Inizio ยป
<- precedente        seguente ->


Notizie su Israele 449 - 3 gennaio 2009

1. A colloquio con Annette Wieviorka
2. Se Giuseppe e Maria andassero oggi a Betlemme
3. Una testimonianza impressionante
4. L'archivio storico della comunità ebraica di Roma
5. Accade oggi in Israele
6. Libri
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Isaia 41:14-15. "Non temere, Giacobbe, vermiciattolo, e Israele, povera larva. Io ti aiuto», dice il Signore. «Il tuo salvatore è il Santo d'Israele. Ecco, io faccio di te un erpice nuovo dai denti aguzzi; tu trebbierai i monti e li ridurrai in polvere, e renderai le colline simili alla pula."
1. A COLLOQUIO CON ANNETTE WIEVIORKA




Un diverso modo di concepire la storia

di Guido Vitale

Annette Wieviorka
Presidiare la Memoria. Tutelarne le sue fonti autentiche, con rigore, con passione, con libertà di spirito, con una profonda fedeltà alle proprie radici. Pochi, nella sua Francia e in Europa, hanno dato tanto e in modo più autorevole e trasparente su questo fronte, uno dei più delicati della realtà ebraica contemporanea, di Annette Wieviorka. Sessant'anni passati in un soffio, quello che ha fatto attraversare all'ebraismo europeo la seconda metà del 900 e lo ha proiettato nel nuovo millennio con poche certezze e molti valori da difendere. Quelli che hanno segnato le speranze dei suoi genitori, entrambi sopravvissuti alla Shoah, progressisti, bundisti, strenuamente impegnati nel sogno di costruire una società più giusta che non rinneghi l'eredità dei padri, ma la integri nel dibattito politico contemporaneo.
Decenni di lavoro dedicati alla raccolta di testimonianze, allo studio minuzioso, spesso straziante dei meccanismi di distruzione e di terrore che hanno inghiottito la maggior parte dell'ebraismo d'Europa, alla denuncia di come tutto ciò ha potuto accadere.
E una scelta coraggiosa, quella di non nascondersi mai dietro le ritualizzazioni di comodo, dietro al palco delle cerimonie ufficiali che rischiano di confinare la Memoria in una teca e di imbalsamare il contenuto ebraico di questo processo doloroso.
Per chi la conosce solo attraverso la sua attività accademica, Annette Wieviorka è la prestigiosa docente del Centre National de la Recherche Scientifique (Cnrs), la più autorevole istituzione accademica d'Oltralpe. E' uno dei maggiori esperti viventi di Storia della Shoah e di storia ebraica del XX secolo. E' l'autrice di saggi indimenticabili come "L'Ère du témoin" ("L'era del testimone", Raffaello Cortina editore), "Déportation et génocide. Entre la mémoire et l'oubli" (Deportazione e genocidio, fra la memoria e l'oblio), "Auschwitz, la mémoire d'un lieu" (Auschwitz, la memoria di un luogo). E' la voce di un libro che parla al cuore di centinaia di migliaia di ragazzi in decine di lingue diverse, "Auschwitz expliqué à ma fille", Éditions du Seuil ("Auschwitz spiegato a mia figlia", Einaudi) che ai negazionisti è costato più di mille condanne in tribunale. Per chi la va a visitare nel suo salotto di rue du Faubourg Poissonnière, nel nono arrondissement di Parigi, là dove al termine del secondo conflitto mondiale hanno trovato rifugio decine di migliaia di sopravvissuti e dove scorre ancora il magma di una realtà ebraica viva, Annette è una donna che non depone le armi nemmeno quando serve una tazza di caffè. Che ha i modi diretti dei combattenti dei ghetti da cui discende. Una donna che qualcuno ha chiamato la Signora Memoria, e che alla Memoria ha consacrato tutto. Ma alle convenzioni di comodo non è disposta a cedere nemmeno un millimetro.

- La cultura della Memoria che con un immenso lavoro di documentazione e di ricerca è stata stabilita negli scorsi decenni, Annette Wieviorka, resta perennemente minacciata dai revisionismi e dall'oblio. Cosa possono fare gli ebrei contemporanei per tutelarla?
- E' intanto necessario comprendere che la Memoria così come siamo ormai abituati a concepirla, non è un dato di fatto assoluto, ma piuttosto il risultato di una specifica situazione storica. La memoria diffusa, insegnata, praticata e per certi versi istituzionalizzata è nata dal lavoro degli studiosi, ma anche da una specifica contingenza storica. Una situazione che si è manifestata nel 1989 e si è esaurita nel 2001. Il riemergere delle tensioni, le crisi economiche, i contrasti e le incertezze sociali segnano la fine di un concetto generico, buonista e tranquillizzante di memoria e pongono l'interrogativo di come riformulare una concezione autentica della Memoria.

- Dalla fine della Guerra fredda, dalla caduta del Muro di Berlino, all'attentato delle Torri Gemelle. Sarebbe a dire che oggi siamo già nel pieno di una svolta, di un capitolo successivo che ancora dobbiamo imparare a conoscere e di cui non sappiamo tutte le conseguenze?
- Esattamente. La Memoria in quanto istituzione, l'affermazione chiara che la ferita della Shoah esige una riparazione è un concetto che è emerso in una parentesi in cui le tensioni delle contrapposizioni fra blocchi sono cadute, in un mondo dove ha governato un'unica superpotenza. In una situazione economica di crescita costante, di relativa stabilità, di ottimismo. Oggi non è più così.

- E la Memoria, è minacciata?
- Abbiamo di fronte la dimostrazione di quanto sia illusorio pensare che la Memoria di massa sia conquistata una volta per tutte, sia un concetto che si riafferma perpetuamente in automatico senza la necessità del nostro lavoro e della nostra attenzione.

- Ma le leggi che hanno istituito in varie realtà europee la necessità e la tutela di questo concetto non sono sufficienti a stabilizzare la situazione?
- Ero presente a Strasburgo, e sono stata ascoltata, quando il Parlamento europeo ha elaborato la proposta rivolta ai Governi nazionali di fare del 27 gennaio, la giornata dell'abbattimento, nel 1945, dei cancelli di Auschwitz, una giornata da dedicare al ricordo. Ricordo di aver messo in guardia contro i rischi di un'iniziativa del genere. Noi francesi abbiamo già un gran numero di occasioni pubbliche per ricordare il valore della Resistenza, l'orrore delle deportazioni e della Shoah. Il problema non era tanto quello di inquadrare nuovamente tutta questa materia in una iniziativa di legge, ma di rendere la Memoria effettivamente viva e vissuta. In molte altre realtà, fra cui l'Italia, erano ben diverse. L'esiguità numerica della presenza ebraica e altri fattori sociali hanno finito per polarizzare sul Giorno della Memoria un'attenzione quasi esclusiva e molto influenzata dal rapporto con le istituzioni.

- Cosa intende?
- Penso che il tavolo del confronto sul problema della Memoria è divenuto in molte realtà europee, e anche in Francia, il terreno privilegiato, talvolta quasi esclusivo, di confronto fra la minoranza ebraica e le istituzioni.

- E questo, a suo avviso, comporta un rischio? Rischiamo di entrare in un vicolo cieco?
- Ognuno è libero di interpretare le cose come preferisce. Dico solo che si tratta di un fenomeno che non possiamo ignorare, perché in un modo o nell'altro tende a condizionare la nostra esistenza di minoranza e la nostra capacità di esprimere noi stessi e il messaggio di cui vogliamo farci portatori.

- Possiamo citare alcuni esempi concreti?
- Certo. Possiamo osservare che sulla Memoria si dimostrano non a caso particolarmente sensibili governi e istituzioni ansiose di far dimenticare qualche imbarazzo del passato (per esempio una politica di estrema tolleranza nei confronti di Arafat e del terrorismo palestinese, o radici che affondano nel terreno avvelenato dell'estrema destra antisemita). E possiamo osservare che in occasioni di importanti contatti istituzionali le istanze che provengono dal mondo ebraico e le disponibilità che provengono dal mondo politico tendono a incrociarsi sul terreno della Memoria.

- Un esempio concreto?
- L'incontro annuale del Conseil représentatif des institutions juives de France (Crif), la massima istituzione della minoranza ebraica in Francia, cui tradizionalmente partecipa il Primo ministro. Analizzando i contenuti del saluto rivolto alla minoranza ebraica da parte di chi tiene il timone della Francia anno dopo anno possiamo constatare che il tema della Memoria è sempre ben presente. Una volta c'è all'ordine del giorno la costituzione della Commissione Mettéoli e della Missione di studio sulla spoliazione degli ebrei di Francia, una volta la risistemazione del padiglione francese ad Auschwitz, per esempio, ma questo continuo desiderio di rilancio porta poi a giocare con concetti molto importanti e molto delicati in maniera incontrollata. E si arriva all'episodio dello scorso anno, in cui il Primo ministro Nicolas Sarkozy ha annunciato l'idea che ogni scolaro francese avrebbe potuto adottare simbolicamente uno dei suoi coetanei che furono sterminati nella Shoah. Un'idea densa di risvolti delicatissimi, di rischi che non erano stati sufficientemente valutati. Che è stata in seguito da più voci messa da parte e che infine lo stesso Governo ha finito per tralasciare.

- Con queste considerazioni lei sembra associare la sua voce a quella di numerosi intellettuali ebrei contemporanei, che ben distinguendo ovviamente la propria posizione da quella dei negazionisti, stanno vagliando in maniera molto critica gli effetti di una Memoria istituita ex lege.
- La situazione in cui ci troviamo è densa di rischi. La Memoria deve essere difesa strenuamente, ma contemporaneamente, proprio perché vogliamo difenderla e vogliamo che resti cosa viva, dobbiamo accettare un processo di riflessione critica aperto e trasparente.

- Cosa deve passare al vaglio di questo processo?
- Il tema è molto complesso, ma per indicare alcune piste vorrei dire che la Memoria non può essere vittimismo, deve restare affermazione positiva di identità e di autenticità storica. Deve essere agganciata ai problemi della società contemporanea. Deve essere materia viva di studio e di conoscenza. Non c'è spazio per l'ombra del vittimismo, se vogliamo davvero difendere il concetto autentico di Memoria. La minoranza ebraica è depositaria di esperienze immense che possono portare elementi preziosi nell'ambito della società che ci circonda. Non possiamo accontentarci di fare bella figura quando ci chiamano a presenziare a determinate cerimonie. Siamo noi, di conseguenza, che dobbiamo trovare la forza di proporre una visione sana e corretta della Memoria.

- Lei siede in alcune delle più prestigiose istituzioni francesi e internazionali che dedicano i loro sforzi ad affrontare questi temi. Come vede evolversi questa coscienza al loro interno?
- Sono appena rientrata da una riunione della giuria del concorso annuale per la tutela dei valori espressi dalla Resistenza e contro la deportazione in Francia. Si tratta di una grande iniziativa che coinvolge molte scuole francesi e tutte le organizzazioni di ex deportati. La giuria è composta da 40 persone e fra di loro ho contato tre anziani, che rappresentavano il mondo di chi era in grado di portare una testimonianza e una conoscenza diretta sul tema. Tutti gli altri componenti erano rappresentanti di enti pubblici e di fondazioni private, direttori di musei, docenti di vario genere. Tutte persone degnissime, ma che traggono la loro esclusiva legittimazione dal fatto di aver ottenuto un impiego in questo settore. Sono funzionari della Memoria, appositamente retribuiti. E la Memoria rischia di ridursi a un'ideologia, se non addirittura a un'industria.

- C'è qualcosa di male a far crescere una generazione di funzionari e di impiegati specializzati su questo tema?
- Qui non si tratta di dare giudizi moralistici, ma solo di mostrare una situazione particolarmente delicata che dovrebbe essere valutata con attenzione dalle realtà ebraiche. Una situazione che rischia di sfuggire di mano e che potrebbe portarci là dove non sappiamo o forse non vogliamo andare. Esiste una categoria di persone che a vario titolo lavora attorno al concetto di Memoria. Ed è retribuita per questo. Forse non c'è niente di male o forse sì. Ma in ogni caso, è di questo che vogliamo accontentarci?

- Alla pagina del prossimo 27 gennaio, cosa c'è segnato nella sua agenda?
- Per adesso è ancora bianca. Ricevo diversi inviti, ma ora sto cercando la mia strada e faccio fatica ad accettare di andare a fare una parte che non sento mia. Cerco di partecipare a occasioni che tendono a mettere in chiaro come ci siano ebrei che non si accontentano, che cercano nuove strade. E le cercano non certo per mettere la Memoria in secondo piano, ma proprio per offrire alla Memoria la migliore difesa possibile.

- Nell'ambito del mondo accademico francese ha avviato un seminario alla Sorbona in collaborazione con studiosi di diverse discipline, come il giurista, Antoine Garapon, che è autore di un saggio recente e appassionante, "Peut on reparer l'Histoire", Odile Jacob ("E' possibile riparare la Storia?"). E' un percorso di ricerca di si interseca o si distanzia dal suo impegno di storica della Shoah?
- E' un lavoro difficile e molto stimolante che tenta di portare una visione ebraica in un grande tema dei nostri tempi. La storia che vogliamo studiare, conoscere e insegnare non è una materia inerte, ma uno strumento per agire nella realtà. La possibilità di emendare la Storia, di ripararla, di curarne in un certo modo le ferite, e come, e quando, e quanto, credo sia uno dei grandi problemi dello storico e anche del giurista ebreo contemporaneo. Su questo tema, ne sono convinta, abbiamo molto da dire. E la voce di questa minoranza, che qualcuno aveva sperato di spegnere per sempre, continuerà a risonare alta e chiara nel mondo in cui viviamo.

(Notiziario Ucei, 3 gennaio 2009)





2. SE GIUSEPPE E MARIA ANDASSERO OGGI A BETLEMME




Betlemme: menzogne, ancora e sempre

di Michel Remaud

Quando la menzogna è ripetuta, deve essere ripetuto anche il ristabilimento della verità? Il dilemma è questo: denunciare instancabilmente l'errore deliberato e lasciare che il lettore dica che si ripete sempre la stessa cosa, o lasciare il campo alla disinformazione.
    Il 25 dicembre, sul sito del quotidiano La Croix si poteva trovare questa magnifica perla: «Se Giuseppe e Maria facessero oggi il cammino da Nazaret dovrebbero superare cinque check-points per arrivare a Betlemme e ottenere il permesso per recarsi a Gerusalemme.» Bisogna chiamare gatto il gatto e menzogna la menzogna. Dov'è che l'autore della proposizione riportata dall'autore dell'articolo che non la rettifica, ha trovato che si dovrebbe avere un permesso per arrivare a Gerusalemme venendo dalla Galilea? Se si vuol lasciar intendere che il Gesù di oggi dovrebbe essere necessariamente «palestinese», allora bisogna farlo venire da qualche città diversa da Nazaret, che è sempre stata in territorio israeliano dal 1948: una menzogna o l'altra, bisogna scegliere, ma non tutte e due contemporanemente.
    Non si passano «cinque» check-points di controllo per arrivare a Betlemme, ma uno solo, il cui passaggio non presenta alcuna difficoltà la notte di Natale, salvo che per i cittadini israeliani. Ancora una volta bisogna scegliere: i cristiani di Galilea, anche se titolari di un passaporto israeliano, possono accedere liberamente a Betlemme la notte di Natale. Se Giuseppe e Maria fossero fermati oggi allo sbarramento dalle guardie di frontiera, questo non potrebbe essere che in quanto sono... ebrei israeliani!
    Quanto al titolo dell'articolo, è quanto meno tendenzioso: «A Betlemme i pellegrini affluiscono per il Natale nonostante il muro». Tendenzioso, perché lascia intendere che «il» muro dovrebbe normalmente dissuadere i pellegrini dal venire, mentre invece è stato dimostrato che questa chiusura ha l'effetto contrario. Da due anni Betlemme conosce un afflusso di visitatori e pellegrini come non si era mai visto da lungo tempo. Paradossalmente, e senza negare gli effetti mille volte denunciati di questo muro sulla vita quotidiana dei palestinesi, questa chiusura è utile ai commercianti e agli albergatori di Betlemme, che vedono affluire la clientela come negli anni belli precedenti le due intifada.
    Ristabilire la verità è un lavoro senza fine: è come strappare l'erba cattiva a mano a mano che spunta. E purtroppo non hanno ancora inventato il diserbante anti-menzogna.

(Un écho d'Israèl, 30 dicembre 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





3. UNA TESTIMONIANZA IMPRESSIONANTE




Israele e il terrorismo: dopo 25 anni ex Testa di cuoio racconta...

di Anna Rolli

"In quegli anni, in tanti kibbutz, i bambini non vivevano con i genitori, vivevano nel centro dell'abitato, nella bet ayeladim: la casetta dei bambini e a Misgav Am, quella notte, nella casetta stavano dormendo 15 bambini e bambine, i più grandicelli di 4 o 5 anni gli altri piccoli, piccoli. Quando i terroristi sono entrati li hanno chiusi tutti in una stanza, poi hanno rotto la lampadina sulla porta d'ingresso....
    Il mio gruppo, quel sabato, era di turno e verso l'una di notte è scattato l'allarme. Ci hanno ordinato di prendere le armi e di andare fuori ad aspettare gli elicotteri che stavano arrivando. Dopo un'oretta è arrivato il contrordine e ci hanno rimandati a dormire, però senza spogliarci. Dopo un'altra ora e mezza ci hanno richiamati e questa volta gli elicotteri erano già atterrati e ci stavano aspettando...".

- Yehuda abita in un kibbutz, in una piccola casa in Galilea, oggi il suo lavoro è quello di educatore dei giovani ma nell'esercito, per anni, ha fatto parte delle teste di cuoio, il corpo più prestigioso, quello addestrato per i compiti più difficili. Mi ha ripetuto più volte che del suo lavoro non può raccontarmi proprio niente e mentre io lo guardo con malcelato disappunto mi coinvolge in una risata.
- "Se vuoi ti racconto tutto, però dopo dovrò ammazzarti. Sei d'accordo?"

- "Certamente" gli rispondo "Perché no! Mi sembra un vero gentlemen's agreement! Vai pure avanti.
- "Uno dei nostri compiti consisteva nel combattere il terrorismo, quello conosciuto a quello ancora sconosciuto. Dovevamo essere preparati per qualsiasi evenienza e in qualsiasi momento. Per esempio, poco prima del mio arruolamento tre o quattro terroristi hanno sequestrato un autobus lungo la strada principale del paese tra Haifa e Tel Aviv. C'erano 50 persone e lo hanno fatto saltare.
E' stato un momento molto difficile. Abbiamo avuto moltissimi morti e moltissimi feriti. Una delle cause è stata il fatto che i soldati dell'esercito non erano addestrati per fronteggiare un attacco del genere. Si trattava della prima volta e non sapevano che cosa fare.
    Un'altra volta hanno rapito e preso in ostaggio dei ragazzini che dormivano nella scuola di Maalot. Erano ragazzini di Safed, la città santa dove è nata la cabalà, erano in gita scolastica qui in Galilea e allora si usava molto che gli scolari, per una notte, dormissero nelle classi delle scuole con i sacchi a pelo per poi, la mattina dopo, continuare la gita.
    Non so se i terroristi lo sapessero, forse hanno visto le luci nella scuola e sono entrati. Li hanno presi come ostaggi e siccome non era mai accaduto prima nessuno sapeva cosa fare... ognuno tentava di inventare qualcosa... cercavano di salvare i ragazzini però alla fine ci sono stati tanti morti e tanti feriti. Sono stati uccisi anche i terroristi però è costato tanto, davvero tanto.
    Così, in seguito, quando hanno formato le squadre antiterrorismo ci hanno insegnato tutto ciò che si era imparato dall'esperienza passata. Prima seguivamo i corsi e poi ci allenavamo".

- Io ho già saputo dagli altri del kibbutz quello che Yehuda ha fatto tanti anni fa, quando era una giovane testa di cuoio. Di Misgav Am si può parlare, dopo 25 anni non è più un segreto militare, per questo lo incalzo con le mie domande.
- Il Kibbutz di Misgav Am si trova all'estremo Nord e la sua recinzione corre lungo il confine con il Libano, i terroristi avevano scavato sotto e l'allarme non ha funzionato e così sono entrati all'interno. Era un sabato sera e si teneva l'assemblea del kibbutz. Verso mezzanotte finita l'assemblea, il segretario ha visto da lontano che c'era buio sulla porta della casetta ed è andato per cambiare la lampadina. Appena arrivato lo hanno ucciso a coltellate, probabilmente non volevano far sentire rumore. La moglie che lo aspettava, dopo un po', ha chiamato il fratello e gli ha chiesto se lo aveva visto e lui è andato a cercarlo e per fortuna non lo hanno ammazzato, lo hanno legato e messo in un angolo come ostaggio.
    La moglie visto che anche lui non tornava ha chiamato il responsabile della sicurezza che è andato verso la casetta chiamando ad alta voce e i terroristi gli hanno risposto un po' in arabo e un po' in inglese. Hanno dichiarato di aver preso i bambini in ostaggio, di non avvicinarsi e di chiamare l'ambasciatore spagnolo. Il responsabile ha immediatamente informato l'esercito. Quando siamo atterrati, c'erano tantissime persone e tantissimi soldati e tutti cercavano una soluzione.
    Un'altra squadra arrivata prima di noi non era stata in grado di risolvere il problema. Avevano cercato di entrare ma i terroristi avevano ucciso un soldato costringendoli a ripiegare. Non sapevamo ancora quanti fossero i terroristi perché avevano coperto tutte le finestre. Abbiamo discusso su come agire e ci siamo preparati molto velocemente.
    In mezz'ora, 40 minuti, eravamo pronti e abbiamo circondato la casa, mentre delle persone specializzate nelle trattative cercavano di parlamentare con i terroristi per capire che cosa volessero e per mandare un po' di latte e di cibo ai bambini. I terroristi hanno accettato di prendere il latte e intanto noi cercavamo di guardare dentro perché ogni tanto qualcuno si avvicinava alle finestre per osservare fuori. Ci eravamo divisi in tre o quattro gruppi per poter entrare contemporaneamente attraverso tutte le aperture dell'edificio, sapevamo di dover entrare molto velocemente altrimenti avrebbero avuto il tempo per ammazzarci oppure per far saltare in aria la casetta, con dentro noi, loro e i bambini, una cosa del genere richiede solo un attimo ed è un rischio grandissimo.

- Ma cosa volevano?
- Volevano che venissero liberati 150 terroristi in prigione in Israele, poi un pullman che li portasse tutti insieme all'aeroporto per fuggire all'estero. Volevano anche l'ambasciatore spagnolo come copertura politica. Questa era la loro richiesta e ci hanno consegnato la lista. Siccome era sabato i mediatori hanno iniziato una discussione lunghissima sostenendo che l'ambasciatore non si trovava da nessuna parte

- Era vero?
- No, non credo, probabilmente non lo avevano neppure contattato. Israele aveva già capito una cosa molto importante: se si cede ai terroristi non ci sarà più modo di fermarli. Oggi lo ha capito tutto il mondo, cedere a una loro richiesta significherebbe incentivarli, il terrorismo aumenterebbe sempre di più perché diventerebbe una buona strada per ottenere ciò che vogliono.
    Durante la trattativa cercavano di capire in quanti erano e poi di convincerli a venire fuori con la promessa di non colpirli. Noi eravamo pronti dalla mattina alle sei e carichi di peso. Il solo giubbotto antiproiettile, all'epoca, era di ceramica speciale e pesava 25 chili, era come l'armatura dei cavalieri antichi, noi eravamo pronti ad indossarlo perché un terrorista può colpirti anche da vicino quindi mettevamo volentieri qualsiasi cosa potesse proteggerci ma non eravamo robot, la tensione era così alta e la paura così grande che ci tremavano le gambe e le mani.
    Siamo rimasti quattro ore senza muoverci, tremando e aspettando. Pensavamo soltanto che se la decisione fosse stata quella di entrare, sarebbe stato meglio farlo il prima possibile. All'improvviso i terroristi hanno iniziato ad urlare, "Mandate via tutti. Sappiamo che ci sono i soldati, mandateli via, altrimenti facciamo esplodere tutto".
    I soldati non si vedevano, eravamo nascosti, e quindi ci siamo molto spaventati e preoccupati che qualcuno da fuori li informasse con una ricetrasmittente e la nostra tensione è aumentata a dismisura. Verso le 10 del mattino si sono visti, di nuovo, alcuni terroristi alle finestre, oramai sapevamo che erano 5 o 6 e quindi abbiamo deciso di tentare di entrare con la forza pensando che fosse l'alternativa meno rischiosa. Il comandante del mio gruppo si è lanciato per aprire la porta ma ha preso un colpo nella mano e non è riuscito, ha tentato il secondo e dietro la porta c'era un terrorista davanti ad una grande mitragliatrice.
    Per fortuna avevamo dei cani addestrati a saltare addosso a chi spara, uno di loro si è slanciato ed è morto con 150 proiettili in corpo salvando il mio amico che è stato il primo ad entrare e che è riuscito appena in tempo ad uccidere il terrorista. Poi è andato subito nella stanza dove erano i bambini e ha iniziato a portarli fuori perché la nostra paura più grande era che tutto saltasse per aria.
    Non sapevamo quanto tempo avessimo. Io ero forse il quinto nella fila e mentre passavamo sotto le finestre, prima di aprire la porta, ci hanno buttato una bomba a mano con delle schegge piccole ma di una energia micidiale e l'amico che mi precedeva è stato ferito abbastanza gravemente, era pieno di schegge nelle gambe, nel viso, nella schiena, è caduto e noi di corsa lo abbiamo sollevato e passato dietro in modo che lo portassero dal medico poi abbiamo iniziato ad entrare cercando di salvare i bambini.
    Ancora mi ricordo che arrivato alla porta mi hanno passato un bambino piccolo piccolo e sono andato di corsa a darlo a qualcuno, poi sono tornato indietro e mi hanno dato un altro bambino e poi quando sono tornato indietro di nuovo il comandante urlava "Uscite, uscite, uscite" perché aveva paura che tutto potesse esplodere. Questo è accaduto nell'angolo dov'ero io con il mio gruppetto.
    Ho visto tutto con i miei occhi e ricordo anche che quando hanno buttato la bomba a mano e il mio amico che stava proprio davanti a me è caduto ferito, io istintivamente stavo per sparare per difendermi, per paura che mi lanciassero un'altra bomba e in un attimo ho realizzato che c'erano dei bambini e che era meglio non sparare.
    Si corrono rischi grandissimi quando si combatte contro terroristi che hanno ostaggi, si rischia di provocare un danno tremendo! Dall'altro lato della casa, dalla porta sul retro era entrato un altro gruppo e anche lì il comandante mentre cercava di aprire la porta ha sentito all'improvviso un colpo nella pancia e si è reso conto che il suo fucile non funzionava più e allora si è spostato ed è entrato il secondo. Aveva ricevuto un colpo sul caricatore del fucile e per fortuna non gli era successo niente di peggio.
    I soldati del terzo gruppo passando dal tetto erano penetrati velocemente da una finestra per ritrovarsi in una stanza vuota dove c'era il signore preso in ostaggio, legato in un angolo. Erano i soldati arrivati prima di noi che, durante la notte, avevano subito un colpo terribile per la morte del loro compagno e, per fortuna, non hanno dovuto fronteggiare una situazione troppo difficile.
    Tutto è avvenuto in un minuto, al massimo in un minuto e mezzo, alla fine i bambini erano fuori, soltanto uno era morto e



non sappiamo di preciso come sia successo, se lo avessero ucciso durante la notte perché piangeva oppure al momento dell'attacco. Anche i terroristi erano morti, quattro erano stati colpiti alle finestre e il quinto, quello con la mitragliatrice, sulla porta principale.
    Subito dopo sono entrati gli artificieri per controllare la casa e si sono assicurati che non ci fossero esplosivi. Poi nel kibbutz ci hanno invitati per passare una serata insieme e per conoscerci perché per loro era stata una esperienza davvero scioccante.
    Erano morti un uomo e un bambino, però tutti gli altri erano sani e salvi e questo sembrava un miracolo. Una cosa incredibile! Poi non se ne è più parlato, non ne hanno parlato né i politici, né la stampa ed è stato dimenticato.
    Due anni fa è caduto il 25o anniversario di quell'attentato e per l'occasione al kibbutz hanno invitato tutte le persone coinvolte. Io purtroppo non ho potuto partecipare perché ero all'estero ma mi hanno detto che l'incontro è stato molto, molto commovente. C'erano tante persone che hanno raccontato tutta la storia come la ricordavano e c'erano anche i bambini, oramai uomini e donne, ma da quello che mi hanno detto non ricordavano nulla perché al tempo dei fatti erano tutti molto piccoli. Probabilmente per loro era stato un trauma tremendo e lo avevano cancellato dalla memoria.

- Erano terroristi vicini al movimento di Arafat?
- Certo, erano terroristi di Al Fatah e chiedevano la liberazione di altri terroristi di Al Fatah in prigione da noi.

- I cinque terroristi sono stati tutti ammazzati?
- Erano tutti armati quindi non c'era scelta, dovevamo ucciderli altrimenti avrebbero ucciso qualcuno di noi. I mediatori, durante i negoziati, avevano cercato di convincerli ad arrendersi ma non c'era stato nulla da fare. Non volevano neppure sentirne parlare anzi si arrabbiavano di più. Si capiva che erano pronti a veder soddisfatte le proprie richieste oppure ad uccidere. Non c'era una via di mezzo.

- Perché non puoi raccontare della vostra attività nelle teste di cuoio?
- I fatti, anche se sono passati tanti anni, rimangono segreti militari. Del corpo di cui facevo parte non si può raccontare assolutamente nulla. Né il dove, né il come, né il quando, né la motivazione.
    Sarebbe sbagliato parlare del nostro lavoro, potrebbe avere conseguenze negative sulla sicurezza d'Israele perché è molto difficile inventare nuovi metodi per combattere.
    Per esempio, prima di Misgav Am nessuno sapeva della possibilità di utilizzare cani addestrati contro chi spara, dopo è stato riportato dalla stampa e quindi oggi i terroristi ne sono informati. Ci sono dei fatti che è meglio non raccontare perché se il nemico ne viene a conoscenza può organizzarsi meglio contro di noi.
    Noi speriamo che nel futuro non ci siano più terroristi però oggi, purtroppo, ancora ci sono e agiscono contro Israele e contro i civili. Non si tratta di una guerra normale, di forze armate contro forze armate, qui tutto il paese è frontiera e tutte le persone sono in pericolo, sempre.
    Prima della barriera di sicurezza c'erano attentati tutti i giorni, nei luoghi più impensabili: nei centri commerciali, nei pullman, nelle scuole, nei cinema, in qualsiasi posto dove ci fosse gente.
    Voi lo chiamate il Muro perché ci sono 8 km di muro di cemento costruito nelle località dove si sparava. Vicino a Gerusalemme, per esempio, ci sono due colline una di fronte all'altra e da lì si sparava. Quando alcune famiglie hanno ricevuto dei colpi dentro casa gli israeliani hanno costruito il muro lungo la strada per bloccare i proiettili.
    I terroristi non sparavano mai da casa propria, entravano in case dove vivevano famiglie arabe e sparavano pur sapendo che l'esercito avrebbe colpito i civili innocenti e le loro case perché ovviamente noi rispondevamo verso la direzione dalla quale provenivano i colpi e invece magari i terroristi erano già andati via. Hanno fatto così moltissime volte.
    Nelle località da dove non si sparava, invece, abbiamo messo una recinzione metallica, con le pattuglie e le telecamere per dare l'allarme. Quando una persona esce chiude a chiave la porta di casa perché non vuole che qualcuno entri senza permesso. E' normale! Oggi, in Israele non si permette più a nessuno di entrare senza permesso. E come se avessimo chiuso a chiave la porta d'Israele. E' un atto di difesa ed era proprio necessario!

- L'Alta Corte di Giustizia, per venire incontro alle legittime esigenze degli arabi, in alcuni posti, ha ordinato all'esercito di spostare la barriera. Per esempio a Ma'aleh Adumim, lo scorso agosto.
- Sì, ovviamente, quando lo decide la magistratura non c'è alcun problema a fare spostamenti . In Europa fanno il paragone con il muro di Berlino, il che è una assurdità, il muro di Berlino era stato costruito dal governo fascista della Germania dell'Est per impedire alla gente di fuggire, un governo che si definiva comunista ma era più fascista che comunista perché era una dittatura. In Israele non serve per impedire alla gente di passare ma per impedire gli attentati e non c'era altra soluzione.

- Perché ha diciotto anni hai scelto di entrare nelle teste di cuoio?
- Prima dell'arruolamento vieni chiamato per essere sottoposto a tutti i controlli. C'è anche un'intervista e gli psicologi ti domandano che cosa pensi del servizio militare, cosa vorresti fare e perché vuoi entrare nell'esercito. Io risposi che non "volevo" entrare nell'esercito, che anzi mi avrebbe fatto molto piacere non doverci entrare, mi avrebbe fatto molto piacere viaggiare per il mondo, andare all'università, o restare nel mio kibbutz! Io non ero per niente contento di entrare nell'esercito! Però, siccome è un obbligo civile per tutti quelli che vivono in Israele, siccome nella sicurezza la situazione è sempre molto difficile, poiché era il mio turno, anch'io ero disposto ad andare a difendere la mia famiglia e i miei amici.
    In quel momento toccava a me fare per gli altri ciò che gli altri, fino ad allora, avevano fatto per me. E dato che ero obbligato ad entrare nell'esercito volevo farlo nel modo migliore possibile per cui ho scelto un corpo speciale dove avrei potuto dare il meglio di me stesso.

- L'addestramento ti è piaciuto?
- L'addestramento è stato molto lungo e difficile, però molto interessante perché mi piace studiare e ho imparato tante cose che mi sono servite per tutta la vita. Per esempio, devi imparare ad orientarti di notte in posti che non conosci, dove non c'è niente: né strade, né sentieri, né illuminazione. E' una cosa molto difficile però in seguito ti rimane una sensazione molto forte di sicurezza personale.
    Ho imparato molto bene a scalare le rocce con le corde e questo può essere utile per salvare la vita di qualcuno e ho anche seguito un corso di pronto soccorso. Altre cose mi sono servite moltissimo, in seguito, per organizzare le gite e i campeggi con i ragazzi, in tutto il mio lavoro di educatore che consiste tra l'altro nel saper creare un gruppo unito, capace di "fare insieme".
    Si tratta di una formazione personale molto importante per chiunque. Se decidi qualcosa sai come raggiungere il tuo obiettivo. In ogni campo, nello studio, nel commercio, nell'amicizia ... Quando decidi sai come arrivare. Cercano di addestrare persone che siano capaci di sopravvivere ma anche di portare a termine una missione nonostante le tante difficoltà da fronteggiare, capaci di trovare una soluzione anche nei momenti più difficili.

- Nella formazione del soldato come viene affrontata la dimensione etica?
- Durante l'addestramento si parla moltissimo di quello che può succedere e di come bisogna comportarsi. Per esempio, in Libano durante la prima guerra, cioè nell'82, molte volte è accaduto che avanzava una donna incinta oppure un uomo con una bandiera bianca allora abbassavamo le armi e invece dietro di loro si nascondeva qualcuno armato che li stava usando come scudo e che ci colpiva. Come comportarsi in questi casi?
    Per esempio, da riservisti nella striscia di Gaza si facevano dei controlli, si andava sui tetti delle case e si stava lì a guardare se succedeva qualcosa. I giovani arabi lo sapevano e quando uscivano da scuola, nel primo pomeriggio, iniziavano a tirare sassi molto grandi con delle piccole balestre, erano molto pericolosi perché potevano ucciderti o romperti una gamba o un braccio, usavano anche delle fionde per lanciare biglie di acciaio che se ti colpiscono sono quasi come un colpo di fucile.
    Con la mia pattuglia una volta ci siamo ritrovati sotto una valanga di sassi e di mattoni ed eravamo molto nervosi per il pericolo, se ci fossero stati ragazzi più giovani, con meno esperienza e meno pazienza, sicuramente avrebbero iniziato a sparare e avrebbero ucciso qualcuno.
    E' stato un momento di grande pericolo e non un gioco da bambini. In certi casi ci vuole moltissima forza interiore per non reagire. Altre volte, quando arrestavamo dei palestinesi e li portavamo alla base, con le mani legate, succedeva che dei giovani soldati di unità non combattenti iniziassero a molestarli, non è che li colpissero o li maltrattassero, cercavano di infastidirli con le parole ma noi li allontanavamo e l'abbiamo sempre impedito.
    Nel corso dell'addestramento si parla moltissimo di casi come questi, di come bisogna comportarsi e di cosa sia giusto fare, sia tra i soldati che tra i comandanti è un argomento molto vivo, il discorso è sempre aperto e molto discusso. Non dico che ogni tanto qualcuno non si comporti male ma c'è sempre qualcun'altro che glielo impedisce e lo rimprovera, non passa mai inosservato.

- In Italia la stampa, specialmente quella dell'estrema sinistra, spesso non è tenera con Israele e il suo modo di fare lotta al terrorismo. I soldati di Tsahal vengono descritti come cinici militari che uccidono freddamente donne e bambini.
- Sono cose assurde, se un soldato fa qualcosa contro la legge lo arrestano e lo mettono sotto processo. Niente passa sotto silenzio, qualsiasi infrazione viene trattata molto severamente e molto seriamente..

- L'anno passato qui in Israele è scoppiata una polemica quando alla facoltà di Storia dell'Università di Gerusalemme è stata premiata una studentessa per una ricerca sul comportamento di Tsahal. Per spiegare il perché i soldati israeliani non abbiano mai stuprato le donne arabe si avanzava l'ipotesi che fosse per una attitudine razzista.
- Ho sentito parlare di quello studio. E' proprio un'assurdità! Qualsiasi cosa facciano i soldati non va bene! In tutta la mia vita non ho mai sentito che sia stata stuprata una sola donna araba. Non c'è una sola testimonianza neppure da parte degli arabi che sono stati mandati via e che sono nostri nemici. Nell'esercito israeliano è molto chiaro che ci sono delle cose che non si fanno. Non si fanno in nessun caso. Non si fanno e basta!
    Sin da quando è nato lo Stato e anche da prima, quando c'era l'Haganà, l'esercito israeliano è stato fondato come esercito del popolo, non da professionisti che fanno la carriera militare, ma dal popolo stesso che voleva difendere il popolo. Per questo il primo discorso che si fa alle reclute è quello etico e morale. Ci rendiamo perfettamente conto di quanto sia difficile essere un soldato attento alla dimensione etica, si pone quasi una contraddizione in termini, ma nonostante sia molto difficile non si è mai rinunciato. E' importantissimo e tutti ne parlano. Dal primo sottufficiale fino al capo dell'esercito è un argomento di cui si discute continuamente.

- Posso chiederti che rapporti umani si stabilivano tra voi Teste di Cuoio?
- Questa è una domanda molto interessante perché si attraversano talmente tante difficoltà insieme che dopo non hai più nulla da nascondere, si stabilisce una tale vicinanza, una tale apertura fisica e mentale... Sai tutto dei tuoi compagni e loro sanno tutto di te.
Durante le azioni ci difendiamo l'uno con l'altro, quindi tutto il tempo sai che puoi contare sugli altri e questo fa nascere un'amicizia molto profonda che dura per tutta la vita. Io posso chiamare uno qualsiasi della mia squadra, in qualsiasi momento e so che tutti farebbero il massimo possibile per aiutarmi come il viceversa.
    Anche se sono passati già 25 o 30 anni da quando ci siamo conosciuti. Nella mia squadra siamo in 14, alcuni sono sposati e hanno figli e altri no. Ci incontriamo tre o quattro volte l'anno per fare delle gite nei fine settimana insieme alle mogli e ai figli, cerchiamo un posto per dormire all'aperto con le tende o in un piccolo ostello, nel deserto, in Galilea, per tutta Israele. Una volta all'anno invece facciamo un incontro di soli uomini.
    Quando si rischia la vita insieme nasce un rapporto molto, molto profondo e vedo che anche i miei figli nell'esercito hanno stabilito amicizie molto profonde. Certamente ci sono anche gli amici che incontri all'università o nel lavoro ma quelli dell'esercito rimangono speciali.
    Ora per esempio, capisco una cosa che non avrei creduto. Qui in kibbutz sono cresciuto insieme agli altri ragazzi e ragazze, abitavamo insieme, giocavamo insieme, mangiavamo insieme, stavamo sempre insieme, dalla nascita fino a 18 anni, eravamo molto vicini e avevamo una grande amicizia, comunque quello che ho vissuto in tre anni con gli amici dell'esercito è stato ancora più profondo. E' una cosa difficile da spiegare e che non ti aspetteresti, anche in kibbutz eravamo molto vicini però con gli altri ho rischiato la vita insieme e quindi abbiamo raggiunto una profondità dell'anima e un'apertura totali.

- Cosa si prova quando si uccide?
- È una cosa molto difficile, io non credo che esista una persona che possa uccidere a sangue freddo. Certo ci sono gli psicopatici ma i soldati israeliani non sono psicopatici quindi provano dolore, paura, tristezza, tante sensazioni. Se uccidi qualcuno che è armato e che ucciderebbe te oppure dei civili non hai nessuna possibilità di scelta, si tratta di un momento tragico nel quale da una parte c'è la sua vita e dall'altra la vita tua e quella degli altri.
    E' la tragicità di chi deve difendere il popolo, le persone. A volte non hai un altro mezzo per fermare un terrorista che ucciderlo. Che cosa fai?

- Come in Italia per i partigiani che combattevano i nazifascisti. Avrei voluto chiedere a mio padre se durante la guerra avesse ucciso qualcuno, avrei voluto ma non ne sono mai stata capace. Sentivo che si trattava di una domanda terribile.
- È proprio una sensazione tragica. Che poi ti peserà per tutta la vita. Ci sono studi sui soldati che presentano la sindrome post- traumatica da combattimento. Israele è il posto al mondo dove si studia di più quello che la gente prova dopo la guerra, quando non si riesce più a lavorare, a dormire... sicuramente si tratta di uno shock tremendo.

- Forse la prima volta è la peggiore.
- Non penso che la seconda volta sia meno grave dalla prima. L'unica differenza, forse, è che sai già cosa stai vedendo. La prima, la seconda, la terza, la quarta..... è sempre una cosa tremenda, tremenda.

- Molte volte ho ascoltato il racconto dei partigiani e ho sempre considerato una grande fortuna il non essere stata costretta nella mia vita ad uccidere qualcuno.
- Certamente. Certamente.

- Ho visto una tale disperazione sul viso di alcuni soldati al ritorno da una missione.
- L'esperienza dell'esercito non è facile e ti matura moltissimo, ti fa vedere il mondo da un altro punto di vista che certo non è bello. I giovani in Italia non vivono neppure la metà delle esperienze dei giovani israeliani. Rispetto a un ragazzo italiano di 22 anni, un ragazzo israeliano della stessa età è come se avesse vissuto 10 o 15 anni in più di esperienze personali.
    Le responsabilità che i nostri ragazzi prendono sulle spalle sono responsabilità che altrove tanti uomini adulti non hanno mai portato. Responsabilità enormi. Una cosa molto difficile.

(Agenzia Radicale, 29 dicembre 2008)





4. L'ARCHIVIO STORICO DELLA COMUNITÀ EBRAICA DI ROMA




La memoria storica degli ebrei di Roma messa in salvo

di Lucilla Efrati

Inaugurato nel giugno 1997, l'Archivio Storico della Comunità ebraica di Roma, uno degli archivi ebraici più grandi e più importanti d' Europa, sorge nello stesso edificio che ospita il Tempio Maggiore, il Museo ebraico ed altri uffici della comunità, in esso rivivono la storia e la vita degli ebrei nel ghetto di Roma, dal sedicesimo secolo agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, raccontata da centinaia di documenti, registri e pergamene.
Nel dicembre 2005 l'Archivio Storico ha presentato un progetto di finanziamento attraverso la legge 175 destinata alla tutela dei beni culturali ebraici in Italia per il restauro del materiale cartaceo di maggior valore e maggiormente danneggiato prendendo anche in esame la possibilità della sua digitalizzazione.
Un impegno economico importante che prevedeva inizialmente lo stanziamento della somma di oltre 400 mila euro.
Dell'esperienza abbiamo parlato con i responsabili dell'Archivio, Silvia Haia Antonucci, archivista, e Claudio Procaccia, consulente storico.

- Perché si è pensato di presentare un progetto di questo tipo, quali gli intenti, quali le finalità?
- Nel corso del riordino del materiale dell'Archivio storico della Comunità Ebraica di Roma iniziato nel 2001, è emersa la necessità di restaurare parte della documentazione che si trovava in condizioni degradate caratterizzate da mancanza di copertina, dall'inchiostro acido che perforava i documenti, dalla presenza di muffe e di carte lacere. Abbiamo proceduto al restauro di parte della documentazione tramite donazioni di privati e finanziamenti della Soprintendenza Archivistica per il Lazio. Nel frattempo, i vertici della Comunità ci hanno comunicato la possibilità di chiedere finanziamenti per il restauro grazie alla Legge 175.

- Quale iter è stato intrapreso?
- Nel dicembre 2005 abbiamo presentato la domanda all'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane per quanto riguarda l'anno di riferimento 2006, mentre, a settembre 2006 abbiamo presentato la domanda relativa all'anno 2007. A causa dell'errore iniziale da parte del Ministero per i Beni e le attività Culturali che l'ha attribuita al Dipartimento per i Beni Culturali e Paesaggistici-Direzione Generale per il Patrimonio Storico, Artistico e Etnoantropologico la gestione del finanziamento ottenuto dalla Comunità Ebraica di Roma per il restauro della documentazione del suo Archivio Storico, non abbiamo ricevuto tempestiva comunicazione ufficiale del finanziamento ottenuto. Solamente a dicembre 2006 è stato possibile individuare il gestore del contributo e pertanto abbiamo potuto dare inizio ai lavori. Per quanto riguarda l'anno 2006, sono stati stanziati 150 mila euro per il restauro della documentazione. Per il 2007 sono stati stanziati 50 mila euro per il restauro del materiale, in seguito ridotti a 43.700 euro , e 20 mila euro per il restauro dei volumi della biblioteca.

- Quando sono iniziati i lavori, quando sono giunti a compimento?
- Il primo ordine per il restauro della documentazione è stato emesso il 21 dicembre 2006.
Sino ad oggi sono stati affidati per il restauro sette lotti per euro complessivi pari a 99 mila euro. Dell'iniziale finanziamento di 150 mila euro, stanziato nel 2006, sono ancora da impiegare circa 50 mila euro. Hanno concorso al rallentamento dell'attività di restauro, oltre all'iniziale errore del MiBAC, anche il fatto che l'ASCER, a causa di lavori di ristrutturazione, è chiuso da circa un anno e mezzo, e ciò ha causato la sospensione dei restauri del materiale cartaceo per circa un anno.

- Pensate che ci siano altri beni da salvare per i quali sarebbe opportuno presentare domanda di finanziamento attraverso la legge 175?
- Sì, certamente sarebbe importante realizzare almeno questi progetti: sempre nell'ambito della conservazione delle fonti archivistiche e dei testi a stampa e manoscritti riteniamo fondamentale, per la ricostruzione della storia delle famiglie ebree romane, il restauro e la catalogazione delle lapidi del riquadro israelitico del cimitero Verano, nell'ambito della conservazione della documentazione archivistica, sarebbe importante digitalizzare i documenti più preziosi al fine di ridurne l'usura ed infine per la conservazione e la consultazione dei libri della Biblioteca della Comunità sarebbe opportuno dare continuità all'attività di restauro degli stessi.

(Notiziario Ucei, 31 dicembre 2008)





5. ACCADE OGGI IN ISRAELE




Sempre più spesso si possono leggere sui giornali israeliani degli annunci privati che invitano il popolo a ritornare a Dio e profetizzano la fine dei tempi per i prossimi anni. Abbiamo provato a chiamare uno dei numeri indicati in quegli annunci. Ha risposto un uomo di nome Daniel che ci ha enumerato i segni di quando cadranno i razzi e di quando scoppierà la battaglia di Gog e Magog. Il Messia vive già in Israele e, come ha detto anche Rabbi Jitzchak Kadurf, il popolo sarà sorpreso quando verrà a sapere chi è questo Messia. «La maggior parte delle persone l'ha conosciuto, ma non sa che è lui il Messia!»
Questo tipo di annunci è uno dei segni di tensione spirituale nella società e nella politica israeliane che si vedono sempre più spesso.

(israel heute, dicembre 2008 - trad. www.ilvangelo-israele.it)





6. LIBRI




Come Stalin creò Israele

Un libro, frutto del lavoro sui documenti "declassificati" del Ministero degli Esteri russo porta elementi inediti nella ricostruzione della spartizione del 1948.

di Marco Tosatti

Mi permetto una volta ogni tanto un off topic anch'io, giustificato dall'emergenza internazionale che vede coinvolti Medio Oriente, Europa, Stati Uniti e Russia nella crisi di Gaza. Lo faccio per parlare di un libro che mi è stato inviato, ho letto e ho trovato particolarmente interessante. L'autore è un giornalista russo; e nell'introduzione alla traduzione italiana Enrico Mentana scrive che "a volte il lavoro di un giornalista… riesce a colmare anche le lacune degli storici. Accade soprattutto quando gli studiosi anno per scontato o accantonano un dato evidente per il tempo in cui vivono. Succede poi che quell'evidenza si stemperi negli avvenimenti successivi, fino a scomparire dalla memoria comune e dai manuali". E' il caso del ruolo decisivo giocato dallo stato sovietico nella nascita dello stato ebraico. Un ruolo che dagli anni '50 in poi nessuno aveva più interesse a ricordare; né Washington, sempre più legata a Israele, né Mosca, che era diventata il punto di riferimento per i paesi arabi opposti a Israele. Scrive ancora Mentana: "La gran parte dei nostri contemporanei crede che Israele sia nata sulla scia dell'emozione per la scoperta dell'Olocausto; ma così non è stato. Né per l'Occidente , che stava riposizionando ex nemici ed ex alleati, né per il Cremlino dove l'unico che decideva non era certo tipo da impressionarsi per gli stermini altrui. Il fatto che Auschwitz sia stato scoperto e liberato dai soldati a cavallo dell'Armata Rossa ci rimane ormai solo dalla testimonianza indelebile di Primo Levi. Nessuna propaganda lo ha mai più enfatizzato: una rimozione eloquente". E' una semplificazione dire che se non ci fosse stata l'Urss di Stalin, "Koba il Terribile", con i suoi voti che fecero pendere a favore della nascita di due stati la votazione all'Onu, che altrimenti si sarebbe bloccata sulla parità, facendo fallire il progetto; ma è vero. Anche se poi quella luna di miele durò pochissimo, grazie anche alla politica antisemita del Cremlino, che impediva, fra l'altro, agli ebrei russi di emigrare. Nelle pagine di Leonid Mlecin si vede anche quale ruolo abbia avuto l'Urss nel permettere ai sionisti del 1948 di comprare dalla Cecoslovacchia le armi essenziali per combattere gli eserciti arabi . Così come si scopre dal libro un dato che ai giorni nostri certamente non è evidente, e cioè che negli Stati Uniti del XX secolo l'antisemitismo e la discriminazione verso gli ebrei erano pane quotidiano. Poi la storia con la sua ironia ha rovesciato molte carte. Dall'Urss, parsimonioso nel concedere visti agli ebrei verso Israele, la dissoluzione dell'impero "ha portato - scrive Mentana - nell'arco di un decennio quasi un milione di russi di discendenza ebraica a utilizzare la 'legge del ritorno' per stabilirsi in Israele. Un terzo di loro non è ebreo". E anche questo è un dato interessante.

(La Stampa, 2 gennaio 2009)





MUSICA E IMMAGINI




Odessa Bulgarish




INDIRIZZI INTERNET




Welcome to Gilgal

Centro Studi Beth Shlomo




Le notizie riportate su queste pagine possono essere diffuse liberamente, citando la fonte.