1. UN'ESPERIENZA DI VITA NEL KIBBUTZ
Il futuro d'Israele suscita inquietudine
di Jessica Dacey
In occasione del 60esimo anniversario dello stato ebraico, una coppia di ebrei svizzeri confida a swissinfo i ricordi positivi della vita nel kibbutz, ma è preoccupata per l'avvenire del paese.
|
Sylvain e Yvonne Rueff-Bloch |
Trentacinque anni or sono, Sylvain e Yvonne Rueff-Bloch lasciarono la Confederazione per trascorrere un periodo di sei mesi in un kibbutz liberale. I coniugi ritornano in seguito in Svizzera, a Basilea.
Sylvain e Yvonne Rueff-Bloch ritengono assai positiva l'esperienza di vita nel kibbutz. Essa ha in particolare segnato positivamente il loro figlio, che ha poi deciso di diventare rabbino e di stabilirsi in Israele. Visitando regolarmente il paese, la coppia ha inoltre potuto seguirne costantemente l'evoluzione.
- Per quale motivo avete deciso di recarvi in Israele?
- Sylvain Rueff-Bloch: Da giovane facevo parte del movimento sionista e si discuteva continuamente a proposito di Israele. Conoscere da vicino il paese e la sua gente era quindi un vero e proprio sogno per me. Di conseguenza, quando ho potuto beneficiare di una pausa professionale di sei mesi, ho proposto a mia moglie di soggiornare temporaneamente in un kibbutz.
- Yvonne Rueff-Bloch: Ci siamo trasferiti per toccare con mano la vita nel kibbutz. Si tratta infatti di un'esperienza completamente diversa dall'esistenza cittadina. Inoltre era per noi il momento giusto: nostro figlio aveva appena quattro anni e abbiamo pensato di cogliere questa opportunità prima dell'inizio delle scuole. Ci siamo detti: «Siamo ebrei, andiamo a vedere come si vive in Israele nel caso dovessimo un giorno lasciare la Svizzera».
- Come può essere descritta la vita nel kibbutz?
- Y.R-B: È una sorta di grande campeggio. Si tratta di una vita relativamente semplice, poiché molti aspetti sono già organizzati. Ognuno lavora affinché l'intera struttura possa funzionare. I pasti vengono consumati insieme in una grande sala comune: una bella esperienza!
- S.R-B: Durante i primi tempi, eravamo abbastanza preoccupati poiché nostro figlio ha avuto qualche problema d'integrazione. Infatti egli parlava soltanto tedesco, e all'asilo si sentiva isolato. Dopo il periodo d'ambientamento, si è però abituato alla vita nel kibbutz. Per quanto mi concerne, ho svolto differenti lavori: per esempio nei campi, raccogliendo arance e pompelmi, o nella cucina della struttura alberghiera per i turisti.
- Y.R-B: Inizialmente ho lavorato all'asilo. In seguito, mi sono occupata di bambini e sono stata impegnata in lavori agricoli. Ho inoltre approfittato dell'occasione per imparare l'ebraico. L'esperienza mi è piaciuta moltissimo, ma avvertivo parecchio la mancanza dei miei famigliari, rimasti in Svizzera e Francia.
- S.R-B: Sapevamo fin dall'inizio che non saremmo rimasti. Tuttavia, per un periodo di tempo limitato si è trattato sicuramente di un'esperienza assai positiva.
- Voi avete abitato in Israele nel 1973, l'anno della guerra del Kippur. Come era la situazione dal profilo politico?
- S.R-B: Abbiamo vissuto lì da gennaio a luglio. Durante quel lasso di tempo, nessuno parlava del conflitto. Due mesi dopo il nostro ritorno in Svizzera sono scoppiate le ostilità.
- Y.R-B: Nell'aria c'era qualcosa di strano. Le persone erano molto nervose. Dietro il kibbutz era situato un piccolo aeroporto militare: gli aerei passavano continuamente sopra le nostre teste già diversi mesi prima della guerra. Comunque, non sapevamo cosa stesse succedendo.
- Vivere in Israele ha avuto un'influenza particolare sulla vostra fede religiosa?
- S.R-B: Siamo ebrei tradizionali, ma il nostro kibbutz non era affatto religioso. C'era una piccola sinagoga, ma non era molto frequentata. Ciononostante, abbiamo sempre celebrato le festività ebraiche.
- Y.R-B: Nostro figlio desiderava avvicinarsi alla tradizione religiosa. Quando aveva quattro anni, indossava sempre la sua kippah. Voleva recarsi ogni venerdì alla sinagoga per pregare: lo abbiamo quindi accompagnato. Gli altri abitanti del kibbutz faticavano a capire l'interesse per la religione da parte di un ragazzo così giovane. Egli ha deciso in seguito di abitare in Israele: forse è stata proprio quell'esperienza a determinare la sua scelta.
- Che effetto vi ha fatto rientrare in Svizzera?
- Y.R-B: È stato inizialmente molto difficile adattarsi nuovamente alla lentezza elvetica. Tutto era ordinato, regolato: si è trattato di un cambiamento improvviso che mi ha obbligato a riabituarmi alla mentalità svizzera.
- S.R-B: Ero felice di essere tornato, anche se quella del kibbutz è stata una bella esperienza e io sono contento di averla vissuta. Tuttavia, fin dall'inizio mia moglie ha sempre detto: «La nostra casa è in Svizzera, tutta la nostra famiglia si trova lì e io non mi stabilirò mai in Israele». Forse, se mia moglie avesse avuto un'altra opinione, sarei rimasto a vivere in Israele.
- Quando tornate in Israele per una visita, quali sono le vostre impressioni?
- S.R-B: Il paese è completamente cambiato. Quando vi abitavamo noi, la situazione era calma e nessuno parlava della guerra. Le tensioni tra palestinesi e israeliani non erano forti come lo sono oggi. Proprio per questo motivo eravamo contenti durante il nostro soggiorno. Oggigiorno, non resisteremmo per sei mesi. Recentemente siamo stati lì per otto giorni e ci è bastato.
La zona dove abita nostro figlio con i suoi sette bambini vicino a Ramallah è assai problematica: il costo della vita è elevato almeno come in Svizzera, ma i salari sono ovviamente inferiori. Noi cerchiamo di offrire un piccolo sostegno finanziario, altrimenti vivrebbero nella povertà.
- Y.R-B: Per i bambini il contesto è particolarmente difficile. Sentono continuamente il rumore degli aeroplani, non possono spostarsi come desiderano: si tratta di una situazione traumatica per tutti.
- Come valutate il futuro di Israele?
- S.R-B: Non vi sarà pace tra le due popolazioni nell'immediato futuro. Pertanto, non sono affatto ottimista.
- Y.R-B: Il futuro di Israele mi appare molto problematico. Nessuna delle due parti in causa fa un passo nella direzione dell'altra. Inoltre, vi sono gli attentati compiuti quotidianamente da Hamas che rendono la situazione ancora più difficile. Nella vita non si deve comunque mai perdere la speranza in un miracolo che spinga le persone a trovare una soluzione comune e a vivere pacificamente assieme.
(swissinfo, 16 maggio 2008 - traduzione e adattamento di Andrea Clementi)
2. IL PREGIUDIZIO ANTISEMITA
Le Cinque Bugie su Israele
Come si stravolge la storia per demonizzare l'unica democrazia in Medioriente.
di Emanuele Ottolenghi
Il pregiudizio antisemita si è nutrito per secoli di menzogne che nella letteratura e nella credenza popolare erano considerate verità inappellabili. La propaganda antisraeliana si nutre similmente di bugie che, stravolgendo la storia e insinuando nefandezze, mirano a delegittimare e demonizzare Israele come un tempo si demonizzavano gli ebrei. Delle tante bugie dette e ridette fino a renderle incontestabili assiomi, se ne riportano di seguito cinque, con la necessaria rettifica storica a buon uso del lettore.
1) Il sionismo è un movimento razzista.
Il sionismo è il movimento di liberazione nazionale del popolo ebraico, e come tutti i movimenti di liberazione nazionale, è stato storicamente caratterizzato da una grande diversità di opinioni sulle modalità, i tempi e persino il luogo d'attuazione del suo programma, oltre che sulla natura e il carattere della futura società e Stato che aspirava a creare. Col tempo, la maggioranza dei sionisti sostenne il ritorno del popolo ebraico nell'antica terra d'Israele come la rivendicazione essenziale del movimento, ma fino al 1903 esistevano tra i sionisti anche coloro che sostenevano la necessità di creare uno Stato ebraico ovunque si rendesse disponibile un territorio e tra i luoghi considerati c'erano l'Africa Orientale (la cosiddetta Opzione Uganda), un'area costiera del Sinai nell'odierno Egitto, una provincia argentina e persino un territorio nel Nord-Est dell'Australia. La terra d'Israele prevalse per il profondo legame storico ed emotivo con il popolo ebraico. Ma in nessun caso il sionismo postulò che l'affermazione del proprio progetto nazionale dovesse avvenire a spese dei diritti degli arabi che vivevano in Palestina, proclamando invece la necessità di trovare una soluzione pacifica e forme di convivenza tra ebrei e arabi. Fino all'ultimo, la leadership sionista cercò un compromesso con la controparte araba, ma senza successo, e a ogni occasione furono i sionisti, piuttosto che gli arabi, ad accettare le soluzioni di compromesso territoriale e politico ripetutamente proposte dalla comunità internazionale: la spartizione della Palestina in due stati fu proposta dalla Commissione Peel nel 1937 e I dall'Onu nel 1947, ma fu rifiutata dagli arabi (i sionisti accettarono entrambe le proposte), mentre l'idea di uno Stato binazionale fu proposta da due movimenti sionisti negli Anni Trenta e respinta dalla leadership araba.
2) La Palestina, come suggerisce il nome, è la terra dei palestinesi, che gli ebrei hanno usurpato.
In realtà il termine Palestina si riferiva, nell'antichità, solo a una stretta striscia litoranea di territorio che corrisponde circa con l'attuale Striscia di Gaza e che era così chiamata perchè abitata un tempo dai Filistei. Il nome del territorio su cui oggi sorge lo stato d'Israele e parte dei territori era la Giudea tant'è vero che nelle monete commemorative della vittoria di Tito e Vespasiano sui rivoltosi ebrei nel 70 dC si legge "Iudaea capta est". Il termine Palestina segue l'occupazione romana e il tentativo di estirpare ogni focolaio di rivolta ebraico dopo la distruzione del Secondo Tempio, ma non assume mai un carattere politico fino alla creazione del mandato britannico sulla Palestina nel 1922, Mandato che ha come obbiettivo l'attuazione della Dichiarazione Balfour, ovvero la promessa del governo inglese di creare un territorio autonomo per gli ebrei. I confini attuali della terra contesa sono stati tracciati tra il 1918 e il 1922 e non riflettono una precedente realtà politica. In quanto ai palestinesi, non è mai esistito uno Stato, o un regno, o una provincia, o un califfato palestinese. Dalla conquista romana il territorio è passato ai bizantini, agli arabi, ai crociati, ai mammalucchi, ai turchi e agli inglesi. I confini sono cambiati mille volte e non esisteva, all'arrivo dei primi sionisti nella seconda metà dell'Ottocento, un'identità nazionale o una rivendicazione nazionale palestinese.
3) Il controllo israeliano di Gerusalemme minaccia la libertà religiosa e l'accesso ai luoghi sacri.
Pur costituendo la maggioranza dei residenti, gli ebrei e gli israeliani dal 1948 al 1967 non hanno avuto la sovranità dei luoghi santi fino al 1967, quando Israele conquistò la Città Vecchia di Gerusalemme, oltre che i luoghi santi cristiani e mussulmani in Cisgiordania. Solo a partire dal 1967 l'accesso pieno ai luoghi santi avviene in piena libertà e con la tutela dell'autonomia religiosa delle varie comunità, mentre prima del 1967, durante tutta la dominazione musulmana, importanti restrizioni avvenivano nei confronti dei non musulmani e per quasi vent'anni gli ebrei non ebbero alcun accesso a due delle quattro città sante dell'ebraismo.
4) Se Israele ponesse fine all'occupazione dei territori
palestinesi ci sarebbe la pace in Medio Oriente. Sarebbe bello fosse così semplice! Ma a parte il fatto che i problemi del Medio Oriente sono molteplici e nella maggior parte dei casi non hanno nulla a che fare con il conflitto israelo-palestinese: si pensi al genocidio in Darfur, all'oppressione di donne e omosessuali in Arabia Saudita, alla persecuzione contro i cristiani da parte del fondamentalismo islamico, al conflitto tra sciiti e sunniti, alle tensioni tra Iran e mondo arabo sunnita, alla povertà endemica della regione nonostante le ricchezze energetiche, al diniego di diritti nazionali da parte araba per curdi e berberi, e alla mancanza di libertà religiosa in tutta la regione salvo Israele. Il problema è il rifiuto dell'esistenza d'Israele da parte di una significativa parte del mondo arabo e dei palestinesi. In fondo, i territori oggetto del contendere Israele li ha conquistati nel 1967, ma dal 1948 al 1967 erano sotto dominio arabo eppure i palestinesi non li rivendicavano per loro e i regnanti arabi non si sognavano neanche di farne uno Stato per i palestinesi. Israele ha dimostrato più volte di volere la pace e di essere pronto a rinunce, sacrifici e compromessi. Non altrettanto si può dire da parte palestinese: se Hamas oggi rappresenta veramente la maggioranza dei palestinesi, con la sua retorica antisemita, la sua alleanza con l'Iran e il suo ricorso a terrorismo contro civili dentro Israele, dimostra come non si tratta solo di una disputa territoriale ma di un conflitto esistenziale.
5) L'unica soluzione al conflitto israelo-palestinese è la creazione di uno stato binazionale dove i due popoli condividono la stessa terra.
Ci sono quattro motivi per cui questo modello politico è un'utopia. Primo, perché le due nazioni difficilmente accetterebbero di vivere insieme in armonia condividendo potere e interessi. Costringere i due contendenti a una convivenza così difficile porterebbe a nuovi conflitti si guardi alla ex-Yugoslavia specie se si pensa al secondo motivo: le grandi differenze socioeconomiche e culturali. Gli israeliani guardano a occidente, sono integrati nell'economia occidentale e nella globalizzazione; sono una società laica e moderna, dinamica ed economicamente avanzata; dove le donne sono emancipate e la libertà sessuale, la mobilità sociale e la meritocrazia hanno preso piede fermamente; i palestinesi per contro sono ancora una società religiosa e tradizionale che vive principalmente di agricoltura e di manifattura, dove la cultura e i valori sociali sono tradizionali e tradizionalisti, e difficilmente tollererebbero le influenze del settore ebraico; mentre le strutture familiari e tribali sono ancora dominanti rispetto al merito e alla mobilità fondata sulle risorse economiche del singolo. Insomma, difficilmente le due società andrebbero d'accordo, e queste differenze portano al terzo motivo per cui lo stato binazionale è una cattiva idea: l'orientamento politico e culturale palestinese spingerebbe un futuro Stato in comune verso alleanze con il mondo arabo, in pieno contrasto con gli interessi del settore ebraico che sarebbero orientati verso l'America, l'Europa, l'India e l'estremo oriente. Ma la ragione che più di ogni altra rende l'idea improbabile è che uno Stato binazionale sarebbe antidemocratico perché la stragrande maggioranza di israeliani e palestinesi vuole com'era vero settant'anni fa uno Stato nazionale. Imporre una soluzione diversa violerebbe il diritto d'autodeterminazione dei popoli.
(Liberal, 14 maggio 2008) - da Informazione Corretta)
3. DUE VITTIME DI ATTENTATI DUE STORIE DI SPERANZA
La vittoria di Orly
Orly Virani è stata gravemente ferita nell'attentato del 2002 contro il ristorante Matza di Haifa ? Oggi è in attesa del suo primogenito e sta pensando di partorire nello stesso ospedale dove ha lottato per la sua vita.
di Eitan Glickman
I dottori hanno lottato per cinque giorni per salvare la vita di Orly Virani, che era stata ferita gravemente nell'attentato suicida del marzo 2002 contro il ristorante Matza di Haifa. Temevano che non ce l'avrebbe fatta. Oggi Orly ha 27 anni, è felicemente sposata e aspetta il suo primogenito.
Il 31 marzo 2002 Orly doveva incontrare per pranzo Daniel Menchel, un suo caro amico. Un terrorista è entrato nel ristorante e si è fatto esplodere, uccidendo Daniel e altre 14 persone. Orly è rimasta ferita gravemente. Non è stato facile per Orly guarire dalle sue ferite sia fisiche che emotive, e sei mesi dopo lo scoppio della bomba è emigrata in Germania. "Sentivo che non ce la facevo più a vivere in Israele", ha spiegato. "Ero completamente sopraffatta dalle mie paure, e ho deciso di trasferirmi da mia zia a Monaco di Baviera".
In Germania Orly ha incontrato e sposato Sven. Oggi è incinta di sette mesi e la coppia sta aspettando il suo primogenito. La settimana scorsa Orly ha visitato l'ospedale Rambam per un controllo e ha deciso di cogliere l'occasione per chiudere il cerchio tornando nel luogo dove la sua vita è cambiata in modo così drammatico.
"Ero ferita molto gravemente", ricorda. "Il mio corpo era pieno di schegge e mi hanno detto che la probabilità che una persona con quel tipo di ferite riesca a sopravvivere è inferiore al 20%. Nessuno allora parlava delle probabilità di rimanere incinta e di avere un bambino, ma io sapevo che sarei sopravvissuta. Sono forte. Lo sapevo che sarei sopravvissuta e ora, da un momento all'altro, diventerò mamma. Chi lo avrebbe mai detto! Per me venire a un controllo di gravidanza al Rambam, dove ho lottato per la mia vita, è una grande vittoria".
* * *
Asael cammina di nuovo
Sei anni dopo aver perso una gamba in un attentato terroristico Asael Shabo, 15 anni, torna in Israele con una sofisticata protesi sportiva.
di Avi Zinger
Sei anni fa, nel giugno del 2002, un terrorista entrò nella casa della famiglia
|
|
Shabo a Itamar nel Shomron, sparò a raffica e uccise Rachel Shabo e tre dei suoi figli: Neria (15 anni), Zvika (12) e Avishai (5). Asael Shabo aveva allora 9 anni e venne colpito da una scarica di proiettili che gli amputò la gamba.
Domani, sei anni dopo quel terribile attentato terroristico, Asael tornerà in Israele sulle sue due gambe, una delle quali è una sofisticata protesi che è stata messa a punto negli Stati Uniti e che costa 70.000 dollari. "Papà, posso correre con due gambe", ha detto al padre un emozionato Asael prima di tornare in Israele.
Dal giorno in cui è stato ferito nell'attentato terroristico, Asael, che oggi ha 15 anni, aveva sempre rifiutato di indossare una protesi, preferendo usare le grucce o saltellare su una gamba sola. Prima dell'attentato giocava a calcio, ma dopo ha deciso di dedicarsi alla corsa e si era convinto che una protesi avrebbe ostacolato i suoi sforzi di primeggiare.
L'atteggiamento di Asael è cambiato quando ha incontrato Shlomo Nimrod, un uomo d'affari americano, veterano dello Tsahal e invalido di guerra, che indossa una protesi appositamente progettata per correre e fare sport (simile a quella che usa il campione olimpico sud africano Oscar Pistorius). Nimrod ha convinto Asael a farsi preparare una protesi simile alla sua e ha persino preso accordi con l'Istituto negli Stati Uniti che mette a punto questo tipo di protesi.
Asael è partito per gli Stati Uniti poco prima del Giorno dell'Indipendenza e un paio di giorni dopo già correva e saltava su due gambe. "Tutti erano senza parole; non potevano credere ai loro occhi", ricorda Guy Solomon, un rappresentante dell'organizzazione Etgarim che ha accompagnato Asael in America. "Tutti sono rimasti sorpresi dalla velocità con cui si è adattato alla protesi. Asael è un ragazzo incredibile, con una gran voglia di vivere. È un adolescente molto coraggioso, che ha subito un terribile trauma e dopo tutto quello che ha passato sono felice che siamo riusciti a restituirgli alcune delle gioie della vita. Il sorriso stampato sul suo volto quando ha visto che stava in piedi su due gambe ci ripaga di tutto".
"Volevamo che fosse in grado di fare quello che fa ogni altro ragazzo della sua età, di giocare a calcio e di correre come chiunque altro", ha aggiunto Guy. "Non appena torna in Israele cominceremo ad allenarci per le sfide sportive che lo aspettano".
Boaz, il padre di Asael, era accanto a lui nella gioia e nell'emozione di ieri. "Dopo tutto quello che ha passato non vedo l'ora di vederlo su due gambe", ha detto. "Lo so che riuscirà in qualunque cosa che deciderà di fare. È un lottatore testardo, un vincitore!"
(Yediot Ha'haronot, 19 maggio 2008, da Keren Hayesod))
4. LA LINGUA DELLO STATO D'ISRAELE
Meir Shalev ci racconta il miracolo della rinascita dell'ebraico
di Rolla Scolari
GERUSALEMME. Meir Shalev è nato due mesi dopo lo stato d'Israele, ma se entrassero ora dalla porta re Davide o Gesù Cristo, dice lui, potrebbe parlare con loro in ebraico. Oggi, invece, Giulio Cesare non capirebbe una parola d'italiano. "E questo libro, la Bibbia spiega prendendo da uno scaffale un volume tascabile lo scrittore che l'11 maggio sarà alla fiera del libro di Torino dedicata ai 60 anni d'Israele lo posso leggere usando la mia lingua madre".
Shalev è tra i più celebri scrittori contemporanei israeliani. Nel suo ultimo romanzo, "Il ragazzo e la colomba" (Frassinelli), s'incrociano due piani temporali: Israele oggi e Israele durante il conflitto che seguì la sua nascita. Suo padre, Yitzchak, era un noto poeta. Racconta di sua madre, incinta a Gerusalemme durante i combattimenti tra arabi e israeliani. "Mancavano acqua e medicine. Il fratello una notte la fece salire a bordo di una jeep, guidò su strade sterrate attraverso le colline e la fece scendere solo a Tel Aviv". Lei proseguì verso nord, per Nahalal, dove Shalev è nato, nel primo moshav d'Israele, una comunità agricola fondata nel 1921 da un gruppo di ebrei immigrati all'inizio del XX secolo. Sul muro del suo ufficio di Gerusalemme, nella redazione del quotidiano Yedioth Ahronoth, c'è la foto aerea del villaggio di Nahalal. Le casette basse dal tetto rosso sorgono sul ciglio di una strada bianca e circolare, tutte alla stessa distanza dal centro, dove sono gli edifici pubblici: originale trovata del sionismo socialista.
I nonni di Shalev erano immigrati russi. Il giorno in cui misero piede in Palestina smisero di parlare russo e abbandonarono per sempre lo yiddish, "la lingua dell'esilio": dallo sbarco in avanti usarono soltanto l'ebraico. "La rinascita dell'ebraico è per noi la conquista numero uno dopo la fondazione dello stato d'Israele.
L'obiettivo del sionismo era creare uno stato per gli ebrei. L'ebraico era un obiettivo ma anche un mezzo. Si può parlare di una conquista senza precedenti nella storia sostiene Shalev perché per duemila anni l'ebraico è stato in coma. Era la lingua usata dagli ebrei di tutto il mondo per le cerimonie religiose, i riti, i matrimoni e i funerali. Oppure, se un rabbino in Polonia voleva scrivere una lettera a un collega in Marocco, lo faceva in ebraico, l'idioma comune. "La rinascita della lingua parlata è stata un miracolo: il processo è iniziato soltanto un centinaio di anni fa e oggi l'ebraico è usato a casa, per strada, al mercato, in televisione. Ha creato un senso d'appartenenza. Il sionismo ha fatto rivivere la lingua per dare forma all'identità". Il fondatore dell'ebraico moderno è Eliezer Ben-Yehuda, padre della rinascita della lingua parlata avvenuta tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo, quando l'uomo arrivò in Palestina con il proposito di far rivivere l'idioma. I più religiosi s'opposero all'operazione: impossibile, sostenevano, usare la lingua di Dio per la triviale quotidianità. Erano scettici anche certi studiosi, che vedevano nell'ebraico un idioma privo del vocabolario della modernità con cui si esprimono tecnica e scienza. Proponevano d'usare l'inglese, la lingua del mandato britannico sulla Palestina. Ben-Yehuda creò un nuovo vocabolario per adattare l'ebraico dei testi sacri alla vita di tutti i giorni. "Quando scrivo posso usare un'espressione biblica e un termine di slang. E' la stessa lingua e tutti possono capire entrambi i registri". Se Israele oggi fosse distrutto dice lo scrittore l'ebraico si perderebbe per sempre. "E' legato alla terra" e alla costituzione dell'identità israeliana.
(Il Foglio, 16 maggio 2008)
5. ARCHEOLOGIA IN ISRAELE
Scoperta un'altra cava di pietra del periodo del secondo Tempio
di Johannes Gerloff
GERUSALEMME - Le autorità israeliane per l'antichita hanno dissotterrato, a nord della città vecchia di Gerusalemme, un'altra cava di pietra risalente al periodo del secondo Tempio. Probabilmente in questo posto venivano lavorate le pietre per la costruzione del muro di cinta del secondo Tempio erodiano, la cui parte meridionale oggi è famosa come "Muro del Pianto".
Dopo il disseppellimento di una cava di pietra nel quartiere di Gerusalemme Ramat Shlomo, nell'estate del 2007, adesso è stato trovato un altro reperto simile in via Nissim-Beck, nel quartiere Sanhedria. Alcuni scavi che erano stati autorizzati per la costruzione di una casa privata hanno portato alla scoperta di un luogo in cui sono venute alla luce delle pietre semilavorate, i negativi di gigantesche pietre squadrate e anche materiale di costruzione pronto per il trasporto.
Il direttore degli scavi, dr. Gerald Finkielsztejn, presume che le pietre trovate in questo luogo siano state usate o per la costruzione del muro di cinta del Tempio, o per la costruzione del cosiddetto "Terzo Muro", nel periodo che va dal tempo di Gesù alla distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. La pietra più grossa ha la misura di 0,69 x 0,94 x 1,65 metri e corrisponde alle pietre più piccole che si possono vedere nel Muro del Pianto. Finkielsztejn presume che la cava sia stata abbandonata durante la rivolta ebraica contro i romani. Lo scavo mostra chiaramente le profonde scalfitture provocate dallo scalpello per trarre le gigantesche pietre dalla roccia.
Giuseppe Flavio descrive il muro di cinta del Tempio erodiano come "uno dei più magnifici lavori che siano mai stati visti" ("Antichità giudaiche", XV: 11,3). Il sermone profetico di Gesù comincia con l'ammirazione dei discepoli per gli edifici del Tempio, a cui Gesù replica: "In verità vi dico: Non sarà lasciata qui pietra su pietra che non sia diroccata" (Matteo 24:2).
La cava di pietra in Sanhedria si trova, come la cava in Ramat Shlomo, sul dorso a nord della città vecchia, e quindi un po' più in alto del Monte del Tempio. In questo modo le gigantesche pietre della cava potevano essere rotolate fino al luogo di costruzione. Essendo così pesanti, non avevano bisogno di essere attaccate con il cemento, ma potevano semplicemente essere adagiate l'una sull'altra.
Erode il Grande, che è morto il 4 a.C. e regnava sulla Giudea al tempo della nascita di Gesù, aveva fatto grande attenzione affinché per la costruzione del Santuario fosse usato soltanto marmo di altissima qualità. Antiche fonti riferiscono che il Tempio doveva essere di un "bianco rilucente". Prima della scoperta delle due cave di pietra gli esperti congetturavano che per i suoi scopi Erode avesse importato il marmo dall'italia.
(Israelnetz Nachrichten, 26 maggio 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
6. LIBRI
Intervista a Dalia Sofer
autrice di La città delle rose
di Marilia Piccone
L'inglese di Dalia Sofer è perfetto, eppure non è la sua lingua madre - lei stessa ha raccontato di come non ne sapesse neppure una parola quando è arrivata in America con la famiglia. Perché Dalia Sofer è nata in Iran nel 1972 e ha lasciato il suo paese nel 1982, dopo che suo padre era stato arrestato, proprio come avviene a Isaac Amin nel romanzo. E' stato chiesto a Dalia Sofer, invitata alla Fiera del Libro di Torino, di parlare della sua esperienza personale e di come è giunta a scriverne.
- La sua età e quella della bambina del libro all'epoca degli avvenimenti sembrano coincidere: è Lei Shirin, almeno in parte? la storia della famiglia Amin è la storia della sua famiglia?
- Sì, la storia nel libro è ispirata alla storia della mia famiglia: sono nata in Iran e ho vissuto là fino alla fine della rivoluzione. In quella prospettiva il racconto del libro è vero e poi, insieme a quella storia vera, c'è la finzione narrativa. L'esperienza in prigione del protagonista è diversa da quella di mio padre, che fu pure imprigionato, ma non nelle stesse circostanze. Con Shirin condivido il senso di stupore e di confusione, perché quando sei un bambino perdi i punti di riferimento, quando succede qualcosa del genere, e gli adulti sono preoccupati con dei problemi che non perdono tempo a spiegarti. Di quel tempo ricordo soprattutto la confusione che avvertivo...
- Quando si è resa conto per la prima volta che c'era stato un cambiamento nella situazione politica e sociale dell'Iran?
- All'inizio della rivoluzione ero molto piccola e non capivo quello che stava succedendo, che si stava costruendo questo movimento. Era l'autunno del 1978 quando c'erano dimostrazioni popolari e dimostrazioni studentesche e i cinema venivano incendiati. Io avevo sei anni, ricordo che le scuole erano chiuse e si stava a casa. Che c'erano dei blackout, e c'era il coprifuoco e stavamo chiusi in casa: era uno stato di sospensione.
- Che cosa ricorda di più di quei mesi e poi di quei giorni che hanno preceduto la sua partenza dall'Iran?
- Era il 1982 e la cosa più stupefacente fu la scomparsa di mio padre. Per più di un mese non sapemmo niente di lui, di dove fosse, che cosa gli fosse successo, se era vivo o morto. E poi ricordo il giorno che tornò: mia sorella ed io tornavamo da scuola e lui era là, seduto sul divano e del tutto cambiato. Era magro, aveva la barba bianca e semplicemente non era mio padre. E questo dopo solo un mese di assenza. Era tremendamente invecchiato. Io ero felice ma avevo anche paura, anzi ero terrorizzata.
- Il viaggio per uscire dall'Iran è stato così avventuroso come quello degli Amin?
- I personaggi non sono veri, ma la fuga sì. Il modo in cui siamo scappati, la strada, il fatto che fossimo a cavallo - quello sì. Non l'ho vissuto come un'avventura, ma da bambino sei paralizzato dalla paura e speri che qualcuno ti protegga e pensi a te. Una volta che hai vissuto questa esperienza, non sei più tanto sicuro che andrà tutto bene, è una cosa che ti segna dentro.
- Era una bambina: Le ci è voluto molto per adattarsi al nuovo paese?
- Non andammo subito negli Stati Uniti, prima passammo dieci mesi in Israele e poi andammo a New York. Ero scombussolata, mi pareva che gli adulti chiedessero delle cose sbagliate. E poi sapevo il francese ma nessuna parola di inglese. C'è voluto molto per adattarmi, ma solo ora mi rendo conto di quanto mi ci sia voluto.
- E i suoi genitori? È stato difficile per loro?
- Penso che sia stato difficile anche per loro e lo è ancora. I miei fratelli erano già là, ma non conoscevamo nessuno, perché tutti gli altri che andarono in America erano partiti insieme a noi.
- Che cosa le manca di più, della vita in Iran?
- È strano, ho desiderio dell'Iran, ma sembra così lontano, è avvolto nel passato, anche se il passato non scompare. Non mi sento a casa da nessuna parte. Cerco sempre un senso di sicurezza, anche se laggiù non si era affatto al sicuro, cerco il senso di appartenenza. Se penso poi a mio padre, a quello che deve aver provato, perché per lui era la seconda volta: era già fuggito prima, perché era dell'Iraq
- Quando ha avuto l'idea di scrivere un romanzo sulla sua esperienza?
- Ho sempre voluto scrivere di questo, ma ero troppo giovane: mi ci sono voluti sette anni per questo libro. Era un tempo molto doloroso da rivisitare e non mi sentivo mai pronta per farlo. Sapevo che le emozioni dovevano venire da dentro di me. Volevo rielaborare quello che era successo a mio padre, ho cercato di immaginarlo e di vivere nella sua testa, e il libro mi ha permesso di farlo.
- Questo primo romanzo è su un'esperienza speciale, sarà più difficile per Lei scrivere il secondo? Sarà un romanzo per metà iraniano? O sarà completamente americano?
- Ho già iniziato a scrivere il nuovo romanzo e sarà completamente diverso. È ambientato nel Sud Ovest della Francia, ma anche se il luogo è diverso, prima o poi le ossessioni ritornano. Finora non sento alcuna inclinazione a scrivere dell'America.
- Parviz è un personaggio importante nel romanzo. La storia che lo riguarda è anche una storia sui diversi modi essere ebreo: che cosa significa per Lei essere ebrea?
- Quello che volevo comunicare nel libro era un'idea delle barriere: Isaac è sbattuto in prigione perché è ebreo anche se è laico e Parviz si trova in una famiglia ortodossa che non lo accetta interamente. È una questione delle barriere che la gente pone: la religione può unire o dividere, può accadere all'interno della stessa religione o all'esterno fra religioni diverse. Quanto a me, non so: sono ebrea, non sono religiosa, credo in qualche Potere Superiore. Sto ancora esplorando, non è qualcosa che ho chiuso, ma non ho mai pensato all'essere ebreo come qualcosa di puramente religioso. Sto ancora esplorando, ecco.
____________________________________
Dalia Sofer La città delle rose
Titolo originale: The Septembers of Shiraz
Traduzione di Caterina Lenzi
318 pag., 16,50 ¤ Edizioni Piemme 2008
(WUZ, 24 maggio 2008)
MUSICA E IMMAGINI
Tutim
INDIRIZZI INTERNET
Israele|Web
Welcome to Gesher International
Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse
liberamente, citando la fonte.
|