1. UN'EBREA MESSIANICA ALLA GARA BIBLICA
La "figlia di Dio" e i quiz biblici
di Aviel Schneider
Anche se la diciassettenne Bat-El Levi non ha vinto il primo premio nell'«International Bible Quiz» in Gerusalemme, una vittoria tuttavia l'ha ottenuta, perché la semplice partecipazione alla gara di un'ebrea messianica è un fatto sensazionale. La cosa ha provocato veementi minacce di boicottaggio da parte di rabbini ortodossi. Ma la ragazza ha trovato anche dei sostenitori. Né il Ministero dell'Educazione, né il Governo hanno ceduto alle richieste dell'organizzazione antimissionaria Jad Le' Achim, la quale pretendeva che Bat-El (il nome significa "Figlia di Dio") fosse squalificata a causa della sua fede in Gesù.
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Un incontro delle autorità israeliane con i partecipanti alla gara biblica. L'ebrea messianica Bat-El Levi è la ragazza con la blusa rossa dietro il Presidente Shimon Peres. |
"La popolazione nazionale religiosa, con tutti i suoi svantaggi, non ha tuttavia alcun automatismo. Ciascuno può decidere da solo", ha dichiarato il commentatore religioso Uri Orbach nel suo articolo su Ynet, alludendo alla partecipazione di Bat-El alla gara di quiz biblici. "E' successo allora che nessun candidato religioso ha rinunciato alla sua partecipazione. Le minacce rabbiniche sono andate a vuoto". Anche se Orbach ha presentato Bat-El come "piccola figlia di missionario", è convinto tuttavia che gli ebrei secolari di Israele hanno molto meno conoscenza biblica degli ebrei religiosi. Nel «National Bible Quiz» della scuola statale d'Israele Bat-El ha raggiunto il primo posto e si è qualificata così per l'«International Bible Quiz» che si è svolto nel Giorno dell'Indipendenza e a cui erano presenti come ospiti d'onore il Primo Ministro Ehud Olmert e il Ministro Yuli Tamir.
In totale hanno preso parte alla gara 63 giovani provenienti da tutte le parti del mondo. Quattro di loro rappresentavano Israele. Hanno trascorso insieme 17 giorni in campi per quiz biblici in diverse parti d'Israele, per conoscere il paese e prepararsi insieme alle difficili domande bibliche. «Un giorno prima del Training gli organizzatori sono venuti a sapere che credo in Gesù. Mi hanno chiesto se sono un'ebrea messianica e se credo alla Torah, cosa che naturalmente è vera», ha detto Bat-El a israel heute. «Ho risposto a tutte le loro domande. Mi hanno trattato con cortesia e non hanno avuto niente da obiettare alla mia partecipazione al Bible Quiz.»
Gli altri candidati stranieri e israeliani erano diventati curiosi. Un'ebrea che crede in Gesù? Volevano capire. «Alcuni di loro erano scioccati. Altri mi schivavano. Ma quello che ci univa era l'amore per la Bibbia. Qualcuno ha perfino preso le mie parti», ha aggiunto Bat-El. Ha sottolineato comunque che i candidati non avevano nessun problema ad avere tra loro una credente in Gesù e quindi nessuno ha rinunciato alla partecipazione. «Sono riuscita ad arrivare tra i primi 16. Al successivo turno, in cui si qualificano soltanto 8 candidati, gli altri erano semplicemente più bravi di me», ha ammesso sorridendo Bat-El. «La giuria in parte la conoscevo già. Sono stati corretti con me. Non mi hanno fatto domande particolari né hanno tentato di manipolarmi con qualche forma di mobbing perché credo in Gesù.» Bat-El ha dimostrato ai suoi compagni che nonostante la sua fede in Gesù lei non è una straniera nel popolo ebraico, e questo ha tranquillizzato gli altri candidati e gli organizzatori. «In me non hanno visto una straniera in mezzo al popolo, ma un'ebrea che si distingue da loro soltanto per il fatto che crede in Gesù come il Messia.» Bat-El ha altri sei fratelli. E' la seconda figlia di Jitzchak e Ruth Levi.
Con la sua partecipazione ha portato il Messia un po' più vicino al popolo. Il suo esempio personale e la sua conoscenza biblica hanno fatto sì che nessuno fosse disturbato dalla sua fede in Gesù. E questo ha spuntato tutte le calunnie e gli appelli al boicottaggio da parte dei rabbini ortodossi. La testimonianza di fronte a tutto il popolo è stata quindi molto più grande di quanto avrebbe potuto fare una costosa campagna di evangelizzazione.
(israel heute, giugno 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)
2. AMOS OZ E LA SUA TERRA
Amos Oz: Il mio deserto ride dei politici
di Valeria Gandus
Una terra tormentata, due grandi scrittori e una cantante amata in tutto il mondo: la serata dedicata a «Israele e la forza degli elementi (terra e acqua)» è un appuntamento da non perdere il 28 giugno alla Milanesiana, rassegna che porta a Milano grandi nomi della letteratura, della musica e del cinema (riquadro a pagina 150). Elie Wiesel, premio Nobel per la pace, e Amos Oz, uno dei massimi scrittori viventi, parleranno della loro terra sacra e insanguinata, ricca di storia e dal futuro incerto. Ad accompagnare le loro parole le note del musicista italiano Fabio Vacchi e della cantante israeliana Noa. A leggere il testo preparato per l'occasione da Oz sarà Moni Ovadia. Durante la serata Amos Gitai presenterà il film Disimpegno. Panorama ha intervistato in anteprima Oz (il suo ultimo romanzo, La vita fa rima con la morte, è uscito da poco per la Feltrinelli) sul tema: la terra e l'acqua d'Israele.
- Che rapporto ha con la terra?
- Ho vissuto gran parte della mia vita in campagna, prima in un kibbutz e poi, da molti anni, qui ad Arad, nel deserto del Negev. Anche quando da ragazzo vivevo in città, a Gerusalemme, stavo molto vicino alla campagna. Per me è importantissimo camminare all'aperto: quando mi capita di stare in una città e di non poter fare le mie passeggiate, soffro di claustrofobia. Io devo vivere all'aperto, camminare, lo faccio quotidianamente, è una parte essenziale della mia giornata: mi alzo alle 5, bevo una tazza di caffè ed esco a passeggiare nel deserto, che sta a 5 minuti da casa mia. Cammino per mezz'ora, 40 minuti: il tempo necessario a mettere ordine nei miei pensieri.
- E il rapporto con Eretz Yisrael, la terra d'Israele?
- Fin da bambino ho sempre amato questo paese, le sue montagne, il mare, il deserto. Amo l'estrema varietà del suo paesaggio: c'è la Galilea, che assomiglia un po' all'Italia, e c'è Gerusalemme, che assomiglia a Gerusalemme e a nient'altro nel mondo. C'è la costa, che è tipicamente mediterranea e ricorda l'Europa, per esempio la Grecia, e c'è il deserto del Negev, che sembra l'Africa.
- La sua famiglia d'origine, immigrata in Palestina fra le due guerre, è sempre rimasta profondamente europea. Lei, invece, a 15 anni ha ripudiato il suo cognome europeo (Klausner) trasformandolo in Oz, che in israeliano vuol dire forza. Ha dunque reciso le sue radici europee?
- Al contrario dei miei genitori, io mi sento profondamente israeliano. Loro vennero cacciati violentemente dall'Europa negli anni Trenta, ma non per questo cessarono mai di sentirsi europei. Dell'Europa continuarono ad amare l'atmosfera, le foreste, i fiumi, i palazzi antichi, l'architettura. Per me è diverso: sono affascinato dall'Europa, ma non sono più europeo. Il legame forte è con la mia terra, i suoi paesaggi, il suo deserto.
- Il deserto ritorna spesso nei suoi pensieri e nelle sue pagine: In «Mai dire notte» è un personaggio essenziale. Che cosa rappresenta per lei il deserto?
- Il deserto sta lì, a infondere profondissima pace e serenità. È qualcosa che ti rende piccolo, umile: quando sento i politici che usano le parole mai o per sempre, o eternità, mi immagino le pietre del deserto che ridono di loro.
- Il conflitto con i palestinesi è fatto di terre perse, terre riconquistate, terre occupate: lei pensa che possa davvero risolversi con una definitiva spartizione di terre? Pace in cambio di territori?
- Non c'è altra soluzione, perché i palestinesi vivono in Palestina e non hanno altra terra dove vivere, e gli israeliani vivono in Israele e non hanno altro posto dove andare. Il territorio deve essere diviso in due paesi. Non è una cosa così strana: è come dividere un appartamento a metà per farci stare due famiglie.
- Un piccolo appartamento, come piccola è questa terra, in gran parte desertica, con poca acqua. E l'acqua è una risorsa essenziale per lo sviluppo di qualunque paese.
- È vero, non c'è abbastanza acqua in Medio Oriente, e nemmeno in Israele. Ma è un problema che può essere risolto: non con una guerra per l'acqua, come si paventa, ma dissalando quella del mare. In Israele ci sono diversi progetti in questo senso, economicamente molto più convenienti di qualsiasi guerra per l'acqua. Al costo di una guerra potremmo dissalare l'intero Mediterraneo e poi metterci zucchero e limone e trasformarlo in un'enorme tazza di tè.
- C'è un altro problema legato all'acqua: quello dell'accesso al mare per il futuro stato palestinese, se mai ci sarà.
- Infatti non basta dividere la terra ma bisogna anche creare un corridoio per collegare con strada e ferrovia la Cisgiordania a Gaza e dare ai palestinesi l'accesso al Mediterraneo. Anche qui non ci sono altre opzioni: bisogna farlo e basta. Non so quanto tempo ci vorrà, ma il destino è uno solo: due popoli e due stati e per entrambi l'accesso al mare.
- Il suo ultimo romanzo, «La vita fa rima con la morte», spiega la nascita del processo creativo, sembra quasi che abbia voluto mettere a nudo la sua arte così come, in «Una storia d'amore e di tenebre», aveva messo a nudo la sua vita. È così?
- Nel romanzo racconto 8 ore nella vita di uno scrittore che è invitato a una lettura pubblica in un club di Tel Aviv. Un lasso di tempo nel quale egli trasforma ogni cosa in una storia: tutto ciò che egli tocca, vede e ascolta diventa racconto. Spiego come la vita diventa trama.
- Di più: svela i suoi segreti di scrittore.
- Sì, con un sorriso spiego come vita e narrazione si intreccino continuamente: in ogni giorno della vita c'è un evento, un suono, un incontro magari casuale in un caffè, da cui può nascere una storia.
- A proposito di creatività, che cosa potrebbero inventarsi, israeliani e palestinesi, per uscire dall'impasse in cui sono pietrificati? Lei parla sempre della necessità di lottare contro i fanatismi e applicare l'arte del compromesso. Ma sembra così difficile per i politici avere buon senso. Ha ancora fiducia nel futuro?
- Nel profondo del loro cuore sia gli israeliani sia i palestinesi sanno che la terra deve essere spartita: quello di cui ora hanno bisogno è una leadership coraggiosa per entrambi gli stati. È come se ci fosse un paziente pronto per essere sottoposto a un intervento chirurgico, non esattamente felice di andare sotto i ferri, ma preparato a quel che deve accadere. Mentre i medici non lo sono, non hanno il coraggio di fare quell'operazione. Ecco, c'è un problema di leadership: i medici delle due parti devono trovare il coraggio di tagliare, di dividere.
- Ma i medici, quelli almeno ci sono?
- All'orizzonte, purtroppo, non se ne vedono ancora.
(Panorama, 21 giugno 2008)
3. EBREI IN ITALIA
La presenza ebraica a Terracina
di Francesco Tetro
La presenza ebraica a Terracina è molto antica, si ha notizia infatti che Gregorio I Magno, papa dal 540 al 604, raccogliendo le suppliche degli ebrei locali, ordinò a Pietro, il vescovo di quella città, di far riaprire la Sinagoga, da lui chiusa con il pretesto che i canti degli Ebrei disturbavano le funzioni cristiane. E' evidente che il loro luogo di culto doveva essere molto vicino alla Cattedrale di S. Cesareo.
Il papa Gregorio I Magno condannò l'intolleranza del vescovo terracinese, che di fatto, a suo dire, allontanava gli ebrei dal suo progetto di conversione, come era riuscito a fare cristianizzando i Longobardi e gli Anglosassoni. Gregorio I Magno, che a Roma sostituì l'autorità papale a quella bizantina, incaricò pertanto il vescovo di Fondi, trascurando Pietro, il vescovo di Terracina, di attivarsi per reperire un locale adatto da concedere agli Ebrei come nuovo luogo di preghiera. Tale locale o edificio pare si trovasse vicino alle «Case Scirocchi», un po' più lontano dal Foro e dalla Cattedrale, ma sempre prossimo alla via Appia, che allora era la via commerciale più importante, quella che garantiva i contatti tra il nord romano e il sud napoletano.
Successivamente gli Ebrei di Terracina furono particolarmente protetti da papa Pio II, l'umanista Enea Silvio Piccolomini, che, dopo il 1492 invitò i terracinesi ad accogliere benevolmente gli ebrei fuoriusciti dal napoletano, per i prestiti che i nuovi banchi avrebbero potuto erogare alla città, provata com'era dalle guerre, e soprattutto per le strutture portuali che risultavano quasi del tutto distrutte.
E così fu fino alla metà del XVI sec.. Dopo la loro cacciata da tutti i paesi dei possedimenti pontifici si ha però notizia che, comunque, fino a tutto il '700, venne concesso ai mercanti ebrei di risiedere a Terracina per qualche giorno, in occasione di fiere e mercati. A Fondi invece risiedeva forse la più antica comunità ebraica del Lazio meridionale, apparteneva infatti all'età imperiale un'iscrizione funeraria latina, purtroppo trafugata durante l'ultimo conflitto, sulla quale era inciso il candelabro a sette braccia (la menorà) e la parola «shalom» in lettere ebraiche. Nella città ausona, posta com'era sulla via Appia, al confine tra lo Stato Napoletano e quello della Chiesa, e soprattutto vicina ai due porti di Terracina e di Gaeta, viveva una fiorente comunità ebraica, tant'è che nel XIII sec. la tassazione della «Judaica», il quartiere addossato all'antica cinta difensiva romana, in prossimità della Portella, e dagli ebrei abitato, veniva attribuita dalla Casa Regnante Angioina al vescovo locale.
Sotto i Caetani, nel clima culturale e di rinnovamento edilizio che investì la città, l'incentivazione delle attività economiche si deve proprio agli ebrei che, dediti soprattutto alla tessitura e alla tintura (si ritiene superassero le 150 unità produttive), di fatto si specializzarono proprio in tale tipo di attività.
Anche sotto gli Aragonesi i rapporti con il potere furono buoni, tant'è che Alfonso d'Aragona esentò «i Giudei» dal pagamento di alcune tasse.
Nel 1495 si ha notizia ancora di qualche nucleo familiare, ma nel 1517 i fondani chiesero ai Colonna, i nuovi Signori dopo i Caetani, di poter acquistare le case e la Sinagoga, considerato il fatto che gli ebrei da tempo
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erano definitivamente partiti dalla città.
La Sinagoga è da identificare con la cosiddetta «Casa degli Spiriti», nei pressi della Piazza dell'Olmo Perino o con una delle case disposte intorno ad una corte, recentemente restaurate e dove sarà allestito un museo dedicato a quella fiorente comunità, il primo nel Lazio dopo quello romano.
(Il Tempo, 30 giugno 2008)
4. I BARATTI A CUI E' COSTRETTO LO STATO EBRAICO
Israele, l'angoscia di un grande Stato sui suoi soldati rapiti
di Giulio Meotti
ROMA - "Anni fa mi capitò di vedere con i miei occhi la sorella di un soldato israeliano scomparso, probabilmente nelle mani di un gruppo terrorista, balzare letteralmente sulla scrivania del ministro della Difesa, alla presenza di sei alti ufficiali delle forze armate, e gridare fra le lacrime: 'Portate a casa mio fratello, portate a casa mio fratello!'. È una cosa che non potrebbe accadere in nessun altro paese al mondo per la semplice ragione che in qualunque altro
paese la sorella non sarebbe nemmeno arrivata nell'ufficio del ministro della Difesa, per non dire in quello del primo ministro. Al massimo sarebbe stata ricevuta da qualche alto funzionario che l'avrebbe congedata senza nulla di concreto". Eitan Haber su Yedioth Ahronoth coglie un felice e tragico paradosso della storia d'Israele. È l'unico stato al mondo che fa di tutto, di tutto, per riportare a casa i suoi soldati rapiti. Nel 1994, ad esempio, 82 soldati e ufficiali fra i migliori combattenti che il popolo d'Israele abbia mai avuto furono mandati in missione profondamente all'interno del Libano con il compito di catturare il capo di Amal Mustafa Dirani che forse sapeva qualcosa della sorte dell'aviatore Ron Arad caduto nelle mani di Amal otto anni prima.
In qualunque altro paese del mondo, o quasi, dei soldati catturati e certamente di quelli dispersi ci si occupa molto meno, in molti casi vengono considerati come "caduti". Molti paesi non danno alcuna possibilità di farsi ricattare, né di avviare qualche forma di trattativa. "Tutti i primi ministri e ministri della difesa israeliani, nel corso degli anni, hanno sempre deciso e agito in modo totalmente opposto a ciò che suggerivano la ragione e l'interesse nazionale del paese. Tale interesse, se avessero agito in base ad esso, avrebbe dettato una posizione dura e inflessibile del tipo: signori ricattatori, andate all'inferno. Ma in questi casi non è la ragione quella che detta i comportamenti di un primo ministro e di un ministro della Difesa israeliani. È piuttosto il loro cuore, e per questo continuiamo a pagare un prezzo terribile, pesantissimo e intollerabile. Ma è proprio questo che fa la differenza fra Israele e tanti altri paesi ed eserciti". Tutto Israele oggi si interroga sulla sorte dei tre nelle mani di Hamas e Hezbollah, i soldati Shalit, Regev e Goldwasser. Vi sono state persino occasioni in cui Israele ha scarcerato detenuti e restituito salme in cambio di brandelli di informazioni, o soltanto di effetti personali di soldati dispersi, come anche nel caso di Ron Arad.
E a proposito di Arad, c'è da dubitare che qualunque altro paese si sarebbe adoperato tanto, impegnando i suoi migliori agenti, rischiando i suoi migliori combattenti e spendendo decine di milioni di dollari nel tentativo di scoprire qualcosa sulla sorte di un singolo soldato. "Siamo intrappolati in un gigantesco braccio di ferro tra il cuore e il cervello, una lotta tra logica ed emozioni" scrive Stewart Weiss sul Jerusalem Post. "La storia passata in Medio Oriente dimostra che la maggior parte dei terroristi scarcerati torna a fare ciò che sa fare meglio: uccidere israeliani innocenti". È lecito per riavere i tre soldati liberare un terrorista assassino di bambini ebrei? Ecco il dilemma tragico di Israele. Perché Hezbollah ha fatto della questione "Samir Kuntar" un evento simbolico. Già nell'ottobre 1985, un commando di terroristi palestinesi prese in ostaggio la nave da crociera italiana Achille Lauro, pretendendo la scarcerazione di Kuntar. Durante il sequestro, i terroristi palestinesi uccisero il passeggero ebreo americano Leon Klinghoffer, costretto su una sedia a rotelle, e ne gettarono il corpo in mare. Samir Kuntar ha sempre rivendicato con orgoglio la "missione" compiuta nel 1979 a Nahariya. Nel marzo 2006 l'Autorità Palestinese ha annunciato che gli avrebbe conferito la cittadinanza onoraria palestinese. La sua "missione" fu di uccidere la piccola Einat e il padre Danny Smadar sulla spiaggia, con un colpo alla nuca e con il calcio del fucile.
Tre mesi fa, all'indomani dell'uccisione del terrorista internazionale Imad Mughniyeh in un attentato con auto-bomba a Damasco, Kuntar ha scritto una lettera a Nasrallah nella quale celebra il martirio e le gesta dei terroristi, e promette solennemente di continuare sulla via del terrorismo "fino alla completa vittoria". "Il mio giuramento e la mia promessa è che il mio posto sarà sul fronte di battaglia, intriso del sudore del tuo dono e del sangue dei martiri più amati, e che continuerò lungo la via fino alla completa vittoria. Porgo a te, signore Abu Hadi (appellativo di Hassan Nasrallah) e a tutti i combattenti della jihad le mie congratulazioni e la mia rinnovata lealtà". Nasce da qui l'angoscia fatale e commovente dello Stato ebraico costretto a barattare tre suoi figli con uno spietato terrorista.
(Il Velino, 26 giungo 2008)
5. EBREI A SHANGHAI
Database ebraico a Hong Kong
di Ilaria Maria Sala
HONG KONG - Haipai e jingpai (o "guanpai"): ovvero, stile di Shanghai e stile della capitale, anche chiamato "stile dei funzionari". Queste in Cina, da un secolo e mezzo, sono le due grandi correnti artistiche, di moda, e più in generale di stile di vita che si contendono il primato. Jingpai, per chi sa apprezzarlo, significa tutto quello che è serio, dalla letteratura alla politica, e "cinese", nazionale, tradizionale per i suoi detrattori, invece, significa ipocrisia e rigidezza. Haipai? Chiedi cosa ne pensano al nord, e ti diranno che è tutto frivolezza, superficialità, e commercio. Ma se invece lo chiedi agli shanghaiesi, haipai significa classe, modernità, e la totale mancanza di timore nel mescolarsi con nuovi arrivati da tutto il mondo. Nella fantastica Shanghai degli Anni Venti e Trenta, infatti, essere alla moda significava essere molto cosmopoliti, e c'era di che esserlo: città aperta agli affari e alla speculazione finanziaria, governata a seconda dei quartieri da francesi, britannici, giapponesi, e in parte anche dai cinesi, porto franco raggiungibile senza visto, era diventata il rifugio di russi bianchi ed ebrei in fuga dagli orrori della persecuzione, prima sovietica, poi europea. Una volta arrivati a Shanghai, novella protettrice dei senza patria, nessuno faceva domande. Secondo un detto dell'epoca, qui era dove "donne con un passato e uomini senza futuro" potevano rifarsi un'identità, cancellare passati ingombranti e costruire futuri fantasiosi.
Non solo, la diaspora ebrea poté anche contare sull'aiuto di un certo numero di uomini d'affari illustri, ebrei sefarditi di origine irachena, che avevano fatto fortuna proprio a Shanghai, con il commercio e la promozione immobiliare, in particolare sul Bund, lo spettacolare lungofiume di Shanghai: i Sasson, i Kadoorie, e Silas Hardoon. Man mano che la Germania nazista proseguiva nella sua follia omicida, però, Shanghai si ritrovò ad ospitare più di trentamila rifugiati nel giro di poco tempo. La comunità ebraica delle prime due ondate riuscì a costruire scuole, ospedali, dormitori e centri culturali per i nuovi arrivati, e l'elettrizzante Shanghai riuscì a salvare decine di migliaia di vite. L'occupazione giapponese non portò alle calamità temute: alleati della Germania di Hitler, i giapponesi non vedevano il motivo di essere antisemiti, e non si piegarono alle richieste tedesche di "liberarsi" degli ebrei arrivati a Shanghai. Negli ultimi due anni della guerra il "ghetto" ebraico dove erano ospitati molti dei rifugiati subì pesanti controlli, e i suoi abitanti dovettero sottostare ad un umiliante restrizione dei loro movimenti nel resto della città, ma fu tutto. Poi, la vittoria delle truppe comuniste di Mao Zedong contro i nazionalisti di Chiang Kai-shek significarono la fine dell'avventura shanghaiese della comunità ebraica, per alcuni decenni almeno. Mao scacciò tutti gli stranieri, anche quelli che erano nati in Cina e che non conoscevano altra patria, e gli ebrei di nuovo dovettero spostarsi altrove: alcuni ad Hong Kong, molti in Australia, altri tornarono in Europa ed altri ancora proseguirono fino agli Stati Uniti. Il capitolo sembrò chiuso.
Oggi però Shanghai, dopo i rigori del maoismo e l'iniziale sfiducia di Pechino nei confronti dell'ex capitale del vizio, è tornata a brillare, ed è di nuovo la città più internazionale della Cina (esclusa Hong Kong, ovviamente). E comincia a rispolverare il suo passato: incluso quello ebraico. Per anni, persone che devono la loro vita all'esistenza del porto franco di Shanghai sono venuti qui, cercando di ritrovare le tracce della vita degli ebrei in Cina durante la Seconda Guerra Mondiale, raccogliendo soldi e donazioni per, fra le altre cose, restaurare le sinagoghe, recuperare le lapidi ebraiche, ed onorare la memoria del Dottor Ho sorta di Schindler cinese che, diplomatico a Vienna durante la guerra, stampò in segreto il passaporto di centinaia di ebrei che avevano bisogno di un visto di uscita dall'Europa. Il governo di Shanghai, sulle prime, era parso un po' scettico. Poi, come spiega Dvir Ben Gal, un israeliano che si occupa di preservare la memoria ebraica di Shanghai, "il pregiudizio che gli ebrei siano ricchi ha fatto sì che, d'un tratto, venisse rivalutato il potenziale turistico offerto dalla memoria". Fin'ora, il progetto di recupero e valorizzazione del passato ebreo era rimasto affidato all'iniziativa e all'energia individuale, ma un po' per volta l'interesse si espande, gli edifici vengono salvaguardati, e le istituzioni cominciano ad essere un po' più sensibili al progetto.
Da questa settimana, infatti, è attivo un database dove vengono raccolti i nomi degli ebrei che transitarono per Shanghai, e le storie delle loro vite, un lavoro ancora agli inizi: dei circa trentamila ebrei salvati da Shanghai, infatti, si hanno informazioni precise e documentate solo di 600 di loro. Ma il lavoro di recupero della memoria è cominciato, e questo capitolo del frizzante stile haipai potrà via via essere arricchito di sempre nuovi dettagli.
(Lettera 22, 7 giugno 2008)
6. CHE COSA VOGLIONO VERAMENTE I PALESTINESI?
Naturale come il terrorismo palestinese
da un articolo di Bradley Burston
Ma cosa dovrebbe pensare una persona decente?
In una chiara e tranquilla mattina di Gerusalemme una donna sta guidando verso il cuore della città con accanto la sua piccola di 5 mesi. Non c'è nulla di cui aver paura. Non è una zona militare, non è un'area dell'occupazione, non è un insediamento. Ebrei vivono e lavorano in questa zona della città da più di cento anni (da quando l'hanno edificata, a ovest delle mura). Qui medici e infermieri ebrei si prendono cura di bambini e donne, anziani e infermi arabi sin dal 1902, quando sull'altro lato di questa strada venne aperto l'ospedale Shaare Tzedek.
Non c'è nulla di cui avere paura. Salvo per quell'uomo al volante di un bulldozer che ha deciso di uccidere degli ebrei. Non membri della sicurezza israeliana, non truppe d'occupazione, non uomini dei servizi segreti. Ebrei. Donne e bambini, anziani e infermi. Ebrei che potrebbero essere a favore di uno stato palestinese indipendente. Ebrei che non hanno nulla contro gli arabi. Ebrei che potrebbero essere attivamente impegnati contro l'occupazione. Semplicemente ebrei.
Quando inizia la mattanza, la donna al volante della propria auto fa ciò che gli ebrei hanno imparato a fare dalla Shoà, e da duemila anni prima della Shoà: mettere in salvo i propri bambini. A qualunque costo. Riesce a buttare la piccola fuori dall'auto attraverso il finestrino appena prima che l'Eroe di Palestina diriga la sua scavatrice da 10 tonnellate dritta sulla sua auto, schiacciandola completamente.
Non c'è voluto molto tempo dopo che l'Eroe di Palestina aveva finito di ribaltare autobus pieni di ebrei, nonché di arabi, e di passare sopra ad altre auto, persino tornando indietro a schiacciarne una per la seconda volta perché il dipartimento marketing e pubbliche relazioni di Hamas formulasse il suo elogio dell'attentato. "Lo consideriamo una reazione naturale alla quotidiana aggressione e ai crimini commessi contro il nostro popolo in Cisgiordania e in tutte le terre occupate", ha dichiarato alla stampa il portavoce di Hamas Sami Abu Zuhri. Naturale. Semplicemente naturale.
L'attentato è giunto appena dopo l'ultima serie di tentativi, ad opera di vari gruppi laici, islamici ed ebraici, di fare pressione su chiese protestanti e stimate università affinché disinvestano dalla Caterpillar per via del fatto che le Forze di Difesa israeliane usano talvolta i suoi bulldozer per demolire delle case palestinesi. Vorrei sentirli ora. Almeno una volta.
Vorrei che disinvestissero dal terrorismo, anziché giustificarlo come un "naturale" prodotto dell'occupazione. Per una volta, vorrei che i miei fratelli e sorelle pacifisti fossero duri con i loro compagni palestinesi per aver preso un bulldozer e aver schiacciato degli ebrei, almeno quanto lo sono con Israele per la demolizione di edifici. Scrivete lettere a Ismail Haniyeh, a Mahmoud Zahar, a Sami Anu Zuhri. Protestate nelle vostre comunità, definendo per una volta il terrorismo per quello che è: intenzionale, spietato, premeditato, immorale. Assassino.
Cosa dovrebbe pensare una persona decente? Che va bene lanciare razzi su zone abitate durante un cessate il fuoco perché l'occupazione non è ancora finita? Che va bene schiacciare con un bulldozer civili ebrei perché l'occupazione non è stata ancora fermata e i coloni continuano a costruire delle case?
Cosa dovrebbe pensare una persona decente quando gruppi palestinesi fanno a gara nel rivendicare l'attentato col bulldozer? E quando uno di questi gruppi sono le Brigate Martiri di Al-Aqsa, che fa capo a Fatah?
Cosa dovrebbe pensare una persona decente quando l'uomo che guidava il bulldozer, lui stesso padre di due figli, un operaio edile di Gerusalemme est, era animato da un desiderio talmente grande di uccidere ebrei per inciso, danneggiando e infangando la causa e il nome della Palestina da superare i suoi sentimenti verso quella madre costretta a gettare il bambino dal finestrino pur di salvarlo?
Per quanto mi riguarda, vorrei chiedere una prova di che cosa i palestinesi vogliono veramente. Non credo più che si tratti semplicemente di uno stato indipendente. Ecco cosa ancora non mi va di ammettere: che per tutti questi anni, nel 2008 non meno che nel 1902, ciò che una massa critica di palestinesi brama sopra ogni altra, forse anche più di uno stato indipendente, potrebbe essere il semplice e vile brivido della vendetta: niente di più chiaro e netto che vedere ebrei morti e sepolti.
(Ha'aretz, 2 luglio 2008 - da israele.net)
MUSICA E IMMAGINI
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Israel's War Against Palestinian Terror
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