1. DOPO DUEMILA ANNI DI INIMICIZIA
Bibi: i cristiani sionisti sono i nostri migliori amici
di Etgar Lefkovits
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Il Pastore John Hagee |
Israele non ha migliori amici al mondo dei cristiani sionisti, ha detto domenica [6 aprile] il leader del partito di opposizione Likud, Benjamin Netanyahu.
"E' un'amicizia del cuore, un'amicizia basata su radici comuni, e un'amicizia che ha una civiltà in comune", ha detto Netanyahu in una conferenza di evangelici americani a Gerusalemme.
L'avvenimento, organizzato dall'Unione dei Cristiani per Israele di San Antonio (Texas), ha attirato un migliaio di amici d'Israele, guidati dal Pastore evangelico conservatore John Hagee, che è stato un fedele sostenitore d'Israele negli ultimi tre decenni.
Hagee ha annunciato l'arrivo di doni, per un ammontare di 6 milioni di dollari, per diverse cause israeliane e ha dichiarato che Israele deve mantenere il controllo su tutta Gerusalemme. "Abbandonare ai palestinesi una parte di Gerusalemme o la sua totalità sarebbe come abbandonarla ai talebani", ha detto Hagee. Tra le 16 cause a cui Hagee porta il sostegno delle sue contribuzioni c'è il Magen David Adom [la Croce Rossa israeliana] e il centro di conferenze dell'insediamento di Ariel, in Cisgiordania.
Hagee ha riunito i sostenitori cristiani d'Israele sotto la bandiera di un'unica associazione, soprannominata l'AIPAC cristiana, che si concentra unicamente sul sostegno a Israele e non lo fa per convertire ebrei al cristianesimo.
Le osservazioni di Netanyahu sono arrivate pochi giorni dopo che il rabbino Eric Yoffie, responsabile del Movimento Ebraico Riformato americano, che tende a sinistra, aveva dichiarato che Israele non deve trattare con i cristiani sionisti come Hagee, qualificato da lui come "estremista", perché rifiuta ogni compromesso territoriale con i palestinesi e discredita i cattolici.
Hagee ha smentito con veemenza di essere anti-cattolico e ha affermato che le sue frasi sono state deformate e sono basate su affermazioni "interamente false". Il deputato Benny Elon (del partito per l'Unione Nazionale Religiosa), presidente del gruppo degli "Alleati cristiani" alla Knesset, punta avanzata delle relazioni d'Israele con il mondo cristiano evangelico, ha definito "vergognose" le affermazioni di carattere politico di Yoffie, e ha descritto Hagee come un "visionario coraggioso" e un'"eminente leader spirituale".
"Lei è l'uomo giusto, al posto giusto e nel momento giusto", ha detto Elon in occasione del lancio del libro di Hagee "In defense of Israel" , che adesso è stato tradotto in ebraico.
Il Rabbino Capo di Efrat, Shlomo Riskin, ha parlato di legami fiorenti tra Israele e il mondo evangelico cristiano, e li ha definiti "una delle cose più importanti" dopo duemila anni di inimicizia, persecuzioni e pogrom.
"Quello che dobbiamo capire è che il cristianesimo di persecuzione, intolleranza e odio antiebraico non è il cristianesimo del Pastore Hagee, né della maggioranza degli evangelici di oggi", ha detto Riskin.
E ha definito il riavvicinamento tra cristiani ed ebrei "uno dei miracoli" del XX secolo.
(Jerusalem Post, 7 aprile 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. SDEROT: VENTI SECONDI PER NON MORIRE
Sderot e l'incubo della sirena. Ogni giorno razzi e bombe da Gaza
di Fabio Perugia
Venti secondi per non morire. Un improvviso sibilo che arriva dal cielo, sopra la testa, e il corpo che si accascia dietro l'auto, o sotto il banco di una scuola. Poi un tonfo e la polvere che si alza assieme alle urla, a volte lontane due isolati a volte vicine mezzo metro.
Sderot, cronaca di una normale domenica di primavera. La cittadina israeliana dista un chilometro dalla striscia di Gaza. Basta alzare gli occhi per vedere il confine. Qui, dal 2001, piovono ogni giorno i missili Qassam lanciati dai terroristi che si nascondono tra la popolazione palestinese. Fino a oggi ne sono stati scagliati più di 4.500; dal giorno del ritiro israeliano dalla Striscia il numero di lanci è aumentato di sei volte. Ma la gente non vuole abbandonare la propria terra. Dal 2002 il numero degli abitanti è cresciuto.
Sderot è una piccola cittadina di 20.000 anime. Le case sono fatte di cartongesso e poche hanno una stanza antimissile. Per strada non ci sono cabine telefoniche, ma rifugi. Poco commercio, pochi soldi. Molte famiglie vivono di tzedakà (giustizia sociale), una forma di solidarietà economica tipica della tradizione ebraica. Pochissimo turismo. C'è un centro commerciale con una piazza e tutt'intorno palazzi di quattro piani al massimo. La gente, sotto il sole afoso del Medioriente, sembra vivere la propria vita evitando di pensare che da un momento all'altro potrebbe suonare ancora.
È la sirena l'incubo degli abitanti di Sderot. Un urlo rosso e improvviso in pieno giorno, o nel sonno, o durante la preghiera, annuncia l'arrivo di un altro Qassam, che dopo venti secondi colpisce. Il Qassam è molto più piccolo di un missile Katyusha, sembra quasi un giocattolo ma può uccidere. «Non sai mai quando potrà capitare di vedertelo addosso», racconta una signora dentro la sua casa di pietra. Suo figlio ha un braccio ingessato e dorme su un passeggino. «Noi siamo stati fortunati», racconta. «Può accadere per strada, a scuola o mentre mangi. Non hai neanche il tempo di ripararti perché dopo venti secondi dalla sirena c'è l'impatto. Sono anni che ci lanciano missili». E non c'è un criterio. Un giorno ne piovono dieci, un altro tre, poi per tre giorni non arriva nulla, e poi si ricomincia: tredici, due, cinque, sei, uno. C'è chi è convinto non ci sia un criterio, altri la pensano diversamente: «C'è una strategia ben precisa», spiega il proprietario di un ristorante che si affaccia su una delle strade principali di Sderot. «Non possiamo proteggerci e questo ci fa venire il panico, viviamo nell'incertezza, nella paura». L'obiettivo è terrorizzare, per questo non c'è criterio nel lancio dei Qassam. La gente è ferita nell'anima, subisce continui shock. Anche ai più forti, alla fine, cedono i nervi.
In cima a una collina, a dieci minuti a piedi dalla piazza principale, i bambini studiano in classe. Una delle maestre racconta il suo dramma: «La maggior parte di questi ragazzi ha problemi psicologici dovuti al suono della sirena. I sintomi sono tanti: dalla pipì a letto, al rifiuto di dormire soli o di andare a scuola. Sono sempre sotto pressione. Vedono la gente morire o restare senza una gamba. Sanno che i missili possono arrivare in ogni momento, ma non si sa da dove». Secondo uno studio del Natal, il Centro israeliano per le vittime del terrore e della guerra, il 75 per cento dei bambini di età compresa tra i 4 e i 18 anni manifesta sintomi di stress post-traumatico. Nonostante la paura di non farcela Sderot continua a vivere. Qui solo il 10 per cento degli abitanti ha lasciato definitivamente la città.
(Il Tempo, 13 aprile 2008)
3. LIBERTA' DI STAMPA E RICHIESTA DI SICUREZZA
La censura militare in Israele
di Elle Emme
Il sei settembre dello scorso anno la notizia di un attacco israeliano alla Siria fa il giro del mondo e i commentatori fanno a gara per scoprirne i dettagli, si suggerisce un obiettivo nucleare. Se ne parla in tutto il mondo, ma non in Israele: la censura militare dell'IDF vieta per un mese intero la diffusione della notizia su tv, radio, giornali e stampa online. L'unica menzione permessa è la frase virgolettata "Secondo fonti straniere un raid israeliano ha colpito un obiettivo siriano." L'affaire siriano ha mostrato la potenza e la pervasività della censura militare, che in Israele ha un potere di intervento illimitato. In quei giorni di settembre, per capire cosa stesse succedendo, se ci fosse il pericolo di una guerra imminente con la Siria dopo che per mesi l'IDF ne ventilava l'eventualità, i cittadini israeliani non avevano molte scelte. Una cortina impenetrabile di "no comment" da parte del governo, dell'esercito, di tutte le istituzioni, faceva il paio con il tono vago e trasognato degli organi di stampa.
I telegiornali sparavano la notizia nei titoli di testa: "Secondo fonti straniere.." e non davano alcun dettaglio. Nei giorni seguenti, i programmi di approfondimento cercavano di carpire informazioni dagli esperti militari, ma l'ordine perentorio di non divulgare la notizia trasformava gli show in commedie dell'assurdo, dove giornalisti imbarazzati si prodigavano in performance surreali. Perché dietro la telecamera, nel buio della sala di montaggio, era in agguato il censore militare.
Su tutti i canali, in tutte le redazioni, pronto a tagliare, rimescolare, oscurare se necessario. Nel caso dell'attacco alla Siria, il divieto di divulgazione è ancora in vigore in Israele e solo fra un mese si sapranno alcuni dettagli, nel corso di una prevista audizione dell'intelligence americana al Congresso, che comunque Israele sta cercando di bloccare in tutti i modi.
Una recente inchiesta del quotidiano israeliano Ha'aretz ha svelato i retroscena dell'apparato di censura dell'IDF. Il direttore della Censura militare è nominato dal Ministro della Difesa, ma dopo la nomina gode di discrezionalità illimitata. Secondo la legge istitutiva, che risale al 1945 sotto il Mandato britannico, lo scopo della censura è "proibire la pubblicazione di qualsiasi notizia che metta a repentaglio la sicurezza dello stato." Ventiquattr'ore su ventiquattro, una squadra di trenta censori setaccia ogni programma televisivo o radiofonico, ogni pubblicazione cartacea e i più importanti siti web, alla ricerca di materiale che possa essere usato dal nemico (nella cui categoria rientrano ad esempio Siria, Hezbollah, Iran, i militanti palestinesi e tutti i paesi arabi) contro Israele.
Il capo ispettore Vaknin-Gil, intervistato da Ha'aretz, spiega i retroscena del suo lavoro. Il novanta percento di tutto il materiale pubblicato passa per la stanza del censore, per venire controllato prima della pubblicazione (il restante dieci percento è comunque innocuo). Circa un ottavo del materiale totale subisce una censura, spesso si tratta di una frase o qualche parola. È comunque raro che un intero report venga interamente cancellato. Se una testata giornalistica non è d'accordo con la decisione del censore, può appellarsi al "Comitato dei Tre," formato da un militare, un giornalista e un membro del pubblico, che ha l'ultima parola sulle violazioni della censura.
Per quanto riguarda internet, la tattica del censore è di occuparsi dei grossi siti di notizie online, tralasciando completamente i blog e il resto della rete. La quantità delle notizie, infatti, è talmente elevata, e la sua attendibilità talmente scarsa, che il "nemico" annegherebbe tra le newsletter.
Alcuni esempi di censura. Sul sito di Ha'aretz compare un articolo che rivela i particolari di un rapporto dello Shin Bet (il servizio di sicurezza interno) sul recente attacco alla scuola rabbinica. Il censore, che monitora in tempo reale i principali siti dei quotidiani, chiama immediatamente la redazione, che provvede a rimuovere dall'articolo il dossier in questione.
Per quanto riguarda i network televisivi, nelle redazioni di tutti i telegiornali è presente un censore militare, che visiona i servizi "sensibili" alla ricerca di notizie che potrebbero risultare dannose per la sicurezza israeliana: ad esempio rimuove il volto di agenti della sicurezza ritratti in fotografie o servizi televisivi, oppure censura i dettagli dei piani dell'IDF a Gaza o delle prossime trasferte di Olmert.
In caso di conflitto irriducibile tra stampa e censori, la disputa può finire davanti alla Corte Suprema, come successo nel 1989: la Corte, intervenendo in una causa tra un quotidiano e la censura militare, ha stabilito che la censura è applicabile "solo in casi eccezionali, quando sussiste la certezza immediata che un danno concreto verrebbe causato alla sicurezza dello Stato."
Nel corso degli anni la censura è diventata più liberale, a parte un forte irrigidimento sulla questione del nucleare israeliano (Israele, pur possedendo un discreto arsenale nucleare, segue una politica di "ambiguità" ovvero non conferma né smentisce la presenza di testate nucleari). Nonostante i continui conflitti tra editori e censura, è opinione diffusa tra i giornalisti che l'attuale sistema è il miglior compromesso raggiungibile e tutti si guardano bene dal chiederne una riforma: se la Knesset si occupasse della censura, di sicuro il cambiamento andrebbe verso una ulteriore restrizione della libertà di stampa.
Proprio questo infatti è accaduto recentemente, quando la Knesset ha approvato in prima lettura una legge che impone agli internet provider di impedire l'accesso a siti contenenti materiale "sensibile" (la definizione è stata lasciata vaga di proposito), a meno di una esplicita richiesta di rimozione dei filtri da parte del cliente.
Secondo il capo censore dell'IDF, l'atteggiamento dei giornalisti israeliani è molto responsabile, anche se sarebbe sbagliato definirlo patriottico. Sono i primi a valutare criticamente se una notizia può giovare al nemico e nel caso esercitano l'autocensura. Inoltre, nel caso in cui degli scontri tra l'IDF e militanti palestinesi provochino delle vittime tra i soldati, i giornalisti si astengono dal pubblicarne la notizia, prima che vengano avvertite le famiglie dei militari colpiti. A questo proposito, sono molto più puntuali e tempestive le news che i siti stranieri pubblicano su Israele in tempo reale.
Nei riguardi della censura, l'atteggiamento dell'opinione pubblica israeliana si è rivelato più realista del re. Durante la Seconda Guerra del Libano, nell'estate 2006, i network televisivi hanno subito l'assedio continuo di orde di telespettatori inferociti. Ma invece di chiedere più dettagli sull'andamento della guerra, il pubblico protestava per la mancata copertura della campagna militare! "Migliaia di telefonate di cittadini isterici," racconta il capo censore, "bersagliavano i centralini del nostro ufficio," chiedendo che oscurassero le notizie dal fronte."
Gli israeliani volevano evitare che il nemico scoprisse i piani dell'esercito dai telegiornali israeliani, una preoccupazione forse giustificata dall'andamento drammatico della guerra sia in Libano che sul fronte interno. Sulle questioni riguardanti la censura militare, dunque, hanno forse ragione i giornalisti israeliani a sperare che lo status quo legislativo non venga modificato. La sindrome di accerchiamento dell'opinione pubblica israeliana, di cui i media stessi sono responsabili, potrebbe portare ad un ampio consenso in favore di un inasprimento della censura.
In questa eventualità, non resta che sperare che il capo censore sia fedele al motto di Thomas Jefferson, incorniciato dietro alla sua scrivania: "Se dovessi decidere tra avere un governo senza giornali o giornali senza un governo, non esiterei un momento a preferire la seconda ipotesi."
(Altre Notizie, 14 aprile 2008)
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4. SONDAGGIO A GAZA
Il palestinese medio non vuole sacrificare la sua vita per Hamas
di Dimitri Buffa
Il 41% dei palestinesi residenti nella Striscia di Gaza sarebbe intenzionato ad abbandonare, se potesse, immediatamente la zona. A rivelarlo è stato un sondaggio diffuso dalla Radio Militare israeliana, secondo cui il 94% degli intervistati è convinto che con l'avvento di Hamas la condizione economica dei palestinesi sia significativamente peggiorata. Su 900 interpellati, infatti, il dato che emerge è che il 64% vive sotto alla soglia di povertà. La metà dei residenti di Gaza intervistati, inoltre, si dice "meno sicuro da quando (nel giugno 2007) Hamas ha assunto il potere" mentre il 32% sente incrementato il livello di sicurezza e il 18% non nota cambiamenti. Il sondaggio è tanto più importante in quanto avviene all'indomani di alcune inevitabili azioni mirate israeliane nella Striscia per rispondere ai numerosi attacchi missilistici e non degli ultimi giorni. Solo ieri per esempio sono stati uccisi altri tre militari israeliani nel solito agguato a Gaza mentre altri due sono stati feriti. La risposta israeliana, un raid aereo sul villaggio di Al Bureij, ha provocato 9 morti e 17 feriti, tra cui il cameraman della Reuters Fahdil Shanaa, la cui auto è stata colpita da un missile.
Ma i cittadini palestinesi cominciano anche a prendere coscienza dell'inquinamento ideologico del fondamentalismo islamico dei terroristi di Hamas. Che solo pochi giorni fa avevano candidamente ammesso, anzi rivendicato, alla Tv di regime Al Aqsa, controllata dagli uomini di Khaled Meshaal, che loro ritenevano giusto e logico usare donne e bambini come scudi umani per difendersi dagli omicidi mirati delle forze di sicurezza israeliane. Un cinismo che potrebbe non avere lasciato indifferente nemmeno tutte quelle persone che Hamas si ostina a considerare come carne da cannone. Più precisamente era stato l'esponente di Hamas Fathi Hammad a dire testualmente che "per il popolo palestinese, la morte è diventata un'industria, nella quale hanno la meglio le donne, come del resto tutte le persone che vivono in questa terra, gli anziani eccellono in questo, come pure i mujaheddin ed i bambini". Fathi, che è parlamentare palestinese, aveva poi aggiunto che "è questa la ragione per la quale il popolo palestinese ha trasformato in scudi umani le donne, i bambini, gli anziani e i mujaheddin con il chiaro obiettivo di sfidare la macchina dei bombardamenti israeliani... è come se dicessero al nemico sionista: noi vogliamo la morte allo stesso modo in cui voi volete la vita".
Il problema adesso è quello di capire quanti di quegli scudi umani siano realmente volontari e quanti invece non lo siano affatto. Tutte le testimonianze sinora raccolte affermano che la grande maggioranza di loro non lo fa perché ci crede, ma perché costretta dai miliziani di Hamas, pena la morte, a mettersi sui tetti delle case dove soggiornano i capi del movimento islamico e intorno alle aree da dove vengono lanciati i razzi Qassam su Israele. Secondo quanto ammesso dallo stesso Fathi Hammad, sarebbero quindi i miliziani di Hamas i veri responsabili della morte di molti civili. Naturalmente Hammad dice che i "martiri" sono volontari, mentre questo non corrisponde alla verità che si sente dalle bocche dei fuoriusciti da Gaza. Purtroppo per sentire la verità in bocca a uno di questi fuoriusciti bisogna prima dargli un rifugio e un asilo politico sicuro fuori dai Territori, pena la morte dell'interessato al suo eventuale rientro. Da tempo Hamas agisce a Gaza come la mafia in Sicilia facendo proseliti a colpi di morti ammazzati e convincendo le famiglie a sacrificare un figlio al terrorismo suicida per non dovere morire tutti invece che uno solo. Questi sondaggi raccolti quasi clandestinamente dai media israeliani sono un'ulteriore conferma.
(L'Opinione.it, 17 aprile 2008)
5. AUTONEGAZIONISMO ISRAELIANO
Se Israele nega Israele
Elena Loewenthal
Avraham Burg è stato presidente del Parlamento israeliano, ha ricoperto altri incarichi politici. Attualmente vive fra Israele e la Francia, dove è passato dalla vita pubblica a quella degli affari. Burg è nato a Gerusalemme in una famiglia di esuli ebrei tedeschi. Ha scritto un libro (di prossima pubblicazione in italiano per i tipi di Neri Pozza) che s'intitola Victory over Hitler: un ripensamento della Shoah - sulle orme di Hannah Arendt - ma anche una dura requisitoria su Israele oggi. A mezza strada fra l'utopia compiaciuta e il pamphlet sofferto.
Shlomo Sand insegna all'Università d'Israele. Il suo libro (Where and How were the Jewish People invented) smonta i presupposti storici del popolo ebraico. Lo fa in modo piuttosto confuso, passando dall'archeologia biblica al sesso nel XX secolo. La tesi è quella di un «meticciato» ebraico radicale: i figli d'Israele non sono un popolo né un'etnia. Tutto ciò, secondo il professore, abbatte ogni rivendicazione nazionalistica.
Aharon Shabtai è un poeta israeliano. Prima ancora, è il fratello dello scomparso Yaakov, forse il più grande narratore dell'Israele contemporaneo, morto a poco più di quarant'anni per un attacco di cuore (è pubblicato da Feltrinelli). Aharon Shabtai si è conquistato un'effimera ma pirotecnica pubblicità letteraria dichiarando la propria non disponibilità ad andare alla Fiera del Libro di Parigi. Non per motivi tecnici, per impegni già presi, bensì per protestare contro il suo paese, per «chiamarsi» fuori dalla sua realtà politica, storica, letteraria.
Vien da evocare la vecchia storiella dell'ebreo che, naufrago su un'isola deserta, si costruisce due sinagoghe: una da frequentare abitualmente, l'altra per non metterci piede manco morto. In questi casi con cui attualmente si confronta il mondo intellettuale israeliano, il discorso è più sottile. La critica spinta, scabrosa al punto da rimettere tutto in gioco - il passato e il presente, la storia biblica e i fondamenti dello Stato d'Israele -, diventa una specie di negazionismo «autoreferenziale», che è il paradosso di una società dove la libertà di espressione diventa anarchia pura. L'anarchia della parola non è sempre provocazione fine a se stessa; se è il mezzo e non il fine, può diventare un efficace strumento d'interpretazione. Un po' come quel devoto rabbino che in preghiera diceva tre volte al giorno «credo fermamente nella venuta del messia», ma poi commentava con una nota di mestizia: non verrà mai, ma noi dobbiamo comunque aspettarlo.
Tornando all'Israele di oggi, queste manifestazioni intellettuali che spaziano dalla storia alla politica alla letteratura sono lo spettro di una realtà dove la libertà d'espressione non conosce freni inibitori, e sono anche il segno di un mondo dove i valori fondanti vengono messi in discussione. Non soltanto per negarli o per abbatterli - come nel caso di Sand, Shabtai e più sottilmente di Burg - ma anche per riformularli, al passo con un'attualità in mutamento continuo. Quando questi tre intellettuali attaccano Israele, mettendo in discussione non solo la sua politica ma anche le radici storiche e ideologiche, non lo fanno per quel vezzo denigratorio che abbiamo ad esempio noi italiani: ci piace parlar male del nostro paese, difettiamo quasi unanimemente di patriottismo. Il criticismo israeliano è assai più sofferto, e in casi come questi radicale - ma bisognerebbe forse mettere questi e altri intellettuali alla prova dei fatti, provare a trapiantarli in una realtà parallela dove lo Stato ebraico fosse sparito dalla cartina geografica.
Queste manifestazioni sono in fondo il lato oscuro di un'ideologia che non può fare a meno di essere dinamica, perché il rimettersi in gioco è da sempre nella natura di un'identità ebraica sballottata dalla storia. D'altro canto, raggiunto lo scopo di aver ricreato una patria nazionale per i figli d'Israele, il sionismo deve necessariamente riformulare i propri obiettivi, chiarire il nucleo dei propri valori. In questo contesto, tali espressioni di «autonegazionismo» - la nostra storia non esiste, non abbiamo alcuna legittimità nel presente - potranno integrarsi nella cultura «positiva» dell'ebraismo e d'Israele. Che è da sempre inclusiva e non esclusiva, a dispetto di quanto spesso si creda. Fin dai tempi del Talmud. Dove, ad esempio, si narra la vicenda di rabbi Elisha Ben Avuya che andando troppo avanti nell'interpretazione della Torah e nella meditazione sui segreti del creato, finì per «potare i germogli»: cioè rinnegò tutto. Da allora venne chiamato Aher, cioè «Altro». Aher è colui che si estranea, che si chiama prepotentemente fuori dalla propria fede e dall'identità. Eppure il Talmud non lo caccia affatto dalla storia: le sue parole riempiono pagine di testo, vengono discusse e affrontate dai colleghi rabbini. Che lo volesse o no, Aher è stato integrato nella tradizione, proprio per averla negata.
«Non ho ricevuto disdette, ma è possibile che arrivino, vista l'aria che tira: so che questi scrittori sono sottoposti a pressioni molto forti, da quando hanno accettato il nostro invito. Se dovessero rinunciare, sarebbe l'ulteriore dimostrazione di un clima talmente deteriorato da rendere impossibile persino la partecipazione a un evento culturale. Sarebbe l'ennesima spia di quanto è impervia, su questi temi, la strada del dialogo». Così Ernesto Ferrero, direttore della Fiera del Libro, commenta la possibilità che all'ultimo diano forfait gli autori palestinesi che avevano deciso di non aderire al boicottaggio della kermesse torinese, sotto accusa da parte del mondo arabo per la presenza di Israele come paese ospite. Ad annunciare l'assenza degli scrittori alla Fiera è stata l'Assemblea Free Palestine, che a Torino promuove il boicottaggio e organizza una serie di contro-eventi con ospiti filo-palestinesi. L'Assemblea ha annunciato la presenza ai suoi incontri di autori di cultura islamica come Tariq Ramadan e Tariq Ali, oltre al poeta ebreo israeliano Aharon Shabtai. Un paradosso: la Fiera, che promuove da sempre il dialogo, avrebbe volentieri accolto nei suoi convegni questi autori, che invece boicottano l'evento, mentre il gruppo di organizzatori di Free Palestine ha il loro sì ma non dispone degli spazi per ospitare gli incontri. Li ha chiesti all'Università, che ne ha però concessi solo alcuni.
(La Stampa, 17 aprile 2008)
6. LIBRI
Nel ghetto di Varsavia, intellettuali e gente comune descrissero in 35mila pagine la loro quotidianità e interrarono i fogli in bidoni del latte. Una parte delle testimonianze si può trovare nel nuovo libro di Samuel D. Kassow: «Chi scriverà la nostra storia».
I 400 mila ebrei rinchiusi nel ghetto di Varsavia tra il 1940 e il 1943 hanno documentato la loro vita quotidiana con 35mila pagine in yiddish e polacco affidate ai bidoni metallici del latte sepolti in gran segreto nel sottosuolo del Ghetto.
Solo mezzo secolo dopo questo materiale comincia a essere pubblicato: negli Stati Uniti sotto il titolo «Chi scriverà la nostra storia? è uscito ora un libro di Samuel D. Kassow, sulla ricerca condotta da Emanuel Ringelblum nel ghetto di Varsavia.
Ogni sabato pomeriggio negli anni della occupazione nazista di Varsavia un gruppo di ex professori, giornalisti, poeti ebrei si riuniva con lo storico Ringelblum promotore del progetto «Oyneg Shabes», che in ebraico vuol dire «Gioia del Sabbat», con l'obiettivo di documentare per le generazioni future la vita e la morte tra le mura del ghetto. Sono nate così le serie di articoli su «nuove professioni in guerra» oppure «acconciature ebraiche». Altri hanno lavorato a sondaggi di opinione come quello su «come vedete il futuro?». Altri si sono dedicati a raccogliere biglietti del tram, manifesti teatrali, cartoline postali oppure gli ordini delle autorità naziste, insieme con bigliettini scritti da persone in procinto di essere trasportate al campo di sterminio.
Molte le opere poetiche, come il «Grande Canto» di Jizchak Katzenelson o «Poesia del Ghetto» di Wladyslaw Szlengel. Tre persone ricevettero l'incarico di conservare il materiale, tenendosi pronti ad un segnale pattuito a metterlo in bidoni del latte per seppellirlo. Solo Ringelblum e pochissimi altri di sua fiducia conoscevano la loro identità, in modo che i collaboratori al progetto Oyneg Shabes anche sotto tortura non potessero tradire i nascondigli. Tutti i partecipanti al progetto, almeno a partire dal 1942, sapevano che non sarebbero sopravvissuti. Ma continuarono mentre le deportazioni li privavano di 300.000 mogli, figli o genitori, oppure amici, imbarcati sui treni per Treblinka, e intorno a loro morivano di fame e di stenti 83.000 correligionari. Alla fine solo tre del gruppo di Ringelblum sopravvissero alla seconda guerra mondiale, tra essi uno che conosceva i nascondigli.
All'inizio di aprile 1943 fu dato il segnale di seppellire il materiale, giusto in tempo: il 19 aprile 1943 il ghetto di Varsavia si sollevò per l'ultima volta contro i nazisti, con il risultato che circa 60.000 abitanti residui del ghetto furono uccisi, oppure catturati e deportati. Ringelblum stesso fu fucilato dai nazisti. In due occasioni diverse una parte dei documenti furono disseppelliti, nel 1946 e nel 1950. Per anni le 35 mila pagine furono custodite all'istituto di storia ebraica di Varsavia, ma l'operazione di studio e traduzione è cominciata solo da poco. Il catalogo per esempio non esiste ancora, e il libro pubblicato ora da Kassow con il titolo «Chi scriverà la nostra storia?» è un primo inizio per far sapere alle generazioni future come è stata la vita nel Ghetto di Varsavia, prima della sua distruzione da parte dei nazisti.
(Il Giornale di Vicenza, 12 aprile 2008)
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