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Notizie su Israele 422 - 29 aprile 2008

1. Nuove possibilità di immigrazione in Israele
2. Chi non vuole la pace?
3. Regole alimentari ebraiche
4. Un musulmano sciita si converte all'ebraismo
5. Intervista a un "colono" di Kiryat Arba
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Salmo 25:22. O Dio, libera Israele da tutte le sue tribolazioni.
1. NUOVE POSSIBILITA' DI IMMIGRAZIONE IN ISRAELE




Gli ebrei che credono in Gesù possono immigrare in Israele

di Johannes Gerloff

La Corte Suprema di Gerusalemme
GERUSALEMME - Gli avvocati degli ebrei messianici in Israele considerano come una grande vittoria legale una decisione della Corte Suprema di Israele che, a dire il vero, non è una decisione. «Mettetevi d'accordo, e noi benediremo la vostra unione», hanno detto gli alti giudici dello Stato ebraico alle parti in causa a metà aprile, e il Ministero degli Interni ha ritirato una sua disposizione. Adesso niente più ostacola l'immigrazione in Israele di ebrei che credono in Gesù.
    Gli avvocati Juval Grajevsky e Calev Myers hanno rappresentato dodici ebrei messianici in un processo modello contro il Ministero degli Interni dello Stato d'Israele. A loro era stata negata la cittadinanza israeliana perché credono in Gesù di Nazaret come il Messia d'Israele promesso nell'Antico Testamento. La maggior parte di loro ha ricevuto dal Ministero degli Interni israeliano uno scritto in cui si dice che non riceveranno la cittadinanza israeliana perché sono missionariamente attivi. Ad una delle richiedenti è stato comunicato che le sue attività missionarie sono indirizzate "contro gli interessi dello Stato d'Israele e del popolo ebraico". Gli accusati hanno rigettato queste accuse come false e hanno ribattuto che l'attività missionaria non costituisce un motivo giuridico per impedire a un ebreo l'immigrazione in Israele.
    Nello Stato ebraico può immigrare chiunque è ebreo. Originariamente i padri fondatori dello Stato volevano garantire asilo ad ogni persona che era stata perseguitata dai nazisti, e de facto si erano regolati secondo le leggi razziali di Norimberga del Terzo Reich. La legge del ritorno di Israele concede quindi il diritto di cittadinanza israeliana anche a persone che secondo la tradizione ebraica non sono propriamente ebrei. Secondo questa norma originaria, può diventare israeliano ogni persona che può dimostrare di avere almeno un nonno ebreo.
    Secondo la legge rabbinica, invece, è ebreo chi ha una madre ebrea o si è convertito all'ebraismo seguendo il rito ebraico-ortodosso. In seguito è stata aggiunta una clausola secondo cui può immigrare in Israele soltanto chi non ha cambiato religione, cosa che negli anni passati ha sollevato un certo fermento soprattutto negli ebrei che credono in Gesù. Il Ministero degli Interni dello Stato d'Israele, che per anni è stato nelle mani di ebrei ortodossi, aveva deciso, in virtù di questa aggiunta, di poter impedire l'immigrazione nello Stato ebraico d'Israele dei cosiddetti "ebrei messianici".
    Gli ebrei che credono in Gesù sono considerati dagli ebrei ortodossi come traditori che hanno voltato le spalle al loro popolo. Gli ebrei messianici, invece, per la loro autocomprensione, vogliono dichiarare consapevolmente la loro nazionalità ebraico-israeliana e continuare a credere in Gesù come Messia d'Israele. Per questo molti si allontanano deliberatamente dalle chiese tradizionali cristiane, fanno circoncidere i loro figli e celebrano le feste ebraiche invece delle festività cristiane. Grajevsky e Myers sono convinti che l'esito del processo contro il Ministero degli Interni davanti alla Corte Suprema di Gerusalemme costituisca un passo decisivo sulla via dell'equiparazione della comunità ebraico-messianica all'interno del mondo ebraico.
    Come un altro successo in questa direzione può essere considerata la pubblicazione di un articolo dell'edizione di Pasqua del quotidiano israeliano Maariv. Elemento scatenante dell'articolo è stato l'attacco dinamitardo che alla fine di marzo, proprio durante la festa di Purim, è stato indirizzato contro la famiglia ebreo-messianica Ortiz nell'insediamento israeliano Ariel, non lontano dalla città dell'Autonomia palestinese Nablus, nel cuore della biblica Samaria. L'esplosivo, camuffato come regalo di Purim, è esploso quando il quindicenne Ariel Ortiz voleva aprire il pacco con la scritta "Buona Festa". Il ragazzo è rimasto gravemente ferito.
    Il quotidiano popolare ha presentato questo attacco in un ampio contesto di difficoltà che gli ebrei credenti in Gesù subiscono da parte di ebrei ortodossi, soprattutto in Arad e Beer Sheba, nel nord del deserto del Negev. Nelle sue ricerche il giornalista del Maariv ha voluto interrogare anche l'"altra parte", cioè gli ebrei ortodossi. In un primo momento è stato scambiato da questi per un ebreo messianico e insultato nel più osceno dei modi - cosa che lui ha citato letteralmente in lingua inglese. L'articolo si chiude con una preghiera di ebrei messianici: "Padre nostro celeste, aiutaci ad amare coloro che ci odiano. Aiuta Ami Ortiz e guariscilo. Proteggi i soldati israeliani e fa' che non ci sia nessun attentato in questa festa di Pasqua. Nel nome di Gesù. Amen."
    
(Israelnetz Nachrichten, 21 aprile 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





2. CHI NON VUOLE LA PACE?




Lettera aperta del direttore dell'American Jewish Committee

Futili lezioni morali a Israele

di David A. Harris

Non passa giorno senza che io non debba imbattermi in una lezione rivolta ad Israele sull'imperativo della pace. Qualche volta viene da diplomatici. O da editorialisti. O da articolisti. O da studiosi. O da gruppi per i diritti umani. Francamente, la cosa mi fa ribollire il sangue. In primo luogo, presume che Israele desideri la pace per se stesso meno di quanto la vogliano gli altri. In secondo luogo, mostra l'arrogante pretesa che ciò che non appare subito palese ad Israele è abbondantemente ovvio a coloro che ne stanno fuori, seduti nei loro ministeri, uffici, torri d'avorio o luoghi di villeggiatura. E in terzo luogo, rivela una mancanza di umiltà in quanto Israele, e solo Israele, sopporterà le conseguenze di qualunque malintesa azione. Colpisce che molti di questi commentatori non siano mai stati in Israele, oppure l'abbiano visitato raramente, oppure lo visitino, ma soltanto in compagnia di quelli che condividono la loro stessa predisposizione ideologica. Per esempio, una persona chiamata a guidare un gruppo pacifista arabo-israeliano operante negli Stati Uniti, non aveva mai messo piede in Israele prima di assumere tale incarico. Non conosco nessun popolo sulla terra che abbia pregato per la pace più a lungo del popolo ebraico. Il desiderio di fondere le "spade in vomeri" e le "lance in falci", e la visione del giorno in cui il leone e l'agnello giaceranno - e si sveglieranno – insieme, non furono concepiti come motti pubblicitari da affiggere su Madison Avenue: sono piuttosto il millenario contributo del popolo ebraico alla civiltà.
    Non conosco nessuna nazione sulla terra che aspiri alla pace più di Israele. Pensare altrimenti è presumere che Israele preferirebbe uno stato di conflitto permanente, il che, per dirla francamente, sarebbe davvero assurdo. E una qualunque persona ben intenzionata può veramente credere che il popolo ebraico, ristabilitosi nella terra dei suoi antenati dopo secoli di violenze, persecuzioni e stigmatizzazioni cercherebbe altro che non sia la tranquillità a lungo negatagli e la coesistenza pacifica coi suoi vicini di casa? O che i superstiti della Shoah che furono in grado di raggiungere le spiagge di Israele, nonostante gli innumerevoli ostacoli, sarebbero lieti delle decadi dopo decadi di pericoli e conflitti perenni? O che gli abitanti di Israele, che si tratti dei residenti nel paese da generazioni o dei nuovi venuti in fuga dall'intolleranza del mondo arabo o dall'oppressione dei regimi comunisti, cercherebbero uno stato di guerra senza fine? O che gli israeliani diano il benvenuto al quotidiano fuoco di fila dei razzi e degli attacchi a colpi di mortaio che piovono giù su Sderot creando devastazione nelle vite quotidiane di quelli che tentano di non fare nient'altro che vivere le difficoltà della propria vita e del lavoro di ogni giorno? O che gli israeliani siano contenti di sapere che corrono il rischio di un attacco terroristico persino nel semplice atto di prendere un autobus pubblico, ballare in una discoteca, mangiare in un pizzeria, o frequentare un'università?
    O che gli israeliani siano orgogliosi di essere relegati negli angoli più lontani degli aeroporti internazionali, dove sono sempre circondati da guardie pesantemente armate, per il semplice piacere di prendere degli aerei destinati a Tel Aviv? O che gli israeliani si ispirino ai leader di Hamas ed Hezbollah, i quali propagano una cultura di morte e devastazioni, quando, in realtà, Israele e il popolo ebraico hanno reso una forma d'arte la celebrazione della vita e la ricerca costante del suo miglioramento? No, l'Israele che io conosco cerca invece la pace disperatamente. La Dichiarazione di Indipendenza di Israele lo esprime chiaramente. Lo dimostrano le concessioni israeliane per gli accordi di pace con l'Egitto e la Giordania. Lo provano i ritiri da Gaza e dal Libano meridionale. Gli sforzi dei successivi governi israeliani di giungere ad una praticabile sistemazione bi-nazionale con i palestinesi continuano a sottolinearlo. E i sondaggi lo dimostrano costantemente. Ma quello che i commentatori da salotto troppo spesso non riescono a capire sono le difficoltà oggettive di Israele nel trovare dei partner fidati. Invece, essi hanno reso un lavoro a domicilio l'ignorare, il negare, il minimizzare, il razionalizzare, il contestualizzare o il rendere insignificanti gli ostacoli che Israele ha dovuto affrontare.
    È quasi come se gli orripilanti appelli di Hezbollah alla distruzione di Israele e degli ebrei, l'aspirazione di Hamas di sostituire l'intero Israele con un stato islamico, l'obiettivo dell'Iran di un mondo senza Israele, l'ospitalità concessa dalla Siria a tutti i principali gruppi terroristici della regione, e l'insegnamento del disprezzo e l'incitamento all'odio nei libri scolastici palestinesi non contasse per nulla. Tutto ciò viene invece visto semplicemente come una serie di scocciature, dei punti di discussione fuori questione da parte dei sostenitori di Israele. Noi viviamo in un mondo mezzo matto. Per molti, è normale condurre affari con l'Iran come al solito, mentre i suoi leader lanciano continui e imperturbabili incitamenti al genocidio degli ebrei. È routine, per il Consiglio dei Diritti Umani dell'Onu, controllato da una maggioranza numerica anti-Israele, rimaneggiare la storia identificando Israele come lo stato aggressore e al contempo ignorando allegramente le minacce e gli attacchi che esso sopporta per nessun'altra ragione al mondo che la sua stessa esistenza. I mezzi di informazione non riescono a definire gli assassini di civili innocenti di Hamas e Hezbollah quali "terroristi", ma invece si riferiscono a loro più gentilmente come a dei "militanti".
    Troppo spesso ci si riferisce al conflitto tra Israele e Hamas in maniera antisettica come alla "spirale della violenza", quando invece è tutto tranne questo. Non c'è, dopo tutto, una chiara differenza morale tra quelli che puntano ad assassinare e quelli il cui obiettivo è fermare gli assassini? E la BBC ha compiuto il raro passo di scusarsi dopo che uno dei suoi reporter, riflettendo lo stesso atteggiamento mentale, ammassò insieme in una stessa frase l'assassinio del primo ministro libanese Rafiq Hariri (che cercò di ricostruire il suo paese) e quello di Imad Mugniyeh, il capo terrorista di Hezbollah assassinato recentemente a Damasco.
La pace è stata al cuore del cammino ebraico da più di 3000 anni. Così come è stata al cuore del cammino di Israele da sei decadi. Noi possiamo avere bisogno di lezioni in molte cose, ma l'imperativo di cercare la pace non è una di queste.

(L'Opinione.it, 22 aprile 2008 - trad. Carmine Monaco)





3. REGOLE ALIMENTARI EBRAICHE




Cibo buono? garantisce il Rabbino

di Giorgia Maria Pagliaro

La religione ebraica prevede alcune regole alimentari dette "Kasherut"; una delle più importanti in assoluto è quella che vieta di consumare un pasto che sia contemporaneamente a base di carne e di latticini. "Non cuocerai il capretto nel latte di sua madre", si legge nei libri dell' Esodo e del Deuteroniomio; "Questo è un modo di pervertire il sistema vitale", ha confermato recentemente in proposito Moni Ovadia. Ancora oggi, in molte famiglie meridionali non ebree, si osservano queste regole a testimonianza dell'origine semitica di alcune popolazioni. Il rapporto tra l'Italia e l'ebraismo è molto antico: furono gli ebrei ellenizzati che sbarcarono nel IV° sec. a.C. sulle coste calabre a portare con sé alcune delle piante, tra cui il cedro e la palma da datteri che, oltre a contribuire a caratterizzare il paesaggio mediterraneo, avrebbero fornito per secoli i cibi che oggi vengono definiti tradizionali. Antiche pietanze vengono ancora oggi preparate secondo le antiche regole alimentari di quella religione ed è proprio questa la novità: il ritorno dei cibi Kosher. Basti pensare che ogni anno si consumano, solo negli Stati Uniti, prodotti certificati kasher per oltre 150 miliardi di dollari e il loro consumo inizia a diffondersi anche in Italia. Al contrario di quello che si può pensare, non sono solo gli ebrei osservanti a chiedere questi prodotti, ma anche i vegetariani, i musulmani, i salutisti o semplicemente i soggetti intolleranti al lattosio. Nella babele degli enti certificatori, l'agenzia "Italy Kosher Union" (IKU) si è diffusa tra i consumatori perchè soddisfa appieno gli standard di qualità richiesti. Tra le grandi aziende certificate dalla IKU figurano: la Ferrarelle spa, che ha ottenuto anche la certificazione americana OU ( massimo organismo USA di certificazione kosher), l'Accademia Barilla e la Sasso.
    L'esercito dei certificatori consta di 500 rabbini che operano sul campo in tutta Europa e nel mondo intero, dall'America fino all'Australia, dall'Estremo Oriente al Sud Africa. Nel loro lavoro, essi si avvalgono delle moderne tecniche di produzione alimentare e di moderni sistemi informatici che consentono la rintracciabilità delle informazioni sui prodotti e gli ingredienti utilizzati. Il database in loro possesso contiene informazioni su oltre 200.000 ingredienti per prodotti alimentari. Nella sede centrale di New York il viavai di rabbini è continuo: cinquanta di loro, coadiuvati da superspecialisti dei vari settori, coordinano le società certificate OU. Anche in Italia, e in particolare In Calabria, da circa vent'anni le piante di cedro vengono certificate da questi rappresentanti religiosi che appongono, a mo' di sigillo sul fil di ferro, un piombino con impressa la sigla del rabbino certificatore a garanzia che quella pianta è autoradicata e quindi rispetta le norme previste dai trattati talmudici. Dalla certificazione della pianta, in pochi anni, si è passati a quella del frutto, con grande vantaggio economico sia per i produttori che per le stesse agenzie ebraiche. Questo modello di certificazione sperimentato nel sud Italia è senz'altro rappresentativo di culture e tradizioni millenarie. Siamo quindi certi che, se dovesse essere esteso a tutte le produzioni tipiche, ampiamente diffuse nell'areale mediterraneo, potrebbe, nel giro di pochi anni, contribuire non poco alla tutela e alla valorizzazione dell'agrobiodiversità e all'innalzamento del livello qualitativo delle produzioni nel rispetto dell'ambiente e dei consumatori. Che i nostri amministratori possano riflettere su questa possibilità, guidati dalla famosa frase di Giobbe: "Quando l'uomo pensa, Dio ride".

(Rivist@, 29 aprile 2008)





4. UN MUSULMANO SCIITA SI CONVERTE ALL'EBRAISMO




Il capo terrorista di Hezbollah diventato ebreo per amore

di R.A. Segre

Il cambiamento di religione - per convinzione, interesse, amore ecc - non ha nulla di particolare. Ma quando all'ebraismo si converte un musulmano sciita libanese, ufficiale degli Hezbollah e rischia la vita, pagando con la tortura e la morte di un figlio il suo tentativo di combattere per Israele dall'interno del campo fondamentalista, allora si tratta di una notizia alla quale è difficile credere soprattutto se raccontata in un libretto firmato con lo pseudonimo «Abi» pubblicate da un ignoto editore israeliano. Incuriosito pensai di poter avvicinare questo Hezbollah diventato ebreo tramite il rabbino che lo aveva convertito. Un amico mi mise sulle sue tracce. È Rav Shmuel Eliahu, rabbino capo di Safed, la città santa e mistica di Galilea. Cordiale, aperto, accetta di presentarmi Abi a due condizioni: non rivelare il luogo dell'incontro; apprendere la sua incredibile avventura, militare e spirituale, in sua presenza ma raccontata da lui che di Abi sapeva tutto ma era impegnato a osservare, almeno formalmente, il segreto. Inoltre poteva correggere le falsità inserite nel libretto allo scopo di proteggere l'identità di «Abi». Ad esempio la visita di una delegazione di persone legate agli Hezbollah a Auschwitz e in Vaticano. Accettai ma chiesi che la conversazione venisse registrata, dalla persona che mi aveva procurato l'incontro.
La storia di Abi inizia all'inizio degli anni Ottanta in un villaggio del Libano meridionale. Come nei Promessi sposi, un capoccia Hezbollah locale si invaghisce della fidanzata del fratello di «Abi». Per averla, lo fa arrestare e condannare a morte per spionaggio a favore di Israele. Nasce in «Abi» la volontà di vendetta. Si arruola nelle file degli Hezbollah, sale di grado, conquista la fiducia dei suoi superiori con la sua devozione religiosa, ma è turbato dall'uso cinico che i fondamentalisti fanno della fede per arruolare giovani kamikaze. Cerca risposte nel Corano e scopre passaggi che parlano della «scelta divina» del popolo di Israele, e della terra a loro promessa. Si convince che gli sceicchi interpretano a modo loro in chiave anti ebraica il Corano e che è peccato ucciderli. Perfino uno sceicco inviato dall'Iran ad aiutare i giornalisti della stazione tv degli hezbollah Al Manar dice che nella propaganda si deve attaccare i sionisti, non gli ebrei. Non è stato detto (Sura 2:47 al Bakara) che Dio ha preferito gli ebrei «sui due mondi»; che ha «scelto» Israele (Sura 7:140), che il suicidio nel nome di Dio è blasfemo? Gli ebrei possono avere tradito la Legge divina e per questo soffrire. Ma l'impegno di Dio nel dare loro la «Terra promessa» non è cambiato. Mosso da queste letture e da dubbi, «Abi» decide di mettere se stesso e Dio alla prova. Sperando di poter stabilire un contatto con gli ebrei fa fallire l'invio in Israele (attraverso la frontiera col Libano rimasta aperta sino al 2001) di una autoambulanza carica di tritolo scrivendo sul vetro sporco in caratteri ebraici la parola «esplosivo». Qualcuno al posto di frontiera se ne accorge. Spara contro il veicolo che salta in aria. Gli israeliani captano il messaggio. Un loro agente in Libano contatta «Abi» avviando una collaborazione che «salva molte vite» ma che finisce per renderlo sospetto.
    Imprigionato prima nel Libano e poi in Siria, viene torturato. Gli uccidono sotto gli occhi il figlio più piccolo per piegarlo ma non parla. Cosa gli da questa forza? Si chiede; perché sfugge miracolosamente a tre attentati? Sono esperienze traumatiche, ma anche secondo lui messaggi divini che gli indicano la via da seguire. Con l'aiuto israeliano riesce a fuggire in Israele con moglie e figli dove decide di convertirsi per «lavorare» all'interno alla salvezza del popolo ebraico. Incontra Rav Eliahu che crede di aver visto in sogno quando era prigioniero. Il quale per quanto restio ad accettare conversioni, specie di musulmani, crede di vedere nel caso di «Abi» qualcosa di profetico. Non solo per le straordinarie circostanze di vita, per la conversione ideologica - da combattente anti israeliano a agente segreto israeliano contro gli Hezbollah - ma per il fatto che questo libanese porta un messaggio che molti rabbini non sono capaci di articolare.
    Parla con passione della fiducia che gli ebrei debbono riporre in Dio, rimprovera loro l'assenza di fede nel loro destino privilegiato. Interpreta la storia del conflitto in maniera profetica. Spiega ad esempio la fuga delle migliaia di arabi da Safed nel 1948 citando le parole dell'allora comandante

arabo locale, Faudi ad Dura: «Come pensate che potessimo opporci alla volontà divina?». Gli israeliani, dice, invece di rinforzare questa convinzione araba, fatalistica, dell'impossibilità di combattere il popolo di Dio, aumentano la debolezza di Israele esaltando una superiorità materiale che non li può salvare.
    Sono persone come «Abi» - dice il rabbino - che rappresentano la salvezza di Israele.
    Penso a tutto questo guardando, «Abi» un uomo sulla cinquantina, indistinguibile nel vestire, nella barba, nel cappello nero a larghe falde e nei riccioloni attorcigliati dietro le orecchie ad un ebreo ortodosso che ascolta, senza parlare, ma approvando quello che il rabbino mi racconta. Vorrei, ma non posso, dirgli ciò che penso di lui, il mio stupore ma anche la mia ammirazione: fede contro razionalità, sogno contro realismo. Dio delle schiere ebraiche contro quelle del Partito islamico di Dio. Dal luogo in cui ci troviamo è visibile in fondo alla valle del Giordano il lago di Tiberiade e il monte delle Benedizioni.
    Beati i poveri di spirito che avranno il Regno del Cielo.

(Il Giornale, 28 aprile 2008)





5. INTERVISTA A UN "COLONO" DI KIRYAT ARBA




Nessuno è perfetto

a cura di Francesca Borri
 
David Wilder è un uomo di sole e fiducia. Vive incuneato nel suk arabo di Hebron, alla destra una Smith & Wesson, alla sinistra un telefonino che lo aggiorna insaziabile sugli ultimi proiettili, ma essere qui è per lui "insieme un obbligo e un privilegio", le sue finestre dice, sono finestre "motivazionali", respirano bellezza spirituale ma anche "tutto il lavoro ancora da fare".
Fuori, 160mila palestinesi. Cinquantaquattro anni, sette figli, è il portavoce di quelli che Ha'aretz ha definito 'gli hooligans di Israele'. "Hebron è la prima città ebraica, qui Abramo comprò Ma'arat HaMachpela, una grotta per seppellire la moglie Sara, e qui abbiamo sempre vissuto, per millenni. Poi nel 1267 arrivarono gli arabi, e per sette secoli la Tomba dei Patriarchi fu inaccessibile, fino al 1967. Sostenevano che è una moschea, e che solo i musulmani possono pregare in una moschea. Dopo i massacri del 1929, non rimase più mezzo ebreo... Bisognava tornare. Un primo gruppo si insediò nel 1971, in semplici camere di albergo e poi rifiutando di andarsene - e così nacque Kiryat Arba, in collina. Ma bisognava tornare a Hebron, non creare dei sobborghi. Gli uomini sarebbero stati fermati immediatamente, per cui dieci donne e quaranta bambini entrarono di notte in un edificio, e per mesi fu una resistenza sotto assedio, la polizia impediva a chi usciva di rientrare, l'obiettivo era affamare e sfinire. Ma anche ai peggiori nemici si concedono cibo, acqua e medicine, e così fu anche per loro. L'anno successivo, dopo un attacco terroristico, il governo accettò gli uomini, e poi ristrutturò e ampliò l'edificio. Così fu fondata Beit Hadassah. Oggi Hebron ha quattro comunità ebraiche".

Quali furono le reazioni, all'inizio?
Molti capirono l'importanza di Hebron, Ben Gurion scrisse una lettera di sostegno. Israele all'epoca non aveva ancora un progetto per governare i territori liberati, nessuno nel 1967 si aspettava una vittoria di quelle dimensioni. Ma alla fine abitavamo qui, non potevano sradicarci. E poi il fronte prioritario era la pace con l'Egitto, la questione del Sinai.

Intendevo le reazioni degli abitanti locali.
Arrivavamo da una vittoria larga e netta. Eravamo forti e ci rispettavano. E' sempre stato così. Gli arabi ci attaccano quando ci vedono deboli. Avevamo normali rapporti economici e personali. Quello che ha cambiato tutto è stata Oslo, la prima Intifada. Ci hanno visto deboli, e ci hanno attaccato con violenza crescente. Oggi la separazione è totale.

Per il diritto internazionale, gli insediamenti nei territori occupati sono illegali.
Il diritto internazionale non proibisce agli ebrei di vivere in terra ebraica. Questa non è un'occupazione, ma un ritorno. Un negoziato richiede la presenza di due parti. A chi mai dovremmo 'restituire' questa terra? Non esiste alcun titolo legale che dica che questa terra apparteneva a qualcuno. Secondo il diritto internazionale, questa era una res nullius. Sono territori occupati, sì... Ma dal nostro passato e dal nostro futuro.

Gli arabi, lei dice, devono accettare di essere nostri ospiti. Perché un palestinese la cui famiglia ha vissuto qui per duemila anni è un ospite, mentre un ebreo la cui famiglia ha vissuto per duemila anni in Yemen è un esule?
Nessuno dice che gli arabi devono andarsene, ma Hebron deve essere israeliana quanto Tel Aviv, la sovranità israeliana deve essere piena. Questa non è una guerra politica o economica, ma religiosa, e non sono possibili compromessi sulla religione. Quando nel 1948 abbiamo accettato il Piano di Partizione delle Nazioni Unite, la reazione è stata la guerra. Un arabo che vuole vivere a Jaffa non è la stessa cosa di un ebreo che vuole vivere a Hebron. La differenza tra chi vuole tornare qui dopo l'Olocausto e chi ha perso tutto dopo avere perso una guerra di aggressione è abissale. Hanno voluto la guerra, adesso sono affari loro. Devono rimanere fuori.

E se uno volesse essere non un ospite, ma un cittadino?
Esistono ventidue stati arabi nel Medio Oriente.

Sono soprattutto gli arabi-israeliani a sentirsi ospiti, qui. E dicono di sentirsi discriminati.
Gli arabi-israeliani attraversano una profonda crisi di identità. E certo, siamo preoccupati... Sono prevalentemente dalla parte dei cosiddetti palestinesi. E' un problema che dobbiamo affrontare.

Ma uno stato può rimanere ebraico e dare a tutti gli stessi diritti?
La democrazia non è un fine, ma un mezzo. Il rapporto con le minoranze dipende dall'obiettivo ultimo. La democrazia può essere una cosa positiva, ma può essere anche la repubblica di Weimar o la vittoria di Hamas. Per cui non bisogna essere necessariamente democratici. Il mio obiettivo è uno stato ebraico, non uno stato democratico.

Quindi con una minoranza, non so, con una minoranza di italiani sarebbe uguale?
Le minoranze sono diverse l'una dall'altra. A Hebron combattiamo per tutti voi. L'obiettivo del terrorismo non è la fine di Israele, ma l'islamizzazione dell'intero mondo occidentale. Mohammed è già il nome più diffuso in Gran Bretagna.

Gli avamposti però sono illegali anche per il diritto israeliano.
In terra ebraica non è mai questione di illegalità, al massimo di assenza di autorizzazioni. Le comunità sulle colline sono guidate da giovani pionieri coraggiosi, il miglior esempio del sabra, il nuovo ebreo forgiato dal sionismo. Uno stato per cui i giovani non sono disposti a uccidere e essere uccisi è uno stato precario, non sostenibile nel lungo periodo.

Eppure la società israeliana oggi appare frammentata. Per la prima volta gli emigrati sono più degli immigrati. E qualcuno comincia a parlare di post-sionismo.
Nel 1948 eravamo devastati da Auschwitz, ma siamo venuti qui a combattere e vincere, perché avevamo un obiettivo, lo Stato di Israele, eravamo motivati. Ma raggiunto l'obiettivo, ci siamo persi. Siamo diventati individualisti. La priorità è l'economia, nessuno pensa più che questa è la nostra terra perché è la terra che ci ha dato Dio. Non è solo questione di vivere fisicamente qui. Siamo qui per vivere in Israele come ebrei che vivono nella terra avuta da Dio, non come ebrei che accidentalmente vivono in un paese del Medio Oriente chiamato Israele, come fossero svizzeri o americani.

Martin Buber era un sionista, però voleva la convivenza di arabi e ebrei.

Essere ebreo e essere israeliano sono la stessa cosa.

Alcuni giovani vengono a Hebron e fondano comunità. Altri tornano da Hebron e fondano Breaking the Silence.
Non conosco i problemi psicologici di Yehuda Shaul. In un altro paese sarebbe già stato processato per alto tradimento.

Lei è scettico anche circa il ruolo degli internazionali presenti a Hebron. Dicono che li aggredite.
Sono solo degli antisemiti amici degli arabi che provocano e incitano all'odio. Tentiamo al meglio di ignorarli. Evitino di dimostrare, ed eviteranno anche di essere aggrediti. Interrompano le attività antiebraiche, lascino immediatamente Hebron e non interferiscano più negli affari interni israeliani. E non avranno problemi.

Con la seconda guerra mondiale, noi europei abbiamo imparato che la sicurezza deriva non dagli eserciti e dai muri, ma dalla qualità delle relazioni con i vicini, che è una sicurezza interdipendente cioè, non mutualmente esclusiva. Israele è il paese più pericoloso al mondo per un ebreo.
L'Undicesimo Comandamento dice: Non dimenticare. Auschwitz in realtà non è mai stata liberata, siamo ancora qui, dietro il filo spinato, come pecore verso le camere a gas, perché il mondo non ha mai riconosciuto il legittimo diritto divino del nostro popolo a questa terra. Nel 1929 siamo stati uccisi dagli arabi con cui vivevamo. Avevamo rifiutato le armi offerte dall'Haganah per non aumentare la tensione, e siamo stati squartati, davanti all'indifferenza degli inglesi. Non puoi fidarti degli arabi. Degli arabi e di nessuno, è solo questo quello che abbiamo imparato, dall'Olocausto, dal 1948, dal 1967, da Oslo, di chi non fidarci, da chi non dipendere, in chi non credere. Abbiamo dovuto bombardare da soli il reattore nucleare di Saddam Hussein. Auschwitz non è mai finita. Nessuno è cambiato. E neppure noi. Neppure noi abbiamo davvero imparato qualcosa. Abbiamo dato Gush Katif e ricevuto missili.

Nel 1948 avete accettato il Piano di Partizione proposto dalle Nazioni Unite.
Ma la nostra storia non è cominciata alla fine dell'Ottocento con il sionismo. Il 1948 è stato solo l'inizio dello stato israeliano, solo il primo passo non il raggiungimento del fine ultimo. Le opzioni erano molte, potevamo decidere di fare di Israele uno stato qualsiasi, aperto a tutti - bisogna ancora fare di Israele uno stato religioso e esclusivamente ebraico.

Il 1967 è stato 'un miracolo'. Ma poi, dice, l'errore, la formula land for peace invece che peace for land.
Con il 1967 è cominciato l'effetto domino, siamo ogni volta chiamati a concessioni per la pace. Ma si inizia con Gush Katif, e si finisce con Gerusalemme. Pensi l'Egitto quando gli abbiamo dato il Sinai, e d'accordo, adesso non temiamo più invasioni, ma non abbiamo ottenuto che una 'pace fredda' che ha consentito ai musulmani di coltivare Hamas. O pensi la Giordania, a cui abbiamo dato tutta la nostra acqua. E in cambio del Libano? Solo Hezbollah. Questa si chiama auto-distruzione. Avranno la pace quando non ruberanno più la nostra terra.

Chi è stato Arafat? E cosa è l'Autorità Palestinese?
Arafat ha trasformato il terrorismo in una nobile impresa, in uno strumento legittimo per raggiungere i propri obiettivi. E' il padre spirituale di Hamas, Hezbollah, Al Qaeda... Non un uomo, ma un concetto. Arafat vive ancora, è l'ambizione araba a distruggere Israele, e dunque non importa chi sia il suo successore. Non importa cosa gli arabi decidono di fare o non fare, dire o non dire. Potrebbero essere anche il popolo più pacifico dell'universo - la terra di Israele appartiene al popolo ebraico. L'Autorità Palestinese è solo una organizzazione terroristica. E' il Quarto Reich.

Alcuni sostengono che il terrorismo palestinese è una reazione alle politiche israeliane in Giudea e Samaria.
Perché allora, dopo che abbiamo abbandonato Gush Katif, lanciano missili su Sderot?

Cosa le viene in mente alla parola 'palestinesi'?
Che roba è, un test psicologico?

Voglio dire... Sono un popolo? O comunque, lo sono diventato?
Lei vuole farmi dire che sono tutti terroristi... Per cui la accontento - no, non sono tutti terroristi. Ma certo non sono un popolo. Sono... Non so cosa sono. Ma c'è questa entità araba nemica, qui.

Dopo Oslo, e quello che lei definisce il peace plan, e ancora più dopo la Road Map e il cosiddetto 'disimpegno' da Gaza, i rabbini che hanno intimato ai soldati di disobbedire agli ordini sono stati bollati come ayatollah. Alcuni qui vedono una guerra non più tra arabi ed ebrei, ma tra moderati ed estremisti.
In Israele non abbiamo una costituzione, la Torah viene prima di tutto. E non vuole certo la nostra distruzione, quando la legge contraddice la religione è la religione a prevalere. Quando si estirpano le famiglie dalle loro case, come a Gush Katif, sopravvivere è la prima regola. 'Disimpegnarsi', nel mezzo di una guerra, è folle, offrire uno stato cosiddetto palestinese, rilasciare centinaia di prigionieri... E' solo incentivare il terrorismo. Ci sono cose che una democrazia non può decidere. Io non vivo qui per me, ma per l'intero popolo ebraico, di ogni luogo e di ogni tempo, sono solo il custode delle chiavi. Stare qui, presidiare la sacralità di questa terra, è insieme un nostro diritto e un nostro dovere. Eretz Yisrael non appartiene a noi, ma alla volontà di Dio. Nessuna elezione, nessun referendum, nessun negoziato, Eretz Yisrael, sia detto e compreso una volta per tutte, non è in vendita, neppure al prezzo più alto. Nessun pezzo, né adesso né mai. Il destino di Hebron è stato deciso quattromila anni fa da Abramo. Obbediremo, ma agli ordini ricevuti sul Sinai.

Nel 1994 Baruch Goldstein ha ucciso ventinove fedeli mentre pregavano nella moschea. Si dice che la sua tomba, qui, sia meta di pellegrinaggio.
Naturalmente, nessuna distorsione di Hebron sarebbe completa senza parlare di Baruch Goldstein... Ognuno di noi qui è armato, perché abbiamo il diritto di portare armi per autodifesa. Ci sparano contro ogni giorno e ogni notte, eppure non succede niente, in proporzione al numero di armi che circolano, nessuno prende una mitragliatrice e comincia a sparare dalla finestra. Ci volete perfetti, ma nessuno è perfetto. E comunque - meglio non essere perfetti a Hebron che altrove.

Dopo quarant'anni, siete ancora solo seicento. Beit Hadassah è quattro edifici e venticinque famiglie.
Siamo pochi solo perché non abbiamo abbastanza case. E comunque l'importante è che siamo sopravvissuti, che siamo qui. E' chiaro che per ragioni politiche ci impediscono di costruire e di espanderci. Per costruire a Hebron - e cioè su terra vuota, di proprietà indiscutibilmente ebraica - le autorizzazioni devono scalare le vette del Ministero della Difesa. Se agli ebrei venisse impedito di costruire case nelle dodici Hebron sparse per gli Stati Uniti, titoli di giornali e azioni legali contro l'antisemitismo sarebbero immediati. Perché solo nella vera Hebron si proibisce agli ebrei di costruire case solo perché sono ebrei?

Per non coinvolgere civili arabi, dite, l'esercito israeliano sacrifica le vostre vite, trattenendosi dall'usare tutta la sua forza. Dite di sentirvi cittadini di serie B, come gli intoccabili indiani. Dite che il governo vi lascia soli.
Abbiamo molti nemici, anche interni. Ma alla fine i governi cambiano, e noi rimaniamo.

Ma economicamente, qui, sigillati e blindati... Voglio dire, che fate? Come vi mantenete?
Siamo comunità piccole... Non che ci sia molto lavoro. Riceviamo dei fondi dallo Stato.

Hebron è essenzialmente la Tomba dei Patriarchi. Lo stesso sito ospita una moschea. Un po' come Gerusalemme. Come gestire luoghi sacri a più religioni e aggrovigliati gli uni negli altri?
Per essere accessibili a tutti, come è giusto che sia, i luoghi sacri devono essere sicuri. Bisogna impedire agli arabi di impedirci di entrare. Se non vivessimo a Hebron, nessuno potrebbe più entrare nella Tomba dei Patriarchi. Comunque, secondo il giornalista arabo Joseph Farah, il Corano non dice niente di Gerusalemme. Cita la Mecca centinaia di volte, la Medina... Ma non dice niente di Gerusalemme. E per buone ragioni, perché non esiste alcuna prova che Maometto abbia mai visitato Gerusalemme. La connessione tra Islam e Gerusalemme è solo un mito. La struttura sopra Ma'arat HaMachpela è stata costruita da Erode seicento anni prima della nascita di Maometto. Certi luoghi vengono politicizzati dai nostri nemici nel tentativo di delegittimare le più basilari rivendicazioni di Israele alla sua terra.

Durante l'Hanukkah, celebrate il fallito tentativo di ellenizzazione del popolo ebraico. Ma esiste una 'purezza ebraica' da salvaguardare? Il prezzo non è il Muro, é quello che alcuni cominciano a chiamare apartheid?
Certo che questo è apartheid. Possiamo entrare solo nel tre percento dell'area municipale di Hebron, mentre migliaia di arabi continuano a vivere in terra ebraica. Il Muro mi priva della libertà di movimento, e non solo non ferma i terroristi, ma pretende di tracciare il confine di uno stato arabo, è pericoloso, riconosce una cosa che non esiste. Non siamo tornati in Israele per tornare nei ghetti. Mi cacciano da qui, e dicono che è un processo di pace, voglio cacciare gli arabi, dicono che sono un razzista - quale è la differenza? E' il mio processo di pace.

(PeaceReporter, 28 aprile 2008)





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