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Notizie su Israele 435 - 3 settembre 2008

1. Da Maometto a Gesù
2. «Gilad, sii forte!»
3. A colloquio con Giorgio Israel
4. Chi è Barack Obama?
5. Un'opera all'interno della società palestinese
6. Musica e immagini
7. Indirizzi internet
Salmo 130:7-8. O Israele, spera nel Signore, poiché presso il Signore è la misericordia e la redenzione abbonda presso di lui. Egli redimerà Israele da tutte le sue colpe."
1. DA MAOMETTO A GESU'




Perché il figlio di un leader di Hamas
si è convertito al cristianesimo


Intervista a Mosab Hassan Yousef di Jonathan Hunt

Mosab Hassan Yousef
Mosab Hassan Yousef è un giovane uomo straordinario, con una storia altrettanto straordinaria da raccontare. E' il figlio di uno dei più influenti leader di Hamas, l'organizzazione militante del West Bank, ed è cresciuto in una famiglia di fede rigidamente islamica. Ora, a trent'anni, frequenta una chiesa Cristiana evangelica in Barabbas Road, San Diego, California. Ha rinnegato la propria fede mussulmana, abbandonato la sua famiglia a Ramallah e sta chiedendo asilo politico negli Stati Uniti.
La storia della sua vita è davvero sorprendente, a prescindere che ci si trovi d'accordo o meno con le sue convinzioni. Di seguito il trascritto dell'intervista rilasciata da Hassan in esclusiva alla FOX News, nella quale racconta come un mussulmano del West Bank è diventato un cristiano della West Coast.

Jonathan Hunt: Perché, dopo 25 anni, Lei è cambiato?
Mosab Hassan Yousef: Credo che tutti i muri costruiti dall'islam negli ultimi 1400 anni non esistano più. La gente non si rende conto di questo. I muri vennero costruiti per rendere la gente ignorante, per combattere la paura. Non si voleva permettere che la gente mettesse in discussione la realtà dell'islam, le sue grandi domande: per questo ai seguaci di questa fede, ai mussulmani, è stato detto esplicitamente: "Non fate certe domande".
Oggi però la gente ha i mezzi di comunicazione di massa. Se un padre proibisce alla figlia di uscire di casa, lei andrà al computer e girerà il mondo. La gente ha accesso più facilmente all'informazione, alla conoscenza, ai motori di ricerca; per cui è molto, molto più semplice per tutti studiare l'islam e le altre religioni. E non solo dal punto di vista islamico, ma anche da altri.
Dunque, per i prossimi venticinque anni continueranno ad esserci grandi cambiamenti nel mondo mussulmano, e nel mondo arabo in generale.

- Lei parla da una prospettiva privilegiata, forse unica: un uomo non solo cresciuto in una famiglia islamica, ma che è stato parte di un'organizzazione ritenuta da molte persone del mondo come una delle forze estreme dell'islam stesso: Hamas. Lei sostiene che la gente non vuole guardare in faccia la realtà; ma qual è la realtà dell'islam?
- Ci sono due cose che i mussulmani non capiscono. Direi che più del 95 per cento dei mussulmani non riesce a comprendere appieno la propria religione. Quest'ultima è veicolata attraverso termini più estremi di quanto essi non possano capire, e dunque non ne afferrano l'essenza… si affidano soltanto alle guide religiose per conoscere la propria fede.
In secondo luogo, non conoscono le altre religioni. Numerose comunità cristiane vivono nel mondo mussulmano: esse rappresentano una minoranza, e preferiscono non far sentire la propria voce per parlare di Gesù, perché potrebbe rivelarsi pericoloso. Dunque, tutte le idee che l'islam ha delle altre religioni scaturiscono unicamente da una prospettiva islamica.
La maggior parte delle persone non comprende questi due fatti.
Se la gente, i mussulmani, iniziassero a capire la loro religione - innanzitutto la propria -, realizzando quante cose terribili vi sono contenute, potrebbero mettere in discussione il fatto che i religiosi si concentrano soltanto su alcuni aspetti dell'islam. Ci sono molte cose di cui essi parlano solo con notevole imbarazzo.

- Può fare qualche esempio?
- Le mogli di Maometto. Non si sentirà mai parlare delle mogli di Maometto in una moschea - che tra l'altro furono più di cinquanta, e nessuno lo sa con esattezza. La maggioranza dei mussulmani ignora questo fatto.
Le autorità religiose provano imbarazzo a parlare di questo, mentre si soffermano piuttosto spesso sulla gloria dell'islam, sulle sue vittorie, sulle vittorie di Maometto. Così, quando il popolo si guarda, si vede sconfitto, si riconosce ignorante, capisce che non sta governando il mondo come crede di avere diritto a fare. Vuole tornare ai tempi delle grandi vittorie, seguendo la grande tradizione di Maometto; ma non tiene in considerazione il fatto che i tempi sono cambiati. Dimentica che quello che è accaduto 1400 anni fa non può più ripetersi.

- Lei crede che i mussulmani vogliano distruggere il cristianesimo?
- L'islam ha già distrutto il cristianesimo, in un certo senso. I mussulmani non capiscono che pugnalano al cuore il cristianesimo ogni volta che affermano che Gesù non morì sulla croce. Pensano di onorarlo in questo modo, ma in realtà fanno l'opposto.
Ogni cristiano è in grado di capirlo. Invece I mussulmani sostengono che non è vero che Gesù è morto per loro. Qualcuno ha dato la vita per loro ed essi si ostinano a negarlo! Questo è ciò che fanno i mussulmani, non comprendendo che la parte più importante del cristianesimo è proprio la croce.
In questo, sono dunque ignoranti. Non sanno quello che dicono, e questo spiega perché sostengo che c'è del male dietro alla nozione di "islam".

- Quali eventi specifici hanno iniziato a farla riflettere sull'islam?
- Sin da quando ero piccolo facevo domande molto difficili. Persino la mia famiglia mi ripeteva al tempo come fossi un bambino complicato, e faticava a soddisfare la mia curiosità. Mi chiedevano in continuazione perché chiedessi così tante cose, sin dal principio.
Tuttavia, all'epoca credevo che tutti all'interno dell'islam fossero come noi, come la nostra famiglia - mio padre, nello specifico, è stato un ottimo esempio per me poiché era un uomo onesto e umile, sempre gentile con nostra madre e con noi, e ci educò al perdono.
Quando ebbi 18 anni, fui arrestato dagli israeliani e portato in una prigione israeliana controllata da israeliani. Fu lì che assistei al controllo che Hamas esercitava sui prigionieri, e vidi le torture che infliggeva ai suoi stessi membri. Erano torture davvero terribili.

- Vuole dire che Hamas torturava i membri della sua stessa organizzazione?
Erano i capi dell'organizzazione stessa, quei leader che oggi vediamo in televisione, ad essere responsabili delle torture inflitte ai loro compagni. Io non subii quelle torture, ma fu un grande shock assistervi: vedere gli aghi sotto le unghie, le bruciature sui corpi. Molti di loro morivano.

- Perché torturavano le persone?
- Perché erano sospettati di collaborare con gli israeliani, e con l'occupazione israeliana contro cui Hamas combatteva… centinaia di persone furono vittime delle ritorsioni, e per più di un anno assistei impotente alle torture. Quello fu un momento di cambiamento radicale per me. Aprii realmente gli occhi, e compresi che esistono mussulmani buoni e mussulmani cattivi: quelli buoni erano come mio padre, mentre quelli cattivi erano i membri di Hamas che torturavano la gente in prigione.
- Quello fu l'inizio del mio risveglio.

- Lei parla di "buoni mussulmani", come Suo padre; tuttavia Lei ha abbandonato la sua fede. Non avrebbe potuto essere anche Lei un buon mussulmano?
- La verità è che tutto per me cambiò dopo aver studiato il cristianesimo - cristianesimo, per inciso, sul quale nutrivo grandi preconcetti perché mi approcciai ad esso da una prospettiva islamica, ovvero pensando che non c'era nulla di vero nel cristianesimo, e che l'islam era la fonte di tutto.
Quando iniziai a studiare attentamente la Bibbia verso dopo verso, tenendo a mente che era il libro divino, la parola di Dio, vidi le cose sotto una nuova luce - certamente una prospettiva più difficile, che mi portò in ultimo a ritenere che l'islam aveva torto.
In altre parole, l'islam era mio padre, un padre con il quale ero cresciuto per 22 anni. Un giorno, un nuovo padre è venuto da me per dirmi che in realtà era lui il mio vero padre, ed all'inizio io non volevo capire. Mio padre era l'islam, quello con cui ero cresciuto. Ed il padre del cristianesimo mi disse che era lui invece il mio vero padre, che era stato in prigione lontano da me. Ma ora era tornato, e l'islam non era il mio vero padre.
Questo è quanto è accaduto dentro di me. Non è stato facile credere che l'islam non fosse più mio padre. Dovetti riprendere a studiare l'islam da una prospettiva completamente diversa, e a quel punto vidi tutti gli errori, quelli più grandi e le loro conseguenze, non solo sui mussulmani con i quali non condividevo più i valori (non mi erano mai piaciute le tradizioni che rendevano la vita della gente più complicata), ma anche sull'umanità intera. L'umanità intera! C'erano popoli che continuavano ad uccidersi nel nome di Dio.
A quel punto iniziai a comprendere che il problema era l'islam, non i mussulmani - non potevo odiarli, perché Dio li ha amati sin dal primo giorno, e Dio non crea nulla di imperfetto. Dio crea popoli buoni che lo amano, ma i mussulmani sono come malati, hanno idee sbagliate. Anche oggi non odio quelle persone, ma provo pietà per loro perché so che l'unico modo in cui potranno cambiare è attraverso la parola di Dio, ascoltandola e lasciando che mostri loro la vera via che conduce a Lui.

- Non La preoccupa dire queste cose - specialmente considerando le sue origini, ed il fatto che le sue parole per questo possano avere un effetto amplificato? Non crede ci sia il pericolo che quanto Lei afferma aumenti le difficoltà e l'attrito tra i cristiani e i mussulmani nel mondo oggi?
- Certamente questo potrebbe accadere se a parlare fosse un cristiano che andasse in giro a dissertare della vera realtà dell'islam. I cristiani in ogni caso sono sulla lista dei nemici, a prescindere dal fatto che parlino dell'islam o meno. Solo il semplice fatto di dichiararsi cristiani offenderebbe immediatamente i mussulmani, provocherebbe odio e allontanerebbe ulteriormente le due religioni. Ma nel mio caso la domanda riguarda ciò che mi ha portato a cambiare.
Anni fa, quando iniziai a riflettere, Dio aprì i miei occhi e la mia mente, facendomi diventare una persona completamente diversa. Ora posso compiere il mio dovere, e voi cristiani potete aiutarmi, ma non credo sarebbe un compito che riuscireste a portare a termine da soli. In ogni caso, i mussulmani non hanno più scuse.

- Quanto è stato difficile per Lei intraprendere questo cammino, che nel concreto l'ha portato ad allontanarsi dalla sua famiglia e dalla Sua casa? Quanto è stato doloroso?
- E' stato come uscire dalla propria pelle, glielo assicuro. Amo la mia famiglia, e sono certo del loro amore per me. I miei fratelli minori sono come figli, li ho praticamente cresciuti. E' stata la decisione più grande della mia vita.
Ho dovuto abbandonare tutto, non solo la mia famiglia. Abbandonare l'islam per una conversione al cristianesimo - o a qualsiasi altra religione, per inciso - non vuol dire semplicemente salutare ed andarsene. Non è così facile. Significa dire addio alla propria cultura, civiltà, tradizioni, società, famiglia, religione, Dio - quello che avevi creduto fosse il tuo Dio per tanti, lunghissimi anni. É un processo molto complicato, e per nulla facile. Molte persone credono che si lascino indietro solo cose che hanno perso importanza ma in realtà non è così. Ora sono negli Stati Uniti, ho la mia libertà ed è stupendo, ma allo stesso tempo mi manca la mia famiglia. Nulla può sostituirla. E perdere la propria famiglia…

- Si sente di aver perso la Sua famiglia?
- La mia famiglia è istruita, e ciò nonostante è stato molto difficile per loro. Mi hanno chiesto molte volte, specialmente all'inizio, di tenere per me la mia fede e di non andare a parlarne con i media in pubblico.
Per me però era un compito che Dio mi aveva affidato, annunciare il Suo nome e lodarlo in tutto il mondo. La mia ricompensa è che Lui farà lo stesso con me. Si tratta di un dovere. Mi chiedo quanti altri stiano facendo quello che io faccio oggi: e la risposta è che non ne conosco nessuno.
Ho dovuto essere molto forte per superare questa grande sfida. E' stata la decisione più difficile della mia vita e certamente non è stato semplice. Niente di quanto ho fatto è per la gloria in questo mondo - ho agito in questo modo per una sola ragione: perché ci credevo. La gente soffre ogni giorno per idee sbagliate, ed io posso aiutarle ad uscire da questo circolo vizioso, questo cammino che il male ha predisposto.

- Ha parlato con suo padre di recente?
- Non ho modo di comunicare con mio padre perché al momento è in prigione, e non ci sono telefoni dove è rinchiuso che mi permettano di parlare con lui.

- Cosa le hanno detto gli altri membri della sua famiglia riguardo alla sua reazione?
- Gli hanno fatto visita spesso, ed anche se ad oggi non conosco ancora la sua reazione esatta, sono certo che sia molto triste per quanto è accaduto. Allo stesso tempo, sono certo che capirà, perché mi conosce e sa che non prendo nessuna decisione senza esserne pienamente convinto.

- Tutto questo ha reso più difficile i rapporti di suo padre con i suoi compagni di Hamas?
- Certamente. La mia famiglia, incluso mio padre, ha dovuto portare questa croce con me. La scelta è stata mia, non loro, ed ho chiesto a Dio - prego sempre per la mia famiglia quando vado in chiesa - di aprire i loro occhi, le loro menti, affinché vedano Cristo. E che ricevano la Sua benedizione, perché è chiesto loro di portare questa croce con me.

- Mi dica qualcosa di Hamas, e di come funziona. Si tratta di un'organizzazione islamica, prettamente religiosa, ed è questa ai suoi occhi la sua mancanza più grande? Oppure ci sono altri aspetti problematici della questione? Potrebbe magari, in altre forme, essere persino una buona idea? E che cosa significa per lei?
- Se parliamo dei singoli individui, ci sono persone buone in ogni luogo. Davvero, in ogni luogo, perché sono creature di Dio.
Se agiscono indipendentemente? Sì, lo fanno: conosco persone che appoggiano Hamas ma non hanno mai avuto nulla a che fare con attacchi terroristici, ad esempio. Seguono Hamas perché amano Dio, e credono che Hamas lo rappresenti. Non hanno alcuna conoscenza delle cose, non conoscono veramente Dio e non hanno mai studiato il cristianesimo. Tuttavia l'idea di Hamas, concepita come rappresentante di un essere divino, è un grave problema.
Alla radice di tutto però non c'è Hamas, né la gente che ne fa parte. Alla base di tutto c'è la nozione stessa di islam. Certo, Hamas come organizzazione, in particolar modo i suoi capi, hanno delle colpe - sono responsabili per tutte le violenze che sono state compiute nel nome dell'organizzazione stessa. So che spesso queste vengono definite una reazione alle aggressioni israeliane, ma in ogni caso si tratta di prendere la decisione di reagire, di compiere azioni contro Israele, tra tutte le uccisioni di molti civili.

- Crede che Israele non abbia responsabilità in questo conflitto?
- L'occupazione è sbagliata. Ma è altrettanto sbagliato parlare di Israele, parlare della Palestina - qui si tratta di principi generali. Non sono contro nessuna nazione. Credo però che Israele abbia il diritto di difendersi, e che nessuno possa negare questo. Talvolta però Israele usa troppa violenza verso i civili: molti innocenti sono stati uccisi perché i soldati non erano abbastanza responsabili, perché non si comportavano correttamente ai checkpoint.
Il mio messaggio giunge sino ai soldati israeliani: almeno dimostrate umanità verso la gente ai checkpoint. Non dovete per forza essere crudeli, non è una questione di nazionalità. Ci sono molte idee sbagliate in entrambi gli schieramenti, e l'unico modo che questi due paesi hanno di uscire dal circolo vizioso in cui sono imprigionati è quello di seguire i principi che Gesù ha insegnato al mondo: grazia, amore, perdono. Senza di essi, non riusciranno mai ad andare avanti, a spezzare il circolo.

- Ha visto arrestare suo padre, Lei stesso è stato in prigione. Ha assistito agli atti di terrorismo perpetrati da Hamas contro Israele, e comunque - sostiene che entrambe le parti devono essere in grado di andare oltre a tutto questo?
- Sì, certo. É l'unica scelta possibile. Nessuno ha il potere magico di affrontare la situazione in Medio Oriente, nessuno. Potete chiedere ai politici qui negli Stati Uniti, a qualsiasi politico arabo o palestinese, ai leader israeliani - nessuno, nessuno è in grado di risolvere il problema. Anche chi crede nella pace è oramai troppo coinvolto.
I politici sono parte del circolo vizioso. Persino se si guarda ad individui coraggiosi, come Rabin, che fu chiamato dagli israeliani a cercare la pace con i palestinesi e a dare loro uno Stato - persino leader così determinati non sono riusciti a risolvere la situazione. Non si può obbligare un paese indipendente a dare l'indipendenza ad un'altra nazione. Specialmente quando quest'ultima tenta di distruggerlo.
Tutti sono delle vittime. I soldati israeliani, che hanno perso i loro compagni. I palestinesi, che hanno perso i loro figli, i loro padri. Ci sono ancora moltissime persone in prigione, e molte di più hanno già perso la vita - migliaia di persone. Nessuno lo dimenticherà mai. Se si vorrà vivere continuando a guardare al passato, non si spezzerà mai il circolo vizioso; per questo l'unica soluzione è andare avanti.
Le ultime generazioni sono nate come palestinesi sotto l'occupazione: non è una loro scelta. Per quanto riguarda i giovani di Israele - a parte la questione se è giusto o sbagliato che Israele esista -, qual è la loro colpa? Qual è la colpa dei giovani che sono nati in Israele, e non hanno un altro posto dove andare? E' la loro patria, ne sono certi, e continueranno a resistere per difenderla da chiunque, intimando a chiunque di andarsene. E dunque l'unica strada da seguire è quella dell'amore e del perdono di Dio, altrimenti non sarà possibile risolvere il problema.

- Lei crede che si giungerà mai ad un accordo di pace con Hamas?
- Non credo sia possibile. É forse pensabile che il fuoco e l'acqua coesistano? Hamas può fare politica per 10, 15 anni; ma se chiedessimo ad un capo di Hamas che cosa pensa che potrà accadere in futuro, se ci potrà essere una convivenza con Israele, la risposta sarà inevitabilmente negativa... a meno che non si voglia andare contro agli insegnamenti del Corano. Si tratta pur sempre del loro libro sacro, non di ideologie che possono semplicemente venire accantonate. Per questo non c'è scelta, non si tratta di Israele o di Hamas: la questione riguarda le loro idee. Non c'è altra scelta.

- Non ha paura che qualcuno tenti di ucciderla per le sue parole - che peraltro alcune parti del Corano confermano?
- Dovrebbero prima uccidere le mie idee, e queste sono già state esposte. E poi come farebbero ad uccidere un'idea, le opinioni che io posso nutrire? Si può uccidere un corpo, non un'anima.

- Non ha paura?
In quanto essere umano, credo di essere piuttosto coraggioso in questo momento. Per adesso cerco di non pensarci, e sento che Dio è dalla mia parte. Ma se questa è una sfida che devo affrontare, chiederò a Dio di darmi la forza.

- E' stato minacciato?
- No, in realtà no. Più che altro, la maggior parte dei mussulmani e dei leader religiosi qui negli Stati Uniti e nelle comunità europee hanno cercato di mettersi in contatto con me. Chiamano la mia famiglia, mia madre, e le dicono che vogliono aiutarmi.

- Pensano che lei abbia bisogno di aiuto?
- Sì, credono che i cristiani si siano approfittati di me, ma in questo decisamente sbagliano. Dentro di me, ero cristiano ancora prima che loro sapessero, ancora prima che chiunque sapesse. Amo Gesù, lo seguo da molti anni, e per la maggior parte del tempo non è mai stato un segreto - ora mi sento di dover glorificare il Suo nome e rendergli onore pubblicamente.
Non hanno a che fare con un comune mussulmano. Sanno che ho studiato, che ho una cultura, che ho fatto ricerche sull'islam e sul cristianesimo. Quando presi la mia decisione, non fu perché qualcuno gettò un incantesimo oscuro su di me o perché sono stato manipolato - è stata una scelta completamente autonoma.

- Le manca Ramallah?
Enormemente. Anche Lei c'è stato, e sa da quale meraviglioso paese provengo. Sono posti incantevoli. É un paese piccolo, dove però c'è tutto - per questo la gente combatte per quelle terre: Ramallah, Gerusalemme, la Città Vecchia.

- Crede che un giorno potrà tornare?
- Io appartengo a quei luoghi, e prima o poi ritornerò. Se questo significa che verrò ucciso, accadrà quello che deve accadere. La mia famiglia è là, loro mi amano e appoggiano le mie decisioni. Forse avrebbero preferito che non parlassi con i media, ma sanno che la mia è una scelta consapevole. Anche per questo voglio tornare, per riabbracciare coloro che amo. E per rivedere la mia terra.

- Crede che Lei potrà tornare quando ci sarà pace in Medio Oriente?
- Ci sarà pace quando Gesù tornerà sulla terra, giudicherà gli uomini e porterà il Suo regno tra noi. Allora sarà la vera pace, e verrà il regno di Dio.

- Se potesse mandare un unico messaggio ai mussulmani in tutto il mondo, quale sarebbe?
- Il mio messaggio sarebbe prima di tutto quello di chiedere loro di aprire la mente. Essere nati in una famiglia mussulmana li ha condotti all'islam, proprio come accade per ogni altra religione, dove una famiglia cristiana o ebrea insegna i suoi valori ai propri figli.
Il punto è che vorrei che queste persone aprissero gli occhi e la mente, che iniziassero a pensare autonomamente e ad immaginare di non essere nati in una famiglia mussulmana.
Dio ha dato loro l'intelligenza affinché la usassero. Per questo devono aprire la mente e il cuore, leggendo la Bibbia, studiando la loro religione. Vorrei aprire i cancelli per loro, far sì che possano essere liberi. Seguire Dio è abbastanza per darci una vita buona e felice qui sulla terra. Ed anche oltre.

(l'Occidentale, 30 agosto 2008 - trad. Alia K. Nardini)





2. «GILAD, SII FORTE!»




Il compleanno di Shalit

di Anna Rolli

Giovedì 28 agosto, il soldato israeliano Gilad Schalit ha compiuto 22 anni. Gilad è stato rapito da Hamas, nel giugno del 2006, a Kerem Shalom (Il giardino della pace), una località israeliana nei pressi del confine di Gaza. Aveva diciannove anni quindi è stato il suo terzo compleanno vissuto nella condizione di prigioniero.
    La sera di giovedì, a Mitzpe Hila, un gruppo di dimore di campagna sulle colline dell'Alta Galilea, davanti alla casa dove Gilad è cresciuto e dove vive la sua famiglie si è tenuto un breve incontro durante il quale di fronte ad una folla di amici e di sostenitori, appositamente arrivati da tutto Israele, hanno parlato i genitori del ragazzo, i genitori di Ehud Goldwasser e il papà di Eldad Regev, i due soldati rapiti da Hezbollah e dei quali sono stati restituiti i cadaveri alle famiglie alcune settimane fa.
    "Non ci sono fiori o regali da comperare per Gilad prigioniero di Hamas" ha detto Aviva Schalit. " Per lui si tratta soltanto di un giorno in più in cattività, nel buio di una stanza priva d'aria e senza una finestra…. Gilad, tu non meritavi di spendere 800 lunghi giorni e notti in quella prigione, in quell'incubo, tu non meriti ora di spendere un terzo anno della tua vita in quella terribile cattività…".
    La madre ha proseguito: "…. Io dico, oggi, nel giorno del tuo compleanno, accanto alla tua casa, che per un ragazzo non può essere stabilito un prezzo. Un ragazzo che qui, nella terra d'Israele, abbiamo cresciuto ed educato ad amare e a servire la sua nazione. Un ragazzo che noi abbiamo mandato nell' esercito per difendere la nazione.… secondo i principi con i quali siamo stati cresciuti. La vita di un soldato al quale la nazione ha chiesto di servire e che è caduto durante una missione non ha prezzo..."
    Aviva Schalit Infine ha ricordato le parole del ministro dei trasporti Shaul Mofaz: "Una nazione che dimentica i suoi soldati si ritroverà ad essere dimenticata dai suoi soldati".
    Miki Goldwasser è intervenuta con una invocazione: "Gilad sii forte come tu sai essere forte e non andare in pezzi. Pensa tutto il tempo che noi siamo con te e stiamo battendoci per te e che noi ti tireremo fuori da quel posto".
    Alla fine della cerimonia mi sono avvicinata per salutare Shlomo Shalit, il papà di Gilad, e Miki Goldwasser la mamma di Ehud, che avevo conosciuto lo scorso anno, che avevo intervistato per Agenzia Radicale e che avevo salutato con la speranza nel cuore di rivederli presto insieme ai figli.
    Mi ha detto Shlomo Schalit: "Attualmente non ci sono novità né negoziati. Possiamo soltanto aspettare l'evolvere della situazione. Abbiamo parlato con le autorità francesi, con il presidente della repubblica francese e stanno facendo qualcosa, stanno cercando di fare pressione ma senza alcun risultato per il momento. La favola scritta da Gilad quando era bambino è stata pubblicata in Italia e presentata alla fiera del libro di Torino, forse gli italiani si ricorderanno di lui."
    Miki Gildwasser mi ha accompagnato verso la stazione di Naharia e mi ha confessato quanto fosse "una vergogna, dopo due anni, non aver ancora raggiunto alcun risultato e penso anche sia un segno di debolezza da ambedue le parti, debolezza del nostro governo e anche di Hamas"
    "Ci siamo resi conto - ha poi detto - che Hamas è meno forte di quanto vorrebbe sembrare di fronte al mondo, è divisa in molti gruppi che non vanno d'accordo e quindi non riesce a controllare i negoziati. E' giunto il momento di parlare ad alta voce, la Croce Rossa e tutte le organizzazioni per i diritti umani debbono essere coinvolte e debbono agire con maggiore decisione. La Croce Rossa deve andare a visitarlo, a controllare le sue condizioni. Da noi, in Israele, vengono rispettati tutti i diritti dei prigionieri invece Gilad non ha niente, niente… Io penso che il governo italiano dovrebbe intervenire e richiedere l' intervento della Croce Rossa, e questo è anche il dovere di tutte le organizzazioni per i diritti umani…".

(Agenzia Radicale, 31 agosto 2008)





3. A COLLOQUIO CON GIORGIO ISRAEL




«La Torah è più cuore che numeri»

di Cristina Uguccioni

Sono due, tratti dal Libro del profeta Isaia, i passi della Bibbia più cari al professor Giorgio Israel, professore ordinario presso il Dipartimento di Matematica dell'Università La Sapienza di Roma, e nostro "fratello maggiore", come lo chiamerebbe Giovanni Paolo II. Il primo passo recita: "E' troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all'estremità della terra (Isaia 49,6)". Nel secondo passo si legge: "A che mi servono tanti vostri sacrifizi? Dice il Signore. Sono sazio di olocausti di montoni e del grasso dei giovenchi. Il sangue di tori, agnelli e capri non lo gradisco! Quando entrate a vedere il mio volto, chi vi ha chiesto mai questo: calpestare i miei atri? Cessate dal presentare vuote offerte, l'incenso è per me un'abominazione! Novilunio, sabato,

sacra adunanza, non le sopporto più, né digiuno o solennità. L'anima mia odia i vostri noviluni e le vostre feste; esse sono per me un peso, sono stanco di sopportarle. Quando tendete le vostre mani, io chiudo i miei occhi davanti a voi. Anche se proseguite a pregare, io non ascolto. Le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi. Rimuovete dal mio cospetto le sozzure delle vostre azioni. Cessate di operare il male. Imparate a fare il bene. Ricercate la giustizia, soccorrete l'oppresso, rendete giustizia all'orfano, difendete la vedova (Isaia 1,11-17)".

- Il professor Israel spiega così la sua scelta:
-
"Questi due brani sono a mio giudizio strettamente collegati fra loro. Cominciamo ad esaminare il primo: qui si mette in evidenza l'elezione del popolo ebraico e la finalità di questa elezione, cioè l'essere luce per gli altri popoli e portare loro la salvezza. Dio, che ha conferito agli ebrei un ruolo particolare, ha con loro un rapporto privilegiato: li avverte perciò che la loro missione non può ridursi a 'ristabilire le tribù di Giacobbe e a radunare i superstiti', cioè non si può limitare a ricostruire e preservare l'identità del popolo ebraico: occorre invece che esso diventi luce delle genti, che porti la Rivelazione divina a tutti. E' impensabile che il popolo ebraico possa tenere solo per sé la Rivelazione ricevuta come fosse un dono privato ed esclusivo. L'elezione non è un privilegio fine a se stesso, ma è in funzione di un dovere verso l'umanità intera. Questo, il dovere della missione, è uno dei molti temi che ci accomuna ai cristiani. Nel secondo passo che ho scelto si afferma con parole molto dure che i precetti - che gli ebrei sono tenuti a osservare in quanto popolo eletto - sono addirittura sgraditi a Dio se non sono accompagnati dalla scelta di operare concretamente il bene e rifiutare il male. Colgo un legame importante e di grande attualità fra i due brani poiché essi evidenziano una dialettica da sempre presente nell'ebraismo, che è tipica del polimorfismo della nostra complessa religione: da un lato la spinta profetica ad annunciare la salvezza a tutte le genti, dunque una sorta di movimento di uscita da sé per andare agli altri, e dall'altro invece, la chiusura in sé, la scrupolosa adesione ai 630 [sic!] precetti, la quale però comporta un grave rischio: quello di assumere atteggiamenti puramente formali ed esteriori che non perseguono il bene e dimenticano il senso della missione del popolo ebraico. Questi due aspetti sono costanti nella storia ebraica: talvolta nel corso dei secoli, anche a seguito di vicende storiche drammatiche e tragiche come le persecuzioni, ha prevalso la tendenza a 'chiudersi dentro la siepe della Torah', come si usa dire, rinunciando alla missione universalistica. In questo senso l'essere ebrei coinciderebbe con il rispetto minuzioso della precettistica e l'ebraismo si risolverebbe esclusivamente in questa ortoprassi. Nel messaggio profetico del secondo brano Dio dice però di non gradire olocausti e vuote offerte, afferma addirittura di non sopportare più il sabato, così importante per tutti gli ebrei! E tutto ciò perché si seguono i precetti e non i principi morali, perché si compie il male e non il bene. Questo brano esemplifica chiaramente il rischio - sempre presente - di una contrapposizione tra morale e ortoprassi, tra la scelta del bene che deve essere all'origine dei gesti e il vuoto formalismo. La tradizione del profetismo è assai influente nella letteratura ebraica, particolarmente in quella kabbalistica: il celebre kabbalista Mosè Cordovero arriva al punto di osservare che la Torah dei precetti contiene divieti da lui definiti 'angosciosi e miserabili' che sarebbero incomprensibili se non si approfondisse il senso del testo stesso della Torah. Anche nel Talmud, che è più legato alla tradizione precettistica della Halakha, si trovano riflessioni molto interessanti: ad esempio ci si interroga sulle ragioni che portarono alla distruzione del Secondo Tempio proprio mentre 'la popolazione dell'epoca viveva una vita irreprensibile sul piano dei precetti e studiava intensamente la Torah'. Nel Talmud si legge che 'Gerusalemme fu distrutta unicamente perché vi si seguiva scrupolosamente la Legge della Torah'. E' un'affermazione forte, imbarazzante, complessa: il rabbino Adin Steinsaltz, massimo esperto mondiale del Talmud, la interpreta affermando che il popolo fu punito perché non giudicava altro che in conformità alle Leggi della Torah e non praticava l'indulgenza: pur nel rispetto delle leggi che ogni ebreo è tenuto a osservare, vi sono ragioni che consentono di attenuare il rigore in nome della misericordia. Quindi, sostiene Steinstalz, 'se coloro che hanno il potere di pronunciare giudizi, non agiscono con misura il loro comportamento annunzia l'avvicinarsi della distruzione'. Queste considerazioni sono a mio giudizio di grande attualità poiché anche oggi, nell'ebraismo, ci sono correnti che privilegiano e antepongono all'annuncio del messaggio rivelato da Dio la complessa e minuziosa determinazione delle regole da seguire nella vita quotidiana, con il rischio di esasperazioni molto negative".

- Nel Vangelo secondo Matteo, Gesù per due volte (Mt 9,9-13 e Mt 12,1-8) rimprovera i farisei dicendo: "Misericordia io voglio e non sacrificio". Gesù con queste parole ammonisce tutti noi cristiani.
-
"Il brano che ho scelto evidenzia proprio che nell'ebraismo è già presente il monito espresso da Gesù, il rimprovero a quel fariseismo che si chiude nella precettistica, trascurando misericordia, amore e giustizia".

- A me pare che la tentazione di rinchiudersi nel rispetto formale di precetti e regole sia una tentazione che appartiene alla natura umana; vi è nell'uomo la tentazione di cercare e trovare rassicurazione e conferma della propria perfezione, superiorità, bravura, del proprio essere a posto attraverso la formale osservanza di precetti e regole, a prescindere dall'intenzione che anima questa osservanza. Precetti e regole diventano, in questo senso, mezzi di autosalvezza e autoaffermazione; qual è la sua impressione?
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"Penso che sia proprio così: di certo questa tendenza è diffusa e operante, lo si vede bene anche ai nostri giorni. E' in fondo la tentazione, che tutti gli uomini hanno, di risolvere le cose nel modo più semplice. La vita ebraica perfettamente aderente ai 630 [sic!] precetti è terribilmente complicata, ma è sempre molto più difficile e complicato comprendere cosa significhi, concretamente, fare il bene e applicare i valori morali universali della Torah alle decisioni, talvolta anche molto complesse, che dobbiamo prendere nel corso della vita. A me colpisce molto il fatto che vi siano ebrei che rimpiangono la vita nei ghetti orientali, quando, pur con molte limitazioni e non senza difficoltà e talora persecuzioni, veniva condotta un'esistenza separata dal resto del mondo e rispettosa dei precetti. Ancora oggi il rapporto con il mondo esterno è per taluni ebrei un problema, e la tentazione di chiudersi è presente in non poche comunità, specie in Europa, dove la presenza ebraica è diventata numericamente modesta. Si tratta, lo ripeto, della via più facile, che gli uomini sono istintivamente tentati di scegliere. Penso che se una religione, in particolare l'ebraismo, non sente la necessità e il dovere di proporre il suo messaggio al mondo e si riduce a un meccanismo di rassicurazione e autosalvezza è destinata a scomparire, proprio come è scomparsa la civiltà greca che ha lasciato all'umanità il grande patrimonio della sua filosofia. L'ebraismo, per il valore, la ricchezza e la bellezza del suo messaggio, è vitale, ha ancora molto da offrire al mondo: di ciò sono fortemente convinto".

- Il rabbino Elio Toaff ha affermato: "Il compito, la missione del popolo ebraico, viene riassunto in questa frase della Torah: 'Voi sarete per me un reame di sacerdoti, una gente consacrata', sacerdoti dell'umanità e consacrati alla diffusione del monoteismo nel mondo. Io credo che il popolo ebraico abbia in un certo senso adempiuto a questo suo obbligo perché il monoteismo oggi, nel mondo, ha fatto passi da gigante". Vorrei chiederle quali riflessioni le suggeriscono queste parole, anche in relazione alla nozione di salvezza da portare alle genti.
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"Annunciare e diffondere il monoteismo, l'esistenza di un solo ed unico Dio trascendente che parla all'uomo, è la missione del popolo ebraico ed è elemento centrale della redenzione. L'annuncio del monoteismo implica anche lotta all'idolatria in quanto essa è sempre connessa a una concezione politeistica. Naturalmente la nozione di salvezza include la rivelazione della legge morale, della distinzione fra ciò che è bene e ciò che è male, il Decalogo. Se noi oggi parliamo di una civiltà europea che - come ripetutamente sostiene Benedetto XVI - è la sintesi della tradizione ellenistica e di quella ebraico-cristiana è perché, mentre la speculazione greca ci ha consegnato il valore del logos e l'interpretazione razionale della natura e del mondo, quella ebraica e cristiana ci ha consegnato la trascendenza di Dio, la legge morale, il senso e il fine del mondo e dell'esistenza umana, il concetto di persona. Tema irrinunciabile per il popolo ebraico, connesso al monoteismo e al rifiuto di ogni idolatria, è la negazione del culto delle immagini, che immediatamente pone il problema del rapporto con l'invisibile. Mentre nelle antiche religioni pagane l'uomo viveva in un mondo popolato da dei che potevano essere visti nelle diverse forze della natura, per la religione ebraica, che per prima ha compreso e professato la trascendenza di Dio, il problema è quello di colmare l'abisso che si apre tra l'uomo e Dio e costruire e mantenere il rapporto con Lui. L'ebraismo ha sviluppato su questo tema un pensiero molto ricco, complesso, diverso ovviamente da quello cristiano che afferma non solo l'umanità ma anche la divinità di Gesù, ponte tra l'uomo e Dio. Sul piano esistenziale la salvezza è un processo di redenzione quotidiano che avviene, da un lato, attraverso una vita proba secondo i precetti della Torah, senza gli eccessi rigoristici che escludono misericordia e indulgenza, e dall'altro attraverso la trasmissione del messaggio rivelato da Dio. Per noi ebrei in ogni atto della vita quotidiana si compie quella che viene chiamata una Teshuvah, che letteralmente vuol dire ritorno a se stessi, ritorno sulla retta via, pentimento continuo e rigenerazione continua. Si tratta di misurare il senso della propria vita giorno per giorno e, per così dire, ripartire ad ogni istante da zero, ripensando a tutti i gesti compiuti e facendo ammenda degli errori: questa possibilità, questa visione dell'uomo è, a mio giudizio, estremamente affascinante, decisiva e molto ricca sia sul piano esistenziale sia su quello più propriamente teologico".
    
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San Paolo diceva: "Fides ex auditu", la fede nasce dall'ascolto, dall'ascolto di Dio che si è gratuitamente rivelato, entra in dialogo con l'uomo, desidera la comunione con lui e lo ama. Testo basilare della dottrina ebraica è lo Shema' Israel, Ascolta Israele, l'incipit del discorso di Mosè che consegna al popolo il Decalogo (Dt 5,1); cosa rappresenta per lei l'ascolto della Parola di Dio?
- "E' fondamentale, come per ogni ebreo. Anche quando sono in vacanza, in montagna, porto con me una edizione tascabile della Bibbia: mi piace, mentre sto facendo una camminata, fermarmi, di tanto in tanto, a leggerne dei passi. In quelle pagine so e confido di trovare parole sempre nuove che mi aiutano nella comprensione della realtà e di me stesso. Oggi, specie negli ambienti ispirati a un razionalismo materialista, vi è grande cecità a proposito della Bibbia: è considerata un cumulo di banali raccontini privi di veridicità. Certo, come viene detto nella tradizione kabbalistica, 'se dovessimo prendere la Torah come un semplice insieme di raccontini di fatti, chiunque potrebbe comporne una migliore'. Il punto è che la Bibbia è altro: è Parola di Dio, Rivelazione; è un testo scritto da uomini ispirati da Dio che narrano e testimoniano lo svelarsi di Dio, della legge morale, del senso del mondo e della vita. Nessun testo al mondo consente come la Bibbia di scoprire la legge morale universale, che è decisiva per l'esistenza di ogni persona. Il testo biblico contiene moltissimi 'strati', va scavato, approfondito, e offre sempre nuovi spunti di riflessione, di comprensione della verità del mondo, della natura umana e di se stessi; considero affascinante, stimolante e necessario anche tutto il corpus di interpretazioni della Parola di Dio che si sono accumulate lungo i secoli e che mettono in luce i molteplici aspetti e 'strati' della Rivelazione, che è stata progressiva così come progressiva è stata la comprensione di questa Rivelazione da parte degli uomini. La lettura della Bibbia, Libro dopo Libro, episodio dopo episodio, porta a capire non solo lo sforzo di comunicazione di Dio, il suo desiderio di rivelarsi, farsi conoscere come un Dio che dona la legge morale ed è vicino all'uomo, ma anche l'enorme sforzo di comprensione della trascendenza e interpretazione del messaggio divino compiuto dagli uomini. La Bibbia è il dialogo fra Dio e l'uomo: il Libro di Giobbe, in questo senso, è paradigmatico. Nel momento in cui si abbandona la visione ingenua di un mondo popolato da divinità che sono come dei superuomini, che hanno vizi e virtù umane, lanciano fulmini e regolano i venti, e invece si concepisce e si scopre Dio come trascendenza, come essere Altro, si apre la questione del dialogo e del rapporto fra l'uomo e Dio, che certo è infinitamente più complesso del dialogo con una ninfa o con il dio dei venti. Per questo, poc'anzi, parlavo di abisso da colmare".

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Nel secondo brano da lei scelto, dopo il monito di Dio e il richiamo a operare il bene, Dio dice: "Su venite e discutiamo. Anche se i vostri peccati fossero come scarlatto, diventeranno bianchi come neve. Se fossero rossi come porpora, diventeranno come lana. Se sarete dolci e ascolterete, mangerete i frutti della terra". (Is 1,18-19). Quali considerazioni le suggeriscono queste parole?
- "Queste parole mostrano la tenerezza e la misericordia di Dio, due aspetti che emergono chiaramente anche in altre pagine della Bibbia, ad esempio nel Libro dei Salmi. Nell'ebraismo il rapporto con Dio è descritto e inteso come un rapporto amoroso e non in termini vaghi, ma in senso pieno e profondo, tanto da essere anche rappresentato come un rapporto quasi sessuale; non a caso nell'ebraismo l'atto sessuale tra marito e moglie è considerato come un atto santo in cui passa il rapporto con il divino. Spesso si contrappone il Dio dell'Antico Testamento, duro, severo, sempre pronto a punire l'uomo, al Dio del Nuovo Testamento, Dio dell'amore e della misericordia. A mio giudizio questa contrapposizione - frutto in gran parte della sempre diffusa ostilità verso gli ebrei - non si dà: c'è piuttosto continuità fra ebraismo e cristianesimo, progressiva comprensione da parte dell'uomo e progressiva rivelazione di Dio, 'lento all'ira e ricco di misericordia', come si dice nell'Antico Testamento. Naturalmente - come già dicevo - la questione che ci divide riguarda la natura divina di Gesù e non è certamente un tema di poco conto. E' la questione cruciale al centro del dialogo, che io giudico molto positivamente, fra Benedetto XVI e il rabbino Jacob Neusner. Un dialogo siffatto è necessario, costruttivo e fecondo per entrambe le parti e, sebbene in taluni ambienti possano manifestarsi chiusure o resistenze, ritengo indispensabile che le persone di buona volontà continuino a confrontarsi e a lavorare insieme, soprattutto su quei temi che più ci vedono vicini, come ad esempio i principi morali da annunciare e testimoniare al mondo".

(Il Foglio, 31 agosto 2008 - ripreso da Informazione Corretta)

COMMENTO - "La questione che ci divide riguarda la natura divina di Gesù e non è certamente un tema di poco conto", osserva giustamente Giorgio Israel. Il confronto tra un ebreo e un cristiano però non dovrebbe cominciare da questo tema. Il motivo sta nel fatto che la divinità di Gesù è stata quasi sempre difesa con categorie filosofiche pagane, di fronte alle quali è comprensibile che un ebreo abbia delle resistenze e nutra il sospetto che si cerchi di difendere concezioni e pratiche idolatriche, cosa che purtroppo corrisponde al vero per larga parte del cristianesimo ufficiale. Il confronto dovrebbe vertere anzitutto sulla risposta da dare a questa domanda: "E' Gesù il Messia d'Israele?" A questa domanda si può tentare di dare una risposta con argomenti biblici, e naturalmente l'ideale sarebbe che ciascuno rinunciasse ad altri puntelli, siano essi storici, filosofici o talmudici. Giorgio Israel fa una dichiarazione giustissima quando dice: "E' impensabile che il popolo ebraico possa tenere solo per sé la Rivelazione ricevuta come fosse un dono privato ed esclusivo. L'elezione non è un privilegio fine a se stesso, ma è in funzione di un dovere verso l'umanità intera." Ed è interessante il fatto che si appoggi a un passo del profeta Isaia: "E' troppo poco che tu sia mio servo per ristabilire le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti di Israele. Voglio fare di te la luce delle genti onde tu porti la mia salvezza fino all'estremità della terra (Isaia 49:6)". A questo punto sorge però una cruciale domanda: "Chi è il servo di cui si parla in questo passo e in tutto il libro di Isaia?" Sulla risposta da dare a questo interrogativo può nascere un interessante confronto basato sui testi biblici. Evidentemente Giorgio Israel è convinto che qui si parla del popolo d'Israele, ma la cosa non è affatto evidente, perché nel versetto precedente si dice: "Ora parla il SIGNORE che mi ha formato fin dal seno materno per essere suo servo, per ricondurgli Giacobbe, per raccogliere intorno a lui Israele", e non sembra logico pensare che sia il popolo a dover raccogliere intorno a Dio il popolo. Anche sull'identità del servo di cui si parla in Isaia 53 esiste una ben nota diatriba: "Si tratta del Messia o del popolo d'Israele?" I rabbini oggi affermano che si tratta del popolo, ma non è sempre stato così. Ben prima che lo facessero i cristiani, e fino intorno all'anno 1000 d.C., il pensiero tradizionale rabbinico sosteneva che in quel passo il servo del Signore è il Messia. Comunque, soltanto dopo che si sia stabilito se Gesù è o no il Messia promesso a Israele si potrà discutere, sempre con argomenti biblici, sulla natura della persona di Gesù. M.C.

Ved. l'articolo "Chi è il servo del Signore?"





4. CHI E' BARACK OBAMA?




Barack Obama attraverso gli occhi dei musulmani

di Daniel Pipes

Cosa pensano i musulmani di Barack Hussein Obama? Hanno tre opzioni a seconda di come egli si presenta, vale a dire come qualcuno che "non è mai stato musulmano" e che è "sempre stato cristiano"; o come un musulmano; oppure come un apostata dell'Islam.
    Le notizie dei media mostrano che se gli americani ritengono, in genere, che il candidato democratico non professava alcuna religione prima della conversione avvenuta all'età di 27 anni, ad opera del reverendo Jeremiah Wright, i musulmani di tutto il mondo, invece, raramente lo considerano cristiano, ma generalmente ritengono che sia o musulmano o un ex-musulmano.
    Lee Smith dello Hudson Institute ne spiega il motivo: "Il padre di Barack Obama era musulmano e pertanto, in base alla legge islamica, lo è anche il candidato. Malgrado i versetti coranici spieghino che non si è affatto obbligati a professare la religione, un bambino o una bambina musulmani assumono la religione del proprio padre (…) i musulmani di tutto il mondo, e ad ogni modo i musulmani che non sono americani, non possono far altro che considerare Barack Hussein Obama un musulmano". Inoltre, dagli archivi scolastici indonesiani egli risulta essere un musulmano.
    Così, un quotidiano egiziano, Al-Masri al-Youm, fa riferimento alle sue "origini musulmane". Il governante libico Mu'ammar al-Qaddafi definisce Obama "un musulmano" e una persona con "un'identità africana e islamica". Un'analisi di Al-Jazeera ne parla come "un non-cristiano", e una seconda allude al padre "keniota musulmano" e una terza, a firma di Naseem Jamali, osserva che "Obama potrebbe non voler essere considerato musulmano, ma i musulmani fanno di tutto per considerarlo come uno di loro".
    Una conversazione avvenuta a Beirut, riportata da Christian Science Monitor, cattura le perplessità. "Per gli arabi è una brava persona perché è musulmano", ha osservato un droghiere. "Non è un musulmano, è cristiano" ha replicato un cliente. Ha poi ribattuto il droghiere: "Non può essere cristiano. Il suo secondo nome è Hussein". Le discussioni in arabo su Obama talvolta fanno riferimento al suo nome come se fosse un'etichetta, che non necessita di ulteriori commenti.
    Come riportato da Tamara Cofman Wittes del Brookings Institution, che ha partecipato in Qatar al 5o Annual U.S.-Islamic World Forum: "Il simbolismo di uno dei candidati chiave alle presidenziali americane che ha come secondo nome Hussein, che ha frequentato le elementari in Indonesia, trasmette indubbiamente qualcosa ai musulmani che non vivono negli Stati Uniti". Thomas L. Friedman del New York Times ha rilevato che gli egiziani "non comprendono di fatto l'albero genealogico di Obama, ma si rendono conto che se l'America - malgrado sia stata attaccata l'11 settembre da militanti musulmani - eleggesse come suo presidente un certo ragazzo che fa di secondo nome Hussein imprimerebbe una svolta radicale nei rapporti tra gli Stati Uniti e i musulmani di tutto il mondo".
    Alcuni leader dei musulmani d'America considerano altresì Obama musulmano. Sayyid M. Syeed, presidente dell'Islamic Society of North America, nel corso di un congresso tenutosi a Houston ha detto che, a prescindere dalla vittoria o dalla sconfitta di Obama, la sua candidatura ravviverà la speranza che i bambini musulmani possano "diventare presidenti di questo paese". Louis Farrakhan, leader della Nation of Islam, ha definito Obama "la speranza del mondo intero" e lo ha paragonato a Fard Muhammad, il fondatore della sua religione.
    Ma questo fervore ha altresì un lato oscuro: i sospetti che Obama abbia tradito la religione di nascita e che sia un apostata (murtadd) dell'Islam. Al-Qaeda ha dato enorme risalto alla dichiarazione di Obama: "Non sono un musulmano". Shireen K. Burki della University of Mary Washington ritiene che Obama sia "il candidato ideale di bin Laden". Se egli dovesse diventare comandante in capo degli Stati Uniti, la Burki ritiene che Al-Qaeda probabilmente "sfrutterebbe il suo background per sostenere che un apostata è a capo della guerra al terrorismo per incitare i simpatizzanti all'azione."
    I musulmani della principale corrente tendono a camminare in punta di piedi intorno a questo argomento. Yasser Kkalil, un egiziano sostenitore di Obama, osserva che sono innumerevoli i musulmani che reagiscono "con perplessità e curiosità" quando Obama viene descritto come un apostata musulmano; Josie Delap e Robert Lane Greene dell'Economist asseriscono perfino che la teoria di Obama apostata è "per lo più assente" tra i columnist e gli editorialisti di lingua araba.
    Quest'ultima affermazione è inesatta, poiché l'argomento è stato invece oggetto di discussione. Almeno un quotidiano di lingua araba ha pubblicato l'articolo della Burki. Il kuwaitiano Al-Watan definisce Obama "un musulmano di nascita, un apostata e un convertito al cristianesimo". Tra le pagine di Arab Times, il progressista siriano Nidal Na'isa ha più volte chiamato Obama "un apostata dell'Islam".
    In breve, i musulmani si scervellano sull'attuale condizione religiosa di Obama. Essi si oppongono alla sua auto-identificazione come cristiano, mentre presumono che sia nato da padre musulmano e che sia stato chiamato Hussein, iniziando la sua vita da musulmano. Se Obama dovesse diventare presidente, le divergenze esistenti nelle opinioni musulmane e americane in merito alle affiliazioni religiose creeranno dei problemi.

(FrontPageMagazine.com, 25 agosto 2008 - dall'archivio di Daniel Pipes)





5. UN'OPERA ALL'INTERNO DELLA SOCIETA' PALESTINESE




La torre della speranza

BEIT SAHOUR (Cisgiordania) - Sta lì come un simbolo di speranza per bambini palestinesi: la torre per arrampicarsi, alta come una casa di tre piani. L'impianto di arrampicata è stato eretto da volontari dell'organizzazione non governativa Paidia. «Noi crediamo alla formazione attraverso attività di tempo libero», ha dichiarato Jason Pollack, che con sua moglie Sarah si è trasferito qui dagli USA per curare il programma per bambini. L'organizzazione Paidia, che con le sue attività vorrebbe comunicare ai bambini senso di responsabilità, coscienza ambientale e tolleranza, da quando ha eretto la sua torre di arrampicata - unica nel suo genere per i palestinesi - si trova al centro dell'attenzione pubblica. Durante la settimana sulla torre possono arrampicarsi soltanto i bambini del campo, mentre nei fine settimana è accessibile a tutti con un piccolo pagamento di 2 shekel (circa 37 centesimi). Paidia rivolge la sua attenzione ai bambini di Betlemme, Beit Jalla e Beit Sahour. La religione non gioca alcun ruolo. I bambini imparano, in un ambiente neutrale, ad aver fiducia l'uno dell'altro e a cooperare fra di loro. Molte città palestinesi non hanno parchi o luoghi per giocare e fare sport. Per la gioventù la noia è programmata in anticipo. I programmi di Paidia quindi vengono incontro ad una grande necessità della società palestinese.
    «Il bisogno di attività di tempo libero è enorme», riferisce Pollack. «Noi diamo ai bambini la possibilita di mettere in pratica quello che hanno imparato e in questo modo di cambiare la loro società». Le attività di Paidia costituiscono un polo che si contrappone ai campi estivi di Hamas e della Jihad islamica. Lì i bambini sono sottoposti a un training paramilitare e sgobbano sul Corano. Solo in quest'ultimo anno Hamas ha organizzato 300 campi estivi in cui decine di migliaia di bambini sono stati indottrinati. Come si lanciano razzi e come si devono trattare gli esplosivi - queste sono le cose che imparano i bambini nei campi della Jihad islamica. Il campo estivo di Paidia per ragazzi da 5 a 18 anni offre invece attività di gruppo in cui si impara come sviluppare qualità di leader o come si può essere di aiuto all'ambiente. Ci sono inoltre, durante tutto l'anno, attività pomeridiane per bambini.
    Paidia si tiene il più possibile alla larga dal conflitto israeliano-palestinese. Pollack dice che ci sono già dozzine di altre organizzazioni che si interessano di questo. La speranza di Paidia è che «una società palestinese rinforzata dall'interno possa anche contribuire alla soluzione del conflitto tra israeliani e palestinesi».

(israel heute, agosto 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





MUSICA E IMMAGINI




Ush'Avtem Mayim




INDIRIZZI INTERNET




Paidia International Development

Jewish.com




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