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Notizie su Israele 427 - 10 giugno 2008

1. Una vita aggrappata in uno spazio piccolissimo
2. Intervista alla scrittrice Bat Ye'or
3. Pensare ebraicamente
4. Gli ultimi ebrei di Bagdad
5. Una guerra annunciata?
6. A Gaza aumentano gli attacchi contro i cristiani
7. L'immigrazione in Israele di ebrei messianici
8. Musica e immagini
9. Indirizzi internet
Isaia 45:23-25. "Per me stesso io l'ho giurato; è uscita dalla mia bocca una parola di giustizia, e non sarà revocata: Ogni ginocchio si piegherà davanti a me, ogni lingua mi presterà giuramento. "Solo nel Signore", si dirà di me, "è la giustizia e la forza"»; a lui verranno, pieni di vergogna, quanti si erano adirati contro di lui. Nel Signore sarà giustificata e si glorierà tutta la discendenza d'Israele."
1. UNA VITA AGGRAPPATA IN UNO SPAZIO PICCOLISSIMO




Dal Giordano al Mediterraneo

di Stefano Magni

Pensiamoci su due volte prima di stupirci del fatto che Israele ci metta così tanto tempo per riconoscere lo Stato palestinese. Non ci si rende conto del conflitto israelo-palestinese finché non si realizzano le dimensioni dei territori di
cui stiamo parlando. Finché non si tocca con mano il senso di sopravvivenza di Israele, una vita aggrappata in uno spazio piccolissimo, dal Giordano al Mediterraneo. Andare dalla spiaggia di Tel Aviv a Gerusalemme in auto, in una giornata senza traffico, richiede meno di tre quarti d'ora. E hai già attraversato Israele per il largo. I territori richiesti dai palestinesi costeggiano tutta la strada che collega le due principali città israeliane. Ci sono luoghi che ricordano le battaglie del primo conflitto arabo-israeliano, come Latrun, Ramla e Lod, dove gli ebrei, non ancora indipendenti, lottarono duramente per riuscire a portare viveri e munizioni alla Gerusalemme assediata. Le carcasse degli autobus e delle vetture blindate con mezzi di fortuna e distrutte dagli arabi sono ancora lì a ricordare quei giorni di 60 anni fa. E sembra che vogliano dire: può succedere ancora.
    E' una sensazione strana passare in mezzo a due territori ostili. In certi tratti di strada, da Modin a Gerusalemme, il territorio israeliano si riduce alla strada e a qualche piccolo lembo di terra ai suoi lati. Lì sorgono stazioni della polizia, posizioni dell'esercito (che mantiene un profilo discreto), case abitate da ebrei che sventolano coraggiosamente la bandiera bianca e blu con la stella di David. Ma poco oltre, poche centinaia di metri più in là, c'è un territorio abitato da gente che quella bandiera e lo Stato che rappresenta non li hanno mai riconosciuti. A passare lì in mezzo si prova quasi una sensazione di claustrofobia. I villaggi palestinesi sorgono in mezzo alle colline brulle e rocciose, li si identifica subito grazie allo svettare delle loro moschee. Se si mettessero a sparare, dall'autostrada Tel Aviv-Gerusalemme non potrebbe passare più nessuno, proprio come era ai tempi del primo conflitto, quando ogni metro di strada era conteso duramente.
    Un altro luogo per capire il conflitto israelo-palestinese: Gilo. In questo sobborgo di Gerusalemme Sud, le case che guardano verso il meridione hanno tutti i vetri blindati anti-proiettile. La strada principale che porta al centro della capitale è costeggiata da uno spesso muro di cemento. Che è stato sì decorato da artisti israeliani, ma è e resta un monito: serve a proteggersi dai cecchini palestinesi. Sparavano ai bambini, soprattutto, quelli che uscivano tutti i giorni per andare a scuola e dovevano passare necessariamente per una strada esposta a Sud. A Sud, ben visibili ad occhio nudo, ci sono le case di Betlemme, Autorità Palestinese. Da quelle finestre sono state tirate le prime fucilate della II Intifada il giorno stesso della passeggiata di Sharon alla Spianata delle Moschee nel settembre di 8 anni fa. Una volta hanno sparato anche colpi di mortaio. Ora la situazione è molto più tranquilla. E dall'altura di Gilo si può osservare con calma il percorso della barriera difensiva, una lunga rete, costeggiata da una strada, che in alcuni tratti diventa muro di cemento armato. Palestinesi e israeliani si guardano ancora nelle palle degli occhi, ma per lo meno i primi hanno smesso di sparare ai secondi, nonostante tutte le proteste contro quello che l'opinione pubblica europea chiama «il muro dell'apartheid».

(Ragionpolitica.it, 31 maggio 2008)





2. INTERVISTA ALLA SCRITTRICE BAT YE'OR




«Stop agli immigrati o l'Europa sarà loro»

La premessa di Bat Ye'or non è di maniera: «I musulmani nel mondo sono più di un miliardo ed è difficile parlare di tutti», dice.

di Lao Petrilli

E non è di maniera perché precede un concetto forte, di quelli che, senza limature, questa signora, la coniatrice del preoccupato termine Eurabia, è abituata ad esprimere:

- «È possibile che ci siano musulmani che leggano il Corano diversamente da altri; che ci siano musulmani che provano a contestualizzare, che rigettano gli Hadit, quelli che dicono che certe cose andavano bene nel settimo secolo e non oggi. Loro possono anche integrarsi in queste nostre società laiche ed aperte, adottando i nostri valori. Ma dobbiamo dire che sono minoranza; non c'è un'organizzazione dove possano discutere e che li rappresenta; esprimono posizioni che alla fine sono individuali, ricevono minacce, sono considerati apostati e le leggi contro gli apostati, nel mondo islamico, sono più severe di quella contro gli infedeli».

- Signora, in Italia ci sono tanti musulmani che non creano affatto problemi, rispettano e riconoscono lo Stato; diverse loro organizzazioni fanno parte di una Consulta per l'Islam istituita per volere del ministero dell'Interno...
- «Beh, nello specifico non so cosa facciano, non posso esprimere giudizi su comunità che non conosco, ma trovo assolutamente normale che rispettino lo Stato. Hanno scelto di venire in Italia, altrimenti perché sarebbero venuti! Devono rispettare le leggi! Ma, vede, il problema è davvero nostro: siamo contenti quando loro non ci uccidono e questo è ridicolo! Non dobbiamo essere riconoscenti! Detto questo è un bene che ci siano musulmani che vogliono integrarsi nella società italiana, è un segnale forte e sa perché?»

- Dica.
- «Perché quello che fanno, in realtà, non sarebbe permesso dalla shari'a. Non sarebbe permesso accettare l'autorità di un non musulmano, non sarebbe permesso avere buone relazioni, di amicizia, di rispetto con i non musulmani... se loro hanno quest'atteggiamento, se rispettano le leggi degli italiani cristiani e di tutti gli altri... va benissimo. Ma sono peccatori, per la legge islamica tradizionale».

- In Italia, nei Paesi occidentali non c'è la legge islamica.
- «Nelle comunità musulmane di fatto c'è, è praticata. Ci sono perlomeno la poligamia, il matrimonio obbligatorio, la discriminazione delle donne, le mutilazioni dei loro genitali, per fare degli esempi. Ecco, queste cose in Europa non devono capitare, spesso sono illegali ma capitano lo stesso. È perché abbiamo fatto delle concessioni, viviamo in società aperte che non sappiamo difendere».

- Da chi?
- «Dall'islamismo, naturalmente».

- Lei crede che alla fine l'Europa diventerà musulmana?
- «Sì, se continueremo con queste politiche, col permettere l'immigrazione di massa, se avremo ancora le frontiere aperte, è sicuro che l'Europa diventerà musulmana. Si andrà sempre più nella stessa direzione che ha islamizzato Paesi che erano cristiani, quelli del sud del Mediterraneo».

- Parla di una specie di tentativo di colonizzare l'Europa?
- «Vede, per loro è un obbligo religioso islamizzare il mondo. Per restare all'Europa, nell'Unione Europea la popolazione musulmana è già molto numerosa e so che ci sono dei movimenti che pensano di costituire un partito dei musulmani europei».

- Che politica farebbero secondo lei?
- «Per sapere che cosa farebbero rimando alle letture di Khomeini o anche alle azioni di Ahmadinejad, oggi».

- Scusi, lei davvero pensa che in Europa, un giorno, si arriverà a impiccare gli omosessuali, a tagliare le mani ai ladri?
- «Sì, possibile. Spiego: la politica e la religione, nell'Islam sono inseparabili di concetto; nell'ebraismo e nel cristianesimo, invece, c'è la possibilità laica di criticare la religione e viceversa. Questo spazio di critica nell'Islam non c'è».

- Ma alcuni di loro giurano che c'è spazio per una politica moderata.
- «Debbono allora farla. Ma gli islamici sciiti hanno la Taqia, che permette loro di dire bugie se con il fine di fare del bene per l'Islam. E hanno anche un altro principio che mi viene in mente: "l'infedele non è puro e dunque non si deve toccarlo».

- Insisto: non c'è un Islam moderato?
- «Possono esserci dei musulmani moderati, ma no, non c'è un Islam moderato. Io non lo vedo proprio. Voglio credere che ci sia, che sia possibile ma purtroppo non c'è un Islam moderato, una sua scuola ufficiale».

- E quelli che vengono chiamati "Paesi islamici moderati"?
- «Ma di che parliamo? Di chi? In Egitto perseguitano i cristiani, gli ebrei sono stati tutti cacciati o sono scappati. Guardate quello che succede in Iran, in Iraq, in Sudan, in Nigeria... noi dobbiamo basarci sui fatti per fare politica, dobbiamo avere gli occhi aperti. Dobbiamo sapere che cosa dice la Sharia sugli ebrei, sui cristiani, sulle donne.... nel Corano Gesù non è un ebreo, è un profeta musulmano che ha predicato l'Islam. Per i musulmani dire il contrario è blasfemia».

- Sembra di capire che a suo avviso non c'è nemmeno una possibilità di dialogo.
- «Dipende. Con chi? Il problema è veramente grosso, fondamentalmente perché non c'è una esegesi del Corano».

- Lei, date le sue posizioni, avrà una gran paura...
- «Sono stata molto criticata, sono stata chiamata islamofobica. Quando un'università canadese mi ha invitata a parlare i musulmani di quel Paese hanno incredibilmente chiesto al governo di proibirmi di varcare la frontiera. In Francia anche chi non è musulmano ha boicottato i miei libri, come in Inghilterra. Poi sì, mi è capitato di essere stata spaventata ed è possibile certamente che qualcuno mi voglia fare del male, ma se non parliamo, non diciamo niente, diventiamo come dei morti e l'Europa sarà finita. Dobbiamo batterci con i musulmani europei che hanno scelto valori democratici».

(Il Tempo, 28 maggio 2008)





3. PENSARE EBRAICAMENTE




Dalla nuova rivista ebraica Turim

Un ascolto senza immagini

di Ilana Bahbout

Cosa vuol dire pensare ebraicamente? "In quanto ebrei" questa domanda sorge e ci insegue lungo l'arco della nostra vita, in maniera consapevole o inconsapevole, come sottofondo del nostro agire e pensare quotidiano o manifestandosi improvvisamente, anche solo come monologo interno, in circostanze inaspettate. È una domanda apparentemente semplice, comune, ma così complessa, a volte addirittura odiosa e imbarazzante, al punto di metterci facilmente in crisi perché ci catapulta in una miriade di altre domande e ci impone di fare i conti con un'identità tutt'altro che definita e monolitica.
    Arriva sempre un momento in cui "il mondo" ci chiede di dire qualcosa, nostro malgrado, "in quanto ebrei": a scuola, a lavoro, quando viaggiamo, leggiamo i giornali o un libro, di fronte a una domanda di un amico... E mai come oggi ci si può sottrarre a questo appello, in un tempo e in una società in cui gli ebrei sono chiamati a dire la loro, senza il ricatto di un'Inquisizione.
    E quindi cosa vuol dire pensare ebraicamente? Cosa vuol dire porsi come ebrei di fronte ai problemi che il mondo ci offre ogni giorno? Forse significa pensare cosa sia giusto o sbagliato, permesso o proibito, incluso o escluso rispetto a quell'insieme di norme, usi e cultura che chiamiamo "tradizione ebraica"? Mhm... non credo, no; ma rispondere non è facile. E infatti, fermiamoci un attimo.
    Ancora prima della risposta, facciamo un passo indietro e rimaniamo sulla domanda. Cosa significa "pensare" "ebraicamente"? E che senso si danno a vicenda i due termini?
    Pensare è prima di tutto un modo di porsi, un rapporto rivolto alle cose e agli eventi che incontriamo, è aprire uno spazio a una domanda che riguarda qualcosa. Rimaniamo qui allora. Pensare non è incasellare, etichettare e guardare all'altro come qualcosa cui dare una definizione, da comprendere immediatamente dentro le proprie categorie, ma è prima di tutto un relazionarci; pensare somiglia molto di più a quell'atto che si esprime in quella formula talmudica così familiare, vitale e quasi divertente del de salka datach ovvero "se ti salta in mente", espressione che indica concretamente l'incontro originario con una cosa e un problema che si pongono sempre come esterni e catturano la nostra attenzione.
Pensare diventa allora relazionarci e fare spazio, stare con il problema e attendere le sfumature, le luci e le ombre che questa nuova conoscenza può assumere, per porci solo successivamente la domanda di quale posto assumano queste relazioni con la varietà dei discorsi rabbinici e con il codice normativo tradizionale.
    Così è nella Mishnà, dove i rabbini si chiedono via via come i singoli casi vadano pensati rispetto alla legge. Un esempio significativo è quello dell'androghinos di cui si discute il fatto se abbia l'obbligo, come l'uomo, di recare le primizie al tempio di Gerusalemme, avendo una sessualità non definibile (se sia maschio o femmina o addirittura un terzo genere): alla fine i rabbini decidono che questi le debba portare senza leggere la "dichiarazione delle primizie". Questo esempio, per certi versi anche attuale, mostra quanto siano presenti tutti gli elementi: la legge data e i casi reali ai quali i rabbanim non si sottraggono e che, pensandoli, accolgono in uno spazio.
    E di fatto, nella nostra quotidianità, come si può tradurre questo modo di porsi? Forse prima di tutto nel sospendere, anche solo per un attimo, il nostro giudizio di fronte ai singoli quesiti, nell'accantonare le formule codificate che derivano da esperienze già date, nell'andare oltre gli stereotipi immaginari e scavalcare quella logica degli insiemi chiusi da cui si è esclusi o inclusi e con cui il tutto e il particolare vengono inglobati in una conoscenza onnicomprensiva, dove tutto torna o lascia fuori. Secondo questa modalità ha pensato chi ha fatto dell'antisemitismo una declinazione del proprio pensiero, agendo secondo pregiudizi e stereotipi e dando voce alle immagini di un ebreo fantasticato e inesistente, falsificando la storia perché incapace di porsi in ascolto.
    Così, seguire la logica delle coordinate del dentro o fuori e dalle definizioni prive di uno spazio relazionale originario, significa far prevalere, a mio avviso, la logica di chi ci ha voluto opprimere, quella di un "ghetto" da cui siamo sopravvissuti grazie alla nostra ricchezza e di cui giustamente ricordiamo e portiamo le ferite, ma dalla cui interiorizzazione dobbiamo fuggire, se non vogliamo che diventi un modello operativo che porti alla devitalizzazione.
    Come ebrei dovremmo far sì invece, per usare un gergo di Lévinas, che l'altro rimanga altro, almeno per quel tanto che ci possa indurre a pensare, ovvero a creare uno spazio di attesa, di curiosità, di domanda, prima ancora del dialogo e in cui riconoscere e percepire l'altro come semplice esistente cui volgiamo il nostro ascolto. Un ascolto insomma fatto di attese e per questo, per dirla biblicamente, senza immagini. Comparirà allora una realtà diversa con cui fare i conti di volta in volta.
    Proprio così, una realtà: una realtà in carne e ossa, che parla, sussurra, urla, ride, piange, gioisce, soffre, è silente, ci guarda... e che per questo, in virtù di questa vitalità, si scopre nella sua molteplicità e incredibile rivelazione!
    Approcciare senza immagini al pensiero e alla conoscenza, facendo così risuonare anche uno dei dieci comandamenti, diventa allora una grande ricchezza, tutt'altro che inutile.
    E se da semplici profani curiosi andiamo a vedere bene, la Torà e il Midrash ci narrano questa ricchezza attraverso le vicissitudini del rapporto tra D-o e il popolo ebraico: un rapporto che si costruisce su domande, promesse, silenzi e incertezze, e dove difficilmente è possibile riconoscere un percorso predefinito e ideale.
    In queste narrazioni, a manifestarsi è prima di tutto il prezzo e lo sforzo che chiede la relazione: il volgerci all'altro senza direzioni predefinite, senza una legge che già si conosce. Queste storie raccontano sempre dei cambiamenti, delle dinamiche inaspettate in cui difficilmente il punto di arrivo è analogo al punto di partenza e dove anche le idee e i desideri pensati, immaginati ed espressi da D-o, se così si può dire, dovranno spesso fare i conti con i limiti e le qualità di quell'uomo che in quel momento e in quel luogo si trova a incontrare. Così D-o discute con Abramo circa le sorti di Sodoma e, con Mosè, sembra cambiare idea più volte sull'opportunità di mandare una piaga; pone il Tabernacolo come risposta al vitello d'oro, ascoltando un bisogno del popolo che chiedeva una maggiore presenza; concede, sotto richiesta, l'elezione di un re d'Israele ai tempi di Samuele e così via.
    Storia, legge e identità ebraiche si trovano così a costruirsi in questo

rapporto fatto di aspettative e richieste, le quali tentano un punto di incontro in uno spazio intermedio.
    Spero allora che in questa rivista come già altrove, approdi questo spirito e che, tra incontri e scontri, si possa aprire quello che ho chiamato, pensando ebraicamente, un ascolto senza immagini.

(Newsletter di Morasha.it, 28 maggio 2008)





4. GLI ULTIMI EBREI DI BAGDAD




"Eravamo 130mila, siamo rimasti in sette"

di Gian Micalessin

Negli anni Cinquanta erano una comunità numerosa, poi il grande esodo. Ora uno dei sopravvissuti si racconta al New York Times: "Cerchiamo di uscire il meno possibile: due anni fa uno dei nostri è scomparso nel nulla. Pochi sono al corrente della mia fede".

Sono gli ultimi sette. Sette foglie d'autunno. Sette ebrei nella città dell'odio e della paura. Sopravvivono a Bagdad protetti da una cortina d'amicizie e complicità, ma sono prede ricercate, obbiettivi designati dal destino sempre più incerto. Mezzo secolo fa erano 130mila. Centomila presero il largo durante il grande esodo verso Israele degli anni cinquanta. Si ritrovarono in qualche centinaio negli anni 80. Sono rimasti in sette dopo il 2003 quando gli emissari dell'agenzia ebraica hanno trasferito in tutta fretta chi voleva emigrare in Israele.
     Per trovarli, per comunicare con loro, l'inviato del New York Times che ha raccontato la loro storia sul quotidiano della Grande Mela ha impiegato mesi. Ha dovuto superare i sospetti, le ritrosie e le paure di chi teme di firmare la propria condanna a morte anche comunicando attraverso intermediari.
     La prima lettera è il risultato d'interminabili trattative. In quel bigliettino - ricevuto dopo un giro vizioso di contatti - uno dei sette ultimi ebrei di Bagdad si descrive come il «rabbino, il responsabile della macellazione in città e uno dei leader di tutta la comunità ebraica in Irak». Sono cariche senza significato. Da solo quell'ultimo manipolo semita non basta neppure a recitare il rito dei morti, neppure, potendo farlo, a leggere in pubblico la Torah o a portare a termine le funzioni che richiedono la presenza di almeno dieci fedeli. Poco importa. Agli ultimi giudei di Bagdad è rimasto poco da celebrare. «Cerchiamo di uscire il meno possibile, recitiamo tutte le nostre preghiere dentro casa, l'ultima sinagoga della città è chiusa dalla fine della guerra e riaprirla significherebbe trasformarla in un obbiettivo», spiega il rabbino nei bigliettini indirizzati al New York Times di Bagdad e firmati con lo pseudonimo «nipote di Saleh». Quel soprannome è una necessità perché il nome di suo padre, un ebreo 87enne fuggito in Israele nel 2003 è troppo conosciuto e basterebbe ad identificare gli amici e i vicini che vegliano sulla sicurezza del rabbino.
     Il «nipote di Saleh» è un quarantenne ex venditore di automobili, proprietario di una casa spaziosa in una zona residenziale della capitale. Ma è una cella di lusso. L'impossibilità di girare, il rischio di esporsi l'hanno costretto a rinunciare a qualsiasi vera attività. È andata così anche a gran parte dei sopravvissuti più anziani. Gli unici due che continuano a cavarsela, sostiene il rabbino, sono «due anziani dottori che continuano a esercitare la propria professione».
     Tra i sette superstiti i legami sono ridotti al minimo. «Ci vediamo e c'incontriamo solo se è veramente necessario, solo se bisogna aiutarsi, se muore qualcuno o se si presenta la necessità assoluta di discutere insieme qualcosa d'estremamente importante». Ma anche quella solidarietà è ristretta, confinata alla cerchia degli ultimi sette. «Ci prendiamo cura - specifica il "nipote di Saleh" - soltanto della nostra comunità ebraica, non di chi è ebreo a metà o in parte». Anche seguendo queste precauzioni gli ultimi sette semiti rischiano la vita ogni qualvolta mettono piede fuori casa. Sulle loro carte d'identità, come su quelle di tutti gli iracheni, è indicata la religione d'appartenenza. E quella ebraica equivale a una condanna a morte. L'unica soluzione è «non spingersi mai troppo lontani dai propri quartieri», non abbandonare mai le strade dove tutti ti conoscono e, se possono, ti proteggono.
     La paura di un'ultima definitiva persecuzione risale a due anni fa quando, racconta il «nipote di Saleh», un correligionario benestante e di mezza età svanisce nel nulla. «Ancora oggi - spiega - non sappiamo nulla di lui, non abbiamo capito se sia stato preso perché era ebreo, perché era facoltoso o se più semplicemente sia sparito nel nulla come centinaia di altre persone in questa città».
     Né il «nipote di Saleh», né gli altri sei hanno però mai voluto dare ascolto ai discreti messaggi indirizzati loro dall'Agenzia ebraica pronta, come fanno sapere da Gerusalemme i suoi esperti, a organizzarne l'immediato trasferimento in Israele. «Sono orgoglioso di essere ebreo, non ho nulla di cui vergognarmi e non vivo nascondendomi», risponde il «nipote di Saleh» quando il giornalista del New York Times gli chiede perché lui e i suoi amici non abbiano mai accettato quelle offerte. Ma quando gli viene chiesto di descrivere le proprie speranze e i propri sogni il rabbino cede, confessa di sentirsi un uomo segnato. «Per me qui non c'è più futuro, non posso sposarmi perché non ci sono donne ebree, non posso neanche coprirmi la testa con la kippah quando esco... se vivessi altrove potrei celebrare le feste, stare con la mia gente e recitare le preghiere alla sinagoga, qui no, qui siamo soli, soli e senza alcun futuro».

(Il Giornale, 2 giugno 2008)





5. UNA GUERRA ORMAI ANNUNCIATA?




Libano: brutti segnali per Israele (e per Unifil).
Forze Qods iraniane nel sud del Paese

di Miriam Bolaffi

Secondo il presidente della Camera libanese e membro di Hezbollah, Nabih Berri, a Dhoa (Quatar) dove sono in corso i colloqui tra le varie fazioni libanesi, regna un clima sereno e si sarebbe vicini alla costituzione di un Governo di unità nazionale. In pratica potremo "finalmente" vedere Hezbollah al governo nonostante sia in minoranza ma soprattutto che sia un gruppo terrorista.
    In pratica il colpo di Stato di Hezbollah in Libano è perfettamente riuscito e ora non avranno più nessun ostacolo nell'organizzare l'attacco a Israele tanto voluto da Iran e Siria. I segnali già ci sono da diversi mesi ma negli ultimi giorni si sono moltiplicati, soprattutto nel sud del Libano, laddove cioè ci dovrebbe essere Unifil a scongiurare questa ipotesi, ma dove però in effetti proprio Unifil è materialmente assente, almeno nelle zone lontane dalla costa.
    Infatti, se due settimane fa veniva segnalata una notevole attività di Hezbollah nelle zone di Mazra at al Hmra e di Yuhmur, quindi a nord del fiume Litani anche se proprio a ridosso della zona di competenza di Unifil, da diversi giorni viene segnalata la presenza di miliziani armati nelle zone di Al Qusayr e di At Tayyibah, quindi a sud del fiume Litani, presenza accompagnata da mezzi semoventi dotati di lanciatori multipli per razzi katiuscia. Se Hezbollah sta riposizionando i suoi lanciatori a portata del territorio israeliano non è di certo un buon segno.
    Tuttavia, sebbene questa sia una brutta notizia, il fatto che più fa pensare ad un prossimo inizio delle ostilità verso Israele è la segnalazione secondo la quale nei giorni scorsi la zona sarebbe stata visitata da un gruppo di pasdaran iraniani guidati da un certo Nozari, il quale, a meno di una improbabile omonimia, altri non sarebbe che il comandante della caserma Imam Ali, uno dei maggiori centri di addestramento iraniani dove vengono addestrati i futuri membri delle forze Qods, in pratica un gruppo di terroristi non iraniani specializzati in operazioni clandestine e in omicidi mirati. La presenza di Nozari nell'area non può che far pensare ad un prossimo utilizzo delle forze Qods e la cosa non è decisamente un segno positivo.
    D'altro canto sono mesi che l'Iran sta lavorando a questo conflitto e nel momento in cui il Governo Libanese ha provato a fare una minima mossa per bloccarlo, immediatamente Hezbollah ha fatto vedere di cosa è capace, prendendo sostanzialmente il controllo armato del Paese.
    Rimango purtroppo dell'idea, nonostante le belle parole del neo Ministro della Difesa italiano, Ignazio La Russa, che Unifil potrebbe e dovrebbe fare di più per fermare quella che ormai è una guerra annunciata. In caso contrario sarebbe il caso di pensare seriamente al ritiro, prima che si scateni l'inferno.

(Liberali per Israele, 2 giugno 2008)





6. A GAZA AUMENTANO GLI ATTACCHI CONTRO I CRISTIANI




E' tutto riconducibile a Hamas

Nella Striscia di Gaza vivono 3500 cristiani, quasi tutti nei quartieri di Zeitun, al-Daraj e Sheikh Radwan. La maggior parte di loro è costituita da professionisti o commercianti; le loro condizioni socio-economiche sono considerate al di sopra della media locale. Quello che non tutti sanno è che, sotto Hamas, la piccola minoranza cristiana vive nella paura quotidiana e preferisce tenere sotto tono le festività religiose e culturali; alcuni di loro stanno pianificando di abbandonare Gaza.
    Ma non sono gli unici a cadere nel mirino dell'intolleranza e dell'odio. Persino le istituzioni cristiane o culturalmente occidentali sono prese d'assalto dai fondamentalisti islamici, alcuni dei quali affiliati alla jihad internazionale che, com'è noto, cerca d'impedire l'influenza di idee occidentali e d'implementare rigidi codici islamici sulla vita quotidiana.
    Tali istituzioni servono pure come bersaglio per le proteste contro quelli che vengono considerati insulti all'Islam, come le vignette danesi.
    Nella Striscia di Gaza aumentano gli attacchi contro i cristiani e le istituzioni che s'identificano con l'Occidente. Hamas, che controlla l'entità radicale islamica nella Striscia, condanna a parole gli attacchi ma non fa nulla di concreto per fermarli. Ci si riferisce a: scuole cristiane e delle Nazioni Unite, The American International School, biblioteche, internet café. Recentemente sono esplose bombe nei pressi un convento di suore e di un ristorante fast-food.
    L'atteggiamento di Hamas verso gli attacchi è contraddittorio. Da una parte Hamas mira ad imporre sui residenti di Gaza uno stile di vita in linea con i dettami dell'Islam e ad ostruire l'influsso di idee occidentali. Gli attivisti di Hamas ad alto livello istigano i residenti contro il cristianesimo e contro l'Occidente. Dall'altra parte Hamas istituisce commissioni d'inchiesta ed esprime a parole solidarietà alla comunità cristiana. La verità è che sul piano pratico Hamas preferisce non confrontarsi con gli elementi islamici fondamentalisti. Sinora non si sa se gli autori di un qualsiasi attacco siano mai stati catturati e processati. A giudizio di attenti osservatori, l'assenza di un intervento concreto da parte di Hamas incoraggia gli elementi radicali e consente che gli attacchi continuino. Sotto questo aspetto, è tutto riconducibile a Hamas.

(ICN News, 3 giugno 2008)





7. L'IMMIGRAZIONE IN ISRAELE DI EBREI MESSIANICI




Si è cantato vittoria troppo presto?

di Johannes Gerloff

Nella seconda metà di aprile il mondo cristiano ha esultato: ebrei che credono in Gesù possono immigrare in Israele. Il Tribunale Supremo dello Stato d'Israele, in una contesa tra dodici ebrei messianici e il Ministero degli Interni israeliano, aveva deciso di non decidere [ved. Notizie su Israele 422]. Il Ministero degli Interni, che fino a quel momento aveva rifiutato di riconoscere il diritto di cittadinanza israeliana ai nuovi immigrati credenti in Gesù, aveva dato luce verde per la concessione della cittadinanza a ebrei messianici. L'atto compare sotto la dizione "Ricorso contro il Ministero degli Interni".
    Ma le furbizie da contadini sul piano giuridico possono alla lunga rivelarsi come strategica stupidità. Forse il silenzioso ritiro del Ministero degli Interni, da sempre dominato dagli ebrei ortodossi, aveva i suoi buoni motivi. Non sarebbe del resto la prima volta che in Medio Oriente qualcuno grida vittoria mentre il vero vincitore della battaglia si adatta in tutta calma ad assumere la parte del perdente per poter godere poi indisturbato il frutti della sua vittoria. Che probabilmente sia questo il caso nella questione del "Ricorso contro il Ministero degli Interni", lo fanno pensare le considerazioni espresse dallo storico Zvi Sadan in un articolo della rivista ebreo-messianica in lingua ebraica "Kivun", di cui è l'editore.
    Ma veniamo anzitutto ai retroscena. Ha diritto di immigrare nello Stato d'Israele chi può dimostrare di essere ebreo secondo la legge rituale, la "Halacha", cioè chi ha una madre ebrea o si è convertito all'ebraismo secondo il rito ortodosso. Dopo il cosiddetto procedimento "The Oswald Rufeisen / Brother Daniel Case" () del 1962 il Ministero degli Interni, vale l'aggiunta "e se il richiedente non si è convertito a un'altra religione". Un'altra sentenza del Tribunale Supremo che risale al 1989, e porta il nome "Beresford", stabilisce che secondo il diritto israeliano gli ebrei messianici sono da considerarsi membri di un'altra religione che hanno cambiato liberamente la loro appartenenza religiosa.
    La cosiddetta "Legge del ritorno" dello Stato d'Israele allarga un poco il quadro degli aventi diritto all'immigrazione. I fondatori dello Stato d'Israele volevano garantire il diritto d'asilo a tutti coloro che erano stati perseguitati dai nazisti a causa della loro origine ebraica. Si arrivò così al paradosso che la definizione di ebraicità delle leggi razziali di Norimberga del 1935 ha trovato accoglienza nella legislazione dello Stato d'Israele. Secondo la legge del ritorno, ha diritto di immigrare in Israele chi può dimostrare di avere almeno un nonno ebreo, anche se non è ebreo secondo la definizione halachica.
    Dieci dei dodici ebrei messianici che hanno fatto ricorso contro il Ministero degli Interni sono in realtà di origine ebraica, ma non sono ebrei secondo la definizione halachica. L'argomentazione dei loro avvocati ha sottolineato il fatto che loro, in quanto non ebrei, non potevano convertirsi dall'ebraismo. Di conseguenza la loro fede in Gesù come Messia d'Israele non è rilevante ai fini della loro immigrazione in Israele. Soltanto la loro origine ebraica dà loro il diritto, nel quadro delle disposizioni della legge del ritorno, alla cittadinanza israeliana.
    L'atteggiamento conciliante del Ministero degli Interni nel caso del ricorso ha portato a questo: nonebrei messianici che sono di origine ebraica possono immigrare in Israele. Ma ebrei messianici, cioè "autentici" ebrei che confessano Gesù di Nazaret, non possono, esattamente come prima, immigrare, ma di diritto sono considerati come traditori della loro religione.
    Il dr. Zvi Sadan arriva alla conclusione che la recente sentenza del Tribunale riguardo agli ebrei messianici rappresenta, è vero, un certo "successo", ma che in conclusione la dichiarazione sottintende che gli "ebrei messianici" non sono veri "ebrei". Gli ebrei messianici del ricorso si sono comprati - così si esprime Sadan - la cittadinanza israeliana al prezzo della rinuncia alla loro ebraicità.
    Ma poiché gli ebrei messianici in Israele stanno combattendo per essere riconosciuti, di fatto e di diritto, come "autentici ebrei", il ricorso contro il Ministero degli Interni deve essere considerato, nel migliore dei casi, un autogol tattico. Perché questa decisione conferma il giudizio del 1989 che gli ebrei messianici non sono ebrei, ma appartenenti a un'altra religione, e questo con l'applauso del mondo cristiano ed ebreo-messianico.
    Ma nel peggiore dei casi questo accordo sulla questione della posizione degli ebrei messianici nello Stato ebraico d'Israele potrebbe essere stato ottenuto sulla base di una dichiarazione falsa davanti al Tribunale. Resta da vedere se anche in futuro si presenteranno come "gentili messianici di origine ebraica e cittadinanza israeliana" o - come Zvi Sadan teme - questo gruppo di ebrei messianici ha trasgredito il comandamento biblico "Non dire falsa testimonianza contro il tuo prossimo" (Esodo 20:16).

(Israelnetz Nachrichten, 4 giugno 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





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