uomini, spesso interpretandoli meglio di loro; lavorano al computer; vogliono occupare posizioni di autorità all'interno delle istituzioni rabbiniche, e non solo nelle correnti religiose del movimento dei coloni. Se l'Istituto Hartman riuscirà a promuovere le sue idee e la sua pedagogia fra gli ortodossi, il mondo tradizionalista più chiuso dell'ebraismo con cui tanto spesso viene identificato Israele, non sarà più lo stesso.
(Il Giornale, 4 aprile 2008)
5. TOTALITARISMO A GAZA
Il fine ultimo: distruggere Israele e combattere l'Occidente infedele
Hamas, la minaccia ignorata
di David Harris *
C'è quella storiella della madre convinta che il suo bambino prodigio di cinque anni debba ricevere un'ottima istruzione perché un giorno l'avrebbe mandato in una prestigiosa università. Così la donna decide di pomparlo con nuove parole dal vocabolario ogni giorno. Quando il piccolo Carlo torna a casa dalla scuola, sua madre prontamente gli chiede: "Carlo, qual è la differenza tra l'ignoranza e l'indifferenza?" Al che lui, totalmente disinteressato all'esercizio, scrolla le spalle e mormora: "Non lo so e non me ne curo". A volte, questo è il messaggio che ricevo dal mondo su Hamas. E' come se ci fosse un'ignoranza, forse un'ignoranza ostinata, circa quello che realmente vuol dire Hamas, che domina Gaza. Hamas fu creato nel 1988. Il suo fondamento ideologico risiede nella Fratellanza Musulmana. La sua Carta costitutiva parla chiaro. Il suo scopo è la distruzione di Israele e la sua sostituzione con uno stato islamico. E' stato definito un gruppo terrorista dall'Unione Europea e dagli Stati Uniti.
Ci sono alcuni in Occidente che scelgono di credere altrimenti. Henry Siegman, del Consiglio delle Relazioni Estere, rappresenta questa prospettiva. Sul Financial Times del 14 settembre 2006, Siegman affermò che Hamas avrebbe accettato Israele nei confini del 1967, citando una presunta dichiarazione di un portavoce di Hamas. Siegman è ritornato sull'argomento in un lettera aperta sull'International Herald Tribune ai primi di marzo 2008. Nel presentare queste posizioni, Siegman ed il Financial Times scelgono convenientemente di ignorare le montagne di prove contrarie che evidenziano l'immutata agenda di Hamas. Forse quei fatti sono troppo sconvenienti per prenderli in considerazione. Cominciamo con la Carta costitutiva di Hamas, o Patto, la quale contiene bocconcini succulenti, quali: "Israele, per il suo essere stato ebraico e di avere una popolazione ebraica, sfida l'Islam e i musulmani. Lascia che gli occhi dei codardi non si addormentino". Oppure: "Israele sorgerà e rimarrà eretto finché l'Islam l'avrà eliminato come ha eliminato i suoi predecessori".
Oppure: "Il tempo non verrà finché i musulmani non lotteranno contro gli ebrei [e li uccideranno]; finché gli ebrei si nasconderanno dietro le rocce e gli alberi, e questi grideranno: Oh Musulmano! C'è un ebreo che si nasconde dietro di me, vieni e uccidilo!". O ancora: "Allah è il suo obiettivo, il Profeta è il suo modello, il Corano la sua costituzione: il Jihad è il suo percorso e la morte alla ricerca di Allah è il più alto dei suoi desideri". E per buona misura, il Patto di Hamas utilizza anche gli infami Protocolli dei Savi anziani di Sion con un linguaggio quale: "Loro [gli ebrei] stettero dietro le Rivoluzioni francese e comunista e dietro la maggior parte delle rivoluzioni di cui abbiamo udito qua e là. Loro usano i soldi per fondare organizzazioni clandestine che stanno spargendo in tutto il mondo per distruggere le società e perseguire gli interessi sionisti".
Si considerino queste parole di Khaled Mashaal, il principale leader di Hamas, che vive a Damasco: "Oggi, la nazione araba ed islamica sta sorgendo e si sta svegliando, e giungerà alla sua vetta, Allah lo voglia... riguadagnerà il comando del mondo. Allah lo voglia, quel giorno non è lontano". "Noi diciamo all'Occidente, che non agisce ragionevolmente e che non impara le sue lezioni: da Allah, voi sarete sconfitti". Mashaal è solo nelle sue visioni? Neanche un po'. Nel novembre 2007, nel sessantesimo anniversario della decisione dell'ONU di ripartire la Palestina mandataria in due stati, uno arabo e uno ebraico, Hamas ha dichiarato ufficialmente: "La Palestina è terra islamica e araba dal fiume al mare, incluso Gerusalemme. Non c'è posto in essa per gli ebrei".
E così via di seguito. Ma quello che risulta più minaccioso è l'abbinamento delle parole ai fatti. Come testimonia il quotidiano furioso lancio di razzi dalla striscia di Gaza, sotto il controllo di Hamas, verso Israele.
A questo punto, vedere Hamas come un gruppo che combatte per nulla più del ritorno di Israele ai confini del 1967 - oppure come un partner affidabile per i negoziati di pace - sforza la credulità ben oltre il punto di rottura. Le implicazioni del conflitto non sono solo regionali ma globali. Ricordiamo che la visione del mondo di Hamas si estende ben oltre Israele e gli ebrei. Essa mira alla dominazione islamica globale e alla restaurazione del califfato, rifiuta tutti i valori occidentali e ripudia anche i più elementari diritti umani, come la libertà di opinione e la libertà di religione. I suoi degni compari sono Iran, Siria, Hezbollah e Jihad islamico.
Si chieda ai giornalisti dell'impegno di Hamas per la libertà di espressione, dopo la chiusura della sezione di Gaza dell'Unione dei Giornalisti palestinesi e l'attuale rifiuto di permettere ai reporter stranieri e ai fotografi di operare senza i suoi severi controlli. Si chieda alla piccola comunità cristiana in Gaza che cosa è la vita sotto la dominazione di Hamas. O lo si chieda alle donne che aspirano alla libertà e all'uguaglianza. Oppure lo si chieda ai sostenitori di Fatah in Gaza, come Muhammad Swairki, un cuoco della guardia presidenziale di Mahmoud Abbas al quale, secondo il Deutsche Press-Agentur, gli uomini di Hamas spararono nelle ginocchia e poi lo gettarono giù dal tetto di un edificio di quindici piani.
L'ignoranza e l'indifferenza possono costituire vie di fuga molto attraenti, ma non risolvono il problema. Al contrario, queste l'esacerbano solamente, creando pensieri illusori. Israele oggi affronta una situazione unica. Confina con uno stato separatista che è guidato da un gruppo che fa appello apertamente alla sua distruzione, tentando in ogni modo possibile di importare di contrabbando armi e fondi da padroni come l'Iran, ed usando allegramente i civili come scudi umani. Hamas sta cercando di mettere Israele in una posizione indifendibile. Se Israele non entra in Gaza, le vite dei civili israeliani saranno messe a rischio dai ripetuti attacchi di razzi e mortai. Se Israele entra in Gaza, i soliti sospetti della comunità internazionale, incluso il Consiglio dei diritti umani dell'ONU e di alcuni editorialisti, gli faranno accumulare indubbiamente pile di condanne delle "azioni israeliane". Condanne che non terranno nel minimo conto le gravi sfide che Israele affronterebbe nel condurre una effettiva guerra urbana, riducendo al minimo le vittime civili e concependo una strategia di uscita da un territorio che non vuole controllare. Non ci può essere una risposta facile per Israele, ma ignorare o glissare sulla vera natura di Hamas - o cercare di reinventarlo a distanza come un incompreso ma affidabile partner per un negoziato - non è il modo migliore di procedere.
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* Direttore dell'American Jewish Committee
(traduzione in italiano a cura di Carmine Monaco)
(L'Opinione.it, 08 aprile 2008)
6. ARCHEOLOGIA IN ISRAELE
Duemila anni fa qualcuno perde una moneta in un tombino.
E oggi gli archeologi la ritrovano a Gerusalemme!
Una rarissima moneta d'argento, del tipo usato nell'antichita' per pagare la tassa pro-capite di mezzo shekel (siclo), e' stata scoperta in uno scavo archeologico condotto nelle Mura intorno al Parco Nazionale di Gerusalemme, vicino alla Citta' di David, in quello che era il principale canale di scolo di Gerusalemme durante il periodo del Secondo Tempio.
E le circostanze del ritrovamento, lo rendono eccezionale, anche per il reperto rinvenuto. Ma andiamo con ordine.
Lo shekel che e' stato trovato negli scavi pesa 13 grammi, raffigura sul diritto la testa di Melqart, il dio principale della citta' di Tiro (equivalente al dio semitico Baal), e sul rovescio un'aquila sulla prua di una nave. La moneta fu coniata nell'anno 22 dell'era cristiana!
Un'antichissima tradizione ebraica dice che "prima di leggere il Rotolo di Ester, tutti gli ebrei devoti offrono una somma in denaro "in ricordo del mezzo shekel" che veniva pagato da tutte le famiglie nell'antichita' per il mantenimento del Tempio di Gerusalemme. Oggi, questa somma viene cambiata in valuta locale e donata ai bisognosi.
L'origine del comandamento di pagare la tassa di mezzo shekel al Tempio si trova nella lettura settimanale biblica "Ki Tisa", nel libro dell' Esodo (30:12-16): "Quando per il censimento farai la rassegna dei figli d'Israele, ciascuno di essi paghera' al Signore il riscatto della sua vita, paghera' un mezzo siclo, computato secondo il siclo del santuario. Il ricco non dara' di piu' e il povero non dara' di meno. Prenderai il denaro di questo riscatto ricevuto dai figli d'Israele e lo impiegherai per il servizio della Tenda del convegno. Esso sara' per i figli d'Israele come un memoriale davanti al Signore per il riscatto delle vostre vite".
Per capire l'eccezionalità del ritrovamento bisogna sapere che nonostante l'importanza della tassa di mezzo shekel per l'economia di Gerusalemme nel periodo del Secondo Tempio, solo altri sette shekel e mezzi shekel di Tiro erano stati finora rinvenuti negli scavi a Gerusalemme.
Gli scavi, diretti da Eli Shukron dell'Israel Antiquities Authority e dal professor Ronny Reich dell'Universita' di Haifa, vengono effettuati su incarico dell'Israel Antiquities Authority, della Nature and Parks Authority e della Ir David Foundation. Spiega l'archeologo Eli Shukron all'agenzia adnkronos: "Proprio come oggi, quando le monete a volte ci cadono dalle tasche e rotolano nei tombini delle fognature ai lati delle strade, cosi' quasi duemila anni fa, un uomo era diretto al Tempio e la moneta che intendeva usare per pagare la tassa di mezzo shekel ando' a finire nel canale di scolo".
Al tempo della costruzione del Tempio, ad ogni ebreo era comandato di fare una donazione obbligatoria di mezzo shekel. Questa modesta somma permetteva a tutti gli ebrei, di ogni livello economico, di partecipare alla costruzione del Tempio. Dopo il completamento della costruzione, continuarono a raccogliere la tassa da tutti gli ebrei allo scopo di fare acquisti per i sacrifici pubblici e per altre necessita' del Tempio. La raccolta cominciava tutti gli anni il primo giorno del mese di Adar, quando avveniva la "proclamazione degli shekel", e finiva il primo giorno del mese di Nissan, inizio del nuovo anno fiscale per il Tempio, quando venivano rinnovati gli acquisti per i sacrifici pubblici.
(Euroteca, 31 marzo 2008)
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