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Notizie su Israele 452 - 27 gennaio 2009

2. Al centro di un contenzioso della storia
3. La storia di Clara Kramer
4. Persone che hanno popolato Israele
5. «Quello che voglio fare davvero è giocare a basket»
6. Donne d'Israele
1. Odio, puro odio
7. Musica e immagini
8. Indirizzi internet
Salmi 83:1-4. O Dio, non restare silenzioso! Non rimanere impassibile e inerte, o Dio! Poiché, ecco, i tuoi nemici si agitano, i tuoi avversari alzano la testa. Tramano insidie contro il tuo popolo e congiurano contro quelli che tu proteggi. Dicono: «Venite, distruggiamoli come nazione e il nome d'Israele non sia più ricordato!»
1. AL CENTRO DI UN CONTENZIOSO DELLA STORIA




Alessandro Schwed: Dobbiamo ricostruire le emozioni

di Daniela Gross

Alessandro Schwed
La fine d'Israele. Le case e le vie che si svuotano mentre la natura e il silenzio inghiottono ciò che resta. Parte da qui, da quest'epilogo amarissimo, il dialogo con Alessandro Schwed sulla Memoria e i suoi rituali. Al venir meno dello stato ebraico lo scrittore e giornalista, penna satirica del Male negli anni Settanta con lo pseudonimo di Giga Melik, ha infatti dedicato il suo ultimo romanzo (La scomparsa d'Israele, 223 pagine, Mondadori editore) che narra una surreale controdiaspora a metà tra l'incubo e lo sberleffo. "Ho voluto proporre - spiega Schwed - ciò che in matematica è la dimostrazione per assurdo. Mi sono cioè chiesto a cosa poteva portare la distruzione dello stato d'Israele, invocata da così tanta parte del mondo arabo". La risposta, per molti versi scontata, è "assolutamente niente". "Ciò che è spinto dall'odio, dal terrore e dalla guerra produce solo devastazioni", chiosa infatti l'autore. Parlare del collasso israeliano significa però misurarsi su un nodo altrettanto scabroso e cioè il modo in cui, dopo la Shoah, gli ebrei sono percepiti e vissuti dalla società circostante.

- Alessandro Schwed, lei per anni ha militato nel Manifesto. Come viveva, da ebreo, l'atteggiamento di certa sinistra italiana nei confronti d'Israele?
- Negli anni Settanta quando il discorso toccava Israele calava il silenzio. E prima di parlare a suo favore si doveva esibire la patente di democratico, antifascista e via di seguito. Serpeggiava un'avversione, poi esplosa negli ultimi anni, all'idea che gli ebrei potessero avere un loro stato. Non mi ci ritrovavo. Lo strappo definitivo per me però è avvenuto pochi anni fa. E' stato alla manifestazione del 25 aprile a Milano, quando ho visto tre vecchi partigiani della Brigata ebraica insultati e fatti oggetto di sputi da alcuni giovani rappresentanti dell'estrema sinistra mentre nel corteo si bruciavano le bandiere israeliane.

- Fu un momento sconvolgente per molti.
- Fu la rottura tra l'idea di un mondo libero, nato dalla Resistenza e dall'antifascismo, e la realtà.

- L'avversione nei confronti d'Israele sembra contraddire una generale grande disponibilità alla Memoria della Shoah.
- C'è una sorta di ricatto di fondo che aleggia ormai da trent'anni. Sono tutti pronti, anche se sempre un po' meno, a stracciarsi le vesti per gli ebrei morti. Ma se gli ebrei sono vivi, vogliono fare i cittadini democratici, esserci e costruire allora il discorso cambia.

- Siamo di fronte a una specie d'idealizzazione?
- Il mondo vive gli ebrei in modo positivo quando sono proiettati in una sorta di esodo eterno, come se li amasse solo sulla carta. Ed è una percezione che viene profondamente messa in discussione dalla presenza dello Stato d'Israele.

- Le cerimonie dedicate alla Memoria, in certe loro formulazioni più rituali, rischiano di diventare parte di questa percezione. Non è che in quest'ultimo decennio da parte ebraica si è marcato troppo quest'aspetto?
- Gli ebrei sono professionisti della memoria, sono "uomini d'aria", sempre al centro di un contenzioso della storia. Al tempo dell'esilio di Nabucodonosor per conservare la memoria dell'esatta pronuncia delle parole adottarono la punteggiatura sotto le lettere e così preservarono un aspetto prezioso della loro identità. E' una storia piena di poesia, che ci riporta al grande valore attribuito dall'ebraismo alle proprie radici.

- Non si rischia di diventare un po' ossessivi?
- So che vi sono persone che della Shoah hanno fatto una religione. Anche se l'ebraismo non è nato da lì ma lì è stato massacrato e polverizzato. Non si deve però dimenticare che l'ossessione ebraica della Shoah nasce dal fatto che quel massacro è proseguito lungo le generazioni nella devastazione interiore di chi l'aveva vissuto, nei figli e nei nipoti. Una delle tappe della Shoah è stata ad esempio la morte di Primo Levi, avvenuta così tanti anni dopo la guerra. Gli ebrei conoscono bene quel senso di accerchiamento terrificante. Non ci si può scagliare contro chi soffre. E per la Shoah soffriamo tutti.

- Non c'è il pericolo che la ritualizzazione della Memoria finisca per annullare il ricordo di quanto è stato?
- Sono contento che ci sia un giorno dedicato alla Memoria, non si sa mai cosa può accadere in futuro … Le commemorazioni, se isolate e private dei contenuti personali, possono però diventare vuote di senso. Dobbiamo dunque riuscire a operare per una Memoria vivente ricostruendo le emozioni di quanti hanno vissuto quel tempo, le ragioni della guerra, la Shoah. La sofferenza va spiegata nel presente come una cosa reale.

- E per ciò che riguarda l'identità ebraica? Molto spesso la s'identifica tout court con la Shoah cancellando così secoli di storia e di vita.
- Questo è un lavoro che dev'essere ordinario e quotidiano. Dovremmo riuscire a fare vedere l'ebraismo nella sua complessità parlando di cultura, teatro, musica, umorismo. Dobbiamo riconquistare la gioia, la capacità di danzare. E questo può accadere solo iniziando a coltivare profondamente l'idea della pace.

(Notiziario Ucei, 22 gennaio 2009)





2. LA STORIA DI CLARA KRAMER




Salvata dai tedeschi

«Non mi stanco mai di raccontare. Per favore, se qualcuno vuole parlare con me, conoscere le mie vicende, non esiti a dargli il mio numero».

di Giulia Cerqueti

Al telefono, Clara Kramer ha una voce chiara, decisa, squillante. Scandisce le parole con calma mentre ricorda il passato, rivive la sua storia, il miracolo della sua vita. Più di sessant'anni fa Clara, adolescente, promise a sé stessa che avrebbe vissuto il resto della sua esistenza in modo degno, per onorare il ricordo delle persone che le avevano salvato la vita, per rendere giustizia alla memoria di sua sorella, catturata e uccisa dai nazisti. Oggi ha 81 anni, vive negli Usa, in New Jersey, con suo marito Sol Kramer, anche lui ebreo e sopravvissuto.
    L'orrore dell'Olocausto è racchiuso nelle pagine dei diari personali di chi l'ha vissuto sulla propria pelle. Nella freschezza inconsapevole e struggente del Diario di Anna Frank, nelle pagine di intensa spiritualità di Etty Hillesum ebrea olandese scritte alla vigilia della sua deportazione.
    E nel diario di Clara Schwarz Kramer, giovane ebrea polacca scampata allo sterminio nazista grazie all'aiuto provvidenziale e al coraggio di Valentin e Julia Beck, una famiglia di volksdeutsche, tedeschi immigrati in Polonia. Allora, Clara non avrebbe immaginato che quelle pagine di annotazioni strappate al buio di un rifugio sotterraneo, fissate su un quaderno a lume di candela, sarebbero diventate testimonianza storica e avrebbero contribuito a salvare la vita dei Beck, accusati dai russi di essere criminali e spie dei nazisti e destinati, quindi, al campo di concentramento. Mentre fuori si consumava la tragedia, nel buio del suo rifugio Clara Schwarz combatté la sua guerra, armata di un quaderno sul quale annotò le vicende quotidiane di quei due anni durante i quali lei e la sua famiglia rimasero nascosti. Oggi, quelle pagine sono diventate un libro, La guerra di Clara (Tea).

- Rintanati per due anni sotto terra
-
«Se il mio diario non è andato perduto lo devo a mia madre», racconta l'autrice. «Dopo la liberazione, quando oltrepassammo illegalmente i confini della Cecoslovacchia per dirigerci verso la Palestina, dovevamo fingere di essere lavoratori tedeschi. Il mio diario era in polacco, così pensai di distruggerlo. Mia madre si oppose, perché sarebbe stato testimonianza di ciò che avevamo vissuto».
Quando i nazisti invasero la cittadina polacca di Zolkiew cominciando la deportazione degli ebrei nel ghetto, Clara, i suoi genitori e sua sorella minore Mania, insieme con altre due famiglie ebree, rimasero rintanati per due anni sotto terra, in una fossa di pochi metri, un nascondiglio minuscolo e asfissiante scavato con le unghie sotto il pavimento della casa dei Beck. Qualcosa di incredibile e di miracoloso era accaduto: nel momento in cui i conoscenti e i vicini di casa polacchi, i colleghi di lavoro e i compagni di scuola voltavano le spalle agli ebrei, chiudendosi nell'indifferenza e nel cinismo calcolatore, una famiglia di tedeschi con una brutta reputazione, che ospitavano in casa loro i soldati nazisti intonando cori antisemiti, sceglievano di mettere a rischio la loro vita per aiutare tre famiglie ebree. La salvezza non arrivò dalle persone più vicine, ma da quelle più impensabili.
    Nel 1995 i coniugi Beck sono stati onorati al Yad Vashem in Israele. Clara Kramer ha avuto due figli, si è dedicata all'educazione sull'Olocausto. Anni fa è tornata a Zolkiew, nella casa che un tempo fu dei Beck: ora ospita una coppia ucraina. Il tempo è scivolato via, ma la memoria resta intatta: dietro una botola nella camera da letto, il rifugio sotterraneo esiste ancora.

(Famiglia cristiana, 21 gennaio 2009)





3. PERSONE CHE HANNO POPOLATO ISRAELE




«Israele, Paese di scampati dove tutti odiano la violenza»

di Antonio Angeli

Impressi sul braccio ci sono una lettera e un numero: A 5941, li ha da quando era poco più di un bambino. «E questo mica se ne va...», scherza con amarezza Alberto Sed, romano, ebreo, classe 1928, deportato nel campo di sterminio di Auschwitz nel '44 e sopravvissuto non sa nemmeno lui perché.

Ad Alberto Sed è dedicato il libro scritto da Roberto Riccardi: «Sono stato un numero - Alberto Sed racconta», edito da Giuntina, una biografia che descrive la giovinezza travagliata dalle leggi razziali, dalla guerra. E il peggio che venne dopo.
Sed, che oggi ha tre figlie, sette nipoti e tre pronipoti, parla con fermezza e serenità del conflitto tra israeliani e palestinesi. «Non abbiamo voluto noi quella guerra - afferma - Israele è stata creata da persone scampate dalle retate, dai campi di concentramento. Pensate che questa sia gente che vuole la guerra?»

- Signor Alberto Sed, qual è stato l'ultimo periodo sereno della sua infanzia?
«Quando ero in collegio, al Pitigliani, a Roma, e mi chiamavano per giocare a calcio. Ero fortissimo. Facevo la palla con la carta, a mia mamma domandavo una calza vecchia per metterla insieme. Ero imbattibile, avevo nove o dieci anni. Ero un centravanti, mi chiamavano il piccolo Amadei. Poco tempo fa in una manifestazione, ho incontrato Totti e gli ho detto che ho segnato dei gol che se li sognano lui e anche Pelè e Maradona. Ad un certo punto... non mi chiamò più nessuno. Non mi volevano, ma c'erano tanti tornei, io dicevo che non ero ebreo e mi facevano giocare. Per un po'. Poi scoprivano tutto e non mi facevano giocare più».

- Cosa ha pensato la prima volta che ha sentito il nome Auschwitz?
- «Non mi hanno mandato subito ad Auschwitz, prima a Fossoli, l'anticamera dell'inferno. Poi sono arrivato a Birkenau e, in seguito, ci hanno detto che faceva parte di Auschwitz. Non sapevo che posto fosse, c'era solo campagna e filo spinato. Non avevo mai sentito quel nome, eppure a scuola avevo studiato geografia: l'Europa, la Polonia. Dopo qualche giorno ho scoperto che era un campo di sterminio. Mi avevano separato da mia madre e dalle mie sorelle, non sapevo dove fossero. Conobbi dei francesi, io avevo studiato il francese, che indicarono il fumo che usciva dalle ciminiere. Mi dissero: con tua madre e con le tue sorelle ci hanno riscaldato le baracche. Pensavo mi prendessero in giro, invece era tutto vero».

- Quanti parenti ha perso nel campo di sterminio?
- «Mia madre, Enrica e mia sorella Emma, giudicate inabili al lavoro, furono subito uccise. Un'altra sorella, Angelica, è stata sbranata dai cani delle SS, per divertimento. Mia sorella maggiore Fatina, molto bella, bionda, con gli occhi azzurri, fu sottoposta agli esperimenti da Mengele. Ha vissuto fino al '96».

- Cosa le ha dato la forza di vivere?
«E che ne so? Venivo da un collegio dove facevo tanto sport, ginnastica, tuffi, nuoto... ero robusto. Poi ho evitato un po' di botte, non sempre, solo un po'. Sono stato in miniera, ho fatto anche la boxe per un pezzo di pane».

- Cosa pensa della guerra tra israeliani e palestinesi?
- «È terribile che le persone muoiano, soprattutto dei bambini, ma... Da piccolo andavo al collegio Pitigliani. C'erano tanti allievi, una cinquantina. Dopo la guerra vedevo che non riapriva e pensai che fossero stati presi. Invece no. I bambini furono nascosti da un gruppo di suore nel locale della caldaia, con le bocche sigillate da cerotti, durante un'ispezione delle camice nere. Poi ad uno ad uno furono messi al sicuro nei conventi. Quelli che avevano perso i genitori poi vennero portati in Israele. Ecco, prima che arrivassero gli scampati in quei territori c'erano ebrei e palestinesi, pregavano tutto il giorno e un paio d'ore lavoravano. Poi arrivammo noi, gente sopravvissuta ai lager. Lavoravamo dieci ore al giorno e forse una o due pregavamo. Queste sono le persone che hanno popolato Israele. Non è gente che vuole la guerra. No, gli israeliani non vogliono la violenza, non vogliono uccidere. E mi fa male dentro quando vedo una trasmissione come quella di Santoro... lui mette odio».

(Il Tempo, 24 gennaio 2009)





4. «QUELLO CHE VOGLIO FARE DAVVERO È GIOCARE A BASKET»




La guerra di Gaza raccontata da un ragazzo israeliano

di Giovanni Vagnone

La guerra di Gaza e la situazione di Israele e Palestina sono dei temi che chiunque, oggi, è abituato a veder tornare sulle prime pagine dei giornali, tra le prime notizie in televisione e al centro dell'ideologia di chi ama schierarsi «contro» qualcuno o qualcosa. E' un ritorno ciclico e drammatico, con i suoi codazzi di manifestazioni (è di pochi giorni fa quella tenutasi qui a Torino di fronte al Municipio, in cui si inneggiava ad Hamas in coro, ed era solo l'ultima di una lunga serie in tutta la nostra Europa), con i suoi contraccolpi di opinione, con l'intensa attività e produzione di giornalisti di ogni livello e tipo.
    Ma a volte da queste descrizioni fredde, sia che si ammantino di imparzialità oggettiva, sia che si fregino di uno spirito partigiano violento, non traspare la cosa più importante: tutte queste notizie non hanno un'anima. Non hanno quel messaggio in più che ha la testimonianza diretta di un amico. Certo, ci sono le donne urlanti che compaiono un istante, per dire una frase, nei servizi dei tg; ma quelle trasmettono forse emozioni, non sentimenti. La differenza dei due tipi di impatto è come quella tra un acquazzone estivo di mezz'ora ed un'alluvione invernale di una settimana.
    Una conversazione fatta con una persona che si conosce bene, quando la tempesta della cronaca si placa, illumina le riflessioni già impostate e dà loro un senso maggiore. Per questo ci limiteremo a riportare senza alcuna modifica il testo di un'intervista a Yoni Argaman, un ragazzo che potrebbe essere uno qualsiasi dei vostri conoscenti. E se riusciremo ad entrare in empatia con le sue parole, avremo non solo il suo punto di vista, ma anche la consapevolezza in più dell'unico spirito di esseri umani che ci accomuna. Yoni potrebbe essere un vostro vecchio amico. Yoni, potrebbe essere uno qualsiasi di voi.
    Meno di un anno fa, Israele ha celebrato il suo sessantesimo anniversario. Quando gli chiesero di questo avvenimento storico, Haim Guri, uno dei più grandi poeti israeliani, disse: «Non è l'indipendenza che commemoriamo. Celebriamo sessant'anni di lotta per raggiungerla».
    Nato in Israele, ho passato gran parte della mia vita in un Paese che vive all'ombra di una minaccia costante. Ho trent'anni. Ho fatto il servizio militare e ho studiato legge. Mi hanno infranto il cuore e ne ho infranti molti. Gioco a basket il venerdì sera e mi piace guardare la tv e stare con i miei amici. Non odio nessuno. Noi israeliani non odiamo nessuno. Le immagini che arrivano da Gaza sono dolorose per occhi israeliani così come per quelli italiani. Quando vedi le foto delle vittime di Gaza, c'è la possibilità che ti chieda: «Come fa un paese moderno a commettere tali atrocità?»
    Ritengo sia necessario presentare un diverso punto di vista. Quello che, secondo me, non è ben presentato dai media europei. Israele ha lanciato un'offensiva contro Hamas, non contro i palestinesi. Hamas è una delle organizzazioni terroristiche più violente e spietate del mondo, il cui statuto afferma chiaramente che Hamas è stata creata per distruggere lo Stato di Israele. Diciotto mesi fa, Hamas ha colpito duramente a Gaza: i terroristi hanno gettato - vivi - i nemici di Al Fatah da edifici di quindici piani, sparato al figlio di uno di loro e fatto irruzione negli ospedali per finire i nemici feriti che giacevano inermi nei loro letti. Il regolamento di Hamas a Gaza è caratterizzato da anarchia, uccisioni pubbliche extragiudiziali e guerriglia tra bande. Durante la guerra di Gaza, il New York Times ha riferito che militanti di Hamas in borghese hanno ucciso ex-detenuti della prigione centrale di Gaza, accusandoli di aver collaborato col nemico. Questi «collaboratori» sono stati giustiziati in pubblico nonostante i gruppi per i diritti umani palestinesi continuassero a ripetere che «la maggior parte di queste persone era completamente innocente».
    Per otto anni i palestinesi di Gaza hanno bombardato le nostre città meridionali. Dopo il ritiro di Israele da Gaza, i bombardamenti sono aumentati. La stessa cosa era accaduta diversi anni prima, dopo il ritiro unilaterale di Israele dal Libano. Nel 2008, un anno che ha visto sei mesi di cessate il fuoco, 1.571 missili e bombe e 1.531 colpi di mortaio sono stati sparati su Israele dalla Striscia di Gaza. Il mio amico Gil, che adesso vive in una zona che qualcuno ritiene, a ragione, contesa, ha passato le ultime tre settimane a casa dei genitori perché il suo appartamento non ha un rifugio di sicurezza. Ti faccio una domanda: Se la tua città fosse bombardata da missili per otto anni, ti aspetteresti un intervento del tuo governo?
    C'è chi dice che il numero di vittime è un indicatore per stabilire chi ha ragione o torto in questo conflitto. Io dico che è naif. Un migliore indicatore sarebbe quello del Mens Rea, la premeditazione. Dovrebbe essere chiarito che, diversamente da Hamas, Israele sta facendo uno sforzo consapevole per non colpire innocenti spettatori, mentre Hamas sta facendo un consapevole sforzo per fare proprio quello! Hamas sta bombardando Israele senza distinguere o selezionare i suoi obiettivi. Da quando è cominciata la guerra centinaia di asili, scuole, università, templi e altre istituzioni scolastiche e religiose in Israele hanno subito colpi diretti. L'unica differenza è che le autorità israeliane hanno installato sirene per avvisare i civili di ripararsi qualche secondo prima che i missili colpiscano la terra (più di un milione di israeliani dorme nei rifugi ogni notte). Senza questi mezzi, il numero di vittime israeliane sarebbe stato decisamente più alto. Ti avrebbe dato l'impressione che Israele avesse meno torto? Potresti dire che, diversamente da Israele, i palestinesi non hanno dove nascondersi. E' vero. Ma per la maggior parte perché i capi palestinesi, nel corso degli anni, hanno deciso di spendere i miliardi di dollari ricevuti dalle nazioni arabe per procurarsi armi e «implementare» i propri conti svizzeri invece di costruire infrastrutture, promuovere l'educazione e sì, costruire rifugi. Senza sentirsi virtuosi - come in ogni guerra, si fanno errori disastrosi (come uccidere tuoi soldati in incidenti di fuoco incrociato) e abbiamo molto da rimproverarci per la morte di persone innocenti - credo che Hamas dovrebbe essere ritenuta responsabile per l'esito spaventoso di questa guerra.
    La striscia di Gaza è probabilmente una delle zone più densamente popolate al mondo. Hamas non mette un'uniforme quando va in guerra. I terroristi usano intenzionalmente cittadini di Gaza come scudi umani, si vestono in borghese, si nascondono e sparano dalle case, dagli ospedali e dai cortili delle scuole. Quando spari da case di civili, moschee e scuole, quando non indossi nemmeno un'uniforme e ti mischi con la popolazione - hai molta della colpa. E quando riempi di trappole esplosive interi quartieri, sotterri dinamite sotto la città e usi centinaia di case private come deposito di armi... Per favore, non essere sorpreso se il numero degli attacchi dell'esercito israeliano si decuplica.
    A volte penso se siamo davvero destinati a rimanere per sempre i «ragazzi cattivi». Nel 2008, il 68% delle decisioni dell'Assemblea Generale UN riguardanti la violazione di diritti umani avevano come obiettivo Israele. L'Afghanistan era citato nel 4% delle decisioni, insieme ad Azerbaijan, Georgia, Stati Uniti, e pochi altri. Russia, Sudan, Cina e Arabia Saudita, giusto per fare



qualche nome, non erano citate affatto. Nel 2007 trentadue Paesi sono stati menzionati per violazione di diritti umani, anche se alcuni solo a malapena. Ancora una volta Israele era in cima alla lista con 121 provvedimenti contro di esso. Il Sudan (dove più di 200.000 persone sono state uccise e 2.5 milioni hanno perso la casa con la violenza) era secondo con 61 provvedimenti, il Myanmar terzo con 41. Gli Stati Uniti erano quarti, con 39 provvedimenti, insieme alla Repubblica Democratica del Congo (dove muoiono 45.000 persone al mese. Ne sono morte circa 5.5 milioni dal 1998, la metà delle quali erano bambini sotto i cinque anni). Ora, di nuovo, non sto insinuando che tutte le azioni di Israele siano giuste, ma suvvia... Questi dati ti fanno pensare a come e perché il mondo si stia scegliendo le tragedie a cui fa fronte.
    Guarda, non c'è bianco e nero qui. Vivendo in Israele (e sulla Striscia di Gaza) finisci per capire che c'è un sacco di grigio. Nessuno è nato con l'odio. Però quando le nazioni vicine educano i loro bambini all'odio, alla paura e alla vendetta (per esempio, i campi estivi terroristici e «Farfur», il Michy-Mouse della TV di Hamas che predica odio e vendetta ai bambini di Gaza), allora c'è un problema serio.
    Dopo più di cento anni di spargimento di sangue, abbiamo bisogno di capi coraggiosi e pragmatici che guardino al futuro invece che al passato. Hamas deve ritirarsi. Lo deve fare perché non è nessuna di queste cose. Durante tutta la guerra i capi di Hamas sono stati nei loro comodi uffici a Damasco o nei loro bunker ben protetti a Gaza ed erano pronti ad offrire così tante vite palestinesi (eccetto la propria) semplicemente per mantenere alto l'orgoglio. Durante la guerra, più di 1.300 abitanti di Gaza hanno perso la vita (di questi, circa 600 erano terroristi armati), la maggior parte degli arsenali di armi di Hamas è stata distrutta nei primi quattro minuti di guerra, centinaia di tunnel sono stati demoliti e Gaza è stata danneggiata moltissimo. Dal lato israeliano, 9 soldati hanno perso la vita (4 dei quali sono morti in scontri a fuoco incrociato). Questo non ha trattenuto Hamas dal dichiarare con orgoglio la propria vittoria, affermando di aver ucciso più di 80 soldati israeliani, di aver abbattuto elicotteri e aver rapito soldati. I palestinesi hanno bisogno di capi che non vivano in un loro mondo fantastico. Hanno bisogno di capi che non mentano di fronte a loro e non insistano nel portare avanti una crociata infinita per vendetta. Hanno bisogno di capi coraggiosi che promuovano pace e tolleranza e non odio e riprovazione. La mia unica speranza è che questi capi arrivino mentre siamo in vita, perché tutto quel che voglio fare davvero è giocare a basket il venerdì sera.

(Ragionpolitica,it, 22 gennaio 2009)





5. DONNE D'ISRAELE




Tzipi Livni, La nuova Golda guarda avanti

di Valerio Mieli

Il prestigioso settimanale Time la considera fra le persone più influenti al mondo, la rivista Forbes l'ha inserita nella classifica delle cento donne più potenti che esistano. E' la seconda donna nella storia, dopo Golda Meir, a ricoprire la carica di ministro degli Esteri di Israele. Ora con ogni probabilità quarant'anni dopo Golda ci sarà un'altra donna a guidare il governo israeliano. Il suo nome è Tzipora Malka, ma tutti sono abituati a chiamarla Tzipi. E Tzipi Livni può essere ormai considerata tra le donne più conosciute al mondo.
Le sue capacità diplomatiche hanno impressionato Washington.
    Il Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che ovviamente l'ha spesso frequentata, parla di lei come un'amica, e in un articolo del Time racconta del profondo affetto e dell'altissima stima che nutre per lei, non solo per le sue capacità politiche ma ancor di più per il suo lato umano. Sentirla parlare con così tanto orgoglio della famiglia e dei figli l'ha emozionata.
    La Rice definisce la loro amicizia intramontabile, non cesserà nemmeno quando entrambe abbandoneranno il palcoscenico del mondo.
    Tutti sanno che è una donna tenace, coraggiosa, forte, e decisa.
    Raccontare la storia della famiglia Livni equivale a raccontare la storia dello Stato di Israele. I suoi genitori servivano l'Irgun, il gruppo militante sionista che operò nel corso del Mandato britannico sulla Palestina (1931-1948) per la costruzione dello Stato ebraico. E' evidente come l'amore per la patria, per il progetto biblico di una Grande Israele, valori fortemente sentiti dalla Livni, nascano da qui, dai suoi genitori.
    Eli Livni, fratello di Tzipi, intervistato dal New York Times ha affermato: "nella famiglia Livni tuo padre e tua madre non ti abbracciano mai. Quello che ti trasmettono è un'educazione rigida, costituita da alti valori morali, fra i quali l'attaccamento alla patria".
    La dote del coraggio sembra averla ereditata dalla madre, Sara Rosenberg, che giovanissima, arrestata dagli inglesi, per farsi liberare, si iniettò in vena del latte di mucca e si procurò un febbrone.
    Gli ideali politici sembrano invece essergli stati trasmessi dal padre, Eitan Livni, sulla sua tomba un'incisione, richiesta espressamente prima della morte ai familiari, la mappa della Grande Israele con un fucile che la taglia trasversalmente e una frase "Solo così".
    Ma qualcosa non torna.. Tzipi Livni attuale leader del partito di Kadima non è lo stesso politico che si batte per "due popoli, due stati"? Come riesce a far coincidere i valori e i principi tramandati da suo padre e allo stesso tempo tenere una linea politica distante dalla realizzazione della Grande Israele? In molti le hanno fatto questa domanda, lei spiega che il padre le ha trasmesso una combinazione di valori, per lui, oltre all'Irgun contava il rispetto per la vita degli altri. Dice di essere dovuta scendere a compromessi, e una linea coerente l'ha trovata, è disposta a rinunciare al territorio ma non al rispetto per le vite umane. Difende e difenderà sempre lo stato di Israele da coloro che ne minacciano la distruzione, un insegnamento molto importante, al primo posto nella scala dei suoi valori.
    Il suo carattere forte e la sua inclinazione al mestiere politico erano evidenti fin dall'infanzia. Il New York Times ha raccontato un aneddoto sulla Livni dei tempi della scuola: " Tzipi Livni già a 12 anni era in grado di far sentire le proprie ragioni, era a scuola, e un'insegnate faceva una lezione sulla storia di Israele, citò i due partiti simbolo della nazione Haganah e Palmach, con un coraggio tutto speciale, unica tra la classe, la Livni si alzò e si ribellò, manifestando il suo dissenso per ciò che ascoltava, ha chiesto all'insegnante il perché dell'omissione nel suo discorso dell'importanza anche dell'Irgun e della banda Stern".
    Alla stessa età la decisione di diventare vegetariana, lo è ancora oggi.
    Ha fatto il militare, ricoprendo la carica di ufficiale, e ha ottenuto grandi riconoscimenti per il suo servizio. Sarà per questo che a 22 anni è entrata nel Mossad, i servizi segreti israeliani. Fu mandata a Parigi a tenere in "caldo" un appartamento che il servizio avrebbe potuto utilizzare per le sue operazioni, svolse tale compito ma ufficialmente studiava alla Sorbonne.
    Tornata a Tel Aviv, si è laureata in legge all'Università Bar Ilan, e ha lavorato per dieci anni come avvocato.
    Si è sposata nel 1983 con Naftali Spitzer, proprietario di un'agenzia pubblicitaria, con il quale ha avuto due bambini.
    Il suo esordio in politica nel 1996, quando candidata fra le liste del Likud, partecipò alle elezioni ma purtroppo non ottenne i voti necessari per entrare alla Knesset.
    Nel 1999 finalmente mette piede nel parlamento israeliano, eletta fra i membri del partito Likud di Ariel Sharon. Più volte ministro, prima della cooperazione regionale, poi dell'agricoltura, per lo sviluppo rurale, per l'immigrazione, per la sicurezza, quindi degli Esteri.
    Oggi guida il partito di maggioranza relativa, Kadima e punta dritta all'incarico di Primo ministro.
    Nel 2004 ha vinto il premio Abirat Ha-Shilton per l'alta qualità del lavoro prestato.
    Nel marzo 2006 viene nominata viceprimo ministro.
    Con Olmert in disparte dopo le sue dimissioni, alle primarie di Kadima, del settembre 2008, vince su tutti.
E con fermezza dichiara: "Voglio essere Primo ministro e lavorerò per questo obiettivo: dobbiamo cambiare le cose, perché la gente non ha più fiducia nei politici e bisogna ripristinare questa fiducia" - parole, chiare, ferme e decise, e ancora: "Sono pronta per essere messa alla prova non solo per quanto ho detto, ma anche per quanto ho fatto: ho tutte le carte per diventare primo ministro".
In attesa delle elezioni politiche di febbraio, comunque vada, per molte donne di Israele è un grande esempio. Che diventi o meno Primo ministro, Tzipi ha già vinto: è riuscita a tenere assieme i ruoli di madre, di donna in carriera e di leader politico in una stagione difficile e drammatica per tutto il Medio Oriente.

(Notiziario Ucei, 19 gennaio 2009) o





6. ODIO, PURO ODIO




Quello che fa la differenza

di Marcello Cicchese

"Poi l'Eterno parlò a Mosè, dicendo: "Parla ai figli d'Israele e di' loro: Quando passerete il Giordano per entrare nel paese di Canaan, designerete delle città che siano per voi delle città di rifugio, dove possa fuggire l'omicida che ha ucciso qualcuno involontariamente. Queste città vi serviranno di rifugio contro il vendicatore perché l'omicida non sia messo a morte prima di essere comparso in giudizio davanti all'assemblea" (Numeri 35:9-12).

Nell'Israele dei tempi biblici l'omicidio doveva essere punito con la morte. Non esistevano altre opzioni possibili. Ma non era per la generica "difesa della vita", come intendiamo noi oggi, perché Dio stesso in molti casi non la difendeva affatto, anzi ne ordinava la soppressione. Il motivo fondamentale sta nel fatto che il diritto di vita e di morte spettava, e spetta tuttora, soltanto a Dio, come sta scritto nel magnifico Cantico di Anna: "L'Eterno fa morire e fa vivere; fa scendere nello Sceol e ne fa risalire." (1 Samuele 2:6).
    L'omicida volontario, cioè l'assassino, doveva essere messo a morte perché aveva osato arrogarsi il diritto di togliere la vita a un altro uomo, e così facendo aveva voluto sostituirsi a Dio.
    Ma poteva accadere che una persona ne uccidesse un'altra per errore, involontariamente. In questo caso Dio aveva ordinato a Mosè di indicare sei cosiddette "città di rifugio" in cui l'omicida involontario, o sedicente tale, avrebbe dovuto (non solo potuto) rifugiarsi per non essere immediatamente messo a morte. E lì doveva rimanere in attesa che fosse stata dimostrata l'involontarietà della sua azione.
    E' interessante notare come esprime la Scrittura l'eventuale involontarietà dell'uccisore:

"Ecco in qual caso l'omicida che vi si rifugerà avrà salva la vita, cioè colui che avrà ucciso il suo prossimo involontariamente, senza averlo odiato prima. Se uno, ad esempio, va al bosco con il suo compagno a tagliare legna e, mentre la mano alza la scure per abbattere l'albero, il ferro gli sfugge dal manico e colpisce il compagno e lo fa morire, quel tale si rifugerà in una di queste città, e avrà salva la vita; altrimenti il vendicatore del sangue, mentre l'ira gli arde in cuore, potrebbe seguire l'omicida e, se questi deve andare troppo lontano, raggiungerlo e colpirlo a morte, mentre non era passibile di morte, perché non aveva prima odiato il compagno." (Deuteronomio 19:4-6).

    Quello che fa la differenza tra colpevolezza e innocenza di chi commette l'uccisione è la presenza o no di odio. Ci si può chiedere se la legge mosaica facesse già distinzione tra omicidio volontario e omicidio preterintenzionale, ma se si sta alla lettera del testo, bisognerebbe dire di no. Colui che colpisce con odio qualcuno con l'intenzione soltanto di fargli del male, ma poi si accorge che il colpito è morto, è un assassino. E ne deve subire la conseguenza, cioè la morte.
    Il Nuovo Testamento in un certo senso va oltre, e proclama assassino perfino colui che si limita a odiare un altro, anche se non lo tocca neppure con un dito:

"Chiunque odia suo fratello è omicida; e voi sapete che nessun omicida possiede in sé stesso la vita eterna." (1 Giovanni 3:15)

Naturalmente non se ne traggono le conseguenze pratiche che valevano per la legge di Mosè, ma le conseguenze eterne possono essere anche più gravi.
    E' dunque la nozione di "odio" che bisogna far entrare in gioco quando si valuta l'aspetto morale di certe morti. Nell'ultima guerra di Gaza si è fatta una compiaciuta esposizione delle morti avvenute, con la volenterosa collaborazione della popolazione colpita, ma non si è sufficientemente riflettuto sulla natura di quelle morti e, in particolare, sulla posizione degli uccisori. Ogni esibizione di cadaveri conteneva un chiaro messaggio di questo tipo: ecco chi sono e di che cosa sono capaci gli israeliani! Massacro, genocidio, sterminio, eccidio, ecco che cosa fanno gli israeliani. E la conseguente esecrazione morale non ha neppure bisogno di essere espressa.
    Ma la domanda biblica che bisogna farsi è questa: quelle uccisioni sono o no frutto di odio? Esisteva la precisa e dichiarata volontà di uccidere quelle persone perché le si odiava letteralmente "a morte"? La risposta politica, cioè prescindendo da fattori personali individuali non controllabili, è un chiaro NO. Questo è stato dimostrato in molti modi. Non si ha notizia di un altro esercito al mondo che abbia avvertito telefonicamente la popolazione nemica per invitarla a sgomberare edifici e case perché dovevano essere bombardate. Molti sorvolano su questo aspetto, perché per loro i fatti riportati debbono assolutamente portare le persone ad arrivare da soli all'inevitabile conclusione che gli israeliani, o forse gli ebrei, sono perfidi, sanguinari, assassini.
    Come fra poco vedremo, quelli che in questo modo giungono a simili conclusioni dimostrano in realtà di attribuire agli israeliani qualità che appartengono precipuamente a loro.
    L'odio che non abbiamo ritrovato negli israeliani è invece abbondantemente presente nei loro nemici. Di questo molti islamici non fanno alcun mistero. Il distinto signore in giacca e
Safwat Higazi
cravatta che compare nell'immagine accanto si è fatto riprendere mentre dice parole come queste:

[...] Sì, sono antisemita. Sì, odio il sionismo. Sì, il Giorno del Giudizio non arriverà finché non combatteremo gli ebrei. Queste sono le parole del Profeta, piaccia o non piaccia. […] Sì, siamo nemici di questa gente. Siamo nemici di tutti coloro che saccheggiano la nostra terra e i nostri diritti, e siamo nemici del governo americano e di chiunque aiuti i nostri nemici, l'America e tutti gli altri. Sì, li odiamo. Sì, siamo loro nemici. Per Allah, solo i nostri governanti ci impediscono di prendervi. Per Allah, se ci lasciassero, vi divoreremmo completamente, vi azzanneremmo coi nostri denti. Non staremmo ad aspettare armi, e razzi e proiettili. Se i nostri governanti ce lo permettessero, vi agguanteremmo per le strade e vi divoreremmo coi nostri denti. [...]

Esternazioni come queste sono ampiamente documentate, si possono trovare dappertutto in internet. Non siamo più ai tempi di Hitler, quando si diceva che tutte le famiglie tedesche avevano il "Mein Kampf" in casa ma ben pochi riuscivano ad arrivare oltre la decima pagina per la noia mortale che li prendeva quando cominciavano a leggerlo, e per questo molti non si sono accorti che il loro Führer faceva proprio sul serio quando diceva che odiava gli ebrei e voleva che sparissero dalla faccia della terra. Oggi possiamo avere registrazioni video in tempo reale, tutti abbiamo la possibilità, se vogliamo, di registrare l'odio mortale che circonda gli ebrei da tutte le parti, il desiderio espresso di vederli sparire, prima come Stato, poi come persone,
    Come mai molti non se ne accorgono? Come mai navigati ed esperti politici possono parlare in modo asettico di Hamas come di una corrente di "integralisti islamici" con pretese forse un po' eccessive, ma che con la comprensione e il dialogo possono essere riportati ad una equilibrata ragionevolezza?
    Perché non si percepisce che si tratta di odio, di puro odio? Risposta: perché condividono quell'odio.
    Solo che invece di essere chiaramente espresso, come nel caso del distinto signore di cui sopra, si nasconde dietro innumerevoli maschere, intercambiabili a seconda dei tempi e delle circostanze. Una di queste è lo sbandieramento del nobile, disinteressato antisionismo; un'altra è l'invito a superare le difficoltà esistenti con il dialogo.
    Perché non si capisce che il rimedio all'odio non può essere il dialogo? La risposta è quella di prima.
    Naturalmente non si vuol dire con questo che tutti gli islamici e i loro amici sono persone assetate di sangue e che al contrario tutti gli israeliani sono persone piene d'amore per il prossimo. Il continuo saltare di livello dal personale al politico e dal politico al personale, senza tenere ben distinti e ben relazionati i due piani, non aiuta certo a capire i problemi, spesso anzi li complica in un modo che non sempre è inconsapevole e innocente, come quando si sbandierano gli amici ebrei per coprire il livore antisemita. Ma si deve riconoscere che lo Stato d'Israele fa quello che fa perché vuole vivere, non perché altri muoiano. Questo è il motivo delle sue azioni. Vuole la vita dei cittadini del suo paese, non la morte dei cittadini di altri paesi. In questo senso, non astrattamente metafisico ma concretamente politico, si può dire che Israele agisce per amore, non per odio.
    Il contrario si deve dire per il regime di Hamas, il quale non è interessato alla vita dei suoi cittadini, ma alla morte di Israele. Non agisce per amore, ma per odio; non è interessato alla vita, ma alla morte.
    Perché allora nelle strazianti scene di morte riprese con tanto compiacimento dai media di tutto il mondo, invece di vedere il segno evidente della perfidia israeliana non si potrebbe vedere il compimento della parola biblica: "Non vi ingannate; non ci si può beffare di Dio; perché quello che l'uomo avrà seminato, quello pure mieterà"? (Galati 6:7). Hanno seminato odio, hanno mietuto morte. Non hanno soltanto voluto una terra per abitarvi, hanno voluto che su quella terra non ci fosse più piede ebraico. Hanno voluto che tutti gli ebrei lasciassero quella terra, hanno bruciato le loro sinagoghe, hanno lanciato missili non per difendere la vita nel loro paese ma per seminare morte in quello degli altri. Si sono nutriti di odio, di puro odio. E questo è il risultato. Quando sarà capita la lezione? Quella della Germania nazista non è bastata. E come può esserlo, se ancora oggi nel mondo musulmano gli ammiratori di Hitler si contano a milioni?
    Oggi si celebra la giornata della Memoria. Non compiangano ipocritamente gli ebrei morti di ieri quelli che oggi si commuovono soltanto per la morte di quelli che vogliono la morte di Israele. Altrimenti, insieme al compianto per la morte degli ebrei nelle camere a gas, compiangano anche la morte per impiccagione dei gerarchi nazisti e, naturalmente, la morte del povero Adolf Hitler costretto dalla ferocia dei russi ad uccidersi nel suo bunker. E lo facciano pubblicamente.

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(Notizie su Israele, 27 gennaio 2009)





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