1. TEORIA COSPIRATORIA E TEORIA DEL CAPRO ESPIATORIO
"Crisi economica mondiale? Colpa degli ebrei"
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Cartello del tempo del nazismo con la
scritta: "Il dio dell'ebreo è il denaro. E per ricavare denaro commette i più grossi delitti. Non riposa fino a che non può sedere su un grande sacco di soldi, fino a che non è diventato il re del denaro." |
Una nuova teoria cospiratoria anti-ebraica si è andata diffondendo negli ultimi giorni via internet: sostiene che alla vigilia del collasso, il mese scorso, della Lehman Brothers, la società avesse trasferito 400 miliardi di dollari in Israele. La teoria, che si presenta sottoforma di un servizio giornalistico, è già approdata su decine di siti web antisemiti e anti-israeliani.
Secondo la nuova calunnia, alti funzionari ebrei della banca d'investimenti Lehman Brothers avrebbero trasferito il denaro dei loro clienti su tre banche israeliane con l'intenzione poi di fuggire in Israele a godersi il bottino senza temere l'estradizione.
Sin dal fallimento della Lehman Brothers, fondata nel 1850 negli Stati Uniti da ebrei immigrati dalla Germania, forum e pagine di commento su internet sono stati inondati da testi antisemiti che accusano gli ebrei d'aver causato la crisi economica globale, etichettandoli come i maggiori beneficiari del disastro: affermazioni diffuse soprattutto su siti di nicchia apertamente razzisti, ma che si possono trovare anche su ben più popolari siti frequentati dalla maggioranza.
L'americana Anti-Defamation League e altri enti internazionali dediti al monitoraggio dell'antisemitismo hanno documentato centinaia di casi di questo tipo solo nelle ultime due settimane. Si sono subito unite al coro un certo numero di organizzazioni islamiste, compresa Hamas che da Gaza ha definito la crisi "la punizione dell'America per le violazioni dei diritti dei popoli di Palestina, Somalia, Iraq, Afghanistan e dei musulmani in tutto il mondo", accusando l'immancabile lobby ebraica d'essere all'origine della crisi. Fawzi Barhum, portavoce dell'organizzazione jihadista palestinese, ha dichiarato che "la crisi è stata causata dalla cattiva gestione economica e dal pessimo sistema bancario messo in piedi e controllato dalla lobby ebraica", accusando il presidente Bush di "restare zitto" al riguardo. "La lobby ebraica - ha aggiunto Barhum - controlla le elezioni americane e stabilisce la politica estera di ogni nuova amministrazione in modo tale da mantenere il controllo sul governo e sull'economia degli Stati Uniti".
"Le plurisecolari calunnie sugli ebrei e il denaro - ha commentato Abraham Foxman, direttore della Anti-Defamation League - covano sempre sotto la superficie".
Ma l'accusa d'aver trasferito 400 miliardi di dollari dalle casse della Lehman Brothers in Israele appare molto più mirata. Il pezzo che sta facendo il giro del mondo è stato scritto simulando un sevizio giornalistico da Washington, firmato da "Voice of the White House" (Voce della Casa Bianca). Il pezzo nomina tre banche israeliane che avrebbero ricevuto il denaro, si dilunga a spiegare le leggi israeliane sull'estradizione e sul segreto bancario, e accusa le autorità americane di essere perfettamente a conoscenza del trasferimento. Abilmente il pezzo cita brani da un vero servizio giornalistico apparso sul notiziario finanziario on-line Bloomberg circa le perdite stimate in 400 miliardi di dollari nella divisione brokeraggio della banca d'investimenti.
Il presunto articolo è apparso per la prima volta una settimana fa sul sito web di Jeff Rense, un ex giornalista noto per aver diffuso numerose teorie cospirative che chiamano in causa ebrei, Israele e amministrazione americana (oltre a UFO, fenomeni paranormali, negazione della Shoà ecc.). Dopo di che il testo è stato ripreso e postato su decine di siti e blog antisemiti. Altri navigatori della rete, che l'hanno letto su quei siti, hanno cercato di copiarlo e riprodurlo su forum e pagine web più rispettabili, come The Huffington Post negli Stati Uniti e The Independent in Gran Bretagna.
La nuova teoria cospirativa riecheggia da vicino antiche calunnie anti-ebraiche: dal noto falso di epoca zarista "I Protocolli dei savi di Sion" fino alla feroce menzogna circolata negli ultimi anni secondo la quale il Mossad avrebbe saputo in anticipo (o, secondo altre versioni, addirittura organizzato) gli attentati dell'11 settembre a New York, e avrebbe avvertito per tempo tutti gli impiegati ebrei del World Trade Center perché quella mattina non si recassero al lavoro.
In realtà furono molto numerosi gli ebrei, di varie nazionalità, che morirono negli attentati terroristici dell'11 settembre 2001 contro gli Stati Uniti. Fra questi, anche cinque cittadini israeliani: oltre a Hagai Shefi, perirono Daniel Lewin (31 anni), Alona Avraham (30 anni), Shai Levinhar (29 anni), Hagai Shefi (34 anni) e Leon Lebor (51 anni).
(Ha'aretz, 12 ottobre 2008 - ripreso da israele.net)
2. CANNONATE VERBALI E LEGALI
Tra Israele e Libano scoppia una nuova guerra per la crema di ceci
di Fausto Biloslavo
In Medio Oriente non bastano i proiettili veri. Fra Libano e Israele è scoppiata la «guerra» culinaria. Il nodo del contendere riguarda storici piatti della cucina di Beirut, e del resto del Medio Oriente, come hummus, falafel e tabbouleh. Gli israeliani li commercializzano con gli stessi nomi e ingredienti. A fasi alterne i libanesi insorgono, ma questa volta sono passati alle cannonate verbali e legali. Il presidente dell'Associazione industriali di Beirut, Fadi Abboud, ha annunciato che citerà Israele in giudizio per obbligarlo a cambiare nome ai piatti contesi. In gioco non c'è solo l'orgoglio culinario nazionale, ma il giro d'affari sulle esportazioni delle prelibatezze. Solo negli Stati Uniti, secondo la catena specializzata negli spuntini, PepsiCo Inc., la vendita dell'hummus nello scorso anno è stata di 192 milioni di dollari. Il capo degli industriali sostiene che la perdita per la concorrenza israeliana è di «dieci milioni di dollari l'anno».
L'hummus è una deliziosa purea di ceci condita con sesamo, olio, aglio e limone. Si gusta con il pane azzimo, oppure la pita, il tipico pane piatto del Medio Oriente. «Stanno rubando i marchi migliori delle nostre pietanze, rivendendole in giro per il mondo», ha tuonato Abboud negli ultimi giorni. Secondo l'agguerrito rappresentante degli industriali, gli israeliani copiano anche «la tabbouleh (semola condita con pomodoro e prezzemolo), le falafel, polpette di ceci fritte nell'olio e l'arak (forte liquore a base di anice), che è la bevanda nazionale libanese». Peccato però che i libanesi non abbiano mai pensato di registrare i nomi dei loro piatti. In ogni caso Abboud è deciso a denunciare davanti alla giustizia internazionale Israele. E starebbe ottenendo l'appoggio del governo. Il Libano è ancora formalmente in guerra con Israele, dopo il conflitto con Hezbollah di due anni fa. I difensori dei piatti tipici vogliono intraprendere la stessa campagna legale della Grecia per il formaggio feta. Francia, Germania e Danimarca sostenevano che Atene non poteva avere l'utilizzo esclusivo del nome. I greci presentarono ricorso alla Corte europea del Lussemburgo e vinsero la causa.
Per i libanesi, l'hummus è come il nostro parmigiano e lo champagne per i francesi. Nessuno sa con precisione l'origine della popolare pietanza. Si parla dei greci e dei romani, ma i primi segnali di hummus risalgono ai crociati. Anche i ristoratori della minoranza araba che vive in Israele stanno con Beirut. Dall'altra parte della barricata cercano di accreditare un riferimento al piatto di ceci addirittura nella Bibbia. Le prime avvisaglie dell'ultima esplosione della guerra culinaria si sono registrate la scorsa estate. Libanesi e palestinesi sono andati su tutte le furie con un film di Adam Sandler. Il protagonista è una testa di cuoio delle forze speciali israeliane che si rimpinza di hummus. Un oltraggio all'orgoglio della cucina araba.
(il Giornale, 9 ottobre 2008)
3. «NON ASCOLTEREMO LE PROTESTE DEL "MONDO»
La strategia della Dahiya
Israele finalmente si accorge che gli arabi devono essere resi responsabili dei loro atti.
di Yaron London*
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Yaron London |
La "strategia della Dahiya" è un termine che si radicherà nel nostro dibattito sulla sicurezza. La Dahiya è il quartiere sciita di Beirut che i nostri piloti hanno ridotto in macerie durante la Seconda Guerra del Libano.
In un'intervista al quotidiano 'Yedioth Ahronoth', Gadi Eisenkot, capo del Comando Settentrionale delle Forze di Difesa Israeliane, ha pronunciato parole chiare, affermando essenzialmente quanto segue: nel prossimo scontro con Hezbollah non ci prenderemo la briga di andare a caccia di decine di migliaia di lanciarazzi, e non verseremo il sangue dei nostri soldati nel tentativo di superare le posizioni fortificate di Hezbollah. Piuttosto, distruggeremo il Libano e non ci lasceremo scoraggiare dalle proteste del "mondo".
Polverizzeremo i 160 villaggi sciiti che si sono trasformati in basi dell'esercito sciita, e non mostreremo misericordia quando si tratterà di colpire le infrastrutture nazionali di uno Stato che, in pratica, è controllato da Hezbollah. Questa strategia non è una minaccia pronunciata da uno zelante funzionario, ma piuttosto, un piano ufficialmente approvato.
Finora, la "strategia della Dahiya"non è stata adottata perché Israele ha tentato di aggrapparsi alla distinzione tra "libanesi buoni" e "libanesi cattivi". Se colpiamo solo i "cattivi", abbiamo pensato, i "buoni" diventeranno più forti. Ed ecco che cosa abbiamo ottenuto: i "cattivi" hanno assunto il controllo del paese.
Ormai, tutto il Libano è un avamposto iraniano. Gli equilibri demografici, il potere militare, la fiducia, le infrastrutture sociali, gli appoggi che provengono dall'esterno, tutto è a favore di Nasrallah (il segretario generale di Hezbollah (N.d.T.) ).
Ciò è sia un bene che un male. E' un male, perché al nostro confine settentrionale vi è uno stato che è interamente malvagio. E' un bene, perché non vi è più alcuna necessità di complicate distinzioni. Il nuovo punto di vista degli strateghi israeliani è che il Libano è un nemico, piuttosto che un complesso mosaico di fazioni, alcune delle quali sono nemiche, mentre le altre sarebbero vittime di una situazione che non è sotto il loro controllo.
- Ognuno è Nasrallah
Nonostante il cambiamento rivoluzionario avvenuto sul fronte interno libanese, non credo che la strategia della Dahiya avrebbe ricevuto l'approvazione ufficiale se il modo di concepire la 'responsabilità' da parte dei nostri leader non fosse cambiato. Questo cambiamento non è stato il risultato di un ordinato processo di analisi, ma piuttosto, di una crescente presa di coscienza che ha portato alla seguente conclusione: i nostri vicini devono essere ritenuti pienamente responsabili delle azioni dei loro leader.
Abbiamo fallito nel nostro sofisticato tentativo di distinguere tra persone innocenti e leader colpevoli. Abbiamo fallito nello sforzo di distinguere tra "persone semplici che hanno padri e figli" e coloro che incitano questa gente semplice. Senza dirlo esplicitamente, siamo giunti alla conclusione che le nazioni sono responsabili degli atti dei loro leader.
In termini pratici, i palestinesi di Gaza sono tutti Khaled Meshaal (il capo dell'ufficio politico di Hamas (N.d.T.) ), i libanesi sono tutti Nasrallah, e gli iraniani sono tutti Ahmadinejad.
Purtroppo questa dottrina non ha preso piede nei giorni successivi al nostro ritiro dal Libano. Peccato che non abbia attecchito neanche subito dopo il "disimpegno" da Gaza, e dopo le prime raffiche di razzi diretti nel Negev settentrionale. In entrambi i casi ci siamo lasciati ingannare dal pensiero che la "gente" non è come i suoi leader, e che la "gente" si preoccupa solo di avere una vita normale, ma è ostaggio di "elementi radicali e irresponsabili".
Se avessimo adottato immediatamente la strategia della Dahiya, ci saremmo probabilmente risparmiati molti problemi. Attuare la strategia della Dahiya a Gaza avrebbe chiarito a Hamas che non intendiamo colpirli in maniera proporzionale ai loro attacchi.
La strategia della Dahiya è l'abituale dottrina adottata dalla maggior parte degli arabi. A loro avviso, i "sionisti" sono criminali, ma tutti i cittadini di Israele sono "sionisti", compresi gli ebrei che non condividono affatto il sionismo. Solo i propagandisti arabi che si sono formati in Occidente fanno distinzione tra il "governo sionista" e il popolo ebraico, "con i quali", dicono, "non abbiamo alcun conflitto storico, e che sono stati in grado di vivere in armonia con noi per centinaia di anni".
Io non propongo di adottare il modo di pensare arabo, ma piuttosto, solo le conclusioni derivanti da una situazione permanente in cui gli Stati e i gruppi politici che sostengono di essere rappresentativi di qualcuno si sottraggono alle loro responsabilità nei confronti di coloro che hanno la pretesa di rappresentare. Mi riferisco alla situazione in base alla quale i civili arabi si lamentano per il fatto di essere puniti a causa dei loro leader, mentre temono i loro leader più di quanto temono noi. Dobbiamo fare in modo che la paura che seminiamo tra loro sia maggiore di quella che essi provano per i loro leader.
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* Yaron London è un noto giornalista e conduttore televisivo israeliano
(Ynetnews, 6 ottobre 2008 - trad. ripresa da Chiosco)
4. I GIUSTI NELLA TRADIZIONE EBRAICA
- Origine del termine.
Il termine Gentile giusto è utilizzato nella tradizione ebraica per indicare i non ebrei che hanno rispetto per Dio. Nella tradizione ebraica, infatti, le numerose norme e precetti contenute nella Torah, nella Mishnah, nella Gemara e nelle Halacha, devono essere rispettate esclusivamente dagli ebrei, che sono tenuti a rispettare il patto che i loro antenati hanno stipulato con Dio. Al confronto delle 613 mitzvot che gli ebrei devono rispettare, i non ebrei sono tenuti a rispettare i principi etici contenuti nelle leggi noachiche: non uccidere, non commettere adulterio, avere un tribunale (un ordinamento legislativo e giudiziario), e così via.
- Significato moderno
Nel 1962, una commissione guidata dalla Suprema corte israeliana ha ricevuto l'incarico di conferire il titolo onorifico di Giusto tra le nazioni. La Commissione - di 35 membri - è formata da personalità pubbliche volontarie, professionisti e storici, molti dei quali sono essi stessi dei sopravvissuti. La Commissione è presieduta da un ex giudice della Corte Suprema: Moshe Landau (dal 1962 al 1970), Moshe Bejski (dal 1970 al 1995), Jakov Maltz (dal 1995).
Per svolgere il proprio compito la Commissione segue criteri meticolosi ricercando documentazione e testimonianze che possano avvalorare il coraggio ed il rischio che i salvatori hanno affrontato per salvare gli ebrei dalla Shoah.
- L'onorificenza
Chi viene riconosciuto Giusto tra le nazioni viene insignito di una speciale medaglia con inciso il suo nome, riceve un certificato d'onore ed il privilegio di vedere il proprio nome aggiunto agli altri presenti nel Giardino dei giusti presso il museo Yad Vashem di Gerusalemme. Ad ogni Giusto tra le nazioni viene dedicata la piantumazione di un albero, poiché tale pratica nella tradizione ebraica indica il desiderio di ricordo eterno per una persona cara. Dagli anni novanta tuttavia, poiché il Monte della Rimembranza è completamente ricoperto di alberi, il
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nome dei giusti è inciso sul Muro d'Onore eretto a tale scopo nel perimetro del Memoriale.
La cerimonia di conferimento dell'onorificenza si svolge solitamente presso il museo Yad Vashem alla presenza delle massime cariche istituzionali israeliane, ma si può tenere anche nel paese di residenza del Giusto se questi non è in grado di muoversi. Ai Giusti tra le nazioni, inoltre, viene conferita la cittadinanza onoraria dello Stato di Israele.
A tutt'oggi, oltre 20.000 Giusti tra le nazioni sono stati riconosciuti. Oltre ai benefici onorifici, i Giusti tra le nazioni possono ricevere anche una sorta di pensione ed aiuto economico se si trovano in difficoltà finanziarie, godono dell'assistenza sanitaria dello Stato di Israele e, se residenti in Israele, hanno diritto ad una pensione.
In Italia le indagini preliminari per il riconoscimento dei Giusti tra le nazioni vengono svolte dal Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano.
(Italia Sera, 8 ottobre 2008)
5. «EBREI, TORNATE!»
Il video di Yael Bartana
di AliceValsecchi
Quando l'arte incontra la politica, il risultato può essere deplorevole: asservimento, strumentalizzazione, banalità... Non è certo il caso del video realizzato dalla regista Yael Bartana e presentato alla Galleria Raffaella Cortese.
Un uomo, con cravatta rosso acceso, giacca sulle spalle e occhiali un po' vintage e un po' da intellettuale, sale su una pedana con microfono, posta al centro del deserto e dissestato stadio olimpico di Varsavia, simbolo del passato regime. Con voce forte, chiara e decisa, rivolge un accorato appello ai 3.300.000 ebrei polacchi che hanno abbandonato la Polonia per sfuggire alle discriminazioni dei loro stessi connazionali. Tale invocazione, tanto toccante nelle sue metafore, quanto razionale nelle sue argomentazioni, è rivolta a spazi vuoti, non a una folla adorante, come la pedana e il microfono dell'oratore lascerebbero supporre.
Sierakowsky, politico polacco incaricato dalla regista di scrivere il testo e solo in seguito divenuto performer per il video, con cipiglio prima chiama gli ebrei gridandone forte il nome, li chiama "connazionali", poi ne sfata la convinzione che nessuno stia attendendo il loro ritorno, paragonando la Polonia a una madre ansiosa, dal sonno agitato dall'assenza di alcuni suoi figli.
Secondo il convincente oratore, i polacchi erano stati felici della partenza degli ebrei dal paese, ma ora ne auspicano vivacemente il ritorno, poiché hanno realizzato di essere incompleti e quindi parzialmente privi di radici.
Con parole di autentica poesia ("Tornate, imparate di nuovo le nostre canzoni, scrivetene di nuove"), rivolge anche all'osservatore un messaggio di respiro universale, soprattutto se teniamo in considerazione il fenomeno sempre più consistente della globalizzazione. Attraverso l'esempio dei polacchi, pentiti d'aver biasimato la diversità dei loro stessi connazionali in passato, egli dimostra quanto invece il mantenere e incoraggiare la diversità possa essere fonte di arricchimento reciproco, alla luce delle attuali difficoltà della Polonia.
Alle sue spalle un gruppo di ragazzini con un grande fazzoletto rosso e bianco (colori della bandiera polacca) al collo prepara sul prato la scritta "3.300.000 ebrei possono cambiare la vita di 40 milioni di polacchi", frase che compiutamente sintetizza il discorso di Sierakowsky.
In mostra anche tre stampe che riprendono immagini del video: un dittico mostra il primissimo piano dell'oratore nel momento in cui pronuncia le parole "Jews" e "Return" (ovvero "Ebrei", "Tornate"), in una sintesi ancora più estrema del suo pensiero; la terza, sgranata come la foto di un vecchio giornale, lo mostra mentre riceve un mazzo di fiori rossi dai ragazzini, riprendendo l'iconografia tipica dei regimi dittatoriali.
Yael Bartana riesce così a comunicare un messaggio forte e intenso, valorizzato dalla performance convincente del giovane e appassionato politico e dalla lunghissima fase di postproduzione che ha dato vita a un montaggio accuratissimo.
Un video da vedere almeno due volte, prima per coglierne il significato letterale, poi per godere della suggestione che trasmette il contrasto tra un messaggio tanto forte, pronunciato con tanta convinzione, e un uditorio completamente sordo.
(Sullarte.it, 9 ottobre 2008)
6. UN PALESTINESE SPIEGA LA SITUAZIONE A GAZA
La colpa di Hamas nell'assedio di Gaza
di Nicole Jansezian
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Elias Zananiri |
Un giornalista palestinese ha dichiarato che Hamas ha quanto meno la stessa colpa di Israele per l'assedio di Gaza. Ha detto inoltre che per paura di ritorsioni nella striscia di Gaza molti giornalisti non riportano tutte le notizie. Agli occhi internazionali, come a quelli dei critici palestinesi, la colpa è sempre d'Israele. E' sempre allo Stato ebraico che viene data la responsabilità della crisi economica in Gaza. Elias Zananiri, un noto nazionalista palestinese che ha lavorato per l'Autorità dell'Autonomia Palestinese, ora ha dichiarato che nella corrispondenza da Gaza sotto il controllo di Hamas si pratica una doppia morale: i reporter criticano la politica palestinese nella cosiddetta Cisgiordania, ma non il terrorismo di Hamas contro i propri abitanti in Gaza.
Quando Israele lascia entrare carburante in Gaza, ha detto Zananiri, dipende da Hamas decidere se "questo carburante sarà usato per i generatori e gli ospedali o per le fabbriche di Qassam. Il carburante sarà messo a disposizione di tutta la popolazione, o lo terrò per la mia casa privata, per le mie auto e le mie guardie del corpo?"
Israele ogni giorno lascia entrare in Gaza più di 100 camion con beni di aiuto umanitario e carburante, infrangendo la generale chiusura delle frontiere voluta da un boicottaggio internazionale contro il governo di Hamas. Un anno fa Hamas è riuscito a conquistare il controllo della striscia di Gaza in una guerra civile contro gli adepti di Fatah. Zananiri accusa i membri di Hamas di sequestrare il carburante per i propri interessi, invece di consegnarlo alla popolazione.
"Il terrorismo con cui Hamas opprime quel 1,5 mil. di palestinesi, che nel vero senso della parola sono ostaggi di Hamas, è di importanza fondamentale", ha detto. "Nessuno può ignorare gli effetti negativi dell'assedio (israeliano) a Gaza, ma esattamente come chiedo alla comunità internazionale di togliere l'assedio, chiedo anche a Hamas - che afferma di portare la responsabilità nella striscia di Gaza, di fare qualcosa affinché l'assedio sia tolto. Ma Hamas non lo fa."
Alcuni corrispondenti stranieri confidano a Zananiri la loro paura di essere cacciati dalla striscia di Gaza o addirittura di essere rapiti. I reporter locali si trovano di fronte a eventualità non belle: "Nella Gaza di oggi si può essere uccisi senza problemi." Alcuni dei suoi amici non parlano al telefono con lui perché temono che i loro telefoni siano controllati da Hamas. "La verità non viene alla luce", accusa. "I racconti che vengono dalla striscia di Gaza dopo la conquista del potere da parte di Hamas sono unilaterali. Non si dice che la situazione è diversa. Mi arrivano continuamente nuovi resoconti di come lavora Hamas, con minacce e intimidazioni."
Ma i racconti da Gaza filtrano. Molti professori palestinesi che appoggiano lealmente Mahmud Abbas hanno scioperato nei primi cinque giorni di scuola per protestare contro "le azioni di Hamas contro i professori". Il segretario generale del sindacato dei docenti, Jameel Shehada, ha detto che è stato dichiarato lo sciopero dopo che la polizia di Hamas ha preso il controllo del sindacato appartenente all'OLP, ha licenziato alcuni impiegati del Ministero dell'Istruzione e ha trasferito alcuni professori in scuole lontane.
Mohammed Abu Shuqair, impiegato al Ministero di Hamas, ha dichiarato che i professori sono stati trasferiti a causa di un "provvedimento giudiziario". Ci si aspetta che Hamas nomini dei suoi propri professori, per sostituire quelli che hanno scioperato. Nella maggior parte delle scuole sono già stati insediati dei docenti fedeli a Hamas.
Anche i medici della striscia di Gaza hanno scioperato per protestare contro il licenziamento di 50 medici e altro personale dell'ente sanitario simpatizzante per Fatah. Circa il 90 percento degli impiegati dell'ospedale principale della città di Gaza hanno aderito all'agitazione. Uno dei dirigenti medici, che ha voluto restare anonimo, ha detto che dei membri di Hamas hanno riunito con la forza medici e personale medico e li hanno portati negli ospedali per costringerli al lavoro.
(israel heute, ottobre 2008, - trad. www.ilvangelo-israele.it)
7. LIBRI
Santi poeti navigatori e razzisti
La storia mai raccontata del periodico fascista "La difesa della razza".
di Miguel Gotor
Sono trascorsi settant'anni dalla promulgazione delle leggi razziali in Italia. Un tema di cui sempre più spesso si fa un uso pubblico distorto, volto a isolare i provvedimenti del 1938 dal fascismo nel suo insieme e, di conseguenza, a relativizzare i caratteri strutturalmente violenti e illiberali di quel regime e le sue aspirazioni totalitarie. Certo non aiuta a una maggiore consapevolezza il successo pubblicistico di un'insistita vulgata anti-antifascista tesa ad affermare l'idea che in Italia il razzismo non fu un fenomeno radicato, ma il frutto tardivo dell'opportunismo di Mussolini e che le leggi razziali vennero applicate all'acqua di rose.
Davanti a un simile scenario in cui l'urgenza della cronaca e gli interessi delle opposte propagande si mescolano a correnti culturali profonde, la prospettiva storica può forse agire come un fascio di luce in grado di illuminare il volto oscuro di tanti stereotipi del tempo presente e aiutare a capire meglio il nostro stretto, ma stratificato paese. A questo proposito giunge particolarmente opportuno il libro di Francesco Cassata «La difesa della razza». Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista (Einaudi, pp. XVI-413, e34). Il giovane autore ricostruisce una storia mai raccontata prima, quella del periodico fascista La difesa della razza, fondato a Roma nell'agosto 1938, che cessò le pubblicazioni nel giugno 1943.
Il saggio è la storia di un progetto culturale, ma anche dell'intellettuale che lo promosse, il siciliano Telesio Interlandi, giornalista dalla prorompente personalità, la cui avventura attrasse anche Sciascia che avrebbe voluto dedicargli il suo ultimo romanzo. Ancora più soverchiante fu la compagnia di «antisemiti di penna» da lui riunita, di cui Cassata ricostruisce con notevole finezza la parabola: i rapporti con l'università, le tensioni con il Vaticano, le rivalità interne al regime, le formidabili ascese, le ambizioni frustrate, l'indefessa fedeltà al duce, arbitro e giudice delle loro fortune. Il legame diretto tra Interlandi e Mussolini garantì alla rivista il sostegno istituzionale del MinCulPop, quello economico delle principali banche e un'ampia diffusione, favorita dal costo contenuto, dall'accattivante veste grafica e da una tiratura di lancio di 140.000 copie.
L'autore fa giustizia di due luoghi comuni che spiegano perché questa rivista sia stata più citata che studiata. In primo luogo, La difesa della razza non fu una tabe scaturita dall'esigenza contingente dell'alleanza con Hitler, bensì il prodotto di una lunga incubazione, che recuperò stilemi tardo ottocenteschi dell'antisemitismo europeo di stampo irrazionalista e rivitalizzò atteggiamenti presenti in una parte non minoritaria della tradizione cattolica italiana. Fra questi intellettuali il razzismo, l'antidemocraticità, il disprezzo anti-borghese furono scelte profondamente vissute, insieme con l'odio verso l'ebreo visibile, ma soprattutto nei confronti di quello invisibile, «quell'animale estraneo, che è ospite occasionale del paese italiano. È l'ebreo, è il mezzo ebreo, è il discendente di accoppiamenti occasionali fra italiani e stranieri, è il nazionalizzato di fresco, è il meticcio».
In secondo luogo, si approfondiscono come non mai le diverse correnti in cui si articolò il razzismo fascista, il che rende impossibile ogni forma di indulgenza per qualsivoglia versione: quella biologica di Interlandi e dei seguaci Almirante, Landra, Lelj, Sottochiesa, quella nazionalista di Acerbo e di Pende e quella esoterica-tradizionalista di Evola e Preziosi. Infatti, secondo Cassata, quando si passa dal livello politico a quello ideologico, la contrapposizione si attenua e prevale un «sincretismo» che costituisce la summa di tutto il razzismo fascista: «la biologia si culturalizza e la cultura si biologizza».
Tra le pagine più interessanti, quelle in cui si analizzano le modalità con cui era orchestrata la rubrica della posta: un coro di voci anonime, dal professore di scuola al «liceale avanguardista», fino alla «giovane impiegata» che chiedeva l'applicazione di un «bracciale giallo» per gli ebrei, plurisecolare pratica cromatica che i ghetti della Controriforma avevano reso familiare: «Ciò è molto importante perché il governo fascista, eliminando gli ebrei dall'esercito, dalla scuola e dagli impieghi pubblici, ci difende soltanto in parte da questi parassiti» e dunque come riconoscerli e tenerli lontani?
Quella «giovane impiegata» oggi potrebbe avere l'età dei nostri nonni. Il razzismo è una bestia velenosa, che cambia colore adeguandosi ai tempi, simile al mostruoso nemico evocato da Benjamin: anche i morti non saranno al sicuro se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere. Vive, ad esempio, nei preamboli di tanti discorsi quotidiani, in cui la scaltrezza e l'innocenza appaiono miracolosamente amalgamati: «Non sono razzista, però...». Però, leggiamo questo libro, de te Italia fabula narratur.
(La Stampa, 13 ottobre 2008)
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